Codice Penale art. 20 - Pene principali e accessorie.InquadramentoL'art. 20 distingue le pene principali, che sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna, da quelle accessorie, che conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa: da ciò consegue che, qualora il giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna abbia omesso l'applicazione delle pene accessorie, queste ultime possono essere applicate di ufficio, dal giudice dell'impugnazione, od anche, su istanza del p.m. (art. 183 disp. att. c.p.p.), in sede esecutiva, purché siano determinate dalla legge nella loro specie e durata (ovvero senza alcuna discrezionalità del giudice al riguardo). Le pene accessorie soggiacciono al principio della riserva di legge penale: ne consegue che la loro indicazione è tassativa, e quindi nell'ambito di esse rientrano unicamente quelle espressamente previste come tali dal codice penale, o dalle leggi speciali, e che producono le restrizioni e gli obblighi per ciascuna di esse previsti dalla legge. La funzione delle pene accessorieLe pene accessorie sono comminate sempre congiuntamente alle pene principali, rispetto alle quali sono complementari, poiché « le limitazioni della capacità giuridica individuale non posseggono una efficienza tale, per cui possano riuscire, per sé medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidativi ed afflittivi della repressione »; hanno natura giuridica di sanzione, ma «particolare», poiché « allora soltanto applicabile, quando sia inflitta altra pena. Da questa, la pena accessoria dipende, in essa ha il suo presupposto e la sua causa » (Relazione del Guardasigilli al Re sul Progetto del nuovo codice penale, f. 64). Segue. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle pene accessorieL'art. 20 sembrerebbe escludere l'esistenza di una discrezionalità del giudice nell'applicazione delle pene accessorie, visto che esse dovrebbero « conseguire di diritto alla condanna, come effetti penali di essa»; nondimeno la dottrina (Romano, Commentario, 218) ha osservato che «l'intervento automatico o ope legis delle pene accessorie è bensì la regola, ma vi sono anche eccezioni che introducono invece un potere discrezionale del giudice in relazione ad esse», in particolare, se appare certa l'esistenza di una discrezionalità sull'an (si pensi ai casi di cui agli artt. 32, comma 3, c.p.; 229 r.d. n. 267/1942 ora, art. 335 d.lgs. n. 14/2019; 113, comma 3, d.P.R. n. 361/1957) e sul quomodo (si pensi ai casi di cui agli artt. 36, comma 3, e 9 l. n. 47/1948), dubbia è considerata l'esistenza di una discrezionalità in ordine al quantum, essendo la durata delle pene accessorie perlopiù predeterminata dalla legge (anche se in riferimento all'entità della pena principale). CasisticaDelitto tentato Rinviando a quanto si osserverà amplius sub art. 56 c.p., in questa sede è sufficiente ricordare che le pene accessorie vanno inflitte anche con riferimento all'ipotesi in cui il reato sia rimasto allo stadio del mero tentativo, poiché, con riguardo ad esse, nessuna norma differenzia il tentativo dal reato consumato (Cass. VI, n. 162/1982, in tema di delitti commessi con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione; Cass. III, n. 2196/1996, in tema di interdizione da una professione o arte ex artt. 30, 31 e 518 c.p.; Cass. III, n. 24190/2005, in tema di pubblicazione della sentenza ex artt. 36 e 518). Concorso di reati Si rinvia in proposito agli artt. 77 e 79. Segue. Reato continuato Rinviando a quanto si osserverà amplius sub art. 81, in questa sede è sufficiente ricordare che, ai fini dell'applicazione della pena accessoria in caso di più reati unificati dal vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita per il reato più grave (come determinata per effetto del bilanciamento ex art. 69 tra le circostanze attenuanti ed aggravanti eventualmente concorrenti), non già a quella complessivamente individuata tenendo conto dell'aumento per la continuazione (Cass. I, n. 7346/2013; Cass. VII, n. 48787/2014). Concorso di persone nel reato Rinviando a quanto si osserverà amplius sub artt. 117 e 118, in questa sede è sufficiente ricordare che, secondo la giurisprudenza (Cass. VI, n. 84/1970), in caso di concorso nel reato proprio (nel caso di specie, sottrazione di cose sottoposte a sequestro in un procedimento penale commessa dal custode), l'applicazione della pena accessoria (nella specie, interdizione dai pubblici uffici) consegue di diritto per tutti i concorrenti, e quindi anche i concorrenti extranei (ovvero, nel caso di specie, per quelli che non rivestivano la qualità di custode). La giurisprudenza ha successivamente ribadito che l'estensione delle circostanze aggravanti soggettive al concorrente nel reato, ai sensi dell'art. 118, comma 2, produce effetti non limitati alle sole pene principali, poiché comporta anche l'applicazione delle pene accessorie collegate alle suddette circostanze (Cass. VI, n. 1206/1989; conforme, Cass. VI, n. 6729/1980, in fattispecie nella quale, in presenza dell'aggravante dell'abuso nella prestazione professionale, era stata estesa al concorrente anche la pena accessoria dell'interdizione dall'esercizio di una professione). Pene accessorie ed effetti penali della condannaLa pena accessorie è collegata al reato, più che alla condanna: « nella stessa guisa che gli altri effetti penali della condanna (ad es., recidiva, inapplicabilità della condanna condizionale del perdono giudiziale, della non iscrizione di una condanna nel casellario giudiziale, ecc.) necessariamente si riannodano, prima che alla sentenza di condanna, al reato commesso, così, anche rispetto alle pene accessorie, il ricollegarle alla condanna non implica affatto disconoscimento del vincolo di derivazione che le stringe al reato, ossia del rapporto di effetto a causa che intercorre tra esse e l'azione criminosa » (Relazione, cit., f. 64). Anche la giurisprudenza, riprendendo quanto osservato dalla Relazione del Guardasigilli al Re sul Progetto del nuovo codice penale, ha ribadito che le pene accessorie costituiscono una species degli effetti penali della condanna, i quali vanno individuati in tutte quelle conseguenze giuridiche di carattere afflittivo che conseguono alla condanna penale: conseguenze che, peraltro, non devono necessariamente derivare ope iuris da una sentenza di condanna, ma che da quest'ultima (che ne costituisce comunque necessario ed indefettibile presupposto) possono conseguire anche in modo non automatico (Cass. I, n. 4455/1992: la decisione, dopo aver ricordato che la dottrina distingue, nell'ambito degli effetti penali della condanna, le «sanzioni» — intese quali limitazioni o privazioni che debbono conseguire obbligatoriamente dalla condanna — e le «norme» — intese come le altre limitazioni o privazioni che, per espresse previsioni legislative, possono essere imposte al condannato da parte del giudice o di altri organi qualificati —, ha ritenuto che, nel caso di specie, relativo ad una condanna per diserzione, fossero presenti sia le une che le altre, posto che venivano in rilievo, da un lato, l'inapplicabilità dei benefici in favore dei combattenti, comminata dall'art. 11 d.lgs. n. 137/1948, configurabile come una «sanzione» automaticamente conseguente alla condanna per diserzione, e, dall'altro, la possibilità della perdita delle decorazioni, prevista come «norma» dall'art. 3 l. n. 453/1932). Le caratteristiche degli effetti penali della condanna Con specifico riferimento agli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione, non indicando neanche il criterio generale che possa valere a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, la giurisprudenza (Cass.S.U., n. 7/1994) ha anche ritenuto che essi si caratterizzano: - perché conseguono soltanto ad una sentenza irrevocabile di condanna, non anche ad altri provvedimenti che possano determinare i medesimi effetti; - perché conseguono direttamente, ope legis, alla sentenza di condanna e non anche a provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; - per la natura sanzionatoria dell'effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale. Distinzione tra pene accessorie ed effetti penali della condanna Una non recente giurisprudenza aveva così focalizzato la distinzione tra pene accessorie ed effetti penali della condanna: «sono pene accessorie quelle che, per espressa disposizione di legge, accedono alla condanna per un determinato reato; sono effetti penali della condanna alcune conseguenze, afflittive o restrittive, della condanna, stabilite dalla legge prevalentemente a tutela dei terzi, od alcune incapacità non ricollegate allo status di condannato, ma a quello di interdetto, inabilitato, sottoposto a misura di sicurezza o a liberta vigilata» (Cass. II, n. 378/1975: nella specie, la S.C. ha ritenuto che l'incapacità ad essere elettore, prevista per i condannati per alcuni reati, fosse inquadrabile come effetto penale della condanna). Pene accessorie e cause di estinzione del reatoLa prescrizione Rinviando a quanto si osserverà amplius sub art. 157 in questa sede è sufficiente ricordare che le pene accessorie, conseguendo di diritto alla sentenza di condanna come effetti penali della stessa, ai sensi dell'art. 20, non possono essere mantenute in caso di proscioglimento dell'imputato, anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per prescrizione (Cass. II, n. 11033/2005; conforme, Cass. VI, n. 18256/2015: questa decisione ha ritenuto che, per effetto della dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione all'esito del giudizio d'appello, dovesse ritenersi venuta meno, pur in difetto di espressa indicazione nel dispositivo della sentenza di appello — che, anzi, recava l'indicazione “Conferma nel resto” —, la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, in origine applicata all'imputato in conseguenza della condanna in primo grado per il delitto di abuso d'ufficio) oppure quando, a seguito dell'intervenuta prescrizione di alcuni dei reati contestati, il giudice ridetermini la pena al di sotto del limite previsto dall'art. 29 (Cass. VI, n. 16841/2018). La giurisprudenza ha anche ritenuto che le pene accessorie, in quanto conseguenti di diritto alla sentenza di condanna come effetti penali della stessa ai sensi dell'art. 20, possono essere eseguite in qualsiasi momento dalla formazione del giudicato e, diversamente dalle pene principali, non sono soggette a prescrizione. (Cass. I, n. 33541/2016). La sospensione condizionale della pena Rinviando a quanto si osserverà amplius sub art. 166, in questa sede è sufficiente ricordare che la sospensione condizionale delle pene accessorie, a seguito della modificazione dell'art. 166 c.p. (introdotta dall'art. 4 l. n. 19/1990), è un effetto della sospensione condizionale della pena principale e si realizza automaticamente senza necessità di un provvedimento che faccia esplicito riferimento alle pene accessorie (Cass. III, n. 27113/2015; Cass. III, n. 763/2010, in fattispecie nella quale il giudice, nel concedere il beneficio in oggetto, aveva omesso di specificare che quest'ultimo si estendeva anche alle pene accessorie: la S.C. ha affermato che il beneficio della sospensione condizionale della pena principale inflitta per uno dei reati in materia sessuale si estende, di diritto, anche alle pene accessorie previste dall'art. 609-novies, non occorrendo un'esplicita statuizione in tal senso). Tuttavia, per taluni delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis) il giudice può disporre che l’effetto sospensivo non si estenda alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Pene accessorie e cause di estinzione della penaL'amnistia impropria L'amnistia impropria, secondo quanto stabilito dall'art. 151 c.p., non consente l'esecuzione delle pene accessorie ed interrompe l'esecuzione di quelle in corso di attuazione. La giurisprudenza ha, in proposito, ritenuto che, nell'ipotesi in cui l'esecuzione della pena accessoria abbia esaurito completamente i suoi effetti prima ancora che sia intervenuto un provvedimento di clemenza, l'applicazione successiva del beneficio non elide l'obbligazione patrimoniale ex lege del condannato di rimborsare all'erario le spese anticipate per la esecuzione della pena accessoria legittimamente emessa ed esaurita (Cass. VI, n. 2801/1982: fattispecie riguardante le spese di pubblicazione della sentenza di condanna). L'indulto Un orientamento ha ritenuto che, ai sensi degli artt. 9 d.P.R. n. 865/1986 e 2 d.P.R. n. 394/1990, l'indulto (o condono) sulle pene accessorie temporanee è concesso, per intero, quando il beneficio «è applicato», anche solo in parte, alle pene principali per cui è stata pronunciata condanna; ne consegue che non sarebbero condonabili le pene accessorie relative a reati oggettivamente esclusi dal provvedimento di clemenza, ancorché legati ad altri dal vincolo della continuazione, poiché il beneficio non è applicabile neppure in parte alle relative pene principali, dovendo quest'ultime, a seguito dello scioglimento del vincolo della continuazione, essere escluse dal cumulo materiale e giuridico (Cass. I, n. 35718/2003; conforme, con riguardo all'indulto concesso con d.P.R. n. 865/1986, Cass. I, n. 497/1991), Altro orientamento, che deve ritenersi dominante, ha, al contrario, ritenuto, con maggior fondamento, che l'applicazione parziale dell'indulto ad una condanna, in riferimento ad uno soltanto dei reati uniti dal vincolo della continuazione, rende condonabili, per intero, le pene accessorie temporanee, anche se le stesse siano relative a reati esclusi in via oggettiva, o ratione temporis, dal beneficio; ciò sarebbe desumibile dalla formulazione letterale dell'art. 2 d.P.R. n. 394/1990 (che concede il condono, per intero, delle pene accessorie temporanee conseguenti ad una condanna alla quale venga applicato, anche solo in parte, l'indulto), e dall'applicazione del generale principio del favor rei, che consente di sciogliere il vincolo ideologico, che unifica nel reato continuato i singoli fatti criminosi, solo quando da tale operazione possano derivare effetti giuridici favorevoli all'interessato (Cass. I, n. 13376/2004; conforme, Cass. I, n. 1032/2004, e Cass. III, n. 2723/2000, nonché Cass. VI, n. 2126/1990, relativa all'indulto concesso con d.P.R. n. 865/1986). Profili processualiLa contestazione Non è necessaria la previa menzione nella contestazione della possibilità di applicazione, all'esito del giudizio, di una pena accessoria (Cass. V, n. 8436/1984). La motivazione Poiché, come già osservato supra, le pene accessorie costituiscono tendenzialmente un effetto automatico della condanna, la loro applicazione non comporta per il giudice alcun obbligo di motivazione (Cass. V, n. 5400/1984). Pene accessorie e c.d. “patteggiamento allargato” L'art. 445, comma 1, c.p.p., nella sua attuale formulazione, prevede espressamente la non applicabilità delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, oltre all'esonero dal pagamento delle spese processuali, nei soli casi in cui la pena applicata non superi la misura di due anni di pena detentiva, soli o congiunti a pena pecuniaria. Si è, in proposito, osservato che, con la sentenza di c.d. «patteggiamento allargato» (ovvero nei casi in cui sia applicata una pena detentiva, congiunta o non a pena pecuniaria, superiore ai due anni), è consentita, ricorrendone le condizioni, l'applicazione di pene accessorie e misure di sicurezza, anche se non previste come conseguenza automatica, ma rimesse alla valutazione discrezionale del giudice, ma in tal caso il giudice deve, quando sia necessario, accertare la sussistenza in concreto della pericolosità sociale dell'imputato (Cass. VI, n. 31563/2009: fattispecie relativa a patteggiamento “allargato” per il reato di cessione di stupefacenti — art. 73 d.P.R. n. 309/1990 —, con applicazione delle pene accessorie del divieto di espatrio e del ritiro della patente di guida, ex art. 85 d.P.R. n. 309/1990). L'orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza (Cass. IV, n. 39065/2012; Cass. VI, n. 8723/2013) ritiene che, in presenza di un patteggiamento c.d. “allargato” l'applicazione delle pene accessorie, se previste, è obbligatoria, perché prevista ex lege, per il giudice, anche nel caso in cui di esse non si faccia menzione nell'accordo tra le parti; l'omessa statuizione della pena accessoria costituirebbe, pertanto, errore di diritto emendabile e rilevabile dal giudice di legittimità (attraverso l'annullamento senza rinvio della la sentenza impugnata, limitatamente al capo concernente la pena accessoria, e disponendone direttamente l'applicazione, quando non subordinata a valutazioni discrezionali, alle quali la Corte di cassazione non sarebbe legittimata. L'annullamento, infatti, non travolge l'intera sentenza, poiché le pene accessorie non hanno costituito oggetto dell'accordo tra imputato e pubblico ministero sulla base del quale é stata emessa la sentenza di applicazione di pena. Solo se facoltative, le pene accessorie posso costituire oggetto di accordo tra imputato e pubblico ministero, soprattutto laddove la determinazione della loro durata debba avvenire sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.; laddove esse abbiano costituito oggetto dell'accordo la loro illegalità, rilevabile anche d'ufficio, comporterà l'annullamento senza rinvio della sentenza di patteggiamento, dal momento che la rilevata illegalità rende invalido l'intero accordo (Cass. V, n. 19400/2021). È rimasto, invece, isolato l'opposto orientamento per il quale, trattandosi di conseguenze prevedibili, l'imputato potrebbe sempre evitarne l'applicazione, subordinando l'efficacia della richiesta di patteggiamento all'esclusione delle pene accessorie, con facoltà per il giudice di rigettarla, ove al contrario ritenga di doverle applicare (Cass. III, n. 3107/2012). La possibilità per le parti di estendere l’accordo anche alle pene accessorie, già prevista dall’art. 444, comma 3-bis, c.p.p. per taluni delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 314, comma1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis) è stata recentemente generalizzata dal d.lgs. n. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia). Aggiungendo un periodo al primo comma dell’art. 444 c.p.p., si è, infatti, previsto che l’imputato e il pubblico ministero possano chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato. Pene accessorie e giudizio abbreviato La diminuente speciale di cui all'art. 442, comma 2, c.p.p. va applicata soltanto alla pena principale, e non anche alle pene accessorie, in considerazione sia della lettera della disposizione citata, sia della natura e della funzione delle pene accessorie, diverse rispetto all'assetto ordinamentale della pena principale (Cass. I, n. 14412/2003). Ai fini dell'applicazione delle pene accessorie, la sussistenza del presupposto costituito dal quantum di reclusione irrogata a titolo di pena principale deve essere valutata tenendo conto delle eventuali diminuzioni processuali, e quindi considerando al pena principale irrogata in concreto, come risultante a seguito della riduzione di un terzo prevista per la scelta del rito abbreviato (Cass. S.U., n. 8411/1998 e Cass. I, n. 18149/2014, entrambe in tema di interdizione dai pubblici uffici). Impugnazione del P.M. per omessa applicazione di una pena accessoria Le Sezioni Unite hanno chiarito che la sentenza che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore Generale a norma dell'art. 608 c.p.p. La Corte di Cassazione, ove rilevi l'illegittima omessa applicazione di pena accessoria predeterminata nella durata, pronuncia l'annullamento senza rinvio ex art. 620 lett. l) c.p.p. della sentenza impugnata. Resta impregiudicato il potere del Pubblico Ministero, una volta passata in giudicato la sentenza, di attivare, a norma degli artt. 662 c.p.p. e 183 disp. att. c.p.p., nei casi di pena accessoria predeterminata nella durata, il procedimento di esecuzione, da tenersi nelle forme dell'art. 676 c.p.p., non trovando applicazione l'art. 130 c.p.p. (Cass. S.U., informazione provvisoria del 29.09.2022). Segue. La condanna alle spese Si è precisato che l'imputato deve essere condannato al pagamento delle spese processuali del giudizio di appello anche quando il gravame del P.M. contro la sentenza di condanna di primo grado sia stato accolto soltanto quanto all'applicazione di una pena accessoria (Cass. V, n. 6366/1978). Rilevabilità d'ufficio dell'omessa applicazione di una pena accessoria e inoperatività del divieto di reformatio in pejus La giurisprudenza ha evidenziato che l'art. 597, comma 3, c.p.p. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice d'appello nell'ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie, le quali, come disposto dall'art. 20, diversamente dalle pene principali («inflitte» dal giudice), «conseguono di diritto alla condanna», come effetti penali di essa; per tale ragione, si è ritenuto che al giudice di secondo grado è consentito applicare d'ufficio le predette pene accessorie qualora non vi abbia provveduto quello di primo grado, e ciò anche nei casi in cui la cognizione in ordine alla specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero (Cass. S.U., n. 8411/1998; Cass. V, n. 8280/2008; Cass. VI, n. 31358/2011). Si è, pertanto, ritenuto che non viola il principio della reformatio in peius la sentenza del giudice di appello che, in presenza dell'impugnazione del solo imputato, disponga statuizioni in malam partem nei confronti di quest'ultimo in tema di pene accessorie (Cass. VI, n. 49759/2012: fattispecie nella quale il giudice d'appello, pur in assenza di gravame del P.M., aveva applicato la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea, erroneamente disposta in primo grado; Cass. II, n. 15806/2017). Correzione dell'omessa applicazione in sede di legittimità Si ritiene che l'erronea applicazione, da parte del giudice della cognizione, di una pena accessoria predeterminata per legge quanto alla specie ed alla durata, può — se dedotta in sede di legittimità — essere rilevata anche dalla Corte di cassazione che, in tal caso, disporrà l'annullamento parziale, senza rinvio, della sentenza impugnata (Cass. I, n. 1800/2013). Correzione dell'omessa applicazione ex art. 130 c.p.p. Un orientamento ritiene che all'omessa applicazione di una pena accessoria, se obbligatoria e predeterminata ex lege per specie e durata, può porsi rimedio, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, attraverso la procedura prevista dall'art. 130 c.p.p. per la correzione degli errori materiali (Cass. VI, n. 16034/2009; Cass. I, n. 43085/2012). La rettifica in executivis delle statuizioni inerenti alle pene accessorie L'art. 183 disp. att. c.p.p. autorizza (su istanza del p.m.) l'applicazione in executivis della pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, se a ciò non si sia provveduto con la sentenza di condanna, e dunque anche modificando l'intervenuto giudicato in malam partem; dovrebbe, pertanto, ritenersi del tutto illogico che non sia possibile rimediare, nella medesima fase esecutiva ed alle stesse condizioni, pro reo, ad eventuali errori intervenuti in sede di cognizione, in difetto di impugnazione, nei casi in cui la più favorevole determinazione inerente alle pene accessorie consegua ugualmente di diritto. Chiamate a decidere « Se l'erronea o omessa applicazione da parte del giudice di cognizione di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata o l'applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria extra o contra legem, possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione», le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. S.U., n. 6240/2015) hanno ritenuto che l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione. Il giudice dell'esecuzione potrà, quindi, anche correggere l'entità della pena accessoria erroneamente determinata in sede di cognizione, ed adeguarla alla misura legale (Cass. I, n. 38245/2010: fattispecie nella quale la pena principale era stata ridotta in appello ad anni tre di reclusione, e quella accessoria era stata per errore confermata in perpetuo). La giurisprudenza (Cass. I, n. 38712/2013) ha anche precisato che, in fase esecutiva, l'illegittimità della pena accessoria applicata dal giudice della cognizione può essere rilevata soltanto in due casi: - quando la pena accessoria irrogata non sia prevista dall'ordinamento giuridico; - quanto la pena accessoria, per specie o quantità, risulti eccedente il limite legale. Ciò in quanto il principio di legalità della pena, enunciato dall'art. 1, ed implicitamente dall'art. 25, comma 2, Cost., informa di sé tutto il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione. Peraltro, si è di fronte ad una pena (accessoria) illegale soltanto nei limiti sopra indicati, con riferimento al reato per il quale è stata pronunciata condanna ed alla pena inflitta per detto reato, così come indicata nel dispositivo della sentenza, mentre non può essere riconsiderato in sede esecutiva il calcolo attraverso il quale il giudice è pervenuto a determinare la pena (a meno che non sia frutto di un errore macroscopico, senza che vi sia stata una qualche valutazione sul punto da parte del giudicante: Cass. I, n. 12453/2009), essendo detto calcolo modificabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza. In applicazione del principio, Cass. I, n. 20466/2015 ha ritenuto corretto il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione, per lo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, nel dichiarare estinto il reato di cui all'art. 186, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 285/1992, aveva rideterminato la durata della sospensione della patente di guida in anni uno, applicando la riduzione della metà alla sanzione erroneamente stabilita in sede di cognizione in anni due, ovvero in misura eccedente il limite massimo edittale previsto dalla ipotesi di reato contestata, osservando che «nel caso di specie, l'errata determinazione di durata della sospensione della patente di guida non si pone extra ordinem, né risulta eccedente l'astratto limite temporale previsto da uno a due anni in caso di guida sotto l'influenza dell'alcool, ove sia accertato un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), e da sei mesi ad un anno se il tasso alcolemico sia risultato superiore a 0,8 g/l ma non a 1,5 g/l, ipotesi, quest'ultima, contestata all'imputato e ritenuta nella sentenza di applicazione allo stesso della pena di giorni venti di arresto ed euro duemila di ammenda, sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità. L'affermazione desta insoddisfazione: invero, proprio per la sua macroscopica evidenza, l'errore in cui era incorso il giudice della cognizione bene avrebbe potuto essere emendato in sede esecutiva; in caso contrario, la pacificamente ritenuta derogabilità al principio affermato nei soli casi casi di « errore macroscopico » è destinata a rimanere priva di concreto significato. Al contrario, non sarebbe deducibile con il rimedio dell'incidente di esecuzione l'errore commesso dal giudice nell'applicare, in sede di patteggiamento non “allargato” (cfr. artt. 444, comma 2, e 445, comma 1, c.p.p.), la pena accessoria, rendendosi in tali casi necessaria una modifica sostanziale del dictum della sentenza, consentita soltanto nel giudizio di cognizione, attraverso il rimedio dell'impugnazione (Cass. I, n. 14007/2007). L’esecuzione delle pene accessorie Come le pene principali, anche quelle accessorie possono essere eseguite in qualsiasi momento successivo alla formazione del giudicato. Tuttavia, è possibile disporne l'esecuzione posticipata rispetto a quella della pena principale nel caso in cui risulti con essa incompatibile (Cass. I, n. 36870/2023). BibliografiaA. Di Martino, Intersezioni di legalità e “sanzioni accessorie”. Tra giurisprudenza nazionale, diritti umani e sistemi penali stranieri, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli 2011, vol. I, 193 ss. |