Codice Civile art. 1362 - Intenzione dei contraenti.

Cesare Trapuzzano

Intenzione dei contraenti.

[I]. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

[II]. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto [1326].

Inquadramento

Le teorie sulla natura del negozio giuridico, e segnatamente le tesi che attribuiscono prevalenza all'elemento volontaristico ovvero all'aspetto dell'autoregolamento, hanno una diretta incidenza sulla lettura dei criteri interpretativi del contratto: secondo la prima opinione occorre dare un peso decisivo all'individuazione dell'effettiva volontà delle parti; secondo la seconda opinione assume un valore assorbente la volontà oggettivizzata nella dichiarazione con cui le parti hanno raggiunto l'accordo (Bianca, 388; Carresi, in Tr. C. M. 1987, 499; Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 273). In base alla ricostruzione maggioritaria l'interpretazione è operazione logico-giuridica diretta ad individuare il contenuto concreto dell'autoregolamento dei privati (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 499; Grassetti, 904) ovvero la determinazione del senso giuridicamente rilevante della dichiarazione contrattuale, condotta alla stregua della norma giuridica, la quale ha precisamente il compito di fissare l'oggetto della ricerca (Bianca, 377). Sicché l'interpretazione non è volta ad accertare la volontà dell'uno o dell'altro contraente, ma quella volontà che si è tradotta nell'accordo e che ha acquistato un significato socialmente rilevante (Bianca, 378; Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 272). A differenza della legge non è ammessa un'interpretazione evolutiva del contratto (Grassetti, 905). Inoltre, sebbene sia l'interpretazione della legge sia l'interpretazione del contratto siano dirette ad accertare il significato di un fatto giuridico in senso lato, la prima tende ad accertare il contenuto di una regola dell'ordinamento, in ragione della sua funzione sociale, mentre la seconda tende ad accertare il contenuto di un atto di autonomia privata, in base all'intento dei suoi autori (Bianca, 379).

La giurisprudenza definisce l'interpretazione del contratto come il processo logico-giuridico di adeguata lettura dell'intenzione delle parti consacrata nell'atto, che tenga conto della natura del contratto e della complessiva disciplina negoziale, non limitandosi ad esaminare in astratto il significato lessicale delle parole adoperate (Cass. n. 98/1979). Tale opera interpretativa integra un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, come accade quando occorre stabilire se si tratta di contratto definitivo o preliminare di vendita, sulla scorta dell'indagine sull'immediata produzione dell'effetto traslativo ovvero sulla sua rimessione ad una successiva manifestazione di consenso (Cass. n. 21650/2019; Cass. n. 24150/2007; Cass. n. 21381/2006).

La rilevanza delle norme interpretative

Le norme di interpretazione sono norme giuridiche oltre che norme tecniche, quando si adeguano ai canoni della logica (Bianca, 385). Secondo altra opinione la qualificazione in termini di norme giuridiche spetta solo a quelle regole interpretative che introducono un quid novi rispetto alle regole logiche di interpretazione, caratteristica che si riscontra solo negli artt. 1368 e 1370 (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 522). La violazione delle regole sull'interpretazione del contratto costituisce violazione di norme di diritto sostanziale, censurabile in sede di legittimità (Bianca, 383; Carresi, in Tr. C.M., 1987, 500). Il giudice di legittimità non può sostituire la propria interpretazione del contratto a quella censurata, ma deve rinviare ad altro giudice di merito affinché questi proceda a nuova interpretazione sulla base dei corretti criteri individuati (Bianca, 383). Tali norme sono dirette prima che ai giudici a tutti coloro che hanno l'obbligo o l'onere di interpretare il contratto, ivi comprese le parti contrattuali (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 267). Altro autore ritiene che dette norme siano dirette solo all'autorità giudiziaria, deputata all'interpretazione del contratto all'esito dell'apertura di un processo su iniziativa della parte che sul contratto fondi una sua pretesa o difesa (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 502). Le norme sull'interpretazione sono derogabili, fatta eccezione per la norma che impone la buona fede, norma a cui è sotteso un principio di ordine pubblico (Bianca, 386). In base ad altra ricostruzione sarebbero derogabili solo gli artt. 1362, comma 2, 1365, 1368 e 1371 per i contratti a titolo gratuito (Carresi, in Tr. C.M., 1987, 503).

L'interpretazione del contratto quale indagine di fatto riservata al giudice di merito, è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica o per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (Cass. n. 995/2021; Cass. n. 21858/2020 ; Cass. n. 13595/2020;Cass. n. 20294/2019 ; Cass. n. 11254/2018; Cass. n. 27136/2017;Cass. n. 16181/2017Cass. n. 25574/2008).

L'interpretazione e la qualificazione

In base ad un orientamento espresso in dottrina l'interpretazione si distingue dalla qualificazione: la prima è diretta ad accertare il contenuto sostanziale del contratto; la seconda mira a verificare il valore giuridico dell'atto, ossia la sua qualifica, i relativi effetti ed eventualmente l'integrazione di tali effetti (Carresi, in Tr. C.M. 1987, 505; Bianca, 380). In senso opposto si rileva che l'interpretazione, in quanto implica la determinazione della fattispecie contrattuale, postula la qualifica giuridica dell'atto, risultando ulteriore esclusivamente l'individuazione degli effetti giuridici e l'eventuale integrazione (Rizzo, 81; Casella, 179; Mosco, 20).

Secondo la S.C. l'interpretazione comprende la qualificazione giuridica, pur risultando le due operazioni ben differenziate (Cass. n. 15603/2021; Cass. n. 16342/2002; Cass. n. 2048/1993). Precisamente il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi: la prima consiste nella ricerca e nell'individuazione della comune volontà dei contraenti, e tale accertamento di fatto è riservato al giudice di merito, la seconda concerne l'inquadramento della comune volontà, come appurata nello schema legale corrispondente, e tale accertamento può formare oggetto di verifica in sede di legittimità, circa i criteri astratti, generali e tecnici applicati dal giudice di merito (Cass. n. 3590/2021; Cass. n. 3115/2021; Cass. n. 29111/2017;Cass. n. 420/2006; Cass. n. 12289/2004; Cass. n. 5150/2003).

L'interpretazione e l'integrazione

L'interpretazione si distingue altresì dall'integrazione poiché la prima precisa il contenuto del contratto, ossia attiene alla determinazione della fattispecie contrattuale, mentre la seconda ha valenza suppletiva ed è volta a stabilirne gli effetti, ossia attiene alla determinazione dell'effetto giuridico (Bianca, 407; Grassetti, 905). In base ad altra opinione l'interpretazione implica l'esegesi di una determinazione mentre l'integrazione presuppone una lacuna nel regolamento di autonomia privata; tuttavia tale separazione non è sempre possibile, in quanto l'interpretazione talvolta opera come vera e propria sostituzione di clausole, talvolta quale parametro comportamentale nell'esecuzione di prestazioni già contrattualmente definite (Costanza, 25). La distinzione assume rilievo anche nel caso di interpretazione oggettiva; infatti quest'ultima è pur sempre funzionale all'accertamento del significato della regola del contratto mentre l'integrazione presuppone il difetto di tale regola (Bianca, 382). In forza di altra ricostruzione l'interpretazione e l'integrazione sono entrambe dirette a delineare il regolamento negoziale, poiché la prima opera attraverso la ricostruzione del significato giuridicamente rilevante del contenuto contrattuale in tutta la sua estensione e la seconda attraverso un contributo esterno alla configurazione della regola negoziale (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 515). L'interpretazione oggettiva è talvolta qualificata come integrativa (Bianca, 407).

Secondo la giurisprudenza l'interpretazione e l'integrazione del contratto non costituiscono attività distinte, ma sono organicamente dirette all'unitaria ricerca del contenuto obbligatorio del negozio e degli effetti che ne scaturiscono (Cass. n. 1189/1965).

L'interpretazione soggettiva e oggettiva

L'interpretazione soggettiva o storica, regolata dagli artt. 1362-1365, è diretta ad accertare la comune intenzione delle parti, come tradottasi nell'accordo; invece l'interpretazione oggettiva, disciplinata dagli artt. 1366-1371, si riferisce alla valutazione normativa di alcuni comportamenti, alla quale si fa ricorso quando la comune intenzione dei contraenti non è chiaramente manifestata (Bianca, 384; Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 274; Grassetti, 906; Mosco, 31). Secondo alcuni prevarrebbe una lettura in chiave oggettiva dell'art. 1365, sebbene tale norma esprima ambiguamente un criterio di interpretazione soggettiva e di integrazione (Casella, 202). Dubbi sussistono anche sulla collocazione sistematica dell'art. 1366: un filone della dottrina ritiene che si tratterebbe di norma di interpretazione oggettiva, destinata a trovare applicazione solo quando sussista ancora incertezza sul contenuto contrattuale, una volta esaurita l'interpretazione soggettiva (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 524); altra tesi afferma invece che si tratterebbe di norma di carattere generale, valevole sempre come criterio di applicazione di tutte le regole sull'interpretazione, ovvero quale “punto di sutura tra gli articoli che precedono e i seguenti”, secondo la relazione del Guardasigilli (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 275). Anche l'art. 1367 non sarebbe una norma di interpretazione oggettiva, bensì di interpretazione soggettiva, seppure sussidiaria rispetto all'art. 1362 (Bianca, 385; Oppo, 24). Infine è stato negato il carattere di norma di interpretazione oggettiva dell'art. 1369 (Oppo, 40; Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 275; Bianca, 404). I criteri di interpretazione oggettiva non si ispirano alla determinazione della volontà che le parti devono avere presumibilmente avuto, ma a finalità oggettive di tutela della buona fede e di equità (Oppo, 159). Le norme di interpretazione oggettiva permettono di evitare che l'atto, in tutto o in parte oscuro o equivoco, venga dichiarato nullo, in tutto o in parte, svolgendo la funzione di determinazione del contenuto (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 281). In senso critico un autore afferma la sostanziale continuità del procedimento ermeneutico che muove dalla peculiarità della regola negoziale posta dai contraenti verso la tipicità e generalità degli schemi ricostruttivi proposti dall'ordinamento, sicché la rigida distinzione tra criteri interpretativi soggettivi e oggettivi è priva di senso (Scognamiglio C., 387). Un altro filone della dottrina reputa piuttosto rilevante la discriminazione tra interpretazione testuale, di cui agli artt. 1363-1371, e interpretazione extratestuale, alla quale fa riferimento l'art. 1362: la prima comprende l'interpretazione letterale e logica dell'accordo; la seconda fa riferimento all'intenzione delle parti (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 524).

La sussidiarietà tra criteri interpretativi

I criteri di interpretazione soggettiva devono essere utilizzati in via prioritaria mentre i criteri di interpretazione oggettiva hanno rilevanza residuale. Anche tutti i criteri di interpretazione non letterale del contratto hanno carattere sussidiario (Bianca, 384). In base all'opinione di un autore la gerarchia tra le regole interpretative esprime solo l'esigenza che alla reale intenzione dei contraenti non si sovrapponga la soggettiva e arbitraria valutazione giudiziale (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 525). Le regole di interpretazione oggettiva si applicano secondo un ordine di priorità: prevale il principio di conservazione del contratto; segue la regola di interpretazione secondo gli usi; nel dubbio si applica la regola dell'interpretazione in senso sfavorevole all'autore della clausola; infine trova applicazione la regola sull'interpretazione equitativa e più favorevole all'obbligato a titolo gratuito (Bianca, 407).

Anche la S.C. afferma che le regole di interpretazione oggettiva sono sussidiarie rispetto a quelle di interpretazione soggettiva; pertanto alle prime dovrà ricorrersi solo quando il significato dell'accordo rimanga ancora dubbio all'esito dell'utilizzazione delle regole di interpretazione soggettiva (Cass. n. 27564/2011; Cass. n. 10218/2008; Cass. n. 11104/2007; Cass. n. 9910/2004; Cass. n. 5150/2003; Cass. n. 4680/2002; Cass. n. 11404/2000; Cass. n. 4328/1989). I criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi — quale va considerato anche il principio di buona fede, sebbene questo rappresenti un punto di collegamento tra le due categorie — e ne escludono la concreta operatività, quando l'applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti, tenuto conto peraltro che, nell'interpretazione del contratto il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell'accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo (Cass. 12120/2005). Una deroga al principio di gerarchia dei canoni ermeneutici si riscontra in tema di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune, in ragione della loro funzione normativa: in questo ambito le espressioni letterali, la connessione delle singole clausole e l'integrazione in senso complessivo costituiscono mezzi (in misura eguale) necessari all'esperimento del processo interpretativo della norma contrattuale (Cass. n. 24652/2008; Cass. n. 12736/2008).

L'oggetto dell'interpretazione

La norma si riferisce espressamente all'interpretazione del contratto. Tuttavia le regole interpretative sul contratto si applicano anche ai negozi giuridici unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale, ai sensi dell'art. 1324, purché tali regole siano compatibili con la natura e struttura di tale categoria negoziale (Grassetti, 904). Un autore sostiene che le regole ermeneutiche sul contratto siano altresì applicabili per analogia agli atti mortis causa (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 279), fatta eccezione per le regole che presuppongono la bilateralità del negozio, la buona fede e l'affidamento e sempre che non ricorrano regole interpretative speciali.

Secondo gli arresti giurisprudenziali le norme sull'interpretazione dei contratti si applicano anche ai negozi unilaterali nei limiti della compatibilità dei criteri stabiliti dagli artt. 1362 e seguenti con la particolare natura e struttura della predetta categoria di negozi (Cass. n. 9127/2015; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 11712/1998; Cass. n. 5082/1992); in specie tali regole si applicano alla procura speciale ad incassare crediti (Cass. n. 5234/2004), alle lettere di patronage (Cass. n. 10235/1995). Sicché il canone ermeneutico di cui all'art. 1362, comma 1, impone di accertare esclusivamente l'intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio; è invece esclusa, provenendo l'atto da un solo soggetto, la possibilità di applicare il canone interpretativo previsto per i contratti dall'art. 1362, comma 2, che fa riferimento alla comune intenzione dei contraenti, imponendo di valutare il comportamento complessivo delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto (Cass. n. 7973/2002; Cass. n. 12780/2000). Le norme sull'interpretazione dei contratti si applicano alle convenzioni matrimoniali accessorie a sentenze di divorzio (Cass. n. 10978/2003), agli atti costitutivi e agli statuti di persone giuridiche (Cass. n. 6566/1982), alle delibere assembleari (Cass. n. 925/1977), alle delibere condominiali (Cass. n. 5759/1980), ai regolamenti condominiali (Cass. n. 2968/1998), ai contratti collettivi di diritto comune (Cass. n. 13687/2002; Cass. n. 9764/2002; Cass. n. 7096/1993), ai regolamenti aziendali (Cass. n. 4333/1983), ai contratti di diritto privato stipulati dalla P.A. (Cass. S.U.n. 4833/1980), agli atti amministrativi (Cass. n. 8876/2006; Cass. n. 6461/1993). Non si applicano invece agli atti giudiziari (Cass. n. 25853/2014; Cass. n. 6125/2014; Cass. n. 24847/2011).

Le forme particolari di interpretazione

Si ha interpretazione autentica quando le parti si accordano sul significato da attribuire ad un contratto tra esse concluso, contemporaneamente o successivamente al momento della stipulazione. In tal caso le parti implicitamente derogano alle norme sull'interpretazione del contratto (Bianca, 417). In questa evenienza l'atto di interpretazione autentica potrebbe in realtà integrare una modifica del contratto originario. Restano in ogni caso intangibili le situazioni giuridiche vantate dai terzi, che abbiano acquistato diritti sulla base del significato apparente del contratto (Bianca, 417). Sono invece norme materiali di interpretazione talune norme, presenti nel codice, che non stabiliscono criteri generali di interpretazione, secondo il modello delle norme formali di interpretazione, ma fissano un determinato risultato ermeneutico per talune clausole, in quanto non risulti storicamente una diversa volontà delle parti, come accade con riferimento all'art. 688. La parte che afferma un'interpretazione diversa da quella tipicamente fornita dalla legge deve dimostrare la conforme volontà delle parti su tale interpretazione eterogenea; sicché l'onere probatorio si trasferisce a carico di colui che sostiene l'interpretazione diversa; tali norme materiali si applicano subito dopo l'applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva. Le norme sull'interpretazione dei contratti si applicano qualora dall'interpretazione del contratto dipenda la determinazione della legge applicabile, non invece quando sia palese che un contratto è regolato nella sua sostanza da una legge straniera (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 501; Bianca, 387). Attraverso l'interpretazione possono rinvenirsi nel testo del contratto le clausole di stile, ossia quelle clausole inserite nel contratto che non trovano alcun effettivo riscontro nella determinazione volitiva dei contraenti, corrispondendo ad una pratica stilistica per determinati atti (Bianca, 409). È discussa in dottrina l'attinenza dell'istituto della presupposizione con le regole di interpretazione del contratto: in base ad un primo assunto la presupposizione sarebbe una regola ermeneutica e non una regola giuridica, poiché occorrerebbe valutare dal contesto dell'atto quali fatti le parti abbiano assunto a base comune della contrattazione (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 506; Costanza, 179); una lettura sostanzialmente assimilabile ritiene che la presupposizione sia strettamente connessa al procedimento ermeneutico (Scognamiglio C., 256); infine un altro autore afferma che l'art. 1366 può essere utilizzato per risolvere i problemi indicati con l'espressione presupposizione (Bigliazzi Geri, in Comm. S., 1991, 269).

Nel caso di formale riproduzione nelle clausole del contratto di obblighi già nascenti dalla legge, ovvero di richiamo espresso di norme di legge comunque integrative della disciplina negoziale, l'interprete deve accertare, in base ai criteri legali di ermeneutica, l'effettiva portata del rinvio o del richiamo, atteso che questo come può avere valore di pura clausola di stile, così può assumere per volontà delle parti un particolare significato, che nelle concrete circostanze sia tale da trascendere il limite del dato legale recepito (Cass. n. 1082/1988). Si esclude che nell'interpretazione del contratto possano essere utilizzati criteri logici non codificati, come la regola riassunta nel brocardo adducere inconveniens non est solvere argomentum, ai quali è invece possibile richiamarsi in sede di interpretazione della legge (Cass. n. 1473/1979).

La comune intenzione delle parti

Nell'interpretare il contratto non rileva l'effettiva volontà del dichiarante o quella della controparte, bensì la comune intenzione delle parti (Costanza, 10), obiettivizzata nell'accordo (Bianca, 388). Mediante l'espressione “comune intenzione delle parti” viene data rilevanza ad un dato non reale ma virtuale o ideale, che si risolve nell'adozione del significato più plausibile, tra i vari che il contratto può assumere, in considerazione delle rispettive posizioni giuridiche ed economiche delle parti contrattuali (Costanza, 49). Qualora il destinatario abbia riconosciuto o avrebbe dovuto riconoscere l'erroneità della dichiarazione dell'emittente, vale la reale intenzione di quest'ultimo e non può esservi più spazio per l'errore ostativo come causa di annullabilità del contratto (Costanza, 14; Bianca, 389). Pertanto nell'interpretazione del contratto occorre avere riguardo al significato che ciascun contraente, in base alle concrete circostanze, doveva ragionevolmente attribuire all'accordo (Bianca, 389). Il principio in claris non fit interpretatio non è accolto dal nostro sistema giuridico, che attribuisce al giudice il potere-dovere di accertare che la comune volontà delle parti risulti in modo certo dalle espressioni letterali del contratto ovvero se occorra individuarla mediante ulteriori indagini (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 503). Tale indagine impone un completo esame ermeneutico, senza fermarsi ad una ricostruzione prima facie (Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 275).

La prescrizione all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. n. 10967/2023; Cass. n. 21576/2019; Cass. n. 10290/2001). Il nomen iuris attribuito dalle parti al contratto non riveste di per sé alcuna influenza in ordine alla qualificazione e all'interpretazione giuridica del contratto (Cass. n. 6610/1992); potrebbe al più avere valenza confermativa (Cass. n. 2395/1987). Deve essere comunque indagato il significato proprio delle parole adoperate dalle parti nel contratto, anche quando appaia chiaro, sicché deve essere negato valore al brocardo in claris non fit interpretatio (Cass. n. 24421/2015; Cass. n. 25840/2014).

L'interpretazione letterale

Il senso letterale delle parole costituisce imprescindibile dato di partenza dell'indagine ermeneutica. L'interprete però non può limitarsi al significato letterale delle parole nell'indagare in ordine alla comune intenzione delle parti (Bianca, 396). La comune intenzione delle parti può non corrispondere al significato normale dell'accordo nel caso di simulazione; anche in detta ipotesi dovrà però essere accertato il significato che assume obiettivamente il complessivo comportamento delle parti per l'esigenza di tutela dei terzi (Bianca, 389).

Nell'interpretazione del contratto, il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, mentre soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall'art. 1362 all'art. 1365 e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall'art. 1366 all'art. 1371 (Cass. n. 33451/2021). Il senso letterale delle parole va desunto da ogni parte della dichiarazione negoziale e da ogni parola che la compone, sicché la singola clausola, prima ancora di essere posta in relazione con le altre clausole, deve essere letta e valutata nella sua interezza (Cass. n. 11475/2024; Cass. n. 14882/2018; Cass. n. 23208/2012; Cass. n. 4670/2009; Cass. n. 4176/2007). L'elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e segnatamente di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla ragione pratica del contratto, in conformità agli interessi che le parti hanno inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale (Cass. n. 31811/2024; Cass. n. 29288/2024; Cass. n. 8940/2024; Cass. n. 2173/2022; Cass. n. 17718/2018; Cass. n. 7927/2017; Cass. n. 23701/2016).

Il comportamento complessivo delle parti

La comune intenzione delle parti può essere desunta non solo dal senso letterale delle parole adoperate, ma anche dal comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto. In ordine al ruolo di tale criterio ermeneutico vi sono contrasti: secondo un primo indirizzo il comportamento complessivo delle parti costituisce criterio sussidiario di interpretazione e non assume quindi rilevanza quando il senso letterale del contratto appaia chiaro e univoco (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 504); secondo altra opinione l'intenzione delle parti deve essere desunta, oltre che dal significato letterale, anche dal comportamento complessivo, sicché il riferimento alla valutazione del comportamento opera congiuntamente al riferimento al senso letterale delle parole adoperate (Bianca, 401; Mirabelli, in Comm. Utet 1984, 274). I comportamenti rilevanti al fine di determinare l'esatta intenzione delle parti sono solo gli atteggiamenti che queste assumono; non può invece farsi riferimento alla condotta di soggetti terzi, salvo che questi non abbiano agito su incarico dei contraenti (Mosco, 107). Ciò che assume rilievo non è il contegno di una sola delle parti, inidoneo ad evidenziare il contenuto di un accordo, ma il comportamento complessivo di tutte le parti (Carresi, in Tr. C. M. 1987, 506; Mosco, 108). Secondo un autore il comportamento di una sola parte è rilevante quando sia contrario agli interessi del soggetto che ha posto in essere tale condotta o in genere quando collimi con l'interpretazione adottata dall'altra parte (Sacco, in Tr. Vas. 1975, 431). Il criterio ermeneutico che riguarda l'esame dei comportamenti delle parti è applicabile anche ai contratti soggetti al vincolo della forma scritta ad substantiam, sempre che il contegno complessivo delle parti sia diretto a chiarire la comune intenzione consacrata nell'atto scritto, non già ad evidenziare la formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo (Bianca, 415). I comportamenti che assumono rilievo sono quelli contemporanei, antecedenti o successivi alla conclusione del contratto. Con riguardo al comportamento anteriore sono rilevanti le pratiche individuali seguite dalle parti, gli analoghi contratti intercorsi in passato tra le parti stesse, le trattative, gli accordi preliminari e gli accordi definitivi destinati ad essere tradotti in forma pubblica (Mosco, 103). Ove si riscontri incompatibilità tra il testo finale dell'accordo e il comportamento anteriore delle parti prevale di massima il primo, poiché costituisce oggetto dell'interpretazione la manifestazione conclusiva della volontà contrattuale (Bianca, 399), salvo che il contrasto si ponga in realtà tra l'accordo effettivamente raggiunto e il testo letterale del contratto (Bianca, 399). Il comportamento posteriore delle parti che rileva sotto il profilo ermeneutico può consistere tanto in un accordo fra le stesse parti, consacrato in ulteriori dichiarazioni ovvero nell'acclaramento del precedente contratto (Bianca, 400), quanto in atti posti in essere dalle parti nell'esecuzione del contratto (Bianca, 400; Mosco, 106). Secondo un autore la norma prenderebbe in considerazione i soli comportamenti esecutivi posteriori, rilevando il principio della coerenza e continuità di indirizzo della volontà dalla fase di formazione del contratto a quella di esecuzione (Mosco, 107). L'inesatta esecuzione del contratto tollerata dalla parte non autorizza ulteriori adempimenti inesatti. La ripetizione delle accettazioni tolleranti può tuttavia deporre per una tacita modifica del contratto (Bianca, 401), salvo che sia prescritto a pena di nullità un onere formale estensibile anche alle modifiche.

Anche la S.C. ritiene che i comportamenti delle parti devono essere valutati in funzione ermeneutica e non integrativa del contratto (Cass. n. 6053/2004). Detti comportamenti possono essere desunti nell'ambito dei rapporti che tra le medesime parti che si rinnovano e si ripetono in negozi successivi, nonché dalla disciplina univoca, costante e ricorrente nei diversi e precedenti contratti aventi lo stesso contenuto, da cui sia lecito presumere che in prosieguo le medesime parti ad essa vorranno continuare ad uniformarsi nella stipulazione dei contratti di quel tipo, specie quando ciò avvenga mediante un formulario standard in base ad un testo sempre identico per impostazione e per contenuto (Cass. n. 11707/2002; Cass. n. 4612/1997). Secondo una prima tesi l'esame dei comportamenti complessivi delle parti avrebbe valenza sussidiaria rispetto al senso letterale delle parole adoperate (Cass. n. 110/2013; Cass. n. 6366/2008; Cass. n. 16022/2002; Cass. n. 5389/1997); in base ad altro indirizzo il criterio interpretativo letterale e quello logico, ossia desumibile dai comportamenti, opererebbero in via congiunta o in posizione paritaria (Cass. n. 34687/2023; Cass. n. 20192/2011; Cass. n. 4668/2009; Cass. n. 10484/2004). In ragione di tale ultimo indirizzo, la volontà negoziale deve desumersi con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse (Cass. n. 2720/2009). Infatti, se è vero che l'elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une a mezzo delle altre, senza potersi arrestare ad una considerazione atomistica delle stesse, neppure quando il loro senso possa ritenersi compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell'atto e l'atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti (Cass. n. 7083/2006; Cass. n. 11089/2001). In conseguenza il processo interpretativo non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, (Cass. n. 14432/2016) anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (Cass. n. 21260/2023  Cass. n. 32786/2022 ; Cass. n. 9380/2016  Cass. n. 261/2006; Cass. n. 15150/2003; Cass. n. 11089/2001) I comportamenti valutabili a fini interpretativi sono solo quelli di cui siano partecipi entrambi i contraenti (Cass. n. 12535/2012; Cass. n. 415/2006; Cass. n. 13839/2004). Infatti il comportamento delle parti che sia successivo alla conclusione del contratto è rilevante sul piano ermeneutico purché sia un comportamento comune ovvero un comportamento unilaterale accettato, anche tacitamente, dall'altra parte, atteso che, come è comune l'intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, così deve essere comune il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della volontà da esse manifestata (Cass. n. 7083/2006). Assume rilievo a tale scopo pregio anche il comportamento dei dipendenti o ausiliari, che operino per conto dei contraenti (Cass. n. 11533/2014). Non può dunque aversi riguardo al comportamento dei terzi estranei al contratto (Cass. n. 18283/2022; Cass. n. 4914/1991). Nei contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo (Cass. n. 11828/2018;Cass.n. 5112/2018; Cass. n. 12297/2011; Cass. n. 14444/2006; Cass. n. 2216/2004; Cass. n. 8080/2002).

Bibliografia

Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997; Casella, Il contratto e l'interpretazione, Milano, 1961; Cataudella, I contratti. Parte generale, Torino, 2014; Costanza, Profili dell'interpretazione del contratto secondo buona fede, Milano, 1989; Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993; Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici inter vivos e mortis causa, in Nss. D.I. Torino, 1965; Messineo, Contratto, in Enc. dir., Milano, 1961; Mosco, Principi sull'interpretazione dei negozi giuridici, Napoli 1952; Oppo, Profili dell'interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943; Rizzo, Interpretazione del contratto e relatività delle sue regole, Napoli, 1985; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 1985; Scognamiglio C., Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992.

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