Codice Civile art. 636 - Divieto di nozze.Divieto di nozze. [I]. È illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori [634; 138 trans.]. [II]. Tuttavia il legatario di usufrutto [978 ss.] o di uso, di abitazione [1021 ss.] o di pensione, o di altra prestazione periodica per il caso o per il tempo del celibato o della vedovanza, non può goderne che durante il celibato o la vedovanza. InquadramentoNello stabilire l'illiceità della condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori, ossia che richiede alla persona istituita di rimanere celibe o nubile, ovvero vedovo o vedova, la norma in commento costituisce applicazione della regola sabiniana prevista dall'art. 634. La condizione di celibato o di vedovanza, cioè, si ha per non apposta, fuori del caso, beninteso, che essa possieda esclusiva efficacia motivante della disposizione, nel qual caso la travolge per intero, in applicazione dell'art. 626. La formulazione della norma, la quale scorre di impedimento alle nozze, appare imprecisa, giacché il testamento non può evidentemente costituire, di per sé, obbiettivo ostacolo al matrimonio, ma si riferisce alle disposizioni attributive di beni condizionate all'osservanza del divieto di nozze e che, così, pongano l'erede istituito ovvero il legatario di fronte all'alternativa di non sposarsi e conservare il beneficio, ovvero di sposarsi e perderlo (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 270; Tamburrino, 1992, 486; Di Mauro, 1992, 1755). La disposizione è frutto di compromesso tra la tradizione e l'evolversi dei costumi sociali, e non sempre si presenta di semplice ricostruzione, nonostante la sua apparente lineare formulazione, pur fondandosi su una ratio palese: la giurisprudenza ha da tempo riconosciuto nella libertà dell'istituito dalla coartazione del testatore l'oggetto della tutela apprestata dall'art. 636, comma 1. E dunque la S.C. ha da decenni ricondotto alla disposizione in esame la condizione risolutiva per cui l'attribuzione patrimoniale disposta dal de cuius debba essere perduta dall'onorato in caso di passaggio a nozze, evidenziandone il contenuto di coartazione della libertà matrimoniale (Cass. n. 2359/1952). Difatti, è del tutto chiaro che la legge non possa consentire al testatore di ingerirsi fino a tal punto nella vita dell'istituito da pregiudicare la sua libertà matrimoniale, ponendolo di fronte alla dura scelta tra due rinunce, quella ai beni relitti o quella al matrimonio. Ma, seppur la ratio è evidente, non sempre lo sono i limiti della concreta applicazione del principio, limiti che la S.C. ha talora inteso in senso eccessivamente angusto. Non c'è dubbio, allora, che sia nulla la condizione che preclude totalmente all'istituito le nozze. Il giudice di legittimità, in tal senso, ha considerato illecita la condizione di nubilato formulata in modo che l'erede, sposandosi, perda la qualità di erede ed acquisti quella di legatario (Cass. n. 1990/1959). Ma, assai più discutibilmente, la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni considerato lecita l'istituzione che non contempli un divieto assoluto di nozze, ma imponga all'istituito delle limitazioni più circoscritte. Così, se non può integralmente coartarsi la libertà dell'erede o legatario con riguardo alle sue scelte matrimoniali, si potrebbe condizionare la disposizione testamentaria alla scelta di un coniuge di adeguata classe sociale (Cass. n. 568/1942). Ciò perché se la libertà di contrarre matrimonio « non è tolta, ma soltanto relativamente limitata, la condizione deve ritenersi perfettamente valida ed efficace » (Giannattasio, 1961, 226). Sposare una persona della propria classe socialeRisale a trent'anni or sono la pronuncia con cui si è ritenuto che la clausola con la quale la testatrice aveva lasciato al fratello vari immobili in usufrutto, aggiungendo che essi gli sarebbero stati attribuiti in piena proprietà se avesse sposato « una signorina appartenente alla loro classe sociale », fosse del tutto estranea al paradigma dell'art. 636 — riferito al solo divieto assoluto di nozze — e neppure ricadesse nella disciplina dell'art. 634 quale condizione illecita (Cass. n. 102/1986; nello stesso senso Cass. n. 568/1942; Cass. n. 1945/1945; Cass. n. 2672/1953). Assieme a autorevoli adesioni della dottrina — v. Azzariti, 1986, 1011 — vi è stato chi ha sottolineato la costante necessità di adeguare l'interpretazione « alle esigenze dell'ambiente sociale, quali emergono dal suo sviluppo » (Schermi, 1987, 190). Tale atteggiamento risulta essere in dottrina del tutto prevalente (De Cupis, 1987, 1483 ss., Dall'Ongaro, 1988, 110 ss., Galoppini, 1989, 735 ss.), quantunque non manchi qualcuno disposto a schierarsi contro « un così vistoso fronte diremmo libertario » (Gardani Contursi Lisi, in Comm. S.B. 1992, 297 ss.). Va ancora evidenziato, sul tema, che il punto di vista critico nei confronti del ricordato orientamento della S.C., così come il punto di vista adesivo, muove dall'assunto che il divieto di nozze di cui all'art. 636 debba essere inteso come divieto assoluto, sicché l'illiceità di ogni minore limitazione della libertà matrimoniale viene dai critici fatta discendere non dall'art. 636 ma dalla regola generale posta dall'art. 634. Altri autori, discostandosi dalla soluzione, propendono per la tesi che qualunque interferenza nella libertà matrimoniale altrui comporta una correlativa lesione della libertà individuale, di cui quella è un'espressione; lesione che potrà essere più o meno grave, ma sempre illecita e, in ogni caso, mai commendevole al punto che l'ordinamento giuridico si debba occuparsi di apprestarle tutela (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 270). Sposare o non sposare una persona determinataÈ stata ritenuta la liceità della condizione apposta al testamento che impedisca le nozze con una persona determinata. Ciò sull'assunto che detta condizione non toglie la libertà individuale e mantiene invece alla persona beneficata una quasi illimitata libertà di scelta, per cui il sacrificio imposto è da ritenersi, nella generalità dei casi, di assai modeste proporzioni (Giannattasio, 1961, 229). Si richiede, perché la condizione sia lecita, che l'istituito, alquanto oscuramente, non sia « obbligato moralmente a contrarre matrimonio » (Giannattasio, 1961, 229). Ovvero, mettendo da parte ogni oscurità, si esige che « il matrimonio non fosse servito a riparare il fatto compiuto, giacché allora sarebbero entrate in giuoco ben diverse considerazioni » (Azzariti 1986, 1014). La S.C., opinando per la liceità della condizione, ha considerato valida la clausola con cui il testatore, desiderando che il figlio sposasse « una onorata fanciulla », aveva assoggettato l'istituzione alla condizione che egli troncasse una relazione in corso da quindici anni con un'altra donna, evidentemente non altrettanto onorata (Cass. n. 2672/1953). La S.C. ha in seguito ripetuto l'affermazione secondo cui non è illecita la condizione di non contrarre matrimonio con persona determinata (Cass. n. 150/1985; v. in dottrina Miserocchi 1985, 586 ss.). Alla dottrina « non può non apparire ripugnante il tentativo del testatore di coartare in qualsiasi modo (anche minimamente) la libertà dell'onorato » (Bigliazzi Geri, in Tr. Res. 1997, 154). Difatti, diversamente dal divieto di nozze puro e semplice la condizione di non sposare una persona determinata si pone come ostacolo ad un progetto evidentemente già in atto, ad una scelta cioè già operata dal beneficato e, perciò, come compressione di per se stessa più grave e penetrante di un generico divieto. Sembra dunque da ritenere che la clausola in esame debba cadere sotto la disciplina dell'art. 636. Ed è certamente nulla la condizione di sposare una determinata persona. In questo caso, la clausola non si presenta come divieto, ma naturalmente lo è, poiché, condizionando l'istituzione al matrimonio con una persona determinata, esclude il matrimonio con ogni altra (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 271; Di Mauro, 1992, 1756; Serino, 1992, 921). In tal senso è la giurisprudenza (Cass. n. 1633/1953; Cass. n. 2359/1952; Cass. n. 568/1942). La condizione si nupseritAppartiene alla tradizione la condizione si nupserit, ossia la condizione sospensiva che fa dipendere l'efficacia dell'istituzione dal matrimonio dell'istituito. Essa sarebbe estranea alla fattispecie dell'art. 634 e si collocherebbe al di fuori dall'area di operatività dell'art. 634 in quanto il matrimonio «è lo stato normale della persona umana» (Giannattasio, 1961, 229). E ciò, in adesione alla già rammentata inclinazione della dottrina meno recente e della giurisprudenza ad ammettere, attraverso l'apposizione della condizione, limitazioni da parte del de cuius alla libertà matrimoniale dell'istituito, a meno che non ne segua « una limitazione psichica intollerabile » (Cass. n. 102/1986). La liceità della condizione è stata argomentata anche a partire dall'art. 785 il quale ammette la donazione effettuata in vista di un futuro matrimonio, per desumerne che «se è valida la donazione fra vivi fatta in contemplazione di matrimonio determinato e non ha effetto se non segue il matrimonio, non v'è ragione a dire invalida nel testamento una condizione che è valida nelle donazioni» (Giannattasio, 1961, 228). A siffatta osservazione si è obiettato anzitutto che è assai dubbio che l'art. 785 preveda una vera e propria fattispecie condizionale, e si è rilevato che le due ipotesi sono profondamente differenti, dal momento che la scelta dello sposo o della sposa, nel caso della donazione in contemplazione di matrimonio, è compiuta dagli interessati, mentre la condizione si nupserit si pone proprio quale interferenza nella menzionata scelta. In altre parole, « c'è una bella differenza tra (tentare di) indurre ad un matrimonio ed assecondare con una donazione un matrimonio già deciso » (Galoppini, 1989, 743). Anche la clausola si nupserit, perciò, è stata intesa come indebita pressione sulla libertà matrimoniale (Di Mauro, 1992, 1756), perciò nulla per contrasto con l'ordine pubblico. In tal senso è infine pronunciata la giurisprudenza, second cui la condizione, apposta ad una disposizione testamentaria, che subordini l'efficacia della stessa alla circostanza che l'istituito contragga matrimonio, è ricompresa nella previsione dell'art. 634 ed è, pertanto, illecita, in quanto contraria al principio della libertà matrimoniale tutelato dagli artt. 2 e 29 Cost. Essa, pertanto, si considera non apposta, a meno che non sia stato l'unico motivo determinante della volontà del testatore, nel qual caso rende nulla la disposizione testamentaria (Cass. n. 8941/2009). Il divieto di concubinatoLa condizione risolutiva imposta all'istituito di astenersi dal concubinato è stata ritenuta lecita, in epoca remota, sulla considerazione che il divieto di concubinato non rientra nell'art. 636 e neppure è contrario alla legge, all'ordine pubblico ed al buon costume (Cass. n. 166/1943). Oggi sembra superfluo dire che «la condizione di astenersi dal concubinato non può che valutarsi illecita» (Caramazza, in Comm. De M. 1982, 636; Errani-Malaguti, 1996, 786 s.). L'evento nozze lecitamente dedotto in condizioneSe la ratio dell'art. 636 sta nel tutelare la libertà del volere dell'istituito dalla coartazione operata dal testatore, è agevole individuare taluni casi in cui la deduzione delle nozze come condizione apposta all'istituzione non costituisca espressione di una qualche volontà di coartazione, e sia pertanto valida. Ed infatti, è stata riconosciuta lecita la condizione di nubilato in un caso in cui era stata assegnata alla figlia la disponibile per l'ipotesi che non si maritasse, essendo stato accertato che il testatore non aveva inteso coartare la libertà matrimoniale dell'istituita, ma aveva voluto prevedere un diverso assetto patrimoniale secondo che si fosse verificata l'una o l'altra situazione (Trib. Bergamo 15 giugno 1949). L'impostazione che precede è stata recepita dalla S.C., che, in un caso in cui la testatrice aveva avvantaggiato una figlia rispetto agli altri eredi « perché essa non ha nessuno e non è sposata », apponendo all'istituzione la condizione risolutiva per il caso del suo matrimonio (Cass. n. 2122/1992). Tali considerazioni non hanno persuaso la generalità della dottrina, parte della quale ha ritenuto che, anche nel caso prospettato, vi sarebbe una oggettiva illiceità, per effetto della coartazione della volontà dell'istituita, nonostante la liceità del motivo (Di Mauro, 1992, 1757; sul tema v. pure Serino, 1992, 919 ss.). Legato di prestazione temporanea per il caso e per il tempo del celibato e della vedovanzaDopo aver stabilito al comma 1 il divieto della condizione di celibato o di vedovanza, l'art. 636 al comma 2, dispone che, tuttavia, il legatario di usufrutto, uso, abitazione, pensione, ovvero di altra prestazione periodica per caso o per il tempo del celibato o della vedovanza, non può goderne che durante il celibato o la vedovanza. Mentre non si rinvengono obiezioni all'affermazione secondo cui il legislatore, nel formulare la disposizione in esame, ha senza dubbio tenuto presente la situazione della donna, ma la norma opera certamente anche nei riguardi dell'uomo (Cass. n. 1834/1973), si discute sul rapporto tra il primo ed il secondo comma dell'art. 636 che l'avverbio « tuttavia », con cui quest'ultimo si apre, sembrerebbe porre in termini di rapporto tra regola ed eccezione. Sul che la S.C. è intervenuta in argomento due volte, con due pronunce in contrasto tra loro. Secondo una prima decisione si applica il comma 1 dell'art. 636 quando risulti che la condizione di vedovanza, apposta da un coniuge alla disposizione testamentaria a favore dell'altro, tenda ad impedirne le ulteriori nozze; il comma 2 ove sia accertato che il coniuge, con la disposizione a titolo particolare, prevista dalla stessa norma, abbia voluto giovare al beneficiato, assicurandogli, per il tempo di vedovanza, mezzi economici per affrontare meglio quello stato (Cass. n. 641/1966). Tale ordine di idee è stato disatteso da una successiva pronuncia di legittimità che è nuovamente intervenuta sulla materia, facendo proprie talune critiche provenienti dalla dottrina (Cassisa, 1966, 1355 ss.). La S.C. ha sostenuto che l'art. 636, comma 2, si pone in contrapposizione con il comma precedente. Il comma 1, cioè, detta la disciplina generale, secondo cui la condizione impeditiva delle prime nozze o delle ulteriori, apposta ad una disposizione successoria, tanto a titolo universale che particolare, vitiatur, sed non vitiat, salvo che non ne sia stata l'unico motivo determinante, nel qual caso vitiatur et vitiat, ex art. 626. Il comma 2, riferendosi alle sole disposizioni a titolo particolare ivi contemplate, « detta una disciplina oggettiva del condizionamento della disposizione medesima al tempo del celibato o della vedovanza » (Cass. n. 1834/1973). 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