Codice Civile art. 634 - Condizioni impossibili o illecite.InquadramentoLa disciplina della condizione trova la sua sede non soltanto nelle disposizioni poste dagli artt. 633 ss., ma anche in quelle generali dettate per il contratto dagli artt. 1353-1361. Tuttavia, le regole previste in materia di testamento presentano talune importanti divergenze da quelle in tema di contratti. La più significativa diversità riguarda proprio la regolamentazione delle condizioni impossibili o illecite. Mentre nelle disposizioni testamentarie, ai sensi della norma in commento, le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume « si considerano non apposte, salvo quanto stabilito dall'art. 626 », nei contratti, secondo l'art. 1354, la condizione illecita, sospensiva o risolutiva, rende sempre nullo il contratto al quale accede, mentre la condizione impossibile rende nullo il contratto se sospensiva e si ha per non apposta se risolutiva. Si tratta, secondo l'opinione comunemente accolta, dell'accoglimento nell'ordinamento della «regola sabiniana» (da ult. Cass. n. 25116/2024), risalente al diritto romano, secondo cui le condizioni impossibili o illecite apposte agli atti di ultima volontà vitiantur, sed non vitiant. Condizione illecitaLa norma reca nella rubrica il riferimento alla condizione illecita e chiarisce nel testo della disposizione, in accordo con la previsione dell'art. 1354, che è tale quella che contrasta con la legge, con l'ordine pubblico od il buon costume. Tale è stata ritenuta la condizione sospensiva, apposta ad una disposizione testamentaria, con cui si subordina l'istituzione d'erede all'obbligo, per il beneficiario, di donare un proprio immobile è illecita, in quanto contraria al principio della libertà di autodeterminazione dell'istituito (Cass. n 8733/2023). Si discorre di una condizione oggettivamente o soggettivamente illecita. Nel primo caso l'evento dedotto in condizione è di per se stesso illecito, come nella condizione di accettare con o senza beneficio di inventario, che si pone in diretto contrasto con l'art. 470, comma 2, ovvero nella condizione di reciprocità di cui all'art. 635, che costituisce violazione del divieto dei patti successori, ex art. 458. Nel caso della condizione soggettivamente illecita l'evento dedotto in condizione è di per se stesso lecito, ma è illecito l'intento che il testatore intenda realizzare con l'apposizione della condizione: si pensi al matrimonio, come tale lecito, apposto come condizione all'istituzione di erede, indubbiamente illecita perché limitativa della libertà dell'istituito, all'istituzione di erede (Di Mauro, 1994, 4). Condizione impossibileQuanto all'impossibilità della condizione, si deve dire che essa è l'impossibilità in rerum natura, non l'impossibilità giuridica, che rientra nell'illiceità (Andrini, 1983, 348). Si tratta, beninteso, di impossibilità originaria e non di impossibilità sopravvenuta. In altri termini, la disposizione contenuta nel secondo comma dell'art. 634, relativa agli effetti della condizione impossibile apposta ad un testamento, si riferisce all'ipotesi della impossibilità originaria, ossia coeva alla redazione della scheda testamentaria, e non all'ipotesi dell'impossibilità sopravvenuta: pertanto se la condizione diviene impossibile in tempo successivo alla stesura del testamento si risolve in una condizione mancata e non più realizzabile, che non può essere equiparata, quanto agli effetti, all'impossibilità originaria. La S.C. si è pronunciata sul punto in un caso in cui il testatore aveva nominato propria erede una sorella alla condizione poi non verificatasi della premorienza di esso testatore alla madre, sicché un'altra sorella, essendo mancata la condizione, per essere la madre deceduta prima del figlio, aveva chiesto dichiararsi l'apertura della successione legittima, mentre l'erede istituita aveva sostenuto che la condizione, in quanto divenuta all'apertura della successione ormai impossibile, doveva ritenersi non apposta (Cass. n. 5871/2002). Il rilievo del rinvio alla disciplina del motivoSi discute dell'estensione oggettiva dell'ambito di applicazione della norma, ed il dubbio sorge dal rinvio all'art. 626, secondo cui il motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria, quando risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre, contenuto nell'art. 634. Secondo un indirizzo, poiché l'art. 626 considera solo il caso del motivo illecito, ma non anche quello del motivo impossibile, si deve concludere che, mentre la condizione impossibile si deve sempre ritenere non apposta e non può mai condurre alla nullità della disposizione, la condizione illecita, invece, può condurre alla nullità della disposizione se ne rivela il motivo unico e determinante (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 264; Barassi 1947, 409). Quest'indirizzo è, però, contrastato dalla dottrina prevalente secondo la quale il richiamo all'art. 626 si applica, in via unitaria, sia alla condizione impossibile che a quella illecita, il che si concilia molto meglio col dettato della legge, che esordisce facendo riferimento ad entrambe le condizioni, sicché anche il rinvio deve intendersi pertinente a tutte e due (Cirillo, 1994, 1062). Secondo questa impostazione tanto la condizione illecita quanto quella impossibile vitiantur et vitiant, se risulta dal testamento che esse hanno costituito l'unico motivo determinante della disposizione (D'Antonio, 1970, 112; Trabucchi, 1953, 843 s.; Cannizzo, 1996, 93; Bigliazzi Geri, in Tr. Res. 1997, 151 s.). La regola sabinianaSecondo un'opinione diffusa la speciale disciplina dettata dall'art. 634 troverebbe fondamento sul principio del favor testamenti inteso sia in senso soggettivo, quale presunzione che il testatore, se avesse saputo della nullità non avrebbe apposto la condizione impossibile o illecita, sia in senso oggettivo, quale strumento di salvaguardia di un atto negoziale non più ripetibile (riassuntivamente, Triola, 1998, 233). Secondo altri la regola sabiniana sarebbe espressione non già del generico principio del favor testamenti, ma della preferenza rivolta dal legislatore alla successione testamentaria rispetto a quella legittima (Perego, 1970, 277). Quali che siano le ragioni ispiratrici dell'applicazione al testamento della regola sabiniana, essa è stata assoggettata dalla dottrina a severe critiche, le quali si appuntano sul conflitto tra quella regola ed il principio dell'inscindibilità del negozio condizionato rigorosamente applicato nella materia contrattuale: la regola sabiniana, in altre parole, darebbe luogo ad una ingiustificata compressione dell'autonomia negoziale, lasciando sopravvivere una disposizione diversa e modificata rispetto a quella voluta dal testatore. E dunque, con la norma in esame, « il principio della negozialità risulta in radice conculcato » (Lipari, 1970, 254). Né l'art. 634 potrebbe poggiare sul favor testamenti, se non come « supina acquiescenza ad un mito » (Lipari, 1970, 256), giacché, anzi, la disposizione finirebbe per penalizzare la volontà testamentaria, modificandone il contenuto, sicché la norma in commento potrebbe semmai intendersi come sanzione, limite apposto alla libertà di testare. Per questa via si è giunti ad affermare che la diversità di trattamento, a seconda che si tratti di testamento o di contratto, «è assolutamente incomprensibile e ci sorprende il fatto che il nuovo codice abbia voluto mantenersi fedele ad una tradizione che non trova alcuna spiegazione razionale» (Allara, 1957, 66), ovvero che la regola sabiniana «non ha più accettabile fondamento che la tradizione» (Giampiccolo, 1954, 155). Di qui, la tendenza a circoscrivere la portata della regola, la quale « non può estendersi alle disposizioni testamentarie diverse dalla istituzione di erede o di legato » (Giampiccolo, 1954, 157). La S.C. riconosce nell'art. 634 un'applicazione del principio del favor testamenti soggettivo, giacché essa impone di presumere che il testatore, se avesse saputo della illiceità o impossibilità della condizione, non l'avrebbe apposta. La norma, comportando la presunzione di una volontà del testatore di mantenere ferma l'istituzione di erede o il legato, ammette allora la prova contraria (Cass. n. 1633/1953). Sembra provenire dalla giurisprudenza un significativo contributo alla delimitazione dell'ambito di operatività dell'art. 634, giacché essa mostra di ritenere che la regola vitiatur sed non vitiat possa trovare applicazione soltanto se non risulti che il testatore aveva consapevolezza della illiceità o impossibilità della condizione. FattispecieAlcune condizioni sono illecite per contrasto con norme imperative. Va ricordata, in argomento, la decisione con cui la S.C. ha esaminato un caso di indiretta violazione dell'art. 470, secondo cui l'accettazione con beneficio di inventario può farsi nonostante qualunque divieto del testatore: si trattava, in breve, di una istituzione di erede condizionata all'integrale pagamento, da parte dell'erede, di un legato (Cass. n. 2961/1966; v. in dottrina Zatti 1967, 1387). È stata poi ritenuta la nullità della clausola con cui, mediante la condizione, si impone all'erede universale di lasciare, alla sua morte, la metà dei beni che in quel momento si troverà a possedere ad un'altra persona (Cass. n. 2345/1954). È stata ritenuta illecita, perché lesiva della libertà individuale, la condizione, apposta alla istituzione della moglie del defunto, di non abbandonare la casa coniugale, nella quale egli aveva per lungo tempo vissuto, malato di tubercolosi, neppure per recarsi a vivere con i suoi parenti (Cass. n. 197/1942). In ipotesi di chiamata all'eredità subordinata alla condizione dell'aggiunta del cognome del testatore al proprio entro un determinato termine dall'apertura della successione, con la previsione, per il caso di mancato avveramento della condizione, della devoluzione di tutto il patrimonio relitto allo stato, la S.C. ha ipotizzato anche l'applicabilità dell'art. 634 (Cass. n. 1928/1982). Merita ancora rammentare che, se il testatore abbia disposto un legato sotto la condizione sospensiva che il legatario accetti senza riserve il testamento entro un breve termine dall'apertura della successione, se il termine non possa essere osservato, contro la previsione del testatore, per l'imprevedibile inadempimento del notaio all'obbligo di comunicare, subito dopo la morte del testatore, il testamento al legatario, e lo stesso termine sia trascorso senza che tale comunicazione sia stata fatta, la condizione deve considerarsi priva del termine, con la conseguenza che essa può verificarsi in ogni momento (Cass. n. 1068/1964). Passando all'esame delle condizioni giudicate lecite, occorre dire che tale è stata considerata la condizione con cui il testatore subordini il legato a favore di un ente all'osservanza, da parte di questo, di una determinata condotta, giacché l'ente resta assolutamente libero di non adottarla, pur soggiacendo, in tal caso alla perdita del beneficio (Cass. n. 133/1951). Ed infine può in argomento accennarsi alla clausola con cui il de cuius, istituito un erede, aveva legato un immobile ad un ospedale, sempre che la cosa legata fosse stata adibita a casa di riposo (Cass. n. 5958/1988). Seguire una carriera o professione È stato ritenuto valido il legato di usufrutto a favore di colui che, tra due fratelli, avrebbe per primo intrapreso la carriera ecclesiastica. Secondo la S.C. la clausola non era intesa a coartare la volontà degli istituiti, nel qual caso sarebbe stata nulla, ma ad assecondare una volontà già esistente (Cass. n. 568/1942). La questione dei limiti entro cui il testatore può eventualmente condizionare la disposizione testamentaria allo svolgimento, da parte del beneficiato, di una determinata attività lavorativa, si è presentato nel caso di un testamento con cui il de cuius aveva istituito erede universale la nipote a condizione che si fosse laureata in medicina ed avesse svolto la professione (Cass. n. 3196/1993, che ha ritenuto che la liceità della condizione dovesse essere commisurata alla volontà manifestata dalla nipote poi istituita erede). Le disposizioni penali È in prevalenza ritenuto che il testatore, avvalendosi della libertà negoziale che gli compete, abbia il potere di prevenire l'inadempimento delle disposizioni testamentarie, sanzionando l'erede o il legatario che non osservi la sua volontà, con l'unico limite che l'intento rafforzato dalla clausola in tal senso apposta sia possibile e lecito (Candian, 1988, 83). L'argomento merita di essere affrontato in questa sede perché le disposizioni in favore di un terzo ed in danno dell'istituito poste a titolo di pena per il mancato adempimento di un modus o di una condizione potestativa, ovvero le clausole di decadenza dal lascito per le più varie ipotesi — anch'esse da considerarsi come disposizioni poenae nomine — costituiscono « un'attribuzione condizionale in favore del terzo nel primo caso, una modalità della disposizione in favore dell'istituito (condizione risolutiva) nel secondo » (Giampiccolo, 1954, 6). Anche la S.C., chiamata a pronunciarsi su un testamento con cui il de cuius, riferendosi alla donazione di un appartamento fatta in vita al proprio nipote, aveva disposto, « se Alessio rifiutasse di dare a mia moglie il godimento vitalizio di tale appartamento, in tal caso quanto dianzi esposto viene annullato e mia moglie diventa erede universale », ha chiarito che « la disposizione sanzionatoria — o poenae nomine — che è diretta ad esercitare una pressione psicologica sul beneficiario al fine di indurlo a compiere, se vuol conseguire il beneficio, quanto richiestogli dal testatore, ha lo stesso trattamento delle disposizioni condizionali, soggette all'unico limite, incidente sulla loro validità, di non essere impossibili o illecite » (Cass. n. 12340/1991). In generale, dunque, le disposizioni testamentarie a carattere sanzionatorio o poenae nomine sono soggette nel nostro ordinamento, come già in quello giustinianeo, alla stessa disciplina dettata per le condizioni, le quali si considerano non apposte soltanto se impossibili od illecite, ex art. 634. Perciò è stata ritenuta valida come condizione risolutiva la disposizione testamentaria sanzionatoria con la quale era stato vietato ai prelegatari di alienare il bene loro assegnato a persone diverse dai fratelli coeredi (Cass. n. 1180/1966). Segue. Il divieto di impugnare il testamento Tra le disposizioni poenae nomine suscita particolare interesse, sia per la frequenza con cui si presenta che per i dubbi che soleva, il divieto di impugnazione del testamento, sanzionato dalla decadenza dal beneficio. Dinanzi alla clausola impiegata dal testatore per evitare che l'erede o legatario, con l'impugnazione, possa far cadere il testamento in tutto o in parte, non sarebbe lecito — è stato detto — formulare un aprioristico giudizio di nullità. Ed invece andrebbe ammessa la validità della clausola che commina la decadenza dell'erede che impugni il testamento quando il testatore non abbia inteso impedire l'esercizio di un diritto derivante da norme di ordine pubblico (Candian 1988, 173; Di Mauro 1997, 1327). È stata giudicata lecita la condizione di rinunciare all'impugnazione già pendente di un diverso testamento. La S.C. ha così deciso con riguardo alla condizione apposta dalla madre, che, istituiti eredi un figlio e due figlie in parti uguali, aveva posto la condizione che il figlio rinunciasse a due cause, già introdotte, relative all'eredità paterna. Difatti, poiché il diritto dell'erede pretermesso a conseguire la quota di legittima di una diversa eredità costituisce entità disponibile dal titolare, la condizione apposta da altro testatore alla istituzione oltre il limite della quota legittima spettante sulla propria eredità deve ritenersi lecita (Cass. n. 12936/1993). Con riguardo alle disposizioni a titolo particolare, si è ritenuto che il legato a favore di un legittimario possa essere sottoposto alla condizione risolutiva che il beneficato non proponga azioni o contestazioni in ordine a disposizioni testamentarie concernenti altro coerede (Cass. n. 3564/1972). Merita attenzione, ancora, la pronuncia resa sulla disposizione testamentaria con cui il de cuius aveva disposto del suo patrimonio in parti uguali in favore dei tre figli e del figlio di una quarta figlia premorta, imponendo a quest'ultimo di conferire in collazione una certa somma e condizionando risolutivamente le istituzioni, per la sola disponibile, all'acquiescenza alle disposizioni testamentary (Cass. n. 1/1997). Non ogni azione proposta dall'istituito sotto condizione di non impugnare il testamento, inoltre, ne provoca la decadenza, ma solo quella che è diretta ad eliminare dalla realtà giuridica l'intero testamento o parte di esso. Si è ritenuto che la condizione non si fosse verificata in un caso in cui un soggetto, istituito erede per una quota a condizione di non opporsi al testamento, aveva proposto azione giudiziaria dichiarando di essere pronto a dargli esecuzione non appena si fosse chiarito che i beni a lui attribuiti non erano inferiori a quelli che gli spettavano a titolo di legittima e per questo accertamento aveva convenuto in giudizio gli eredi (Cass. n. 543/1961). Ed ancora, si è stabilito che l'erede testamentario, il quale invochi la dichiarazione di nullità di una vendita eseguita dall'esecutore testamentario, sul rilievo che il testamento non gli riconosceva il relativo potere, non impugna con ciò il testamento, sicché, nei suoi confronti, non ricorre l'ipotesi di decadenza dalla qualità di erede testamentario, prevista dal testatore per l'eventualità che l'erede abbia contestato il testamento (Cass. n. 1375/1961). Segue. Il divieto di alienare i beni ereditari Ancora in tema di clausole poenae nomine, bisogna soffermarsi sul divieto di alienazione, ossia sul divieto imposto dal testatore all'erede di alienare beni ereditari per atto tra vivi. In questo caso la violazione della clausola impeditiva dell'alienazione viene sanzionata mediante lo scioglimento della disposizione testamentaria attributiva del lascito, sempre che, naturalmente, la condizione de non alienando non si riferisca alla quota di legittima, riguardo alla quale vale il principio posto dall'art. 549, che esclude l'imposizione di pesi o condizioni sulla quota dei legittimari. Parte della dottrina ritiene che il divieto di alienazione sia precluso al testatore (Vitucci, 1983, 666). Conclusioni opposte sono state raggiunte a partire dall'osservazione « per così dire spicciola » che se il divieto di alienazione può essere disposto dalle parti contraenti, come riconosce oggi l'art. 1379, non si vede perché non possa esserlo anche dal testatore (Bonilini, 1984, 237). Di recente si è detto che l'attribuzione patrimoniale testamentaria di un bene con vincolo perpetuo di destinazione imposto dal disponente con clausola modale, è nulla per violazione dell'art. 1379 c.c., risultando eccessivamente compromesso il diritto di proprietà dell'onerato, i cui poteri dispositivi sul bene - destinato a circolare, a pena di inadempimento, con il medesimo vincolo - risultano sostanzialmente sterilizzati sine die (Cass. n. 23616/2023, che ha però ritenuto valido un vincolo di sessanta anni). La clausola si sine liberis decesserit Così come il tema del divieto di alienazione dei beni ereditari, la questione dell'ammissibilità della clausola si sine liberis decesserit, ossia della clausola con cui il testatore assoggetta l'istituzione alla condizione risolutiva della morte dell'onorato senza figli, disponendo in pari tempo una sostituzione ordinaria, è stato posto in correlazione con l'argomento delle sostituzioni fedecommissarie. Secondo l'opinione comune, nel caso della clausola si sine liberis decesserit, si ha una duplice istituzione condizionata risolutivamente e sospensivamente allo stesso evento della morte del primo istituito senza prole. La clausola si distingue dalla sostituzione fedecommissaria perché nella prima vi sono due vocazioni alternative, mentre nella seconda vi sono due vocazioni cumulative. Nel caso della clausola si sine liberis decesserit, in altri termini, l'istituito è sempre uno soltanto: se si verifichi la condizione, il suo effetto retroattivo fa sì che la prima chiamata debba aversi per non mai effettuata. La S.C., intervenuta numerose volte sul tema, si è ritenuto che la clausola si sine liberis decesserit sia nulla solo in quanto risulti che il testatore l'abbia utilizzata per eludere il divieto di sostituzione fedecommissaria, tenuto conto delle particolari ragioni del caso concreto. È stato così ribadito che la clausola testamentaria si sine liberis decesserit non implica di per sé una sostituzione fedecommissaria, dovendosi accertare caso per caso, sulla base della volontà del testatore e delle particolari circostanze e modalità della disposizione se essa sia stata impiegata per mascherare una sostituzione fedecommissaria, ovvero se abbia avuto la funzione di una vera e propria condizione, con tutti i caratteri che le sono propri, ivi compresa l'efficacia retroattiva, funzionante risolutivamente, rispetto all'acquisto del primo istituito (Cass. n. 11428/1990; Cass. n. 12564/1992; Cass. n. 12681/1993). Al fine di distinguere la clausola si sine liberis decesserit dalla sostituzione fedecommissaria, si deve procedere « caso per caso, in base alla volontà del testatore, la quale deve essere individuata non solo attraverso la valutazione complessiva del testamento, ma anche facendo ricorso a elementi estrinseci (tarda età o non del beneficiario, difetti fisici dei medesimi ecc.) » (Cass. n. 150/1985), verificando se la clausola abbia avuto la funzione di una vera e propria condizione apposta alla doppia vocazione, con tutti i caratteri e gli effetti propri delle condizioni, compresa la retroattività, oppure sia stata adoperata per mascherare una sostituzione fedecommissaria vietata. Non manca, però, una tesi dottrinale tende a negare validità alla clausola si sine liberis decesserit (Carnelutti, 1958, 114). Altri sostengono che non si potrebbe vedere nell'istituzione si sine liberis decesserit una istituzione condizionale. Difatti, se interpretata come condizione sospensiva, comporterebbe « l'assurdo di dover attendere la morte dell'istituito per sapere se egli era erede o no » (Cicu, 1969, 224). Intesa, invece, come condizione risolutiva dovrebbe « tradursi in questi termini: istituisco erede Tizio; ma alla sua morte, se non avrà figli viventi, voglio che l'eredità si devolva a Caio. Nella quale formula è evidente la doppia successiva istituzione » (Cicu, 1969, 224). Altri ancora osservano non soltanto con riguardo alla condizione si sine liberis decesserit, ma in generale, che ogni qual volta si abbia una condizione risolutiva, che possa verificarsi soltanto al momento della morte del primo chiamato, e che debba considerarsi, secondo l'interpretazione dell'intento del testatore, come irretroattiva, ci si troverà alla presenza di una sostituzione fedecommissaria vietata (Talamanca, in Comm. S.B. 1965, 309). La condizione si sine liberis decesserit, però, non rientrerebbe necessariamente nel numero di quelle che possono verificarsi solo alla morte del primo istituito, il quale, infatti, potrebbe perdere la capacità di procreare nel corso della vita, sebbene da taluno si obbietti che il primo istituito potrebbe ricorrere all'adozione (Luminoso, 1970, 32). 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