Codice Penale art. 628 - Rapina.Rapina. [I]. Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona [581 2] o minaccia [612], s'impossessa della cosa mobile altrui [624 2; 812 3 c.c.], sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500 [380 2f c.p.p.] 1 2. [II]. Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità [380 2f c.p.p.]3. [III].La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 2.000 a euro 4.0004[347 3, 407 2a n. 2 c.p.p.; 112 att. c.p.p.]: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi [585 2-3] o da persona travisata, o da più persone riunite [112 1 n. 1]; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire [605, 613; 1137 c. nav.]; 3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416-bis ; 3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa 56; 3-ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto 7; 3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro 8; 3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne 910. [IV]. Se concorrono due o più delle circostanze di cui al terzo comma del presente articolo, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61, la pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 2.500 a euro 4.00011. [V]. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti 1213.
competenza: Trib. monocratico (primo e secondo comma); Trib. collegiale (terzo e quarto comma) arresto: obbligatorio fermo: consentito custodia cautelare in carcere: consentita altre misure cautelari personali: consentite procedibilità: d'ufficio [1] Precedentemente le parole « è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500» erano state sostituite alle parole « è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da 516 euro a 2.065 euro» dall' art. 1, comma 8, lett. a), l. 23 giugno 2017, n. 103. Ai sensi dell’articolo 1, comma 95, della legge n. 103 cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017). Successivamente la parola «cinque» è stata sostituita alla parola «quattro» dall'art. 6, comma 1, lett. a), l. 26 aprile 2019, n. 36, in vigore dal 18 maggio 2019. [2] Per l'aumento delle pene, qualora il fatto sia commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, v. art. 71, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, che ha sostituito l'art. 7, comma 1, l. 31 maggio 1965, n. 575. V., inoltre, per ulteriori ipotesi di aumento di pena, art. 1, l. 25 marzo 1985, n. 107, e art. 4, comma 2, l. 7 agosto 1977, n. 533. Per l’applicazione del DASPO, v. art. 6, comma 1, l. 13 dicembre 1989, n. 401. [3] La Corte costituzionale, con sentenza 13 maggio 2024, n. 86 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. [4] Precedentemente le parole «La pena è della reclusione da cinque a venti anni e della multa da euro 1.290 a euro 3.098» erano state sostituite alle parole « La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da 1.032 euro a 3.098 euro» dall’art. 1, comma 8, lett. b), l. 23 giugno 2017, n. 103. Ai sensi dell’articolo 1, comma 95, della legge n. 103 cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017). Successivamente la parola «sei» e le parole «da euro 2.000 a euro 4.000» sono state sostituite rispettivamente alla parola «cinque» e alle parole «da euro 1.290 a euro 3.098» dall'art. 6, comma 1, lett. b), l. 26 aprile 2019, n. 36, in vigore dal 18 maggio 2019. [5] Numero aggiunto dall'art. 3, comma 27, lett. a), della l. 15 luglio 2009, n. 94. [6] L'art. 7, comma 2, d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. con modif. dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119, ha inserito, dopo le parole: «articolo 624-bis», le parole: «o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa». [7] Numero aggiunto dall'art. 3, comma 27, lett. a), della l. 15 luglio 2009, n. 94. [8] Numero aggiunto dall'art. 3, comma 27, lett. a), della l. 15 luglio 2009, n. 94. [9] Numero aggiunto dall'art. 7, comma 2, d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. con modif. dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119. Il d.l. prevedeva anche un numero 3-sexies, poi abrogato in sede di conversione, che recitava: «se il fatto è commesso in presenza di un minore». [10] Comma precedentemente modificato dall'art. 3 l. 14 ottobre 1974, n. 497, dall'art. 113, comma 4, l. 24 novembre 1981, n. 689, successivamente dall'art. 9 l. 13 settembre 1982, n. 646 e infine dall'art. 8, comma 3, d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, conv., con modif., nella l. 18 febbraio 1992, n. 172. [11] La parola «sette» e le parole «da euro 2.500 a euro 4.000» sono state sostituite rispettivamente alla parola «sei» e alle parole «da euro 1.538 a euro 3.098» dall'art. 6, comma 1, lett. c), l. 26 aprile 2019, n. 36, in vigore dal 18 maggio 2019.Il presente comma è stato inserito dall’art. 1, comma 8, lett. c), l. 23 giugno 2017, n. 103. Ai sensi dell’articolo 1, comma 95, della legge n. 103 cit., la stessa legge entra in vigore il trentesimo giorno successivo a quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017). [12] Comma aggiunto dall'art. 3, comma 27, lett. b), della l. 15 luglio 2009, n. 94. [13] La Corte costituzionale, con sentenza 22 novembre 2023, n. 217, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, quinto comma, del codice penale, nella parte in cui non consente di ritenere prevalente o equivalente la circostanza attenuante prevista dall’art. 89 cod. pen., allorché concorra con l’aggravante di cui al terzo comma, numero 3-bis), dello stesso art. 628. Successivamente la Corte cost., con sentenza 25 luglio 2025, n. 130, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, quinto comma, del codice penale, nella parte in cui non consente di ritenere equivalente o prevalente la circostanza attenuante prevista dall’art. 89 cod. pen., allorché concorra con l’aggravante di cui al terzo comma, numero 3-quater), dello stesso art. 628. InquadramentoL'art. 628 prevede due diverse forme di rapina, tradizionalmente definite “propria e impropria”. La differenza tra le due figure di rapina si fonda precipuamente sulla diversa direzione della violenza alla persona o della minaccia; queste ultime nella rapina propria (art. 628 comma 1) sono indirizzate a realizzare la sottrazione e l'impossessamento della cosa, mentre nella rapina impropria (art. 628 comma 2) sono intese ad assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa medesima ovvero a procurare a sé o ad altri l'impunità. Entrambe le figure sono classificate da alcuni autori nella categoria dei «reati complessi», risultando dall'unificazione della violenza privata e del furto (Antolisei, PS, I, 409, 99; Marini, PS, II, 182). Altri escludono che la violenza tipica della rapina sia sempre inquadrabile nella violenza privata, potendo arrestarsi per esempio allo stadio delle percosse ovvero concretizzare estremi di delitti ben più gravi quali l'omicidio o il tentativo di omicidio (Fiandaca, Musco, PS, II — 2, 121). Altri ancora sostengono che la rapina è un reato «eventualmente complesso», non riscontrandosi sempre una violenza privata, ma essendo sufficiente una violenza qualsiasi purché diretta al perseguimento dei fini tipici (Zagrebelsky, 776). È stato evidenziato come «per effetto della disposizione contenuta nell'art. 581, comma 2, nella rapina rimane assorbita — accanto alla minaccia — solo la violenza che si manifesta sotto forma di percosse. Ogni violenza che presenti un disvalore superiore, come ad esempio quella che si concretizza nelle lesioni o ancor di più nell'omicidio concorre con la rapina» (Fiandaca, Musco, 121). Quale reato composto o complesso in senso stretto la rapina è un tipico reato plurioffensivo. Lede innanzitutto l'interesse al pacifico possesso e disposizione delle cose mobili, come dimostra anche la sistemazione legislativa del reato tra i «delitti contro il patrimonio»; inoltre viola la libertà fisica e/o interiore dell'individuo, cioè l'interesse a determinare autonomamente il proprio comportamento senza dover subire aggressioni, coercizioni o intimidazioni altrui. Questi interessi, specificamente tutelati dalla norma incriminatrice, sono strettamente connessi nel delitto in esame, di modo che la loro lesione è in rapporto di mezzo (violenza personale o minaccia) a fine (il furto, l'assicurazione del possesso o l'impunità). Anche per la giurisprudenza la rapina, in entrambe le sue forme, deve ritenersi un esempio tipico di «reato plurioffensivo», comprendendo la sua oggettività giuridica sia l'elemento patrimoniale, sia un momento afferente alla «libertà morale» del soggetto passivo (Cass. II, n. 28852/2013). In tale ottica la giurisprudenza ha affermato che la violenza — come la minaccia — sono elementi costitutivi della rapina e rimangono perciò in essa assorbiti in forza del principio di specialità soltanto quando tra essi intercorre un nesso causale, con carattere di immediatezza, per cui l'impossessamento derivi direttamente dalla violenza stessa (Cass. I, n. 10812/1995). Soggetto attivoSoggetto attivo del delitto di rapina può essere «chiunque», purché sia persona diversa da quella che possiede attualmente la cosa. Deve segnalarsi che si ritiene da parte di certa dottrina che il proprietario non possa mai essere chiamato a rispondere del delitto in esame, richiedendo la legge che la cosa mobile sia, rispetto all'agente, altrui ma possa semmai essere punito ex art. 610 o, eventualmente, ex art. 393 (Zagrebelsky, 36). Viene altresì precisato che l'art. 627, dal quale si ricava che non sono altrui le cose comuni, esaurisce la sua operatività, quale limite di applicabilità della fattispecie di furto. È punibile pertanto a titolo di rapina il comproprietario che ponga in essere il fatto di cui all'art. 628 (Mantovani PtS II,35). Opinione diversa è quella di chi include tra i soggetti attivi del delitto di rapina anche il proprietario della cosa, allorché la cosa sia posseduta da altri a titolo di diritto reale o obbligatorio (Fiandaca — Musco, 126; Baccaredda Boy-Lalomia, 373) Soggetto passivo Stante il necessario verificarsi nel soggetto destinatario della condotta di un evento di tipo psicologico si ritiene che soggetto passivo possa essere solo una persona fisica, potendo l'ente diverso (per esempio l'istituto bancario) invece rivestire solo la qualifica di soggetto danneggiato dal reato. Essendo la rapina un reato complesso plurioffensivo (furto a cui si aggiunge la violenza alla persona o la minaccia) l'offesa colpirà sia il patrimonio che la sfera della libertà fisica e morale della vittima. La violenza e la minaccia che caratterizzano il delitto — come si desume dalla stessa formulazione della relativa norma — possono essere rivolte anche contro persona diversa dal detentore. In tale ipotesi anche detta persona è soggetto passivo del reato, in relazione alla violenza o alla minaccia subita Si è posto il problema della unicità o pluralità di rapine, quando, per esempio, alla vittima siano sottratte più cose, o quando vengano contestualmente rapinate più persone, o in qualsiasi caso intermedio o ibrido tra questi. Nella prima ipotesi offeso dal reato è un solo individuo e, purché le sottrazioni avvengano con una condotta unica, unica resta pure la rapina. Quando, invece, una fattispecie completa di rapina viene integrata nei riguardi di ogni soggetto, ognuno derubato con violenza o minaccia: più condotte, più eventi; dal che consegue la pluralità dei reati. È stato affermato in giurisprudenza che nell'ipotesi di rapina commessa in un unico contesto in danno di più persone malgrado la rapidità della successione temporale tra le singole sottrazioni, si configura un'ipotesi di reato continuato, stante la pluralità di delitti commessi in numero incontestabilmente pari a quello degli eventi antigiuridici prodottisi in danno di ciascuna delle persone rapinate (Cass. II n. 6362/1996: nella specie rapina in danno di undici persone che si trovavano all'interno di un esercizio pubblico). Con riguardo ai casi ibridi si è detto che se vengono commessi più furti in danno di persone differenti ma la violenza si estrinseca nei confronti di una sola si avranno più rapine per chi considera prevalente l'offesa al patrimonio, si avrà una sola rapina per chi riscontra la sussistenza di una sola lesione tipica, di un solo episodio di violenza, dopo più momenti di furto (Pizzuti, 269). Viceversa, nell'ipotesi in cui i malviventi facciano irruzione in banca e costringano vari clienti, che in quel momento si trovano all'interno dei locali, a sdraiarsi per terra si avrà una sola rapina per chi considera rilevante solo il bene patrimoniale, più rapine per chi ritiene la fattispecie di cui all'art. 628 reato plurisoggettivo (Brunelli, 19) Deve altresì rilevarsi che l'art. 628 esige che la violenza o la minaccia sia usata contro una persona il cadavere non è persona e perciò la violenza usata sopra di esso per impossessarsi di qualche cosa può costituire soltanto furto aggravato, salvo il concorso con il delitto di vilipendio di cadavere. Se la morte è stata cagionata volontariamente dal delinquente, allo scopo di impossessarsi di una cosa, la rapina sussiste anche se la sottrazione e l'impossessamento avvengono quando la vittima è già spirata, allo stesso modo sussiste il reato di rapina se la morte è stata conseguenza involontaria della volontaria violenza (Manzini,T IX, 420) L'eventuale esistenza, tra soggetto attivo e passivo, di alcuno dei rapporti di parentela o di affinità indicati nell'art. 649, non ha influenza sulla punibilità e sulla perseguibilità dei fatti costituenti rapina, come dichiara espressamente l'ultimo comma dello stesso art. 649. L'orientamento della giurisprudenza di legittimità prevalente è invece nel senso dell'applicabilità della causa di non punibilità alle fattispecie di tentativo di rapina, estorsione e sequestro a scopo di estorsione in ragione dell'autonomia del tentativo dalla corrispondente ipotesi di reato consumato. [Cass. II, n. 2643/2012; Cass. II, n. 5504/2014 dove si afferma che “nei casi in cui l'ordinamento ricolleghi determinati effetti giuridici alla commissione di reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, dovrà ritenersi che essi si producono esclusivamente per le fattispecie consumate e non anche per quelle tentate". Il principio, pacifico anche in giurisprudenza va, peraltro, precisato nel senso che, tenendo al tempo stesso conto dell'autonomia delle ipotesi di delitto tentato, e del principio di tassatività della norma penale, desumibile, quale corollario del principio di legalità, dall'art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi che gli effetti giuridici sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, vanno riferiti alla sola ipotesi del reato consumato e non anche al tentativo, trattandosi di norme — quelle sfavorevoli — di stretta interpretazione, le quali, in difetto di espressa previsione, non possono essere analogicamente riferite alla figure di delitto tentato. Non sarebbe, pertanto, consentito, l'ampliamento per analogia in malam partem del novero dei reati per i quali la causa di non punibilità di cui all'art. 649 non opera. Ciò premesso, la possibile esclusione della tentata estorsione (ma il principio vale anche per la tentata rapina) dal novero dei reati per i quali opera la causa di non punibilità in argomento va valutata unicamente con riguardo all'ultima parte dell'art. 649 c.p.p., comma 3, che esclude la non punibilità di tutti i delitti (e quindi anche di quelli tentati) commessi con "violenza sulle persone"]. MaterialitàIl delitto di rapina è disciplinato dall'art. 628 base al quale è punito «Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene» ed inoltre «chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità». L'art. 628. prevede, quindi, due diverse forme di rapina, tradizionalmente definite “propria ed impropria”. La differenza tra le due figure di rapina si fonda precipuamente sulla diversa direzione della violenza alla persona o della minaccia; queste ultime nella rapina propria (art. 628 comma 1) sono indirizzate a realizzare la sottrazione e l'impossessamento della cosa, mentre nella rapina impropria (art. 628 comma 2) sono intese ad assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa medesima ovvero a procurare a sé o ad altri l'impunità. Oggetto materiale della rapina è una cosa mobile altrui. Innanzitutto deve trattarsi di una «cosa», cioè di un oggetto corporale ovvero di un'altra entità naturale che abbia valore economico o più genericamente patrimoniale e sia suscettibile di appropriazione. È necessario, inoltre, che la «cosa» abbia un valore patrimoniale, cioè faccia parte del patrimonio di qualcuno. Al riguardo occorre sottolineare che il patrimonio, ai fini del diritto penale, è costituito non solo dalle cose aventi valore di scambio sul piano economico, ma anche da quelle cose che, pur prive di valore di scambio, abbiano per colui che le possiede valore affettivo o sentimentale. È vero che la rapina è indirizzata in genere verso una cosa per il suo valore economico; tuttavia, è configurabile tale delitto anche quando si riferisce ad oggetti (ad esempio, una ciocca di capelli, una particolare immagine religiosa, un portafortuna), che, pur sprovvisti di valore economico, facciano parte del patrimonio di una persona a causa del loro valore ideale, tanto più se si tiene conto che il «profitto» avuto di mira dall'agente può anche non essere economico. La «cosa» deve essere altresì «mobile». La nozione di bene mobile ricavata dagli art. 812 e 814 c.c. vale senza dubbio anche nell'ambito penale, ai cui fini, però, interessa tenere presente che non si considerano più immobili le cose che siano distaccate dal complesso immobiliare a cui aderiscono e per tal modo rese mobili. Possono, pertanto, essere oggetto materiale della rapina le cose immobili una volta che vengano «mobilizzate», quali le pertinenze di beni immobili, gli immobili per incorporazione, così ad esempio i materiali di un edificio. La «cosa», infine, per costituire oggetto del delitto in esame deve essere «altrui» nel senso di "cosa di proprietà di altri. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che l'altruità della cosa non è esclusa se l'agente ha mantenuto la proprietà della cosa sottratta, cedendone il possesso alla vittima della spoliazione materiale, posto che il possesso, inteso come relazione di fatto con la "res", si configura anche in assenza di un vincolo giuridico (Cass. II, n. 44707/2024, in relazione alla sottrazione violenta da parte del reo di un telefono cellulare da lui acquistato e poi concesso in uso alla persona offesa).
In assenza di un'autonoma previsione analoga a quella dell'art. 626 anche la rapina d'uso o di tenue valore per bisogno ricade sotto l'art. 628 salva l'attenuante dell'art. 62 numero quattro e la rilevanza ex art. 133 (Brunelli, 10; Mantovani 100) In tal senso anche la giurisprudenza che ha ritenuto che in tema di rapina, il profitto ingiusto può consistere anche nella temporanea utilizzazione della cosa, oltre che nell'impossessamento definitivo di essa (Cass. I n. 15405/2010; Cass II n. 788/2003: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del delitto di rapina nel caso di sottrazione di un ciclomotore avvenuta per compiere un breve tratto di strada, e per un arco di tempo molto limitato, solo dieci minuti, seguita dalla restituzione dello stesso alla parte lesa). La rapina propriaLa rapina propria consiste nell'impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, mediante violenza alla persona o minaccia, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (art. 628 comma 1). L'elemento oggettivo della rapina propria, quindi, implica: • l'uso di violenza alla persona o di minaccia; • l'impossessamento della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. La violenza alla persona o la minaccia che, nella rapina propria, deve essere precedente o concomitante all'impossessamento della cosa mobile altrui, va considerata come mezzo rispetto al fine costituito dall'impossessamento medesimo. Per violenza personale si intende l'estrinsecazione di energia fisica, adoperata dall'agente sul paziente, per annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione e di azione. Essa non è soltanto la vis corporis corpori data, e cioè il mettere le mani addosso, lo spingere, il togliere la libertà di movimento (legare, imbavagliare, ecc.), ma anche qualsiasi mezzo fisico impiegato per tale scopo. La violenza personale comprende, altresì, l'uso di quei mezzi che «pur non attentando alla incolumità corporea, si traducono sempre in un pregiudizio fisico della persona, in quanto la privano della possibilità dell'azione, dell'esterna condotta». Si tratta della cosiddetta violenza impropria, concretantesi in tutte quelle attività insidiose, con cui il soggetto passivo viene posto, totalmente o parzialmente, nell'impossibilità di volere o di agire: ipnotizzazione, narcotizzazione, uso di sostanze stupefacenti o alcooliche, impiego di sostanze fumogene o lacrimogene, ecc. Anche la minaccia intende coartare la volontà della persona. Tuttavia, mentre la violenza personale realizza un costringimento fisico, la minaccia opera un'intimidazione morale che vulnera la libertà di autodeterminarsi, in modo da sostituirvi il passivo adeguamento ad un comando esterno. La minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, che è nel potere dell'agente di cagionare e che è posto in alternativa all'osservanza di una determinata condotta da parte del soggetto passivo. A differenza della violenza personale, con cui viene violata la sfera della libertà fisica della vittima, la minaccia agisce sulla libertà interiore, tentando di turbarla, condizionarla, manipolarla per i propri fini. Occorre, innanzitutto, che sia prospettato un male, cioè la effettiva lesione o l'esposizione a pericolo di un interesse o di un bene individuale di qualsiasi natura sia personale che patrimoniale. Il male prospettato deve, altresì, essere futuro. È, poi, necessario che il male minacciato sia ingiusto. Non occorre, tuttavia, che tale ingiustizia sia assoluta ed intrinseca: basta che il male minacciato risulti ingiusto o in sé stesso ovvero in relazione allo scopo cui la minaccia serve di mezzo. La realizzazione del male deve dipendere dall'agente in via diretta o indiretta; non può ravvisarsi minaccia, qualora la realizzazione della lesione prospettata risulti totalmente al di fuori dei poteri dell'agente stesso. Inoltre, il male deve essere presentato come conseguenza alternativa all'osservanza, da parte del soggetto passivo, di un preciso comportamento voluto dall'agente. Non occorre, invece, che sia minacciato un male determinato, essendo sufficienti anche generiche intimidazioni miranti ad impaurire la persona. La minaccia può essere esplicita ed implicita, diretta ed indiretta, reale e simbolica, e la sussistenza di essa si ha ogni volta che, mediante la prospettazione di un male, fatta in qualsiasi modo, verbalmente od anche per mezzo delle stesse modalità dell'azione, si coarti la volontà del soggetto. La violenza o la minaccia, pur dovendo essere sempre rivolte contro una persona, possono essere esercitate anche contro un terzo, purché l'effetto coercitivo o intimidatorio sia risentito dal depredato a causa dei particolari vincoli che lo legano con colui che venga sottoposto alla violenza o alla minaccia. L'idoneità va valutata secondo un duplice criterio oggettivo e soggettivo. Deve considerarsi idonea la violenza o la minaccia sufficiente a costringere o ad influenzare un uomo comune, ovviamente tenendo presenti tutte le modalità e le circostanze concrete nelle quali si è estrinsecata la condotta (tempo, luogo, età, sesso dell'aggredito, ecc.). Può darsi che la vittima, per la sua notevole fermezza morale, non sia rimasta intimidita, ma ciò non esclude la sussistenza della minaccia (della violenza), se questa era mediamente sufficiente a perseguire lo scopo. È necessario, però, tener conto, ai fini dell'idoneità, anche della situazione soggettiva concreta della vittima. La violenza potrà essere minima: una spinta, un urto, uno strattone, il semplice mettere le mani addosso, il divincolarsi; l'importante è che si ottenga il risultato di coartare la libertà di azione del soggetto. Casistica La giurisprudenza richiede che la volontà del soggetto passivo, per effetto della violenza, sia completamente esclusa, e pertanto anche quando la derelizione della cosa da parte della vittima avvenga a opera della stessa purché essa vittima si trovi nella piena soggezione del suo oppressore; infatti, in tal caso, si è in presenza di un atto puramente materiale cui non può attribuirsi rilevanza alcuna, posto che manca ogni possibilità di scelta tra il male minacciato e la consegna della cosa (Cass. II, n. 12855/1986); ricorrono gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto di rapina qualora la violenza, consistente nel buttare una persona giù dal letto, sia finalizzata all'impossessamento del denaro che la stessa tenga sotto il materasso (Cass. III, n. 11357/1987); pertanto nell'ipotesi di sottrazione di una cosa dopo l'esaurimento della azione violenta, si configura il delitto di rapina e non quello di furto qualora il proposito della sottrazione sorga e si formi prima della attuazione della violenza, sempre che sussista un nesso di causalità apparente tra quest'ultima e l'impossessamento nel senso che il secondo sia la conseguenza della prima (Cass. II, n. 12353/2010; Cass. n. 3116/2016); nel caso in cui taluno, qualificandosi falsamente come agente di polizia, si introduca nell'abitazione altrui ed effettui una perquisizione, nel corso della quale si impossessa di alcuni oggetti, è configurabile il delitto di rapina, perché la perquisizione costituisce atto di coazione (Cass. II, n. 2112/1999; Cass. II, n. 948/2010; in tal senso anche Cass. II n. 20216/2016); la violenza prevista dall'art. 628 può consistere anche in una semplice spinta o in un semplice urto della vittima, al fine di poter realizzare l'impossessamento della cosa (Cass. II, n. 3366/2013); ne consegue che risponde di rapina e non già di furto aggravato ex art. 625, n. 4 colui che, per impossessarsi della collanina d'oro e per vincere la resistenza della vittima che l'aveva afferrato per il giubbino nel tentativo di impedirgli la fuga, le dia una spinta tanto da farla cadere a terra (Cass. II, n. 8765/1985). La giurisprudenza ha ritenuto che, nell'ipotesi in cui venga sottratta una cosa mobile alla presenza del possessore e subito dopo che questi abbia subito un tentativo di estorsione e percosse, l'estremo della minaccia come modalità dell'azione della sottrazione ed elemento costitutivo della rapina è in re ipsa, senza che vi sia bisogno di un'ulteriore attività minacciosa da parte dell'agente direttamente collegata all'azione di apprensione del bene; in tal caso, infatti, si deve avere riguardo alla complessiva attività del colpevole, globalmente volta alla sopraffazione del soggetto passivo, il quale non può non risentire della precedente costrizione nell'assistere impotente all'apprensione della cosa di sua proprietà da parte dell'agente (Cass. II, n. 4057/2000; in tal senso anche Cass, II n. 47905/2016); così a integrare l'elemento della minaccia è stato ritenuto sufficiente qualsiasi comportamento o atteggiamento verso il soggetto passivo idoneo a incutere timore e a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto (Cass. II, n. 13555/2024), come il pericolo di subire un investimento in cui la parte lesa, costretta a fermare la propria autovettura e a subire uno scippo, è posta dall'agente alla guida di un motociclo (Cass. II, n. 2224/1991); l'elemento materiale della minaccia, ai fini della configurabilità del delitto di rapina, può ricavarsi anche dal comportamento deciso, perentorio e univoco dell'agente, che sia astrattamente idoneo a produrre l'effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo, specie quando questi sia rimasto vittima di identici, precedenti delitti: fattispecie in cui l'agente, entrato in un supermercato e avvicinatosi a una delle casse, aveva allungato le mani nel cassetto in quel momento aperto del registratore di cassa, afferrando le banconote ivi esistenti; ai fini della integrazione della rapina è sufficiente che l'agente ponga in essere l'impossessamento allorché la minaccia è già in atto, non essendo necessario che la minaccia sia finalizzata a tale scopo fin dal primo atto. Così a integrare l'elemento della minaccia è sufficiente qualsiasi comportamento o atteggiamento verso il soggetto passivo idoneo a incutere timore e a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto; nella specie la Corte ha ritenuto correttamente configurato il reato di rapina in un caso in cui gli agenti, allo scopo di impossessarsi del danaro custodito in un ufficio postale, vi si erano introdotti sfondando un lucernaio e calandosi quindi con irruenza all'interno, sì da indurre alla fuga, con tale condotta spavalda e dal preciso significato intimidatorio, gli impiegati presenti (Cass. VII, ord. n. 35619/2006). Così la minaccia costitutiva del reato di rapina, oltre che essere palese, esplicita e determinata, può essere manifestata in modi e forme differenti ovvero in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, essendo solo necessario che sia idonea a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali in cui questa opera: fattispecie di illecita perquisizione strumentalmente diretta all'impossessamento di valori (Cass. II, 44347/2010; Cass. II, n. 948/2010); parimenti la minaccia necessaria a integrare l'elemento oggettivo della rapina può consistere in qualsiasi comportamento deciso, perentorio e univoco dell'agente che sia astrattamente idoneo a produrre l'effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo: fattispecie relativa a intimazione a scendere dall'autovettura rivolta al suo conducente, seguita da forzatura della portiera conseguente alla chiusura della «sicura» da parte della vittima e a sottrazione del danaro dal portafogli (Cass. I, n. 46188/2009). La Corte di Cassazione ha ritenuto che l'elemento oggettivo del reato di rapina può essere costituito anche dal compimento di un'azione violenta nei confronti di una cosa qualora questa forma di violenza sia tale da esprimere un messaggio minatorio nei confronti della persona al fine di annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione (Cass. II, n. 8961/2016, relativa a fattispecie in cui l'azione violenta era consistita nella rottura della vetrata di una agenzia bancaria con un'autovettura; in tal senso si veda anche Cass. II n. 36178/2021). L'impossessamento consiste nell'acquisizione, da parte del soggetto, del controllo «autonomo» sulla «cosa» e, come già per il «furto», esso costituisce l'elemento cui fare riferimento onde stabilire quando il reato è da ritenersi realizzato... il modulo descrittivo utilizzato dal legislatore («s'impossessa») è significativo nell'indicare una mancanza di collaborazione da parte del soggetto passivo (manca, cioè, la richiesta di una consegna della res ad opera di quest'ultimo, quale elemento necessario del fatto)... la «sottrazione» costituisce passaggio essenziale per giungere all'«impossessamento» della «cosa», indicando la «rottura» del rapporto (di contiguità materiale) che la legava al precedente detentore... La giurisprudenza sostiene che l'impossessamento, quale momento consumativo del delitto di rapina, non esige affatto il requisito della definitività della sottrazione, ma si realizza appena l'agente abbia conseguito la disponibilità materiale della cosa sottratta, sia pure per breve intervallo di tempo e nello stesso luogo, senza possibilità per la vittima di recuperarne il possesso con il normale esercizio del potere di vigilanza e custodia, bensì soltanto tramite un'azione violenta personale o da parte di terzi (Cass. IV, n. 20031/2003; Cass. II, n. 752/1987); pertanto il reato di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l'intervento dell'avente diritto o della Forza pubblica (Cass. II, n. 5512/2014; fattispecie nella quale la Corte di Cassazione ha ritenuto consumata la rapina in banca commessa dall'imputato, che, dopo essersi impossessato del denaro, veniva bloccato all'interno dell'istituto dal sistema girevole di accesso e successivamente immobilizzato da una guardia giurata). La «rapina impropria»La "rapina impropria consiste nell'adoperare violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità (art. 628 comma 2). La rapina impropria si compone degli stessi elementi della rapina propria, con la sola differenza che essi si estrinsecano in una cornice inversa, nel senso che la violenza o la minaccia, anziché essere precedente o concomitante al furto, lo segue. Ossia la violenza o la minaccia è in questo caso posta in essere, non per impossessarsi della cosa, ma per assicurare il possesso della cosa medesima, od evitare la punizione per la sottrazione effettuata. Le due azioni, pur distinte, devono prospettarsi come una condotta unitaria diretta ad impedire al derubato di tornare in possesso della cosa sottratta, ovvero a procurare l'impunità. Secondo parte della dottrina il reato di rapina impropria sussiste anche qualora il comportamento violento segua ad una spontanea dazione del bene da parte del possessore tratto in inganno dall'agente (Baccaredda Boy Lalomia, 436) che riprendono il caso dell'agente finanziario che, tratto in inganno, circa la buona fede della controparte che gli proponeva un vantaggioso scambio di valuta, aveva consegnato spontaneamente una valigia contenente euro, aspettandosi in cambio dei franchi: la controparte, invece, una volta ricevuto il denaro, al fine di garantire il possesso, si era data alla fuga cagionando lesioni all'agente finanziario che aveva tentato di bloccarlo. Difetta il requisito della immediatezza, qualora, tra il momento della sottrazione e quello dell'uso della violenza o della minaccia sia intercorso un sensibile intervallo di tempo, ovvero si sia verificato un evento idoneo a rompere il nesso di unitarietà della condotta complessiva. Secondo la giurisprudenza di legittimità, “ai fini della configurabilità del delitto di rapina impropria, il requisito della "immediatezza", contemplato dalla norma incriminatrice, non richiede la contestualità temporale tra la sottrazione della "res" e l'uso della violenza o della minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l'unitarietà dell'azione volta a impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o ad assicurare al colpevole l'impunità”(Cass. II, n. 22930/2023). La giurisprudenza ha altresì affermato che in tema di rapina impropria la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l'unitarietà dell'azione volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l'impunità. (Cass. II n. 43337/2007; Cass. II n. 40421/2012 che ha affermato che in tema di rapina impropria il requisito della immediatezza della violenza o della minaccia va riferito esclusivamente agli aspetti temporali della «flagranza» o «quasi flagranza» e non va interpretato letteralmente nel senso che violenza o minaccia debbono seguire la sottrazione senza alcun intervallo di tempo; Cass. II n. 43764/2013 ; in relazione a fattispecie in cui la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la qualificazione come rapina impropria di un furto cui erano seguite immediate indagini di P.G. nell'ambito delle quali gli autori dello stesso, dopo circa due ore, venivano individuati ed arrestati, dopo aver tentato di forzare un posto di blocco) La violenza o la minaccia finalizzata all'assicurazione del possesso o dell'impunità non necessariamente deve essere usata contro la persona derubata. In tal senso la giurisprudenza che ha ritenuto che ai fini della sussistenza del delitto di rapina impropria, non è necessario che la violenza o minaccia sia esercitata contro chi si oppone all'autore della sottrazione nella consapevolezza della consumazione del reato, bensì solo che l'Azione violenta o intimidatrice sia rivolta contro persone che possano con il loro intervento determinare comunque, e, quindi, anche sulla non consapevolezza della sottrazione, la perdita del possesso del compendio furtivo ovvero l'accertamento della responsabilità penale. (Cass. II, n. 113/1984: nella specie l'Azione violenta era stata esercitata nei confronti di agenti di polizia i quali erano sopraggiunti nell'esercizio della generica attività di vigilanza e non perché a conoscenza della avvenuta sottrazione). Così come la coercizione non deve necessariamente provenire dal ladro richiedendo la legge che la stessa sia usata per assicurare il possesso o per procurare l'impunità a sé o ad altri. E infatti indifferente che la violenza o minaccia sia adoperata da chi ha commesso o ha concorso a commettere la sottrazione della cosa, ovvero da persona sopravvenuta a spalleggiare il primo colpevole, quando vi sia accordo tra i due È sufficiente che l'azione violenta o minacciosa sia mezzo idoneo al raggiungimento degli scopi indicati dalla legge e avuti di mira dall'agente, cioè non è necessario il conseguimento del possesso o dell'impunità. Il delitto di rapina impropria sussiste indipendentemente dal comportamento del soggetto passivo o della persona eventualmente intervenuta in sua difesa. Pertanto, non è necessario che la vittima o altri per lei abbiano tentato di resistere all'aggressore o di trattenerlo. È estranea alla fattispecie delittuosa della rapina impropria l'esistenza di un ostacolo alla fuga o alla conservazione del possesso della refurtiva ed e invece sufficiente l'uso della violenza o della minaccia ai suddetti fini dopo la perpetrazione del furto, risiedendo la ratio della equiparazione della rapina impropria a quella propria nella maggiore criminosità dimostrata dal ladro che, pur di assicurarsi il possesso della refurtiva o l'impunita, non rifugge dal fare ricorso alla violenza o alla minaccia contro la persona (Cass. II n. 6289/1973). Non è ammissibile un concorso tra rapina propria e impropria, ritenendosi requisito implicito della rapina impropria una sottrazione avvenuta pacificamente: così, nel caso in cui l'agente sottragga con violenza una cosa mobile e immediatamente dopo usi violenza o minaccia per assicurarsene il possesso o per procurarsi l'impunità si ravvisa un unico reato di rapina propria (in dottrina Zagrebelsky, 776). La giurisprudenza ha affermato che la condotta violenta o minacciosa rivolta ad assicurare il possesso ovvero a garantire la impunità manca di una propria tipicità se la sottrazione è già stata violenta, dato che per la rapina impropria è necessario che la sottrazione non sia stata violenta perché viceversa viene a mancare un requisito necessario per la sua configurabilità. Se, però, l'agente commette altri fatti reati per assicurarsi lo impossessamento o l'impunità, al di fuori della condotta tipica della rapina impropria e dopo la rapina propria, essi restano a carico dell'agente medesimo e non vengono assorbiti dalla rapina. (Cass. I n. 43764/1990: fattispecie di inseguimento dei rapinatori ed esplosione di colpi di arma da fuoco di costoro contro gli inseguitori, fatto, per il quale, non è stato ritenuto il concorso tra rapine proprie e rapine improprie). È stato altresì affermato dalla Corte di Cassazione che il delitto di rapina impropria è integrato anche a fronte della condotta chi, dopo essersi rifornito di carburante presso un distributore con l'ausilio dell'addetto alla erogazione, si allontani senza corrispondere il prezzo e minacciando quest'ultimo, posto che la sottrazione, in quanto condotta a forma libera, può realizzarsi in esito ad una proposta di acquisto apparentemente lecita, ma viziata da riserva mentale, ed essere seguita, poi, dall'uso della minaccia o della violenza, finalizzate a consolidare il possesso del bene sottratto (Cass. II, n. 16931/2025). Se la violenza o la minaccia sia esercitata nei confronti di un pubblico ufficiale, avendo la condotta realizzato gli estremi di due reati (rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale), che hanno una diversa e autonoma individualità giuridica, sono applicabili le disposizioni concernenti il concorso di reati. La Corte costituzionale (Corte cost., n. 190/2020) ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 628, comma 2, c.p., sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 2, 27, comma 3, Cost. e inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 628, comma 2, c.p., sollevata dal Tribunale ordinario di Torino in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. I giudici rimettenti avevano sottolineavano come, per il reato di rapina cosiddetta impropria la disposizione censurata commina le stesse pene previste, al primo comma del medesimo art. 628 c.p., per la rapina cosiddetta propria con valore edittale minimo per la reclusione pari dapprima a quattro anni (da applicarsi nel giudizio che ha originato l'ordinanza r.o. n. 130/2019), e poi elevato a cinque anni ex art. 6, comma 1, lett. a), l. n. 36/2019, recante «Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa» (da applicarsi nei giudizi che hanno originato le ordinanze r.o. n. 156 e n. 241/2019). I giudici delle Leggi hanno in sintesi sottolineato: 1) che non è vero che le due condotte di rapina punite dall'art. 628 c.p. rivelino necessariamente differenze in termini di capacità criminale del soggetto agente perché in entrambi i casi, si tratta di condotte consapevoli e volontarie, in cui l'oggetto del dolo comprende, sia l'impossessamento della cosa mobile altrui, sia il ricorso alla violenza o alla minaccia; 2) che è arbitraria tanto la generalizzazione per cui il rapinatore punibile ai sensi del primo comma dell'art. 628 c.p. agisce sempre secondo una volontà preordinata di ricorso alla violenza (se non addirittura in una condizione di vera “premeditazione”), quanto l'analoga generalizzazione che vede il responsabile di una rapina impropria agire con un dolo istantaneo, quasi insorto contro i suoi piani originari; che in entrambe le figure di rapina, ferma restando la voluta compresenza di un'aggressione al patrimonio e di un'aggressione alla persona, possono riscontrarsi situazioni variabili in punto di dolo e, più in generale, di capacità criminale desumibile dal fatto: situazioni appunto diverse in fatto, ma non distinguibili in principio; che non convince nemmeno l'argomento relativo alla soglia di consumazione del reato, che sarebbe più arretrata nella fattispecie di rapina impropria e dovrebbe quindi implicare una minore gravità del fatto sul piano obiettivo della lesione; che, se è vero che nelle due forme di rapina, non è perfetta, al di là della sequenza diversamente ordinata, la sovrapposizione tra gli elementi costitutivi del reato, è però priva di fondamento, la pretesa che una siffatta differenza imponga un diverso trattamento sanzionatorio delle due fattispecie, soprattutto perché l'opzione legislativa, che invece lo parifica, non è certo qualificabile come frutto di irragionevolezza manifesta, la sola che giustificherebbe l'intervento della Corte Costituzionale (ex plurimis, Corte cost. nn. 212, 155, 155, 115, 112, 88 e 40/2019, nonché C. Cost. ord. n. 66/2020). Casistica Ai fini della sussistenza del reato di rapina impropria, la violenza deve essere esercitata nei confronti della persona e deve tendere a impedire al derubato di ritornare in possesso della cosa sottrattagli ovvero a procurare l'impunità all'agente; pertanto la violenza, consistente nell'estrinsecazione di energia fisica che arrechi pregiudizio alla persona, può essere esercitata con qualsiasi strumento e quindi anche con un mezzo meccanico, quale l'automobile, non destinato per sua natura all'offesa; nel caso di fuga con tale mezzo occorre verificare, quindi, se non sono stati travalicati i limiti normali di uso dell'autoveicolo ovvero se sono state attuate manovre dirette a ostacolare l'attività di persone con incombente minaccia alla loro incolumità: nel caso di specie era stata usata violenza al derubato che, nel tentativo di ostacolare la fuga dell'autore del furto del veicolo, si era aggrappato allo sportello per togliere le chiavi dal cruscotto ed era perciò caduto sul selciato in seguito alla brusca partenza del ladro; la violenza richiesta per integrare il delitto di rapina impropria consiste nella esplicazione di una energia fisica, anche minima, posta in essere dall'agente contro il soggetto passivo, idonea a produrre coazione fisica, assoluta o relativa, ma anche (idonea) a vincere l'azione del soggetto passivo tendente o a recuperare la refurtiva o a impedire che il ladro si dia alla fuga, assicurandosi l'impunità; quindi la violenza medesima può consistere in una semplice spinta o in uno strattone, o nel divincolarsi o comunque nel mettere le mani addosso al derubato (Cass. II, n. 9029/1984). Configura la violenza alla persona quale elemento materiale della rapina impropria il frapporre un ostacolo all'autonomia psico-fisica della vittima in modo tale da impedire alla stessa l'inseguimento del rapinatore, così da assicurare a quest'ultimo il possesso della cosa sottratta e/o l'impunità: nel caso di specie era stata sbarrata l'uscita carraia posizionando una autovettura in modo tale da impedire qualsiasi tentativo di inseguimento del rapinatore (Cass. II, n. 39941/2002). Commette il reato di rapina impropria colui che, impossessatosi di un'autovettura, trascini il proprietario aggrappatosi al veicolo per impedire che gli venga portato via e, nel tentativo di scaricare la vittima, proceda a forte velocità e a zig zag fino a farla rovinare a terra; tale condotta, infatti, posta in essere allo scopo di impossessarsi dell'autovettura e di assicurarsi l'impunità, costituisce la violenza fisica contemplata nella norma (Cass. II, n. 9005/1984). Integra il reato di rapina impropria il soggetto che, dopo essersi impossessato dell'altrui autovettura, ne faccia uso per recare violenza alla persona offesa per impedirle di tornare in possesso dell'autovettura stessa (Cass. II, n. 25724/2011). Risponde di rapina impropria il ladro che ricorre alla violenza per fuggire dopo essere stato scoperto (Cass. II, n. 4826/2011). L'autore di un furto aggravato dall'uso del mezzo fraudolento che, dopo essersi fatto consegnare una somma di denaro al fine di effettuarne il cambio con banconote di diverso taglio, se ne sia impossessato dandosi repentinamente alla fuga commette il delitto di rapina impropria quando faccia uso di violenza per assicurarsi il possesso del denaro (Cass. II, n. 47416/2013). Elemento soggettivoLa rapina propria richiede, da un lato, il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, ma tale requisito soggettivo deve essere accompagnato da quello, specifico, rappresentato dalla coscienza e volontà di adoperare a tale scopo la violenza o la minaccia, al fine di trarre, per sé o per altri, un ingiusto profitto (Antolisei, 412). Il profitto può consistere in «qualsiasi vantaggio o soddisfazione» che l'agente si procuri o miri a procurarsi, non essendo necessaria una «effettiva locupletazione». Quindi, profitto non è soltanto il vantaggio economico e, più in generale, l'incremento del patrimonio, ma qualunque soddisfazione o piacere che l'agente si riprometta dalla sua azione criminosa. Senza dubbio, di regola, il profitto consiste in una utilità pecuniaria, ma ciò non è indispensabile: l'utilità può essere anche di natura diversa. La Cassazione ha ritenuto che l'ingiusto profitto può essere costituito anche dalla finalità di umiliare la persona offesa o di darle un avvertimento: Cass. I n. 6797/1980; Cass. III n. 226/1986: nella specie la Suprema Corte ha annullato la decisione dei giudici di merito che avevano escluso la rapina, derubricandola in danneggiamento aggravato, poiché gli imputati avevano gettato subito in mare l'orologio violentemente sottratto alla vittima al fine di danneggiarlo o disperderlo; Cass. II n. 7778/1990: fattispecie in tema di sottrazione della pistola di ordinanza ad un carabiniere, nel corso di una violenta colluttazione; Cass. II n. 12800/2009: la Corte ha riconosciuto la sussistenza dell'elemento psicologico del reato anche nella fattispecie relativa alla sottrazione di un'arma ad una guardia giurata al solo fine di umiliare la vittima; Cass. II n. 49265/2012: la Corte ha ritenuto, nella specie, che il fine di ottenere «un bacio» in cambio della restituzione di un monile sottratto integrasse l'utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo da quello di violenza privata; Cass. II n. 11467/2015: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il dolo specifico del reato di rapina nella ingiusta utilità morale perseguita dall'imputato, che aveva sottratto mediante violenza alla ex fidanzata il telefono cellulare, al fine di rivelare al padre della donna, la relazione sentimentale che questa aveva instaurato con un altro uomo. Una parte della dottrina si esprime in termini critici nei confronti di questa depatrimonializzazione e afferma che il delitto di rapina dovrebbe esulare tutte le volte in cui il fatto sia commesso per una finalità extra economica (Fiandaca Musco, 131): contra in adesione all'orientamento giurisprudenziale dominante (Antolisei, 412). In ogni caso il profitto deve sempre derivare dalla cosa sottratta in modo diretto o indiretto. In tale prospettiva finalisticamente orientata, è ben possibile ritenere, come la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di sottolineare, che il reato può essere integrato anche dal cosiddetto dolo concomitante o sopravvenuto, in quanto la coscienza e volontà del soggetto attivo, dovendo cadere sulla funzione e sulla efficacia della minaccia o della violenza, strumentali rispetto all'impossessamento, non devono necessariamente preesistere all'inizio dell'attività integratrice dal reato, ma possono insorgere anche in un secondo momento, peraltro durante il compimento degli atti di violenza o di minaccia. Alla luce di quanto indicato deve leggersi l'affermazione giurisprudenziale secondo la quale «ai fini della sussistenza del delitto di rapina, è sufficiente che l'agente ponga in essere l'impossessamento, allorché la minaccia è già in atto, non essendo necessario che la minaccia sia finalizzata a tale scopo fin dal primo atto» (Cass. I, n. 10097/1974; Cass. II, n. 4667/1988; Cass. II, n. 12353/2010; Cass. II, n. 3116/2016 che ha affermato che in tema di rapina, l'elemento psicologico specifico può essere integrato anche dal cosiddetto dolo concomitante o sopravvenuto, non essendo necessario che la violenza o la minaccia siano finalizzate all'impossessamento sin dal primo atto). Perché, tuttavia, la violenza o la minaccia possa ritenersi «soggettivamente» orientata al conseguimento della cosa attraverso lo spossessamento, al fine ultimo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, è ontologicamente necessario che il proposito sottrattivo insorga «non dopo» l'esaurimento della condotta coattiva, giacché, altrimenti, al di là dello iato temporale, che pure può distinguere tra loro le due fasi in cui si articola il fatto tipico (uso della violenza o minaccia e condotta sottrattiva), mancherebbe l'elemento della concatenazione finalistica, sul piano soggettivo, che qualifica ed integra la fattispecie di cui qui si tratta. In tale prospettiva è stato affermato che nella ipotesi di sottrazione di una cosa già appartenuta a persona uccisa, si configura il delitto di rapina e non quello di furto, qualora l'idea della sottrazione sorga e si formi prima della attuazione della violenza omicida, sempre che sussista un nesso di causalità apparente tra violenza ed impossessamento, nel senso che il secondo sia conseguenza della prima; mentre si configura, invece, il delitto di furto, qualora l'idea della sottrazione sorga soltanto dopo la consumazione dell'omicidio (Cass. I, n. 9594/1986; Cass. II n. 12353/2010). Deve aggiungersi che la temporaneità o transitorietà del profitto è irrilevante. Anche un vantaggio temporaneo o provvisorio, infatti, rappresenta un profitto. Questo può riguardare altresì una persona diversa dall'agente («per sé o per altri» si legge nella norma). Non è, invece, necessario, perché il delitto in esame sia perfetto, che l'agente consegua il profitto avuto di mira, trattandosi di un elemento non richiesto dalla norma e successivo all'impossessamento, che, come si è detto, contrassegna il momento consumativo della rapina propria. Il profitto avuto di mira dall'agente deve possedere il carattere dell'ingiustizia. È da escludersi, a questo proposito, che sia «giusto» solo il profitto a cui corrisponda un vero e proprio diritto soggettivo e più precisamente una pretesa che può essere azionata davanti all'autorità giudiziaria, e ciò perché nel nostro ordinamento esistono pretese, che, sebbene prive d'azione, ricevono tuttavia una tutela giuridica (ad esempio, le obbligazioni naturali). Quindi, è da considerare ingiusto il profitto che non è in alcun modo, e cioè né direttamente né indirettamente, tutelato dall'ordinamento giuridico. In particolare, il profitto non patrimoniale deve ritenersi ingiusto tutte le volte che sia in contrasto con l'ordinamento giuridico. In giurisprudenza è stato ritenuto che il cliente di una prostituta che, a fronte della prestazione mercenaria effettuata, ottenga la restituzione della somma di danaro versata per essa, con violenza o minaccia commette il delitto di rapina in quanto, trattandosi di negozio nullo per illiceità della causa, il pagamento effettuato non è ripetibile e il profitto conseguito dall'agente con la sua azione è, quindi, ingiusto, così come ingiusto è il danno per la vittima (Cass. II n. 7641/1986). Comunque, va rilevato che la sostanziale corrispondenza a giustizia del profitto avuto di mira, se vale ad escludere il delitto in questione, non significa sempre impunità, potendo residuare, a causa della violenza o minaccia esercitata, una responsabilità per un reato diverso e precisamente per il delitto di violenza privata (art. 610) e, nel caso di pretesa che può essere fatta valere davanti all'autorità giudiziaria, per il minore delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393). È chiaro, poi, che per l'esistenza del dolo non basta l'obiettiva ingiustizia del profitto, ma occorre, altresì, che chi agisce ne abbia consapevolezza. Nell'ipotesi di rapina impropria è evidente che l'art. 628 comma due richiede il dolo specifico del profitto ingiusto e l'ulteriore dolo specifico della coscienza è volontà di usare la violenza o minaccia, al fine di procurare a sé e ad altri il possesso o di procurare a sé e ad altri l'impunità. La giurisprudenza della Corte di cassazione evidenzia che nella rapina impropria lo scopo di procurarsi l'impunità ricorre ogniqualvolta la violenza o la minaccia sia commessa al fine di sottrarsi a tutte le conseguenze processuali e penali del commesso delitto (Cass II n. 5833/1986; Cass. VI n. 12962/1986). La Suprema Corte ha invece ritenuto che la minaccia all'agente della forza pubblica rivolta da un soggetto già dichiarato in arresto per tentato furto, non qualifica il tentativo di sottrazione effettuato come tentata rapina impropria, ma integra l'ulteriore fattispecie di cui all'art. 336 (Cass. II n. 4167/2003). Consumazione e tentativo nella rapina propriaIl reato di rapina propria si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l'impossessamento a nulla rilevando la mera temporaneità o momentaneità del possesso conseguito, quando esso si sia concretizzato nell'autonoma disponibilità della refurtiva da parte dell'agente, con correlativo spossessamento del legittimo detentore. In tal senso la giurisprudenza. In tema di rapina, la consumazione del delitto si realizza non appena l'agente si sia impossessato, con violenza o minaccia, della cosa, e cioè allorché la cosa sottratta passi nella esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità del predetto, con conseguente privazione, per la vittima del relativo potere di dominio o di vigilanza. Ne consegue che anche un possesso temporaneo della cosa vale ad integrare il momento consumativo, in quanto anche in tal caso le possibilità di recupero della refurtiva potrebbero avvenire solo con il ricorso da parte del rapinato alla violenza o ad altra decisa pressione sull'agente e, quindi, mediante una reazione di segno opposto all'azione delittuosa pienamente realizzatasi. (Cass. IV, n. 20031/2003: nella specie, il bottino fu recuperato dalle forze dell'ordine solo dopo l'inseguimento e l'arresto dei malviventi). Integra il momento consumativo del delitto di rapina propria anche un possesso temporaneo perché esso si perfeziona non appena l'agente si impossessi, con violenza o minaccia, della cosa sottratta, ovverosia allorquando quest'ultima passi nella esclusiva detenzione e nella materiale disponibilità del predetto, con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio o di vigilanza (Cass. I, n. 8073/2010) Il reato di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l'intervento dell'avente diritto o della Forza pubblica. (Cass II, n. 3506/2010; in tale senso anche Cass. II, n. 5512/2014: Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto consumata la rapina in banca commessa dall'imputato, che, dopo essersi impossessato del denaro, veniva bloccato all'interno dell'istituto dal sistema girevole di accesso e successivamente immobilizzato da una guardia giurata). Per aversi consumazione non occorre che l'agente si sia appropriato dell'intero bottino, ma è sufficiente che si sia impossessato di alcuni beni, anche se l'azione criminosa prosegua per sottrarre altre cose. Il reato non viene meno se, successivamente, l'agente abbandoni spontaneamente la refurtiva (in tal senso Cass. II, n. 22098/2015. Nessun dubbio sulla configurabilità del tentativo di rapina propria che sussiste allorché il soggetto attivo, pur avendo fatto uso di idonea violenza o minaccia, non sia riuscito a pervenire all'impossessamento o, a maggior ragione, alla sottrazione di alcunché. Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Cass. II, n. 9638/2025). In tal senso la giurisprudenza di legittimità. Per la configurabilità del tentativo di rapina occorre che la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea a produrre l'impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia e che la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire l'intento criminoso. (Cass. II, n. 3596/1994: nella fattispecie, ove l'univocità degli atti risultava pure dalle ammissioni dell'imputato, è stato stabilito che integra il tentativo di rapina l'atto di dirigersi verso i locali d'una banca impugnando una pistola). Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo. (Cass. II n. 46776/2012: in applicazione di questo principio, la Corte ha ritenuto che correttamente fosse stato configurato il tentativo di rapina in un caso in cui gli agenti, in numero di tre, si erano posizionati davanti ad un ufficio postale ed uno di essi si accingeva a sfondare il vetro all'ingresso guidando un furgone puntato verso di esso e rinforzato nella parte anteriore con tubi metallici; (Cass. II, n. 40912/2015: fattispecie relativa alla presenza in ora notturna, all'ingresso del parcheggio di un supermercato, di tre persone, una delle quali — alla vista degli agenti — aveva gettato in terra un berretto modificato in passamontagna mediante due fori per gli occhi, mentre gli altri due avevano guanti in lattice e un coltello a serramanico. In applicazione del principio di cui in massima, la S. C. — valorizzando altresì la presenza in zona dell'auto degli indagati anche il giorno precedente, rilevata dal sistema satellitare installato a bordo — ha ritenuto sussistente il concorso nel tentativo di rapina. In tal senso si veda anche Cass. II, n. 25264/2016 che ha ritenuto legittima la condanna per concorso nel tentativo di rapina di due soggetti - uno dei quali in possesso di un taglierino e di una sacca utilizzati per compiere altre rapine - che avevano lasciato l'auto nei pressi di un ufficio postale con le portiere aperte e la chiave nel quadro di accensione, avevano cercato di sottrarsi al controllo di P.G. fornendo spiegazioni contrastanti circa la loro presenza "in loco", ed avevano intrattenuto tra loro conversazioni intercettate da cui emergeva il comune intento di dissimulare la ragione di tale loro presenza). È affermato in giurisprudenza che in tema di rapina, le diverse condotte di violenza o minaccia finalizzate a procurarsi un ingiusto profitto mediante impossessamento di cose mobili altrui, sottraendole a chi le detiene, costituiscono autonomi tentativi di rapina, unificabili sotto il vincolo della continuazione, quando singolarmente considerate in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e all'elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità; si ha, invece, un unico tentativo di rapina, pur in presenza di molteplici atti di violenza o minaccia, allorché gli stessi siano sorretti da un'unica volontà e continua determinazione, che non registri interruzioni o desistenze in modo da costituire singoli momenti di una sola azione (Cass. VI, n. 9952/2003; Cass. II, n. 41167/2013; Cass. II, n. 2542/2015). Tale principio di diritto è stato di recente ribadito in relazione al caso di quattro accessi degli imputati alla medesima abitazione, effettuati nell'arco temporale di oltre una settimana, in esito al compimento di plurimi sopralluoghi, al reperimento di armi, di arnesi da scasso e di telefoni cellulari, alla dettagliata pianificazione delle modalità esecutive dell'azione predatoria e alla ripartizione dei ruoli, senza che l'illecito fosse portato a compimento per cause sempre indipendenti dalla volontà dei soggetti agenti, sì da integrare plurimi e autonomi tentativi di rapina (Cass. II, n. 7663/2025). Non si configura un reato impossibile nel caso in cui il bene, oggetto del delitto di rapina, abbia un modesto valore patrimoniale, in quanto l'inesistenza dell'oggetto materiale del reato acquista rilevanza giuridica, ed esclude la sussistenza del delitto, soltanto quando esso sia inesistente «in rerum natura» oppure sia assoluta ed originaria. Così in giurisprudenza dove si è affermato che in tema di tentata rapina la non punibilità dell'agente per inesistenza dell'oggetto può aversi solo quando l'inesistenza sia assoluta, cioè quando manchi qualsiasi possibilità che in quel contesto di tempo la cosa possa trovarsi in un determinato luogo e non, invece, quando essa sia puramente temporanea e accidentale. (Cass. II, n. 3189/2009; Cass. II, n. 8026/2014: fattispecie nella quale è stata affermata la sussistenza del reato di tentata rapina, benché risultasse non determinato l'importo della somma che doveva essere sottratta). È configurabile il tentativo e non la desistenza volontaria nel caso in cui il soggetto agente, dopo essere entrato in un esercizio commerciale con il volto travisato e con un grosso coltello da cucina in mano, intimando ai gestori di consegnargli quanto incassato, si sia allontanato avendo verificato che nel registratore di cassa non vi era denaro (Cass. II, n. 51514/2013). Allo stesso modo è configurabile il tentativo e non la desistenza nel caso in cui l'imputato, intenzionato ad introdursi nella banca per compiervi una rapina, era stato fermato dalle guardie all'ingresso che gli avevano trovato addosso un taglierino pronto all'uso (Cass. II, n. 41484/2009). Per costante giurisprudenza di legittimità per configurare l'ipotesi della desistenza è necessario che la determinazione del soggetto agente di non proseguire nell'azione criminosa si sia verificata al di fuori di cause che ne abbiano impedito la prosecuzione o l'abbiano resa vana e fra tali cause va annoverata non solo la resistenza opposta dalla parte offesa, ma anche l'intervento di qualsiasi fattore esterno tale da impedire il prosieguo dell'azione o da renderlo vano. Consumazione e tentativo nella rapina impropriaMentre il momento consumativo della rapina propria coincide con l'impossessamento, la rapina impropria si consuma nel momento nel luogo in cui, esaurita l'azione di sottrazione, si verifica la violenza o minaccia per uno degli scopi indicati dall'art. 628. Il delitto di rapina impropria è consumato quando l'avente diritto ha perduto il proprio controllo sulla cosa, e non è più in grado di recuperare la stessa autonomamente e l'agente, immediatamente dopo la sottrazione, adopera la violenza o la minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso del bene sottratto o per procurare, a sé o ad altri l'impunità; è, invece, tentato quando l'avente diritto mantiene costantemente il controllo sulla res in modo da essere in grado di riprenderla autonomamente con sé e l'agente, immediatamente dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a realizzare la sottrazione, adopera violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l'impunità. (Cass. II n. 46412/2014: fattispecie in cui la Corte ha qualificato in termini di rapina impropria tentata e non consumata, la condotta dell'imputato che, dopo aver prelevato merce dagli scaffali di un supermercato e rimosso le placche antitaccheggio, era stato sorpreso dal personale di vigilanza prima di varcare la barriera delle casse, ed aveva consegnato allo stesso i beni appresi, per poi darsi alla fuga ed usare violenza nei confronti degli inseguitori una volta raggiunto, al fine di non essere identificato). Il tentativo di rapina impropria appare per dottrina e giurisprudenza consolidata configurabile nell'ipotesi in cui, dopo la sottrazione della cosa altrui, il soggetto tenti di usare, senza riuscirvi, violenza o minaccia nei confronti di chi vuole impedirgli di assicurarsi il possesso della cosa e di procurarsi l'impunità. Controversa è invece la questione della configurabilità del tentativo nell'ipotesi in cui l'autore usi violenza o minaccia per sottrarsi alla cattura dopo aver tentato di sottrarre la cosa senza esservi riuscito. La giurisprudenza maggioritaria, avvalorata anche da una decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte ritiene sussista il tentativo di rapina impropria e non il furto tentato in concorso con altro reato contro la persona anche nell'ipotesi in cui la violenza o la minaccia segua un tentativo di sottrazione (Cass. S.U., n. 34952/2012; Cass. V, n. 32445/2001; Cass. II, n. 49213/2003; Cass. II, n. 17264/2004, Cass. II, n. 40156/2006; Cass. II, n. 38586/2007; Cass. II, n. 3769/2009; Cass. VI, n. 25100/2009; Cass. II, n. 44365/2010; Cass. II, n. 6479/2011; si veda anche Cass II, n. 46412/2014 che ha qualificato in termini di rapina impropria tentata e non consumata, la condotta dell'imputato che, dopo aver prelevato merce dagli scaffali di un supermercato e rimosso le placche antitaccheggio, era stato sorpreso dal personale di vigilanza prima di varcare la barriera delle casse, ed aveva consegnato allo stesso i beni appresi, per poi darsi alla fuga ed usare violenza nei confronti degli inseguitori una volta raggiunto, al fine di non essere identificato). La Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 56 e 628, comma 2, per violazione degli artt. 3 e 25 Cost., in relazione alla configurabilità della fattispecie di tentata rapina impropria, siccome in contrasto con il principio di legalità e il divieto di analogia, in quanto il delitto di rapina ha carattere plurioffensivo e natura complessa, essendo integrato da una condotta di sottrazione e impossessamento tipica del furto, cui si aggiunge l'elemento della violenza alla persona o della minaccia Cass. n.17827/2015 . La dottrina e altra parte della giurisprudenza ritengono, invece, necessario che la violenza o la minaccia sia successiva alla sottrazione realizzata, sia perché ciò corrisponde ad un'esigenza di tipicità dell'azione, sia perché una violenza o minaccia tentata, che non consegue ad una sottrazione completamente attuata, non può essere reputata diretta in modo non equivoco a commettere una rapina impropria (Adami, 609, Giannelli, 1164; Mantovani, 6; Pizzuti, 281; Zagrebelsky, 778; in giurisprudenza Cass. I, n. 5384/1979; Cass. II, n. 8799/1984; Cass. II, n. 9753/1988, Cass. V, n. 3796/1999, Cass. V, n. 32551/2007, Cass. VI, n. 4264/2009, Cass. V, n. 16952/2010). Concorso di personePer aversi concorso non è necessario che un soggetto partecipi a tutte le attività criminose, ma è sufficiente che egli ne compia una parte con la consapevolezza che altri ne compiranno il rimanente. In particolare, si afferma che, nella rapina impropria, risponde del reato anche chi, non avendo partecipato alla sottrazione della cosa, usi violenza o minaccia per assicurare all'autore della sottrazione il possesso della cosa sottratta o l'impunità. È necessario, tuttavia, che le due azioni siano almeno legate da un nesso psicologico, cioè di partecipazione almeno morale da parte del secondo agente all'azione delittuosa del primo. In giurisprudenza si è affermato che ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato non occorre un previo concerto, potendo sorgere una volontà che accomuni la condotta dei partecipanti anche nel repentino svolgersi di un fatto improvviso, mentre, d'altro canto, l'addebitabilità del reato a titolo di concorso morale prescinde dalla materiale partecipazione al fatto (Cass. II, n. 2811/1992: nella specie dei giovani erano penetrati con violenza sulle cose nell'abitazione di una donna e mentre si congiungevano carnalmente con la stessa tenendola immobilizzata, altri si impossessavano di una banconota da Lire 100.000 sottraendola da una tasca dei pantaloni della donna; la Cassazione ha ritenuto corretto l'assunto dei giudici di merito che avevano dedotto che la sottrazione del denaro compiuta in presenza di tutti gli aggressori ed in un contesto di comune violenza era stata condivisa e voluta da tutti e che anche chi non l'aveva materialmente compiuta aveva contribuito a realizzare l'evento delittuoso — ritenuto integrare il delitto di rapina — come concorrente morale). Qualora la violenza fisica venga posta in essere da uno soltanto dei correi, nel mentre un secondo approfitti dello stato di soggezione, in cui versa la vittima, per rovistare nell'appartamento ove il delitto viene consumato, ed un terzo si collochi sull'uscio, con funzioni di palo, percependo l'uso della violenza, tutti rispondono del reato di rapina, avendo essi accettato l'uso della violenza e partecipato paritariamente all'Azione criminosa (Cass II n. 11703/1989). In tema di varianti individuali al piano comune si domanda se, allorché uno o alcuni soltanto dei concorrenti, che avevano progettato un furto, ricorrano alla violenza o alla minaccia, tutti debbano rispondere di rapina ovvero alcuni di rapina e altri di furto. Per la giurisprudenza la soluzione del quesito è dettata dall'art. 116. La responsabilità del compartecipe ex art. 116 può essere configurata solo quando l'evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale) e, dunque, a condizione che non sia stato considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata. In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto configurabile a carico dell'imputato, autore materiale di una rapina impropria, il concorso ex art. 110 in relazione alle lesioni, che i correi durante la fuga provocavano alla vittima. (Cass. II, n. 49486/2014) Non è configurabile l'ipotesi del «reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti», prevista dall'art. 116, qualora i correi versino in dolo alternativo (equiparato al dolo diretto), avendo agito con la volontà di commettere indifferentemente il furto con strappo o il più grave delitto, in concreto perpetrato, di rapina impropria (Cass II n. 1979/1992) È stato affermato che il concorso di persone nell'omicidio seguito a una rapina a mano armata in danno del titolare di una gioielleria è, ai sensi dell'art. 110, pieno e non anomalo (art. 116) atteso che l'evento omicidiario verificatosi non può considerarsi eccezionale e imprevedibile ma un ordinario possibile suo sviluppo, alla luce di una verificata regolarità causale dovuta all'uso delle armi per fronteggiare evenienze peggiorative o per garantirsi la via di fuga (Cass. I, n. 25239/2001). La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario ex art. 110, se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave, mentre configura il concorso anomalo ex art. 116, nel caso in cui l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza. (Cass. I, n. 4330/2012: nella specie, la Corte ha ritenuto integrato il concorso ordinario nel tentato omicidio di un agente di una pattuglia della polizia, intervenuta per sventare un furto trasmodato in rapina impropria alla luce della reazione violenta di tutti i partecipi contro gli agenti operanti, in quanto, pur essendo il fatto stato commesso da uno dei compartecipi facendo uso della pistola sottratta durante la colluttazione, l'episodio più grave doveva comunque considerarsi innestato in una condivisa violenta reazione all'intervento della polizia). In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ex art. 116 può essere esclusa solo quando il reato diverso e più grave si presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestato, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di causalità. (Cass. II, n. 3167/2014: fattispecie relativa ad una rapina in banca, nella quale l'imputato, rimasto fuori dall'istituto di credito, è stato ritenuto colpevole a titolo di concorso ex art. 110 e non ex art. 116 anche per i reati di sequestro di persona degli impiegati e di detenzione e porto dell'arma utilizzata dai complici per l'esecuzione del delitto). La Corte di Cassazione ha ritenuto colpevole a titolo di concorso ex art. 110 con l'autore materiale, l'imputato, che è rimasto in automobile rientrando in uno sviluppo dinamico prevedibile il passaggio dalla violenza sulle cose, tipico della concordata fattispecie di furto con strappo, alla violenza sulle persone Cass. II n. 48330/2015 . Circostanze specialiPer effetto dell'art. 628 comma 3 la rapina — sia propria che impropria — è aggravata: 1. se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite; 2. se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; 3. se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis ; Così come per il furto, anche per la rapina il legislatore con la novella del 2009 (pacchetto sicurezza varato con l. n. 94/2009) ha ritenuto di introdurre tre nuove circostanze aggravanti. Il d.l. n. 93/2013, convertito in l. n. 119/2013, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», ha introdotto due nuove circostanze aggravanti ad effetto speciale per il delitto di rapina. La prima, inserita nel n. 3-bis del comma 3 dell'art. 628 estende l'aggravamento di pena, accanto ai luoghi di privata dimora, ai «luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa». La seconda concerne la commissione del fatto ai danni di persona ultrasessantacinquenne (art. 628, comma 3, n. 3-quinquies). 3-bis. se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'art. 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 3-ter. se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto; 3-quater. se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro; 3-quinquies. se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne. La Corte di Cassazione ha precisato che, nel caso in cui due o più aggravanti speciali, di cui all'art. 628, comma 3, concorrono con una o più aggravanti comuni, il giudice è chiamato a determinare la pena base all'interno della cornice edittale prevista dall'art. 628, comma 4, e ad operare successivamente gli aumenti obbligatori per le ulteriori aggravanti comuni, entro i limiti di cui agli artt. 63 e 66 (Cass. II, n. 14652/2024). Violenza o minaccia commessa con armi La prevalente dottrina sostiene che la vis debba essere realizzata con un'arma vera, poiché l'arma simulata può avere la capacità intimidatrice ma non la pericolosità dell'arma vera e la sussistenza dell'aggravante non può essere fatta dipendere dal convincimento del soggetto passivo (Fiandaca Musco, 133; Zagrebelsky, 744; contra Manzini, 435). È necessario inoltre che l'arma si è esibita con modalità tali da far trasparire l'intenzione di farne uso se non si ottempera all'intimidazione (Mantovani, 107; Zagrebelsky, 744). La giurisprudenza meno recente concordava con tale orientamento dottrinale ritenendo, al più che il possesso di un'arma potesse rendere idonea la minaccia necessaria per la sussistenza del delitto di rapina, senza peraltro integrare l'aggravante. Con l'entrata in vigore della l. n. 36/1990 che ha apportato modifiche alla l. n. 110/1975 (art. 5) la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 3394/1992) ha affermato il principio che il semplice uso o porto fuori della propria abitazione di un giocattolo riproducente un'arma sprovvisto di tappo rosso non è previsto dalla legge come reato. L'uso o porto fuori della propria abitazione di un tale giocattolo assume però rilevanza penale soltanto se mediante esso si realizzi un diverso reato del quale l'uso o porto di un'arma rappresenti elemento costitutivo o circostanza aggravante, come avviene quando il giocattolo riproducente un'arma, sprovvisto di tappo rosso, sia usato nella commissione dei delitti di rapina aggravata (art.628, comma 3 n. 1, prima ipotesi). Ai fini della sussistenza del reato di rapina aggravata, per la realizzazione dell'effetto intimidatorio, che l'agente si propone per il conseguimento del suo scopo è pertanto sufficiente un'arma giocattolo, priva del dispositivo di identificazione. Analogamente più di recente Cass. II, n. 18382/2014. La sussistenza dell'aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 1, deve ancorarsi al dato obiettivo dell'uso dell'arma giocattolo priva del richiesto tappo rosso, a prescindere da ogni valutazione in ordine alla sua reale capacità intimidatoria; tuttavia si deve pur sempre trattare di un oggetto che abbia l'apparenza esteriore di un'arma, tale da ingenerare equivoco (Cass. II, n. 18382/2014; Cass. II, n. 4712/2017). La semplice simulazione della disponibilità di un'arma non integra l'aggravante: fattispecie nella quale uno dei rapinatori nel corso della rapina aveva tenuto una mano in tasca simulando la disponibilità di un'arma (Cass. II n. 3247/2010) è stato, però, ritenuto sufficiente che l'agente avesse indosso l'arma (Cass. II, n. 28865/2011) Riguardo alla nozione di «arma» si rinvia alle conclusioni espresse in sede di analisi dell'analoga aggravante speciale di furto contenuta nell'art. 625, precisando che all'arma — propria o impropria — utilizzata (non è sufficiente che l'agente l'abbia solo con sé) per realizzare la violenza o la minaccia sono equiparati «l'arma per uso scenico» e i «giocattoli riproducenti armi» senza visibile tappo rosso stabilmente fissato al vivo di volata (art. 5, l. n. 110/1975). Dal disposto dell'art. 4, comma 2, l. n. 110/1975, secondo il quale devono considerarsi armi, sia pure improprie, tutti quegli strumenti, anche non da punta o da taglio, che, in particolari circostanze di tempo o di luogo, possano essere utilizzati per l'offesa alla persona, deriva che anche un «matterello» o un «randello di legno», quando sia utilizzato a fine di minaccia e in un contesto aggressivo e quindi senza giustificato motivo, diventa uno strumento atto a offendere e deve quindi considerarsi arma, anche ai fini dell'applicazione delle relative aggravanti previste dall'art. 628, comma 3, n. 1; nell'affermare tale principio la Cassazione ha altresì escluso che fosse invocabile la normativa contenuta negli artt. 42 ss. t.u.l.p.s. e nell'art. 45 del relativo regolamento, perché superata dal predetto art. 4, l. n. 110/1995, che ha esteso la categoria delle «armi improprie», senza peraltro peccare di indeterminatezza; alle stesse conclusioni è pervenuta con riferimento al c.d. «taglierino», quando sia utilizzato al fine di minaccia in un contesto aggressivo, e, quindi, senza giustificato motivo, il quale deve pertanto considerarsi arma anche ai fini dell'applicazione delle aggravanti previste dall'art. 628, comma 3, n. 1 (Cass. VI, n. 41358/2010); parimenti è da considerarsi arma anche ai fini dell'applicazione delle circostanze aggravanti del delitto di rapina e dei delitti di lesione e di omicidio un bloccapedali per automobile se utilizzato al fine di minaccia in un contesto aggressivo e, quindi, divenuto strumento atto a offendere (Cass. II, 16 giugno 2009); costituisce arma impropria l'ago innestato in una siringa (Cass. II, n. 25012/2012 in tal senso anche Cass. II n. 27619/2016). Violenza o minaccia commessa da persona travisata È persona travisata quella il cui aspetto esteriore è alterato in qualsiasi modo purché atto ad impedirne o renderne difficoltoso il riconoscimento (da ultimo Cass. VI, n. 21890/2014: nella fattispecie l'aggravante è stata riconosciuta in relazione al travisamento realizzato indossando una leggera calza di seta). Il successivo riconoscimento non fa venir meno l'applicabilità dell'aggravante. Conforme la dottrina che identifica la ratio dell'aggravante nella maggiore pericolosità dell'aggressore che consapevole di essere irriconoscibile, è indotto a superare ogni prudenza, e nel maggior timore che egli incute nella vittima (Pizzuti, 223) È sufficiente ad integrare l'aggravante l'uso di un cappellino con visiera (Cass. II, n. 26599/2012). Se più persone concorrono nel delitto, è sufficiente che una sola di esse sia travisata. Violenza o minaccia commessa da più persone riunite Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto esistente sulla interpretazione del concetto di «più persone riunite», in relazione alla circostanza di cui all'art. 628, comma 3, nel senso che per la configurabilità dell'aggravante è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed nel momento in cui si realizza la violenza o la minaccia; il legislatore nella previsione di cui all'art. 628, comma 3, n. 1 ha delineato una «fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perché la fattispecie circostanziale contiene l'elemento specializzante della «riunione» riferito alla sola fase della esecuzione del reato e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece, il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva» (Cass. S.U., n. 21837/2012). Secondo la giurisprudenza la circostanza aggravante delle più persone riunite — integrata dalla simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia — non richiede quale connotato soggettivo la consapevolezza della partecipazione di altri concorrenti nel numero sufficiente ad integrare l'aggravante stessa, poiché essa, concernendo le modalità dell'azione, ha natura oggettiva e, conseguentemente, si comunica a tutti coloro che concorrono nel reato. (Cass II, n. 3199/2014: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata laddove aveva applicato l'aggravante in questione ai concorrenti morali non presenti sul luogo e nel momento in cui era formulata la richiesta estorsiva). In tema di rapina, la circostanza aggravante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento di realizzazione della violenza o della minaccia, a nulla rilevando che la persona offesa non abbia percepito la presenza anche di un secondo soggetto (Cass. II n. 50696/2014; in tal senso anche Cass. II, n. 36474/2011 considerato che la ratio dell'aggravante consiste anche nella maggiore pericolosità del fatto dovuta all'apporto causale del correo al momento e sul luogo del delitto. Inoltre, per concretizzare l'aggravante secondo parte della giurisprudenza non è necessario che tutti i compartecipi tengano contestualmente un atteggiamento minaccioso, bastando che la minaccia venga espressa da uno solo dei compartecipi con la contestuale presenza di costoro, sicché, nella percezione della vittima, l'atteggiamento minaccioso promani non dal singolo ma dall'intero gruppo degli aggressori (Cass. II, n. 9366/1988). La locuzione più persone esprime il concetto di pluralità che sussiste anche nel caso di due persone soltanto (Cass. S.U., n. 21837/2012). Tale circostanza aggravante che costituisce eccezione al disposto dell'art. 112 numero 1 esclude l'applicazione della circostanza aggravante comune prevista dalla norma citata in applicazione del principio genus per speciem derogatur sancito dall'art. 15 (Cass. n. 26542/2009). In senso contrario, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 36243/2009, Cass. n. 42738/2015 e Cass. n. 20217/2016) che hanno affermato che la circostanza aggravante dell'essere i correi in numero pari o superiore a cinque, prevista dall'art. 112, comma 1, può essere applicata cumulativamente all'aggravante speciale del reato di rapina delle più persone riunite, prevista dall'art. 628, comma 1, perchè non richiede, a differenza di quest'ultima, la presenza sulla scena criminosa di tutti i correi, sanzionando la maggiore pericolosità esplicata dalla dimostrata capacità di riunione ed organizzazione. Difatti, l’art. 112, comma 1, punisce più severamente la maggior pericolosità insita nella compartecipazione al reato di una pluralità di persone, idonea a determinare una più incisiva capacità criminale del gruppo, mentre l’ art. 628, comma 3, n. 1, sanziona più gravemente la maggiore forza intimidatrice derivante dalla violenza o della minaccia promanante simultaneamente da più persone compresenti all'azione predatoria, cui fa riscontro la minorata possibilità di difesa della vittima (Cass. V, n. 26876/2024). Violenza consistita nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire L'incapacità di volere si ha quando, con l'uso di mezzi idonei, si è posto il soggetto passivo in uno stato che non gli permetta di manifestare una volontà contraria al fatto del reo. Così è, ad esempio, nel caso dell'uso di narcotici o di altri stupefacenti, di alcoolici, o della suggestione ipnotica o in veglia. Anche i mezzi traumatici, che producono svenimento o altro stato simile, sono idonei. L'incapacità di agire è, invece, la fisica, materiale impossibilità di comportarsi secondo quanto detta la volontà ed è prodotta da espedienti quali l'uso di legami o di bavagli, la costrizione in un locale chiuso, la somministrazione di sostanze chimiche temporaneamente paralizzanti, ecc. Lo stato di incapacità di volere o di agire, nel quale l'agente ha posto il soggetto passivo, può anche essere momentaneo, purché di esso si sia giovato l'agente stesso per sottrarre la cosa o per altro dei fini indicati nell'art. 628. La giurisprudenza afferma che lo stato di incapacità di volere o di agire può essere procurato anche mediante l'uso di sostanze stupefacenti o con qualsiasi altro mezzo (Cass. II, n. 10075/1987). Quando la privazione della capacità di agire non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione del delitto, ma ne preceda o ne segua l'attuazione, in ogni caso protraendosi oltre il suddetto limite temporale, è preclusa, in ragione del principio di specialità, la possibilità della applicazione dell'aggravante, che rimane assorbita dal concorrente reato di sequestro di persona (Cass. II, n. 3604/2014). Il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall'art. 628, comma 3, n. 2, soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifica e si esaurisce col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l'attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo anche se finalisticamente collegato alla rapina ancora da porre in esecuzione o ne segua l'attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione. (Cass. II n. 22096/2015: fattispecie relativa ad una rapina in banca, nella quale è stato ritenuto il concorso dei due reati, in ragione del fatto che i dipendenti della agenzia erano stati costretti con minaccia ad intrattenersi in un locale e a rimanervi per un tempo apprezzabile anche dopo l'esaurimento della condotta criminosa e l'allontanamento dei rapinatori). Il reato di procurata incapacità mediante somministrazione di sostanze stupefacenti, previsto dall'art. 613, non può concorrere con la rapina aggravata ai sensi del n. 2, comma terzo dell'art. 628, che riguarda il caso in cui la violenza sia consistita nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire, in quanto quest'ultimo reato, così circostanziato, è costituito dalla fusione del reato di furto con quello di procurata incapacità, dando luogo ad un'unica fattispecie criminosa, secondo il principio di specialità che regola il concorso apparente di norme e che trova applicazione specifica nella configurazione del reato complesso (Cass. II, n. 50155/2014; in senso conforme Baccaredda BoyLalomia) Violenza o minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416- bis La circostanza aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3, si concreta nel solo fatto dell'appartenenza del rapinatore a un sodalizio criminoso del tipo descritto dall'art. 416-bis e non richiede che costui per commettere il reato manifesti o faccia intendere alla vittima tale sua qualità e si avvalga, quindi, della forza intimidatrice di tali associazioni. Che l'aggravante di cui al comma 3, n. 3, dell'art. 628. sia integrata dalla mera appartenenza all'associazione di tipo mafioso — rilevante come fatto storico —, non essendo richiesto l'accertamento in concreto dell'uso della forza intimidatrice derivante dalla predetta appartenenza, è stato chiarito dalla Suprema Corte già da prima che l'emergenza della lotta alla criminalità organizzata conducesse al varo della normativa di cui al d.l. n. 152/1991 (Cass. VI, n. 3792/1989). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 10/2001) hanno precisato che in tema di rapina ed estorsione, la circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito nella l. n. 203/1991 (impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli reati o finalità di agevolare, con il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione per delinquere di stampo mafioso) può concorrere con quella di cui all'art. 628, comma 3, n. 3 e art. 629, comma 2, (violenza o minaccia poste in essere dall'appartenente a un'associazione di stampo mafioso) Cass. II, n. 15429/2024; Cass. II, n. 20320/2024). In senso conforme Cass. II, n. 20228/2006; Cass. I, n. 43663/2007 secondo la quale l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991 (prevista per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis, relativo all'associazione per delinquere di tipo mafioso) è compatibile con l'aggravante di cui all'art. 629 comma 2 (consistente, in virtù del rinvio all'art. 628, nella violenza o minaccia posta in essere da soggetto appartenente ad associazione mafiosa), giacché, per l'applicazione di quest'ultima aggravante, è sufficiente l'uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia, né, in particolare, che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al sodalizio mafioso, mentre, nel caso della prima aggravante, pur non essendo necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio, occorre tuttavia accertare in concreto che l'attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo «mafioso»; ancora Cass. VI, n. 15483/2009. Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3, non è necessario che l'appartenenza dell'agente a un'associazione di tipo mafioso sia accertata con sentenza definitiva, ma è sufficiente che tale accertamento sia avvenuto nel contesto del provvedimento di merito in cui si applica la citata aggravante. (Cass. V, n. 26542/2009; Cass. I, n. 6533/2012 e Cass. n. 33775/2016). In tal senso da ultimo Cass. II n. 48448/2023. Fatto commesso nei luoghi di cui all'articolo 624- bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa La ratio dell'aggravante risiede nella esigenza di tutelare con maggiore incisività la sfera domiciliare della vittima che è maggiormente vulnerabile nel caso in cui venga sorpresa nella propria abitazione o in altro luogo. Per l'esame dei requisiti applicativi della circostanza si veda sub art. 624-bis. La nozione di «privata dimora» nella fattispecie di cui all'art. 624-bis è più ampia di quella di «abitazione» e comprende ogni luogo ove la persona si trattenga per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata (Cass. II, n. 24761/2015 secondo la quale è configurabile l'aggravante dell'introdursi in un luogo di «privata dimora», prevista dall'art. 628, comma 3, n. 3-bis, quando l'autore della rapina pone in essere la condotta delittuosa all'interno di un supermercato durante l'orario di apertura dello stesso, in quanto tale luogo è adibito dai dipendenti anche per atti della loro vita privata, seppur in modo transitorio e contingente. Cass. II n. 28045/2012 secondo la quale costituisce luogo di privata dimora l'area aperta al pubblico durante gli orari di ufficio di un'agenzia bancaria; Cass. n. 30957/2010: fattispecie relativa a furto commesso all'interno di un bar; Cass. IV n. 37908/2009). Secondo la Corte di Cassazione (Cass. II, n. 30419/2016)ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante di cui all'art. 628, comma 3, n. 3-bis, costituisce «luogo di privata dimora» ogni ambiente in cui la persona autorizzata a soggiornarvi sia titolare di uno «ius exludendi alios» e che sia in concreto idoneo a sottrarre il soggetto da ingerenze esterne e a proteggere il diritto alla riservatezza. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso l'aggravante con riferimento a rapine in banca consumate all'interno dei locali di ricezione della clientela in orari di apertura al pubblico. È stato altresì chiarito che il concetto di «privata dimora», ai fini della sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 628, comma 3, n. 3-bis, ricomprende tutti i luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata, ma deve essere inteso in maniera restrittiva e, pertanto, limitato ai soli luoghi destinati funzionalmente al compimento di attività che appartengono alla sfera privata di un soggetto(Cass. II n. 23981/2016 , in relazione a fattispecie in cui la S.C. ha escluso l'aggravante in relazione ad una rapina commessa all'interno di un supermercato durante l'orario di chiusura, nel quale, al momento del fatto, si trovavano due commessi ed un cliente). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione alle quali era stata sottoposta la questione : “se, ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis, i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di privata dimora" hanno affermato che "ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis, i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all'art. 624-bis esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare" (Cass. S.U., n. 31345/2017). Proprio l'applicazione del suddetto principio ha portato la Suprema Corte nella sentenza Cass. II, n. 12434/2020 a ritenere sussistente l’aggravante in argomento in fattispecie in cui il reato di rapina venne consumato all'interno di un magazzino che era destinato ad abitazione privata delle vittime, alle quali venivano sottratti anche beni personali ivi detenuti, sul presupposto che non aveva rilievo esclusivo la destinazione originaria del bene bensì quella impressa dall'uso fattone dai possessori. Nella sentenza si sottolinea il fatto che la circostanza che ad essere sottratti da quel magazzino destinato ad abitazione furono anche beni personali, portava a ritenere che il ricorrente ed il correo vollero proprio agire all'interno di un luogo destinato alla altrui dimora, e quindi ad affermare la sussistenza anche del profilo soggettivo della circostanza aggravante in argomento. La Corte ha ritenuto il pianerottolo, antistante l'abitazione, "luogo aperto al pubblico" in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini Cass. V n. 24755/2018. La commissione di una rapina in edificio o altro luogo destinato a privata dimora configura, dopo l'introduzione del n. 3-bis del comma terzo dell'art. 628, un «reato complesso», nel quale resta assorbito il delitto di violazione di domicilio (Cass. n. 40382/2014). In tal senso si veda anche Cass. II n. 30950/2018. Ai fini della circostanza aggravante di cui all'art. 628, comma 3, n. 3 bis, è sufficiente che la rapina sia commessa in uno dei luoghi previsti dall'art. 624-bis, non essendo rilevante che la vittima abbia o meno prestato il consenso all'ingresso in essi. (Nella specie è stata ritenuta la sussistenza della circostanza aggravante della rapina in luogo di privata dimora a carico di un uomo introdottosi nell'abitazione di una donna, consenziente all'ingresso, con il pretesto di consumare un rapporto sessuale Cass. II, n. 48584/2011, si veda anche Cass. II, n. 30959/2016 che ha ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante a carico di un giovane introdottosi nell'abitazione della nonna, inizialmente consenziente all'ingresso). La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 628, comma 3, n. 3-bis, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in quanto l'esclusione dal bilanciamento tra attenuanti ed aggravanti ivi prevista si fonda sul legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, estrinsecantesi in una tutela rafforzata dell'inviolabilità del domicilio, non potendo altresì ritenersi integrata la violazione del principio rieducativo della sanzione penale, essendo previste pene non irragionevolmente differenti e, comunque, proporzionate alla maggiore gravità dei fatti commessi all'interno del domicilio (Cass. II, n. 20208/2016). Fatto commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto La ragione giustificativa dell'aggravante è da ravvisarsi nella minorata difesa e quindi nella volontà del legislatore di creare delle zone di sicurezza nelle quale determinati comportamenti, già di per se rilevanti, assumono particolare gravità per il contesto nel quale vengono compiuti. Per pubblico trasporto, secondo la dottrina, deve intendersi il servizio di trasporto di persone o cose organizzate ed esercitato nel pubblico interesse, in modo che tutti cittadini o categorie di essi possono usufruirne, a pagamento o gratuitamente (Corbetta, Della Bellagatta, 192). In tal senso si veda Cass. II n. 49478/2023. Fatto commesso nei confronti di chi usufruisce di servizi di istituti di credito, uffici postali o ATM Lo scopo della tutela è da ricercarsi nella sicurezza delle operazioni di versamento e di prelevamento di denaro e altri valori nel particolare momento di vulnerabilità in cui la vittima si accinge a mettere al sicuro quanto appena riscosso (Corbetta, Delia Bellagatta, 192; Baccaredda Boy-Lalomia, 482) La dottrina ritiene che, nonostante il silenzio della norma, l'aggravante in esame sia da circoscrivere al caso in cui la sottrazione abbia ad oggetto il denaro appena prelevato e non quello già in possesso della vittima rivestendo questa ipotesi rilevanza per l'applicabilità dell'aggravante comune di cui all'art. 61 n. 5 (Corbetta, Delia Bellagatta, 192) Circa l'interpretazione data al riferimento temporale dell'avere la vittima in fruito dei servizi di istituti di credito una dottrina ritiene che è possibile comprender nella sfera applicativa della circostanza tutti i fatti che, sebbene non immediatamente successivi alla fruizione del servizio si pongono in stretta correlazione con questo in quanto proprio da questo traggono occasione (Baccaredda Boy-Lalomia, 483); secondo altra dottrina invece il lasso di tempo rilevante comprende l'arco temporale che va dall'erogazione o dal prelievo alla riposizione del denaro in tasca, nel portafoglio, nella borsa (Corbetta, Delia Bellagatta, 194). Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'art. 98, concorrenti con le aggravanti di cui al comma 3, nn. 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti. Secondo la giurisprudenza il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quelle aggravanti, previsto dall'art. 628, comma 4, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 251/2009, è formulato in modo generale ed assoluto per cui riguarda sia le circostanze attenuanti comuni, sia le circostanze attenuanti generiche che le circostanze attenuanti speciali. (Cass. II n. 47030/2013: fattispecie nella quale la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata in cui le circostanze attenuanti generiche e quella di cui all'art. 62 n. 6, erano state ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti di cui all'art. 628, comma 3). L’attenuante speciale della lieve entità del fatto A seguito dell'intervento della Corte costituzionale sul delitto di estorsione (Corte cost., n. 120/2023), che ha introdotto un'attenuante speciale ad effetto comune, nei casi di lieve entità, per la fattispecie ex art. 629 (al cui commento si rinvia), il Tribunale di Cuneo ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale, in relazione al delitto di rapina c.d. impropria, ex art. 628, comma 2. Il giudice a quo ha dubitato della legittimità costituzionale della norma rispetto agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. “nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. Nel caso di specie il fatto era stato commesso da più persone per impossessarsi di beni del valore di pochi euro, con minacce e spinte ai danni della persona offesa. Rispetto a tale modesta carica offensiva, il giudice a quo ha ritenuto irragionevole e sproporzionata la risposta sanzionatoria prevista dall'art. 628 c.p., con conseguente impossibilità di modulare e individualizzare la pena in rapporto all'effettiva gravità del reato, in violazione del canone di personalità della responsabilità penale e frustrando così funzione rieducativa della pena ex art. 27, comma 3, Cost. Ribadite le coordinate della giurisprudenza costituzionale in ordine al proprio potere di intervento (con richiamo a Corte cost., n. 112/2019), la Corte ha quindi affrontato nel merito la questione, ritenendola fondata (Corte cost., n. 86/2024). Si è proceduto, anche in questa sede, a delineare l'evoluzione normativa del delitto di rapina, caratterizzata da un progressivo inasprimento delle pene, specie nel minimo edittale, così da precludere l'accesso al beneficio della sospensione condizionale (non operante in caso di condanna oltre i due anni, salvo eccezioni). Viene quindi richiamata la sentenza del 2023 (Corte cost. n. 120/2023), al pari dei precedenti ivi citati (Corte cost., n. 68/2012; Corte cost. n. 244/2022), nella parte in cui si afferma che “la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” al cospetto di un minimo edittale particolarmente aspro implica il rischio di irrogazione di una sanzione non proporzionata all'effettiva gravità del fatto estorsivo, ove il fatto medesimo risulti immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire quel severo minimo”. La Consulta ha ritenuto tale ratio decidendi operante anche in relazione al delitto di rapina, stante la latitudine oggettiva e la varietà di condotte materiali non meno ampia di quella del delitto di estorsione, “poiché, anche nella rapina, la violenza o minaccia può essere di modesta portata e l'utilità perseguita, ovvero il danno cagionato, di valore infimo”. Si osserva inoltre che, pur sussistendo una sostanziale differenza tra i delitti di rapina ed estorsione, legata alla natura assoluta della coazione che caratterizza il primo delitto rispetto al secondo, il legislatore ha previsto cornici edittali analoghe, “sull'implicito presupposto che la libertà morale debba essere protetta non meno che la libertà fisica”. Stante dunque la equiparabilità delle due fattispecie, anche per cornice edittale, la Corte ha quindi rilevato che emerge una violazione dell'art. 3 Cost., “non sussistendo ragioni specifiche che valgano a giustificare l'esclusione dell'attenuante di lieve entità del fatto per il reato di cui all'art. 628, secondo comma, cod. pen.”. Nel contempo, secondo i giudici della Consulta, l'introduzione di analoga attenuante per il delitto di rapina trova fondamento costituzionale anche nei principi di individualizzazione della pena e di finalità rieducativa della stessa. Difatti, si osserva, “in presenza di una fattispecie astratta connotata, come detto, da intrinseca variabilità atteso il carattere multiforme degli elementi costitutivi «violenza o minaccia», «cosa sottratta», «possesso», «impunità», e tuttavia assoggettata a un minimo edittale di rilevante entità, il fatto che non sia prevista la possibilità per il giudice di qualificare il fatto reato come di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell'azione, ovvero alla particolare tenuità del danno o del pericolo, determina la violazione, ad un tempo, del primo e del terzo comma dell'art. 27 Cost.”. La Corte costituzionale ha pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 628, comma 2, c.p., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità (Corte cost., n. 86/2024). Nel contempo, la Corte ha ritenuto necessario estendere in via conseguenziale la declaratoria di incostituzionalità alla norma di cui al comma 1 dell'art. 628 c.p., che punisce invece la c.d. rapina propria (in cui violenza e minaccia operano ex ante rispetto alla sottrazione), stanti le medesime pene previste per tale forma di rapina e la sussistenza della medesima “necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, a garanzia della ragionevolezza, proporzionalità e capacità rieducativa della sanzione” (Corte cost., n. 86/2024). Nel merito, la successiva giurisprudenza di legittimità ha precisato che la neo-introdotta attenuante postula una valutazione del fatto nel suo complesso, sicché non è configurabile nel caso in cui la lievità difetti in rapporto all'evento in sé considerato o in ordine alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità e alle circostanze della condotta ovvero, ancora, in relazione all'entità del danno o del pericolo conseguente al reato, avuto riguardo al valore dei beni sottratti (Cass. II, n. 47610/2024, con riferimento a due rapine di apparecchi cellulari, perpetrate provocando lesioni alla persona offesa e in un contesto di atti persecutori, per le quali è stata esclusa). All'indomani dell'introduzione, per effetto della sentenza della Consulta, dell'attenuante speciale della lieve entità, la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata altresì a delimitare gli effetti di tale novum sui processi pendenti o già definiti. È stato, al riguardo, affermato dalla Corte di Cassazione che il condannato per il delitto di rapina all'esito di giudizio definito prima che la Corte costituzionale dichiarasse illegittimo l'art. 628, nella parte in cui non prevede la possibilità di diminuire la pena in caso di lieve entità del fatto, può chiedere al giudice dell'esecuzione di riconoscere la circostanza attenuante rideterminando il trattamento sanzionatorio, salvo che si versi in un caso di rapporto esaurito (Cass. I, n. 9599/2025). Qualora sia intervenuta una sentenza irrevocabile di patteggiamento, ex art. 444 c.p.p., la richiesta di rideterminazione in executivis della pena, presentata a seguito della dichiarazione di illegittimità dell'art. 628, deve rispettare lo schema procedimentale previsto dall'art. 188 disp. att. c.p.p., e, in caso di mancato accordo tra le parti, il giudice dell'esecuzione può provvedere ex officio alla rideterminazione solo nel caso in cui la pronuncia di incostituzionalità abbia determinato di per sé l'illegalità della pena, e non anche nel caso in cui essa possa conseguire a valutazioni discrezionali, eventuali ed incerte (Cass. I, n. 6225/2025). Con specifico riferimento alla richiesta di rideterminazione della pena patteggiata per il delitto di tentata rapina impropria, presentata all'indomani della sentenza della Corte costituzionale, la Corte ha confermato il provvedimento di rigetto del giudice dell'esecuzione, rilevando che la pronuncia di incostituzionalità non aveva reso la pena illegale in astratto, ma avrebbe potuto renderla tale in concreto solo all'esito di valutazioni discrezionali sulla sussistenza della attenuante della lieve entità e sul suo bilanciamento con le circostanze aggravanti (Cass. I, n. 6225/2025). È ammessa dalla giurisprudenza di legittimità la proposizione di un ricorso per cassazione, a seguito dell'intervento della Corte costituzionale, in funzione dell'annullamento della decisione di condanna in grado di appello se ad essa sopravvenuta, a condizione che la decisione oggetto di impugnativa non abbia, di fatto, escluso la lieve entità della condotta e che il ricorso indichi argomenti specifici a sostegno della necessità di un rinnovato vaglio degli elementi probatori, funzionale alla verifica della ricorrenza delle condizioni per la configurabilità dell'attenuante e alla concreta determinazione della riduzione sanzionatoria (Cass. II, n. 46006/2024) Qualora invece il processo sia ancora pendente, innanzi alla Corte di Cassazione, dovrà essere disposto un nuovo giudizio di merito nel caso in cui dalla motivazione della decisione impugnata, emessa anteriormente alla sentenza della Corte costituzionale, emerga che il fatto di reato di rapina, per cui v'è stata condanna, sia stato ritenuto di lieve entità, essendo necessario accertare se, in aggiunta alle già riconosciute attenuanti generiche e del danno di speciale tenuità, sussistano profili ulteriori di meritevolezza, valorizzabili ai fini della concessione della speciale attenuante della lieve entità del fatto, che non abbiano già formato oggetto di apprezzamento, posto che non è consentita una doppia valutazione favorevole del medesimo elemento (Cass. II, n. 45395/2024). In ogni caso, la Corte di cassazione, ove sia dedotta, con il ricorso, la mancata applicazione dell'attenuante della lieve entità del fatto in relazione a sentenza d'appello emessa prima della sentenza della Consulta, può valutare direttamente gli elementi costitutivi di detta diminuente, in applicazione della regola generale di cui all'art. 620, comma 1, lett. l), c.p.p. e, in ossequio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo, escludendola in base alle circostanze di fatto già accertate o alle statuizioni già adottate dal giudice di merito, senza disporre l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, nel caso in cui non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (Cass. II, n. 47610/2024). Non è invece possibile impugnare sentenza di concordato per omesso riconoscimento della lieve entità del reato, se questa era già deducibile in appello, ma non è stata invocata dalla difesa a pronuncia della Corte costituzionale che ha introdotto l'attenuante della lieve entità anche in relazione al delitto di rapina (Sez. II, n. 1798/2025). Ulteriori circostanze aggravanti specialiNumerose circostanze aggravanti speciali ad effetto speciale sono state introdotte con novellistica legislativa. Una di queste, ricollegata alle qualità personali dell'agente, è quella contenuta nell'art. 7, l. n. 575/1965 come modificato dall'art. 6, d.l. n. 152/1991, convertito con l. n. 203/1991: la disposizione prevede un aumento della pena da un terzo alla metà se il fatto (nell'elencazione è compresa anche la rapina) è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione, durante il periodo previsto di applicazione di questa e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione; ulteriore conseguenza comminata è l'applicazione di una misura di sicurezza detentiva. La circostanza si fonda su due requisiti, l'uno soggettivo, legato alla particolare qualità dell'agente, l'altro oggettivo, riferito al tempo in cui il reato viene commesso, e non richiede per la sua integrazione la conoscenza, da parte del destinatario della condotta, della qualità o condizione dell'agente; pur dovendosi ricondurre alla categoria delle circostanze soggettive, deve ritenersi che si estenda ai concorrenti non essendo ricompresa tra quelle elencate nell'art. 118. La dottrina ha evidenziato come «la formula utilizzata dal legislatore per descrivere le conseguenze sanzionatorie legate alla presenza della circostanza non brilla per completezza né per coordinamento con la disciplina pregressa. Per ciò che riguarda l'incidenza dell'aggravante in esame sull'entità effettiva della pena, la disposizione sembrerebbe un mero flatus vocis, privo di effettiva incidenza sulla disciplina sanzionatoria prevista per buona parte dei fatti in essa previsti. Trattandosi infatti di circostanza a effetto speciale, il suo eventuale (e, di solito, normale) concorso con quelle previste nel capoverso dell'art. 628, sottoposto alla disciplina dettata nell'art. 63, comma 3, ne comporterà la pratica inoperatività, legata al criterio del «cumulo giuridico» seguito nella specie dal legislatore. Per ciò che riguarda poi la previsione della sanzione finalizzata alla prevenzione speciale, il legislatore si limita a prevedere l'applicazione di una «misura di sicurezza detentiva» omettendo di precisarne la species. La questione va risolta nel senso di ritenere necessario, nel silenzio del legislatore, il ricorso in via extensa alla regola dettata in simile proposito con l'art. 215, comma 3, individuando quindi la misura di sicurezza da applicare nella «colonia agricola» o nella «casa di lavoro». Altra ragione di possibili dubbi, ancora più delicata (tenuto conto oltre il resto dell'estensibilità dell'aggravante ai partecipi), è costituita dall'apparente applicabilità tout court di una «misura di sicurezza detentiva», senza cenno alcuno all'accertamento in concreto della effettiva pericolosità sociale del soggetto; accertamento invece che, in base ai principi in parte risultanti dopo le note pronunce della Corte costituzionale e in parte introdotti con la novella del 1986, dovrebbe costituire iter obbligato prima di procedere all'applicazione di qualsiasi misura di sicurezza non patrimoniale» (in dottrina Marini, 199). Il legislatore, non tenendo assolutamente conto delle esatte osservazioni della dottrina, con l'art. 71, comma 1, d.lgs. n. 159/2011 ha integralmente sostituito il predetto art. 7, contestualmente abrogato. A fronte di giurisprudenza che afferma che la circostanza aggravante prevista dall'art. 7 l. n. 575/1965, e successive modifiche, si applica ai reati contemplati nella detta disposizione anche nel caso di condotta rimasta allo stadio del tentativo. (Cass. VI, n. 36640/2014: in motivazione, la Corte ha precisato che il disposto normativo deve essere interpretato secondo l'intenzione del legislatore, identificabile nella volontà di contrastare in maniera più efficace il comportamento di coloro che, colpiti da misura di prevenzione, commettono reati di particolare natura; conforme Cass. V, n. 809/2000) ve ne è altra di segno contrario che sostiene che l'aggravante di cui all'art. 7 l. n. 575/1965 (attualmente prevista dall'art. 71 d.lgs. n. 159/2011) è applicabile solo in caso di consumazione dei reati indicati nello stesso art. 7, senza possibilità di estensione al tentativo che costituisce una figura autonoma a sé stante, caratterizzata da una propria oggettività giuridica e da una propria struttura. (Cass. II, n. 6337/2014: fattispecie in cui la Corte ha escluso l'applicabilità dell'aggravante al tentativo di estorsione; in tal senso anche Cass. II, n. 36162/2014; Cass. II, n. 7849/1985). Altra aggravante speciale a effetto speciale extra codicem è prevista (art. 1, l. n. 107/1985) qualora i fatti di rapina siano commessi a danno di persona che gode della speciale protezione attribuitagli dall'art. 1 della Convenzione per la prevenzione e la repressione dei reati contro le persone internazionalmente protette adottata a New York il 14 dicembre 1973, quando il reato «è determinato, anche indirettamente, dalle funzioni esercitate dalla persona offesa». È stato rilevato come la circostanza, oggettiva, «mira ad assicurare, intuitu officii, una maggiore tutela a determinate categorie di soggetti, con una ratio uguale, pertanto, a quella della nota disposizione di cui all'art. 61, n. 10, nei cui confronti si presenta, allorché il soggetto passivo del fatto sia un agente diplomatico, come «circostanza speciale», prevalente ex artt. 61 e 68» (Marini, 201). È stato peraltro sollevato il problema del «valore da attribuirsi all'espressione «reati determinati, anche indirettamente, dalle funzioni esercitate dalla persona offesa», utilizzata dal legislatore italiano, ma non nella Convenzione, che (più correttamente) preferisce indicare per tipi i soggetti tutelati. Sul punto è stato ritenuto che il legislatore abbia voluto fare riferimento a eventuali «collegamenti trasversali» tra funzione esercitata dal soggetto e condotta costitutiva di reato. Data la latitudine della formula deve ritenersi che l'aggravante venga ad esistenza ogni qualvolta il fatto abbia a destinatario un collaboratore, quale che esso sia, dell'Agente diplomatico e non soltanto — come invece si dice nella Convenzione — un componente del suo menage familiare» (Marini, 202). La circostanza — estensibile ai concorrenti nel reato non essendo compresa nelle categorie elencate nell'art. 118 — è operante, stante la generica indicazione data dal legislatore al reato di «rapina», sia con riferimento a quella «propria», sia a quella «impropria», e deve ritenersi, in mancanza di disposizione contraria, che la stessa sia sottoposta alla disciplina contenuta negli artt. 63, comma 3, e 69: «ne deriva pertanto, da una parte, che l'effetto deterrente legato all'indurimento della reazione sanzionatoria è almeno parzialmente assorbito dal previsto cumulo giuridico dell'ipotesi circostanziale in esame con quelle formulate nel capoverso dell'art. 628, dall'altra che l'aumento della pena comportato dalla circostanza stessa può essere posto nel nulla ove si ritengano prevalenti le circostanze attenuanti eventualmente presenti» (Marini, 203). Ulteriore circostanza aggravante speciale a effetto speciale, applicabile a entrambe le forme di rapina, ma non al tentativo in mancanza di una previsione espressa in tal senso (parimenti deve ritenersi per le due precedenti circostanze aggravanti extra codicem), afferente alle qualità personali del destinatario della condotta, estensibile ai partecipi, è quella prevista dagli artt. 3 e 36, l. n. 104/1992, a tutela delle persone handicappate, tali essendo considerate quelle che presentano una «minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» (Marini, 204). La ratio della maggior tutela, ricollegata alla presenza di una situazione — derivante dall'handicap — di «svantaggio sociale o di emarginazione» deve ritenersi fondata sulla conseguente maggiore aggredibilità o, comunque, sulla situazione personale di minorata difesa. È stata rilevata una mancanza di coordinamento con l'aggravante comune di cui all'art. 61, n. 5 (l'aver profittato delle circostanze di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa) in quanto «si potrebbe ritenere che l'ipotesi delineata nell'art. 36 della legge in esame, in quanto riferentesi ad un dato rigorosamente oggettivo (ed «inerte»), la qualità naturalistica particolare propria del destinatario della condotta, si presenti come «parallela» rispetto all'ipotesi «comune» delineata nell'art. 61, n. 5; con la conseguente possibilità di pensare ad un concorso delle due aggravanti». L'Autore ritiene, tuttavia, di dovere così concludere: «Salvo a voler «leggere» l'art. 61, n. 5, in chiave esclusivamente soggettiva, incentrata sulla maggiore pericolosità dell'agente, e comunque, in una prospettiva «meno positivista», sulla maggiore riprovevolezza dell'atteggiamento psicologico dell'agente stesso, crederemmo che le «condizioni di minorata difesa personale» cui accenna l' art. 61, n. 5, ben possano essere ritenute comprensive della mera qualità di «minorato» traducentesi nel «processo di svantaggio ecc.» cui accenna l'art. 36, l. n. 104/1992. Se così è, si può pensare allora che, nella situazione ora in esame, ricorra un fenomeno di «continenza tra circostanze», in cui la circostanza «contenuta» (quella descritta nell'art. 36, l. n. 104/1992) esplica un più intenso effetto (nella specie: di aggravamento) rispetto alla circostanza «contenente» (quella di cui all'art. 61, n. 5, che — accanto alla condizione di minorata difesa — richiede il dato ulteriore dell'«approfittamento»); situazione di «continenza» che, ex art. 68, comporta comunque l'applicabilità della (sola) circostanza più intensamente efficace (nella specie: di quella in esame), con conseguente esclusione del concorso (materiale) tra le due ipotesi» (Marini, 205). Ulteriore aggravante del delitto di rapina è quella prevista dall'art. 4, comma 2, l. n. 533/1977, nel caso in cui l'agente si impossessa di armi, munizioni o esplosivi, commettendo il fatto «nelle armerie, ovvero in depositi o in altri locali adibiti alla custodia di essi», non presuppone una speciale qualificazione del soggetto detentore delle armi (forze armate, corpi armati dello Stato, fabbricanti e commercianti autorizzati) ma è applicabile in ogni caso in cui il reato di rapina abbia ad oggetto le armi o le munizioni o gli esplosivi in qualsiasi locale adibito a custodia degli stessi. (Cass. VI n. 5244/2000: nella specie si trattava di locale adibito al deposito di armi di istituto privato di vigilanza). Circostanze comuni
Con riguardo alla compatibilità tra il reato di rapina impropria e l'aggravante del nesso teleologico prevista dall'art. 61, comma1, n. 2, la Corte di Cassazione ( Cass., II, n. 21458/2019) ha affermato che “in tema di rapina impropria, qualora la violenza, esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni, cagioni lesioni personali o sia volta a determinare la morte della persona offesa, i corrispondenti reati di lesioni e di tentato omicidio concorrono con quello di rapina e si configura la circostanza aggravante del nesso teleologico ex art. 61, comma 1, n. 2, che non è assorbita nella rapina laddove la violenza esercitata dall'agente sia esorbitante rispetto a quella idonea ad integrare detto reato”. In questa pronuncia si precisa che nel delitto di rapina impropria la violenza e la minaccia integrano elementi costitutivi della fattispecie e sono intese ad assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa medesima o a procurare a sé o ad altri l'impunità. In sentenza viene indicato che la violenza costituisce elemento di fattispecie del delitto di lesione personale, ex art. 582, ma viene sottolineato come in caso di lesioni, attesa la maggiore gravità di questa figura di reato rispetto al delitto di percosse, determinandosi solo nel primo caso, e non anche nel secondo, una malattia nel corpo o nella mente, non è ripetuta una clausola del tenore dell'art. 581, comma 2, che regola il concorso di reati nel caso in cui la violenza costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato, e ne viene tratta la conclusione che, a differenza del delitto di percosse, il delitto di lesioni resta autonomamente apprezzabile accanto alla rapina impropria ancorché entrambi frutto della medesima condotta materiale. La violenza necessaria perché vi sia lesioni è di diversa e più grave intensità rispetto a quanto occorra per realizzare la rapina impropria, ossia un grado di violenza non eccedente le percosse, e non ne resta assorbita. In merito al nesso esistente tra l'acclarata compresenza delle due fattispecie di reato la decisione in esame lo individua nelle forme di cui all'art. 61, comma 1, n. 2, secondo cui costituisce circostanza aggravante l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il risultato del reato ovvero la impunità. Trattasi di problematica sulla quale, nella giurisprudenza di legittimità, si registra un contrasto tra una tesi affermativa ed una negativa. La decisione indicata espressione della tesi affermativa si inserisce nell'orientamento espresso nelle sentenzeCass. II, n. 36901/2011, (che ha riconosciuto l'aggravante del nesso teleologico nell'ipotesi di rapina impropria e lesioni); Cass. I, n. 21730/2019, Cass. I, n. 18116/2017, (che hanno riconosciuto l'aggravante del nesso teleologico nell'ipotesi di rapina impropria e omicidio) e Cass. II, n. 51576/2016 (che ha riconosciuto l'aggravante del nesso teleologico nell'ipotesi di rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale). Omologo principio è stato affermato anche in relazione alle diverse fattispecie di cui agli artt. 336 (Cass. VI, n. 32703/2014) e 337 c.p. (Cass. VI, n. 27703/2008, Cass II, n. 26435/2005) specificando che là dove la violenza esorbiti i limiti necessari per la realizzazione dei reati citati e sia integrato l'ulteriore reato di cui all'art. 582, quest'ultimo va considerato legato al primo dal nesso teleologico ex art. 61, comma 1, n 2. Espressione dell'indirizzo contrario alla tesi indicata sono, invece, Cass. I, n. 51457/2017; Cass. II, n. 42371/2006; Cass. I, n. 5189/1996, Semeraro ed altro; Cass. I, n. 12359/1990, D'Aversa, in cui, in tema di omicidio conseguente a rapina impropria, si nega la configurabilità dell'aggravante teleologica di cui all'art. 61, comma 1, n. 2. Tale opzione interpretativa si fonda sulla considerazione per cui l'aggravante deve ritenersi esclusa in quanto assorbita nel delitto di rapina impropria, in applicazione del principio di specialità, atteso che la volontà dell'agente di assicurarsi con violenza sulla persona il prodotto del bene sottratto o l'impunità è già di per sé elemento costitutivo di detto delitto. Secondo tali pronunce, ritenere l'omicidio aggravato ex art. 61, comma 1, n. 2 , comporterebbe una non condivisibile duplice valutazione dell'elemento intenzionale, che rileverebbe una prima volta come elemento costitutivo del reato e una seconda come circostanza aggravante. Sarebbe pertanto maggiormente coerente con la prevalente natura soggettiva dell'aggravante teleologica, posta a censurare la maggior riprovevolezza etica e la più alta pericolosità sociale di chi agisca delittuosamente in rapporto finalistico con un ulteriore delitto, ritenere che, una volta che la volontà del soggetto di assicurarsi con violenza sulla persona il prodotto del bene sottratto o l'impunità dalle sue conseguenze sia stata assunta come elemento costitutivo del delitto di rapina impropria, tale volontà non possa essere nuovamente valutata nella previsione sanzionatoria per il delitto di violenza contestualmente commesso. In merito all'applicabilità alla rapina di circostanze comuni la giurisprudenza ha affermato che, in tema di concorso di persone nel reato, l'attenuante della minima partecipazione, di cui all'art. 114 — anche qualora non sussista l'aggravante speciale e ostativa del fatto commesso da più persone riunite — non è applicabile a colui che attende il complice alla guida di un'autovettura per portarlo in salvo, poiché egli facilita il compimento dell'attività criminosa e rafforza l'efficienza dell'opera svolta dal correo, garantendone una rapida fuga dal luogo del commesso reato e una quasi certa impunità (Cass. I, n. 9458/1994); magari dopo aver anche fatto da «palo» (Cass. II, n. 46588/2011). Si veda anche Cass II, n.18540/2016 e precedenti conformi Cass. II, n. 6382/1996, Cass. VI, n. 6250/2003 che hanno precisato che In tema di concorso di persone nel reato, la disposizione del secondo comma dell'art. 114, secondo cui l'attenuante della minima partecipazione al fatto pluripersonale non si applica quando ricorra una delle circostanze aggravanti delineate all'art. 112 stesso codice, e, dunque, quando il numero dei concorrenti sia pari o superiore a cinque, si riferisce anche ai casi nei quali il numero delle persone concorrenti nel reato sia posto a base di un aggravamento della pena in forza di disposizioni specificamente riguardanti il reato stesso. (In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che l'attenuante possa essere riconosciuta nel caso di estorsione aggravata ai sensi del secondo comma dell'art. 629, che richiama, tra l'altro, l'ultima parte della previsione posta al n. 1) del comma terzo dell'art. 628, secondo cui la pena è aumentata quando il fatto sia commesso da più persone riunite). Con riguardo all'attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4) la giurisprudenza di legittimità ha affermato che ai fini della configurabilità di detta attenuante in riferimento al delitto di rapina, non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona (che non coincide necessariamente con il titolare del diritto sulla cosa sottratta) contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, atteso che il delitto de quo ha natura di reato plurioffensivo perché lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà e l'integrità fisica e morale aggredite per la realizzazione del profitto; ne consegue che, in applicazione della seconda parte della disposizione citata, solo ove la valutazione complessiva del pregiudizio sia di speciale tenuità può farsi luogo all'applicazione dell'attenuante (Cass. II n. 50987/2015; Cass. II, n. 41578/2006, Cass. II, n. 19308/2010; Cass. II; n. 21872/2001, Cass. II, n. 30275/2002, Cass. II, n. 41578/2006). A fronte di un indirizzo giurisprudenziale che riteneva che la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all'art. 62, n. 4, non è concedibile in astratto per il delitto di tentata rapina, poiché — anche a voler optare per la tesi della compatibilità della predetta attenuante con il delitto tentato — le modalità del fatto criminoso non sono tali da fornire la certezza che il danno (che si sarebbe verificato) sarebbe stato di speciale tenuità e cioè «lievissimo» (Cass. I, n. 3154/1986) si è di recente affermato diverso orientamento che, sul presupposto che le Sezioni Unite hanno riconosciuto la concedibilità dell'attenuante del danno di lieve tenuità anche nel caso di delitto tentato, affermando il principio secondo cui «nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima (Cass. S.U., n. 28243/2013) Le Sezioni Unite hanno ritenuto che, nel caso di tentativo di delitto contro il patrimonio e al fine di decidere sulla concessione della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 4, il giudice di merito è chiamato a verificare la possibilità di stabilire con certezza, mediante un giudizio ipotetico, l'entità del danno patrimoniale che sarebbe derivato alla persona offesa, qualora il delitto fosse stato portato a compimento, e — nel caso positivo — a valutare se il danno così individuato possa ritenersi di »speciale tenuità" (Cass. S.U.,n. 28243/2013; in tal senso anche Cass. II, n. 22130/2014). Le Sezioni Unite si sono, più di recente, altresì pronunciate in merito alla questione relativa ai presupposti in presenza dei quali è possibile riconoscere, in relazione al delitto di rapina, l'attenuante del danno di speciale tenuità. Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la invocata circostanza attenuante non può riconoscersi in favore dell'autore del delitto di rapina, al pari di quanto accade in relazione al delitto di estorsione, in ragione del solo modesto valore economico del bene sottratto. Come evidenziato dalle Sezioni Unite, infatti, occorre altresì valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia. Viene in tal senso valorizzata pertanto la natura plurioffensiva del delittodi rapina che, sebbene inserito nel Titolo XIII, dedicato ai reati contro il patrimonio, offende altresì la libertà fisica o psichica della persona offesa, vittima dell'aggressione fisica o verbale funzionale alla realizzazione del profitto. Sulla scorta di tali premesse, dunque, la Corte ha affermato che circostanza attenuante del danno di lieve entità può essere ritenuta sussistente soltanto nel caso in cui la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ai beni tutelati risulti di speciale tenuità, come già stabilito da numerosi precedenti di legittimità sul punto (più di recente Cass. II, n. 28269/2023). La Corte ha altresì individuato lo spazio temporale cui occorre far riferimento nella valutazione dell'entità del danno subito dalla persona offesa, affermando che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, il momento in cui deve prendersi in considerazione l'entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi (in tal senso già Cass. II, n. 39703/2019). Ne consegue che la successiva restituzione del bene sottratto alla persona offesa non costituisce circostanza rilevante ai fini della qualificazione del danno come di lieve entità, in quanto avvenimento successivo alla consumazione del reato. A sostegno di tale conclusione, la Corte evidenzia che, quando intende assegnare rilevanza alla condotta successiva al reato, il legislatore provvede espressamente in tal senso, come nel caso della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a seguito della c.d. Riforma Cartabia, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, ovvero della quantificazione della pena, ex art. 133 c.p. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, dunque, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato i seguenti principi di diritto: “ai fini della configurabilità, in relazione al delitto di rapina, della circostanza attenuante del danno dì speciale tenuità, non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, attesa la natura plurio-ffensiva del delitto de quo, che lede non soltanto il patrimonio, ma anche la libertà e l'integrità fisica e morale della persona aggredita per la realizzazione del profitto, con la conseguenza che, solo ove la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ad entrambi i beni tutelati sia di speciale tenuità, può farsi luogo al riconoscimento della predetta circostanza attenuante”; “ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, primo comma, n. 4, cod. pen., il momento in cui deve prendersi in considerazione l'entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi". Le coordinate offerte dalla sentenza in commento, oltre a chiarire i presupposti applicativi dell'attenuante ex art. 62, comma 1, n. 4 c.p., risultano rilevanti a livello sistematico in quanto offrono spunti interpretativi e valutativi al giudice di merito ai fini del riconoscimento dell'attenuante della lieve entità del fatto, introdotta dalla Corte Costituzionale per il delitto di rapina (Corte cost., n. 86/2024). Al riguardo, inoltre, la Corte di Cassazione ha di recente avuto modo di chiarire che l'attenuante della lieve entità, introdotta dalla Corte costituzionale, costituisce uno strumento ulteriore, rispetto a quelli già disponibili, ivi compresa l'attenuante comune prevista dall'art. 62, n. 4), per adeguare la sanzione all'effettiva gravità del fatto, sicché, ove le caratteristiche della condotta siano tali da far ritenere che si versa in un caso di offensività minima, legittimante la concessione di tale attenuante, il già avvenuto riconoscimento della diminuente comune non osta a un nuovo apprezzamento delle stesse, in funzione della concessione dell'ulteriore attenuante (Cass. II, n. 45792/2024). La neointrodotta attenuante delle lieve entità è stata inoltre oggetto di un nuovo intervento della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità del divieto di prevalenza della circostanza in esame rispetto alla recidiva reiterata di cui all'art. 99, comma 4, previsto dal comma 4 dell'art. 69. La Corte costituzionale ha ravvisato un vulnus ai principi di proporzionalità della pena e alla funzione rieducativa della sanzione penale nella preclusione per il giudice di bilanciare con esito di prevalenza l'attenuante della lieve entità, evidenziando che la norma censurata vanifica irragionevolmente la funzione di “valvola di sicurezza” che è alla radice dell'introduzione dell'attenuante. È stato pertanto dichiarato incostituzionale l'art. 69, comma 4, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata (Corte cost., n. 117/2025). Nello stesso senso si è nuovamente pronunciata la Corte costituzionale, con riferimento invece al divieto di bilanciamento di cui al comma 5 dell’art. 628, nella parte in cui non consente di ritenere equivalente o prevalente la circostanza attenuante prevista dall’art. 89 rispetto all’aggravante di cui al n. 3-quaterdel comma 3 dell’articolo (Corte cost., n. 130/2025). La Consulta ha richiamato, in motivazione, il proprio precedente del 2023, con cui ha dichiarato incostituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 628, comma 5, nella parte in cui non consentiva di ritenere prevalente o equivalente la circostanza attenuante prevista dall’art. 89 rispetto all’aggravante di cui al comma 3, numero 3-bis), dello stesso art. 628, ritenendo sussistente un’irragionevole disparità rispetto al trattamento riservato alla circostanza attenuante della minore età di cui all’art. 98, espressamente sottratta invece dal legislatore al divieto di equivalenza o prevalenza rispetto alle circostanze aggravanti elencate dall’art. 628, comma 5 (Corte cost., n. 217/2023). In tale occasione la Corte ha osservato che, essendo lo scopo perseguito dal divieto di bilanciamento quello di assicurare a talune ipotesi di rapina aggravata – ritenute dal legislatore produttive di particolare allarme sociale – una pena più severa di quella cui condurrebbe, nella generalità dei casi, l’applicazione dell’ordinario meccanismo di bilanciamento tra circostanze eterogenee del reato previsto dall’art. 69, la ratio della deroga a tale disciplina in favore dei condannati minorenni non può che sottendere la valutazione, da parte del legislatore, di una più ridotta meritevolezza di pena di chi abbia commesso il fatto essendo ancora minorenne, per quanto già giudicato imputabile dal giudice (Corte cost., n. 217/2023). Secondo il giudice delle leggi, tale ratio, fondata sulla ridotta rimproverabilità e colpevolezza, non può che essere affermata anche con riferimento a chi, essendo affetto da vizio parziale di mente, abbia agito trovandosi in uno stato di semimputabilità, che comporta una rilevante compromissione della capacità di intendere e di volere dell’agente sì da determinare un minore grado di discernimento circa il disvalore della propria condotta e una minore capacità di controllo dei propri impulsi (Corte cost., n. 130/2025). In tema di circostanza attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62. n. 6, il carattere integrale della condotta riparatrice deve comprendere oltre al danno cagionato contro il patrimonio dall'azione diretta all'impossessamento della cosa, anche quello fisico o morale prodotto alla incolumità personale o alla libertà individuale delle persone offese, anche se esse non siano costituite in giudizio o non siano state identificate, atteso che la materiale difficoltà di rintracciare tali persone non esonera l'agente dall'obbligo del risarcimento. In tal senso Cass. II, n. 12607/2015; Cass. II, n. 6479/2011; Cass. II, n. 702/2001). Con riguardo alla circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 5 la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che la valutazione della sussistenza dell'aggravante della minorata difesa va operata dal giudice, caso per caso, valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato, cioè reso più difficile, la difesa del soggetto passivo, pur senza renderla del tutto o quasi impossibile, agevolando in concreto la commissione del reato (Cass. II, n. 43128/2014: nel caso di specie è stato osservato che la condotta tipizzante non si è limitata alla condotta di impossessamento, ma si è snodata anche nella successiva fase della violenza dispiegata in danno di soggetti diversi dai derubati, e rispetto ai quali le peculiari condizioni evocate a fondamento della aggravante – vale a dire il fatto che si trattasse di ora notturna ed il teatro della azione fosse una discoteca affollata – non presentano rilevanza alcuna come elementi agevolativi e tali da indurre una minorata difesa in capo alle persone offese od a quanti avessero inteso intervenire; Cass. II, n. 10115/1988: ha ritenuto applicabile l'aggravante ad una rapina consumata in ore notturne al gestore di un distributore di carburante che dormiva solo nel chiosco). La Corte di Cassazione ha altresì ritenuto operante con riferimento al delitto di rapina la circostanza aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 11-ter),che ricorre quando il reo ha commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione; secondo i giudici di legittimità, l'aggravante è infatti applicabile non solo ai delitti contro la persona previsti nel titolo XII del libro II del Codice, ma anche a quelli, non compresi nel titolo indicato, che contemplano la condotta di offesa alla persona, pur se in termini concorrenti con la lesione di altri beni. L'aggravante è pertanto applicabile al delitto di rapina, stante la natura plurioffensiva del reato che, oltre al patrimonio, lede anche la libertà e l'integrità fisica e morale del minore aggredito, in funzione della realizzazione del profitto (Cass. II, n. 36/2025). Concorso di circostanzeIn tema di rapina aggravata, la modifica introdotta dall'art. 3 l. n. 497/1974 all'art. 628 ultimo comma secondo la giurisprudenza prevalente non ha tolto carattere di autonomia alle singole ipotesi circostanziali ivi previste. Pertanto, quando concorrano le speciali circostanze aggravanti di cui alla citata norma, il giudice, ai sensi dell'art. 63, comma 4, invece di considerarle assorbite nella pena autonomamente stabilita dalla legge, può procedere, nell'esercizio del suo potere discrezionale, all'aumento fino al terzo della pena edittale. Con la conseguenza che ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere deve aversi riguardo, in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale, all'aumento di pena così come determinato in forza dell'art. 63, comma 4 (Cass. II, n. 33871/2010; Cass. II, n. 31065/2012) È stato così affermato che l'uso delle armi e il travisamento nel corso di una rapina sono condotte che si diversificano reciprocamente per il contenuto, configurando così distinte circostanze aggravanti che devono essere autonomamente considerate ai fini della prescrizione, il cui calcolo deve dunque essere effettuato applicando la disciplina generale dettata nell'art. 63, comma 4, per il concorso di aggravanti ad effetto speciale (Cass. V, n. 135/2000; Cass. V, n. 4621/2000; Cass. IV, n. 27748/2007) Infine, in tema di concorso di aggravanti affinché si verifichi l'assorbimento della norma sull'aggravante comune in quella che prevede un aggravante speciale è necessario che quest'ultima contenga tutti gli elementi della fattispecie prevista dalla norma generale, oltre a ulteriori elementi specializzanti. Ne deriva che l'aggravante del nesso teleologico ben può ritenersi integrata, in relazione ai reati di detenzione o di porto illegale di armi, anche quando ricorra l'aggravante dell'uso dell'arma, di cui all'art. 628, comma 3, n. 1 prima ipotesi: ai fini della sussistenza di quest'ultima aggravante non è infatti necessario che l'arma impiegata sia detenuta o portata illegittimamente, per cui è ammissibile la contemporanea presenza delle due aggravanti (Cass. II, n. 33435/2015). La l. n. 103/2017, pubblicata nella G.U. n. 154 del 4 luglio 2017 (c.d. riforma Orlando), prevede un inasprimento di pena per i reati di rapina ed estorsione. In particolare, al comma 1 dell'art. 628 è previsto un aumento della pena detentiva minima ed un aumento della pena pecuniaria. Le parole: «è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065 » sono infatti sostituite dalle seguenti: «è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500». Per le ipotesi aggravate di cui al comma 3 dell'art. 628 è stato previsto un inasprimento del minimo edittale. Le parole: «La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098» sono infatti state sostituite dalle seguenti: «La pena è della reclusione da cinque a venti anni e della multa da euro 1.290 a euro 3.098». È stato anche introdotto un nuovo comma che disciplina il concorso di due o più circostanze aggravanti speciali e di una aggravante speciale con una comune prevista nell'art. 61. Dopo il comma 3 è stato inserito il seguente: “Se concorrono due o più delle circostanze di cui al terzo comma del presente articolo, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell'art. 61, la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.538 a euro 3.098». La norma riecheggia la disposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 625 in tema di furto. Proprio applicando la giurisprudenza e la dottrina formatasi in tema di furto pluriaggravato deve affermarsi che tale regola trova applicazione non solo nel caso in cui due circostanze ad effetto speciale concorrono con una comune, ma anche quando concorrano tutte le aggravanti specifiche previste nel comma 3 dell'art. 628 così come quando concorrono una o più delle suddette aggravanti specifiche e una o più delle aggravanti comuni indicate nell'art. 61. Tale principio trova la sua logica giustificazione nella opportunità di attribuire lo stesso "peso" alle varie combinazioni di circostanze, in presenza di una disposizione, come quella contenuta nella norma in esame, che testualmente prevede la medesima pena per la contemporanea presenza di due o più circostanze ad effetto speciale. In altre parole il comma in argomento collega l'effetto aggravante speciale semplicemente alla pluralità di circostanze e conseguentemente detta pena non può essere ulteriormente aggravata (in tal senso seppure in materia di furto pluriaggravato: Cass. IV n. 36829/2010; Cass. V, n. 12069/1991; Cass. II, n. 200/1970 (Antolisei, Ps I, 332, Fiandaca-Musco, Ps II, 87; Mantovani, 715). Il trattamento sanzionatorio è stato ulteriormente inasprito con la l. n. 36/2019 (“Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa”). La Corte costituzionale (Corte cost., n. 217/2023), ha dichiarato, l'illegittimità costituzionale del quinto comma dell'art. 628 cod. pen., nella parte in cui non consente di ritenere prevalente o equivalente la circostanza attenuante prevista dall'art. 89 cod. pen., allorché concorra con l'aggravante di cui al terzo comma, numero 3-bis), del presente articolo. Rapporti con altri reatiÈ stato ritenuto inammissibile il concorso delle due ipotesi di rapina, propria e impropria, le quali si comportano, rispetto alla tutela dello stesso bene, come mezzi diversi per un medesimo scopo; pertanto se si usa violenza o minaccia per sottrarre una cosa mobile altrui e subito dopo la violenta sottrazione si usa ancora violenza o minaccia per assicurarsene il possesso o per procurare a sé o ad altri l'impunità, il delitto di rapina resta unico. La condotta violenta o minacciosa rivolta ad assicurare il possesso ovvero a garantire l'impunità manca di una propria tipicità se la sottrazione è già stata violenta, dato che per la rapina impropria è necessario che la sottrazione non sia stata violenta perché viceversa viene a mancare un requisito necessario per la sua configurabilità; se però l'agente commette altri reati per assicurarsi l'impossessamento o l'impunità, al di fuori della condotta tipica della rapina impropria e dopo la rapina propria, essi restano a carico dell'agente medesimo e non vengono assorbiti dalla rapina (Cass. I, n. 2328/1972). Problemi di definizione di ambito di operatività rispetto all'estorsione si pongono solo con riferimento alla rapina «propria» e sono stati risolti «ponendo attenzione alla condizione in cui in concreto si è trovato a versare il «soggetto passivo del reato»: in presenza, cioè, di un suo comportamento lato sensu «collaborativo», occorre accertare se egli aveva o no margini ragionevoli per compiere una scelta differente; nel primo caso riterremo presente l'estorsione, nel secondo caso invece penseremo alla rapina, null'altro essendo stato il soggetto se non un «mero strumento», totalmente controllato dall'agente senza alcuna (seppur limitata) possibilità di scelta» (Marini, 181). La giurisprudenza ritiene ipotizzabile il delitto di rapina e non quello di estorsione anche quando la derelizione della cosa da parte della vittima avvenga a opera della stessa, purché essa vittima si trovi nella piena soggezione del suo oppressore: infatti in tal caso si è in presenza di un atto puramente materiale cui non può attribuirsi rilevanza alcuna, posto che manca ogni possibilità di scelta tra il male minacciato e la consegna della cosa (Cass. II, n. 12855/1986). La rapina si differenzia dall'estorsione in virtù del fatto che in essa il reo sottrae la cosa esercitando sulla vittima una violenza o una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell'estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo di determinarsi diversamente. (Cass. II 44954/2013: fattispecie in cui la Corte di Cassazione ha riqualificato come rapina aggravata, la minaccia avanzata da due uomini, che a bordo di una autovettura con la vittima, di sesso femminile, in luogo isolato, chiedevano a quest'ultima la consegna di una somma di denaro). La rapina presenta analogie con alcune forme di furto aggravato. Essa si distingue: dal furto aggravato dalla circostanza prevista dall'art. 625 n. 2, perché in questa figura criminosa la violenza è usata esclusivamente sulle cose e non anche sulla persona; dal furto aggravato dalla circostanza di cui all'art. 625 n. 3 («se il colpevole porta indosso armi»), perché in questa ipotesi è carente la violenza ed il mero porto delle armi non ha di per sé effetto intimidativo e non concreta quindi minaccia. Maggiori difficoltà, invece, crea la distinzione tra rapina e furto commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona, comunemente denominato «scippo». Il criterio discretivo viene comunemente individuato nel fatto che nella rapina la violenza fisica o psichica è esercitata sulla persona, mentre nel furto con strappo la violenza è esercitata esclusivamente sulla cosa, per staccarla e sottrarla al detentore. Se nel compimento dell'azione criminosa cadono per terra sia l'agente che la vittima, e quest'ultima venga trascinata per qualche metro in conseguenza del fatto che la borsetta (oggetto della violenza) da essa trattenuta per resistere allo strappo resti impigliata nella manica dell'agente, se non si rinviene nel comportamento dello stesso nemmeno il dolo eventuale, non può ritenersi realizzato il più grave delitto di rapina (Cass. 20. maggio 1987). Secondo Cass. n. 7386/1991, Cass. n. 34206/2006, Cass. n. 41464/2010, Cass. n. 2553/2015 integra il reato di furto con strappo la condotta di violenza immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, mentre ricorre il delitto di rapina quando la "res" sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra il possessore e la cosa sottratta. La violenza che, al pari della minaccia, è tra gli elementi costitutivi del delitto di rapina, può essere esercitata direttamente contro il possessore ovvero nei confronti di altra persona diversa dal detentore della cosa, purché tra la violenza e l'impossessamento interceda un nesso di causalità tale che abbia carattere di immediatezza, sicché l'impossessamento sia derivazione diretta della violenza stessa. Ne deriva l'assorbimento, in virtù del principio di specialità, della violenza privata, nella fattispecie di rapina: nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto assorbiti nella rapina i reati di violenza privata commessi in danno dei funzionari e di quanti, essendo presenti nei locali della banca, avrebbero potuto ostacolare il fine delittuoso con la reazione (Cass. I, 30 novembre 1992; Cass. II, n. 10812/1995). Il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e resta escluso, in base al principio di specialità, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile una ipotesi delittuosa più grave, quale quella di rapina. Integra, invece, il delitto di violenza privata, e non di rapina, la condotta violenta dispiegata al fine di sottrarre e distruggere la pagina di un'agenda recante una scrittura privata, mancando l'offesa al patrimonio della vittima (Cass. II, n. 850/2011); integra altresì il delitto di violenza privata la costrizione della vittima, con violenza o minaccia, a consegnare per un uso meramente momentaneo un proprio bene, di cui conserva il controllo durante l'utilizzo da parte dell'agente (Cass. II, n. 34905/2013). Integra il reato di rapina, e non di violenza privata, la condotta del detenuto che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, sottragga ad un agente di custodia con violenza o minaccia le chiavi delle celle (Cass. II, n. 28088/2015). E' stato ritenuto (Cass. fer., n. 39541/2016 ) che il prelievo forzoso degli ovociti dall'utero della donna non rientra nell'orizzonte dei delitti contro il patrimonio (come la rapina), ma costituisce un delitto contro la persona, da qualificarsi ai sensi dell'art. 610 nel concorso con le lesioni personali. In particolare, è stato affermato che il concetto di cosa mobile non può applicarsi con riferimento a parti del corpo umano finchè la persona è in vita. Le parti del corpo umano diventano "cose" solo dopo essere state separate (per es. il rene, una volta espiantato), ma non sono tali sino a quando fanno parte del corpo vivente. Ed è stato sottolineato che non si può pervenire a conclusioni differenti con riferimento alla particolare natura degli ovociti prodotti nel corpo della donna e destinati ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione. È discutibile se possano essere assimilati agli organi del corpo umano, ma non può essere revocato in dubbio che facciano parte del circuito biologico dell'essere umano. Pertanto, non possono essere considerati "cose", solo temporaneamente detenute dalla donna all'interno del proprio corpo. La Corte di Cassazione ha affermato che l'espianto di ovociti dall'utero di una donna, effettuato con violenza mediante costrizione alla sedazione e al fine di trarne un ingiusto profitto mediante l'utilizzo in trattamenti di procreazione medicalmente assistita in favore di terzi, configura il delitto di rapina, in quanto gli ovociti, una volta distaccati dal corpo umano, divengono "cose mobili" detenute dalla donna, e, quindi, sono passibili di sottrazione e impossessamento. In particolare è stato sottolineato che nel caso di specie l'imputato usò violenza per costringere la ragazza a subire l'intervento, ponendola poi in stato d'incapacità di agire mediante sedazione, al preciso ed esclusivo scopo di prelevare i suoi ovociti, poi fecondati, con successivo impianto degli embrioni in tre pazienti e, quindi, di conseguire un ingiusto profitto. E che tra la violenza fisica esercitata sulla vittima, la sua successiva sedazione (non voluta dalla stessa), l'asportazione degli ovociti ed il loro impossessamento non vi era stata alcuna soluzione di continuità causale Cass. II, n. 37818/2020. La privazione della libertà personale costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina (e rimane in esso assorbita) solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con la esecuzione della rapina medesima, mentre, nell'ipotesi in cui la privazione della libertà non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina, ma ne preceda o ne segua l'attuazione, in ogni caso protraendosi oltre il suddetto limite temporale, così come quando gli agenti privano taluno della libertà di locomozione all'unico fine di potersi allontanare più agevolmente dal luogo della rapina, il reato di sequestro di persona concorre con quello di rapina (Cass. II, n. 22096/2015; Cass. II, n. 4986/2012, anche nel caso in cui la protrazione della privazione della libertà personale persegue lo scopo di garantire la fuga all'autore della rapina; Cass. II, n. 24837/2009). Altra decisione afferma che i reati di sequestro di persona, rapina e tentato omicidio possono concorrere tra loro non sussistendo alcun rapporto di consunzione o sussidiarietà tra gli stessi, attesa la diversità dei beni giuridici tutelati che, da un lato, non consente di ritenere assorbiti tra loro gli interessi tutelati dalle fattispecie di sequestro di persona e rapina e, dall'altro, esclude che tali ultime condotte costituiscano il necessario antefatto del delitto di tentato omicidio; in motivazione la Corte ha aggiunto che non è applicabile il criterio della consunzione in quanto il tentato omicidio non comprende in sé i fatti di rapina e sequestro di persona, né esaurisce l'intero disvalore del fatto concreto (Cass. I, n. 31735/2010). Più di recente, la Corte di Cassazione ha precisato che nel caso di sottrazione di una cosa già appartenuta a persona uccisa, si configura il delitto di rapina qualora l'idea della sottrazione sorga prima dell'attuazione della violenza omicida, a condizione che l'impossessamento sia conseguenza della violenza, ricorrendo, invece, il delitto di furto qualora il proposito predatorio intervenga soltanto dopo la consumazione dell'omicidio (Cass. I, n. 37856/2024). È stato inoltre affermato che non sussiste il reato di rapina impropria aggravata (art. 628, commi 2 e 3) ma quello di furto (art. 624) allorché, successivamente all'impossessamento della cosa mobile altrui, il soggetto attivo privi il derubato della libertà di locomozione. In tal caso, infatti, il delitto di furto concorre con quello di sequestro di persona, in quanto mentre il reato di rapina assorbe, oltre al furto, la violenza alla persona quando essa sia esercitata immediatamente dopo la sottrazione per procurare a sé o ad altri il possesso del bene o l'impunità (rapina impropria), sicché sussiste una sola condotta diretta ad un unico evento di impossessamento patrimoniale, che assorbe quello sussidiario contro la persona (percosse), diversamente, ai fini della configurabilità del delitto di sequestro di persona, ex art. 605, non è previsto l'elemento della violenza della condotta, con la conseguenza che il sequestro non può essere assorbito dal reato di rapina impropria (Cass. V, n. 19919/2005). L'azione violenta posta in essere subito dopo la sottrazione della cosa nei confronti di agenti di polizia intervenuti integra gli estremi del reato di rapina impropria: tale reato concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale, trattandosi di violazione di due diverse disposizioni della legge penale con un'unica azione e, quindi, di un'ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati (Cass. VI, n. 25100/2009); qualora venga posta in essere la relativa condotta, con i due precedenti reati concorrerà altresì quello di lesioni personali (Cass. II, n. 26435/2005) configurandosi altresì il nesso teleologico (Cass. II, n. 36901/2011). La Corte ha, più di recente precisato che il concorso tra il delitto di rapina impropria e quello di resistenza a un pubblico ufficiale concorrono quando la violenza esercitata nei confronti del pubblico ufficiale, onde opporglisi nel mentre compie un atto dell'ufficio, eccede la soglia delle percosse funzionali alla realizzazione dell'azione predatoria (Cass. II, n. 14376/2025); in tal caso si configura, con riferimento al delitto di resistenza, l'aggravante della connessione teleologica, atteso che non assume rilievo la circostanza che il delitto-fine e il delitto-mezzo siano integrati dalla stessa condotta materiale (Cass. II, n. 14376/2025). La differenza tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il delitto di rapina (art. 628) risiede nell'elemento soggettivo che per il primo reato consiste nella ragionevole opinione dell'agente di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, mentre per la rapina si concretizza nel fine di procurare a sé e ad altri un profitto ingiusto con la consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è giuridicamente azionabile (Cass. I, n. 13794/1976; Cass. I, n. 3399/1981; Cass. II, n. 8753/1987; Cass. V, n. 5397/1989; Cass. II, n. 7911/1997). In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna per il delitto di rapina pronunciata nei confronti di imputato che, vantando un credito riconducibile ad una cessione di stupefacenti, era entrato in casa dei genitori del cessionario, e, aggredito il padre di quest'ultimo, gli aveva strappato di dosso la catenina d'oro (Cass. VI, n. 23678/2015). In tema di differenziazione fra il reato di esercizio arbitrario e quello di rapina si è affermato un orientamento giurisprudenziale che ha sostenuto che l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o alle persone, commesso con minaccia dell'esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può integrare il reato di rapina se si estrinseca con modalità violente che denotano la volontà di impossessarsi comunque di una cosa, qualora ne ricorrano gli elementi richiesti dalla norma incriminatrice (Cass. III, n. 15245/2015 fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata la quale aveva affermato la sussistenza del delitto di rapina in relazione alla condotta dell'imputato che, allo scopo di rinvenire informazioni sul luogo o sul numero di telefono riguardanti la figlia minore affidata a terzi, aggredendo una assistente sociale, si era impossessato delle agende di questa; in tema anche Cass. II, n. 38517/2008; Cass. II, n. 43325/2007). La commissione di una rapina in edificio o altro luogo destinato a privata dimora configura, dopo l'introduzione del n. 3 bis del comma 3 dell'art. 628, un reato complesso, nel quale resta assorbito il delitto di violazione di domicilio (Cass. II, n. 40382/2014). Non è configurabile il reato complesso di cui all'art. 628 comma 3-bis ma il concorso materiale fra il reato di rapina e quello di cui all'art. 614 qualora, in caso di rapina commessa in edificio o altro luogo destinato a privata dimora, l'agente abbia posto in essere la violazione di domicilio per una diversa finalità - quale il danneggiamento dell'abitazione della vittima - e, nel corso dell'attività illecita, abbia profittato delle circostanze di tempo e di luogo per appropriarsi di beni della persona offesa (Cass. II, n. 1925/2016). Sussiste inoltre concorso materiale, e non assorbimento, tra il delitto di rapina e quello di danneggiamento, nel caso in cui l'alterazione, il deterioramento o la distruzione del luogo di custodia di un bene sia seguito dalla violenza alla persona, posto che solo il furto semplice, e non anche quello aggravato dalla violenza sulle cose, costituisce elemento costitutivo del delitto di rapina (Cass. II, n. 5887/2024, in relazione a fattispecie in cui l’imputato, dopo avere infranto il deflettore di un'autovettura, tentava di impossessarsi di una sacca custodita al suo interno, non riuscendovi per l'intervento della persona offesa, nei cui confronti usava, poi, violenza onde assicurarsi l'impunità). Quando la violenza venga adoperata sia per conseguire il possesso della cosa sia come mezzo per evadere, sussiste il concorso formale tra il reato di rapina e quello di evasione aggravato dall'uso della violenza, a nulla rilevando l'unicità del motivo a delinquere, che induce l'agente a fare ricorso alla violenza per conseguire entrambi i risultati (Cass. II, n. 2369/1984). Il criterio differenziale tra il delitto di rapina mediante minaccia e quello di truffa aggravata dall'ingenerato timore di un pericolo immaginario consiste nel diverso modo in cui viene prospettato il danno; si ha truffa aggravata, quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall'agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina alla azione od omissione versando in stato di errore. Si ha rapina mediante minaccia, invece, quando il danno viene prospettato come certo e sicuro, a opera del reo o di altri ad esso collegati, di modo che l'offeso è posto nella alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto o di incorrere nel danno minacciato (Cass. II, n. 51732/2013). Risponde dei reati di insolvenza fraudolenta e di minaccia e non, invece, di rapina impropria colui che rifornisce la propria autovettura di carburante presso un distributore a cui può lecitamente accedere con immediatezza, e poi si allontana omettendo di corrispondere il relativo importo e minacciando l'impiegato del distributore, attesa l'assenza di una condotta di sottrazione (Cass. II, n. 18039/2014). Profili processualiIl reato è procedibile d'ufficio. L'Autorità giudiziaria competente: comma 1 e 2 comma Tribunale monocratico; comma 3 tribunale collegiale. L'Arresto: è obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.p.). Il fermo di indiziato di delitto è consentito (art. 384 c.p.p.). Le misure cautelari personali sono consentite (artt. 280, 287 c.p.p.). BibliografiaAdami, La configurabilità del tentativo di delitto di rapina impropria, 1989; Baccaredda Boy-Lalomia, Rapina, in Dig. di pen., XI, Torino, 1996; Corbetta, Della Bella, Gatta, Sistema penale e «sicurezza pubblica»: le riforme del 2009, Milano, 2009; Giannelli, Sul tentativo di rapina impropria, 1990; Mantovani, Rapina, in Enc. giur., XXV, Roma, 1991; Marini, Delitti contro il patrimonio, Torino, 1999; Pizzuti, Rapina, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987; Zagrebelsky, Rapina, in Nss. D.I., XIV, Torino, 1967. |