Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 18 - Reclamo 1 2

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Reclamo 1 2

 

Contro la sentenza che dichiara il fallimento puo' essere proposto reclamo dal debitore e da qualunque interessato con ricorso da depositarsi nella cancelleria della corte d'appello nel termine perentorio di trenta giorni.

Il ricorso deve contenere:

1) l'indicazione della corte d'appello competente;

2) le generalita' dell'impugnante e l'elezione del domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello;

3) l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni;

4) l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.

Il reclamo non sospende gli effetti della sentenza impugnata, salvo quanto previsto dall'articolo 19, primo comma.

Il termine per il reclamo decorre per il debitore dalla data della notificazione della sentenza a norma dell'articolo 17 e per tutti gli altri interessati dalla data della iscrizione nel registro delle imprese ai sensi del medesimo articolo. In ogni caso, si applica la disposizione di cui all'articolo 327, primo comma, del codice di procedura civile.

Il presidente, nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e fissa con decreto l'udienza di comparizione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso.

Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore e alle altre parti entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto.

Tra la data della notificazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni. Le parti resistenti devono costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza, eleggendo il domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello.

La costituzione si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria contenente l'esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonche' l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti.

L'intervento di qualunque interessato non puo' avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti con le modalita' per queste previste.

All'udienza, il collegio, sentite le parti, assume, anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio,tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente delegando un suo componente.

La corte provvede sul ricorso con sentenza.

La sentenza che revoca il fallimento e' notificata, a cura della cancelleria, al curatore, al creditore che ha chiesto il fallimento e al debitore, se non reclamante, e deve essere pubblicata a norma dell'articolo 17.

La sentenza che rigetta il reclamo e' notificata al reclamante a cura della cancelleria.

Il termine per proporre il ricorso per cassazione e' di trenta giorni dalla notificazione.

Se il fallimento e' revocato, restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura.

Le spese della procedura ed il compenso al curatore sono liquidati dal tribunale, su relazione del giudice delegato, con decreto reclamabile ai sensi dell'articolo 26.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 16 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, successivamente, dall'articolo 2, comma 7, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007.

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 27 novembre 1980, n. 151, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma del presente articolo, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui prevedeva che il termine di quindici giorni per fare opposizione decorresse per il debitore dalla affissione della sentenza che ne dichiara il fallimento.

Inquadramento

La modifica operata dal «correttivo» all'art. 18 l.fall. viene testualmente motivata, nella Relazione accompagnatoria al d.lgs. n. 169 del 2007, con l'esigenza di «escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello dettata dal codice di rito e ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito» [per un approfondimento dei temi trattati, cfr. Genoviva, 445; cfr. anche Vietti-Marotta-Di Marzio (a cura di)].

Ne consegue che scopo principale della nuova disciplina sembrerebbe pertanto essere quello di precludere all'interprete il ricorso analogico alla normativa codicistica sull'appello, ed in special modo agli artt. 345 e 346 c.p.c., rispettivamente sul divieto dei nova, anche istruttori, in secondo grado e sul principio tantum devolutum quantum appellatum, al fine di consentire alla Corte d'appello il completo riesame della vicenda che ha portato alla dichiarazione di fallimento, così avendo riguardo al carattere «indisponibile» della materia ed alle gravi conseguenze che la pronunzia di insolvenza provoca nella sfera giuridica del fallito (così Genoviva, Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 445. L'Autore evidenzia che, riguardo «all'improvvida tecnica legislativa» utilizzata per raggiungere gli scopi divisati, rimarrebbe sempre attuale l'osservazione della dottrina, secondo cui sarebbe stato sufficiente riesumare la disciplina codicistica dell'appello ante riforma del 1990, aperta ai nova, anziché scomodare le categorie e classificazioni impugnatorie del reclamo e dell'appello: così, in dottrina anche Fabiani, Il decreto correttivo, 2007, V, 228. In altri termini, sempre secondo l'Autore il tentativo del legislatore di evitare le preclusioni e limitazioni proprie dell'appello nel rito ordinario, attraverso la modifica del nomen del mezzo impugnatorio, si è rivelato ben presto fallace e foriero di tanti e tali problemi all'interprete, avendo messo irrimediabilmente in crisi il ricorso all'analogia per colmare le lacune della specifica disciplina di cui all'art. 18. Ed invero, da un lato diventerebbe sempre più arduo il richiamo alla disciplina dell'appello, dall'altro le scarne norme processuali in tema di reclamo — v. gli artt. 669-terdecies e 739 c.p.c.- non soccorrerebbero in alcun modo l'interprete, che è costretto a ricercare risposte ai molteplici dubbi interpretativi posti dall'art. 18 l.fall. attraverso il dato testuale offerto dalla stessa norma, l'intenzione del legislatore ed in ultima analisi il ricorso ai principi generali in tema di impugnazioni).

Generalità.

Per la storia, occorre ricordare che con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, l'art. 18l.fall. è stato profondamente modificato, in ossequio all'«obiettivo della speditezza del procedimento, imposto dalla legge delega» (così si legge nella Relazione governativa al d.lgs. n. 5 del 2006, in Guida dir., Dossier La Riforma del Fallimento/1, n. 4, aprile 2006, 63).

Invero, all'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, sulla cui natura di giudizio di primo grado ovvero di impugnazione si era tanto discusso (sul punto, si rinvia a Chimenti, 246-248 e Fabiani, Commento 2006, 349-351) si sostituisce, ora, l'appello.

Sul punto, occorre precisare che come giustificazione posta alla base dell'importante modifica, vi era, oltre all'esigenza di accelerazione della procedura — con la sostanziale eliminazione di una fase del giudizio (quella appunto a cognizione piena davanti allo stesso Tribunale che aveva dichiarato il fallimento) —, anche la consapevolezza che il nuovo procedimento prefallimentare, previsto nel novellato art. 15 l.fall., offrisse alle parti e soprattutto al debitore garanzie di difesa sostanzialmente non dissimili da quelle proprie di un giudizio a cognizione piena. Ed inoltre, nella riforma dell'istituto ha pesato anche la esigenza di investire della fase di impugnazione un giudice veramente terzo e imparziale, quale per l'appunto, la Corte d'appello.

Orbene, va detto che, mentre la dottrina si interrogava sulla reale natura del nuovo giudizio previsto dall'art. 18 l.fall., e cioè se si trattasse di un vero e proprio appello ovvero dello stesso precedente giudizio di opposizione, affidato così alla corte anziché al tribunale, la giurisprudenza di merito iniziava ad interrogarsi sulla fondamentale questione della possibilità o meno di far ricorso in via analogica alle norme codicistiche sull'appello, al fine di colmare le evidenti lacune della scarna disciplina specifica che l'art. 18 l.fall. dedicava al procedimento novellato.

Così, poteva accadere che una stessa corte di appello, sia pure in composizione parzialmente diversa, da un lato, affermasse la piena applicabilità delle regole proprie del giudizio di appello, quali in particolare l'art. 342 c.p.c. sulla specificità dei mezzi di impugnazione, l'art. 345 c.p.c. sul divieto di eccezioni e prove nuove, l'art. 346 c.p.c. sull'onere di riproporre le domande ed eccezioni disattese in prime cure (App. Torino 22 novembre 2006, in Fall. 2007, 918 ed in Foro it. 2007, I, 1532), dall'altro negasse l'operatività del divieto dei nova, posto dall'art. 345 c.p.c., nel giudizio di appello disciplinato dalla citata norma (App. Torino 5 giugno 2007, in Fall., 2007, 1237; conf. App. Ancona 24 marzo 2007).

Ad ogni modo, occorre ricordare che, pur dando per scontate inevitabili oscillazioni giurisprudenziali nella prima applicazione della novella, la più meditata ricostruzione dottrinale era arrivata, poi, a soluzioni abbastanza univoche, nel senso di ritenere applicabili all'appello fallimentare tutti i principi propri dell'appello ordinario, tra cui appunto quello della necessaria specificità dei motivi di impugnazione (cfr. art. 342 c.p.c.), del divieto di nuove domande ed eccezioni, nonché di nuovi mezzi di prova (cfr. art. 345 c.p.c.), del tantum devolutum quantum appellatum (cfr. art. 346 c.p.c.) (Fabiani, 2006, 370 ss.; Guglielmucci, 55).

Tuttavia, giova ricordare ulteriormente che non erano mancate le opinioni discordi di altra parte della dottrina, che dubitava della possibilità di applicare automaticamente le regole del giudizio ordinario di appello, in considerazione della natura indisponibile della materia del contendere, della struttura camerale del procedimento ex art. 18, del perdurante deficit di tutela del diritto di difesa del debitore, anche nella nuova procedura prefallimentare disegnata dal novellato art. 15 l.fall. (Santangeli, 2006, 94; Tedeschi, 99; Carratta, 13).

Peraltro, anche nella prima versione riformata dell'art. 18 l.fall., quella cioè fiorita dal d.lgs. n. 5 del 2006, era previsto che il collegio potesse assumere d'ufficio i mezzi di prova necessari ai fini della decisione, con evidente scostamento dalla disciplina codicistica sia dell'appello ordinario (cfr. art. 345 c.p.c.) — il quale ovviamente non ammette iniziative istruttorie officiose in un processo di parti su diritti pienamente disponibili —, che dell'appello nel rito del lavoro (cfr. art. 437 c.p.c.), il quale limita tale facoltà officiosa alle prove indispensabili ai fini della decisione della causa (sul punto, si legga sempre l'attenta analisi di Genoviva, ibidem. Per una attenta analisi della differenza tra mezzi di prova «necessari» e mezzi di prova «indispensabili» ai fini della decisione, si rinvia a Montanari, 2006, 105).

Inoltre, va detto che i sostenitori della tesi più rigorosa, tendente all'applicabilità pressoché generalizzata delle regole dell'appello anche al procedimento ex art. 18 l.fall., erano portati a sminuire l'ambito dei poteri istruttori d'ufficio, circoscrivendoli pur sempre nei limiti di quanto dedotto nei motivi di impugnazione e nelle conseguenti richieste istruttorie delle parti (Fabiani, 2006, 376 ss).

Sul punto, il c.d decreto correttivo, sostituendo l'appello con il reclamo e dettando una qualche disciplina specifica (benché non esaustiva) dello stesso, ha in realtà sparigliato le carte del dibattito dottrinale e giurisprudenziale in corso, seminando più dubbi ed incertezze di quelle che si proponeva di eliminare. Ed invero, una parte della dottrina ha visto così confermate le proprie conclusioni in ordine all'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione disciplinata dal novellato art. 18 (Santangeli, 2008, 161); altri hanno tentato, con varie sfumature interpretative, di sminuire l'effetto innovativo proclamato dal legislatore del correttivo, limitando in misura più o meno consistente l'effetto devolutivo del reclamo (Fabiani, 2011, I cit.; Id., 2006, 12 ss.; Chimenti, 251 ss.; v. anche Minutoli, 259 ss.; Rascio, 2008, 972 ss.; Forgillo, 167 ss, che tuttavia concludono, con varie sfumature, per l'effetto solo parzialmente devolutivo del reclamo in questione), mentre la giurisprudenza, nelle prime pronunzie, ha in genere ritenuto non più applicabili i principi propri dell'appello ed in particolare i canoni posti dall'art. 345 c.p.c. (App. Torino 13 novembre 2008, in Fall., 2009, 487; App. Torino 28 maggio 2008, ivi, 2008, 975; App. Bologna 1 ° giugno 2009).

Sul punto, chi scrive ritiene di condividere quella opinione registrata nella dottrina più attenta (Genoviva, 445 e ss.)secondo cui una corretta ricostruzione interpretativa non possa che partire dalla constatazione che il «correttivo», sia pure attraverso un uso a volte spregiudicato del lessico e non senza qualche intima contraddizione, abbia voluto indubbiamente rafforzare l'effetto devolutivo dell'impugnazione avverso la sentenza di fallimento, inserendosi così «di prepotenza» (come per altro compete al legislatore in sede di interpretazione autentica) nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale in corso.

Ebbene, va osservato che al fondo di tale scelta legislativa risiede, da un lato, la consapevolezza dell'importanza degli interessi che vengono coinvolti con la dichiarazione di fallimento, dall'altro, il timore che la novellata procedura prefallimentare, nonostante tutti gli sforzi indirizzati in tal senso, non garantisca ancora appieno il diritto delle parti al contraddittorio ed alla difesa, così come si conviene ad un giudizio a cognizione piena, che possa poi dare accesso ad un appello governato dai rigidi principi codicistici di cui agli artt. 342 e ss. (ma anche agli artt. 434 ss. sul rito del lavoro) c.p.c.(Fabiani, 2006, 352).

In realtà, il vero nodo interpretativo riguarda lo stabilire entro quali limiti sia stato concretamente attuato l'intento legislativo di potenziare l'effetto devolutivo dell'impugnazione in questione, terreno quest'ultimo reso quanto mai scivoloso dalla lacunosità della disciplina specifica dettata dal nuovo art. 18 e dalla necessità di armonizzarla, da un lato, con le innovazioni che lo stesso correttivo ha apportato agli altri procedimenti camerali endofallimentari, ed in special modo quelli previsti dagli artt. 26 e 99 l.fall.,e, dall'altro, con i principi generali che l'ordinamento fissa in tema di mezzi di impugnazione (Genoviva, ibidem).

Peraltro, come è stato correttamente osservato in dottrina (Fabiani, Il decreto correttivo della riforma fallimentare, cit., 228; Minutoli, Le iniziative di fronte alla sentenza dichiarativa di fallimento tra appello e reclamo, cit., 262), il nomen «reclamo», usato nel d.lgs. n. 169 del 2007 in luogo di «appello», non offre elementi decisivi per la soluzione della questione, atteso che il tradizionale orientamento dottrinale (si legga, sul punto, qui da ultimo in discussione: Valitutti, 284 ss.; Montesano e Arieta, 1210 ss.; Cerino Canova, 1987, 447 ss.; Andrioli, 1964, 452) secondo cui trattasi di mezzo impugnatorio a critica libera ed a contenuto pieno, è ormai largamente controverso, sia nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4719/2008; Cass.S.U., n. 2636/2006; Cass. n. 6011/2003,, le quali hanno ritenuto applicabili al reclamo i principi del processo ordinario di cognizione relativi all'onere dell'impugnazione ed alla specificità dei motivi di reclamo, in modo da delimitare l'effetto devolutivo; nel senso indicato dalla dottrina tradizione, vedi invece Cass. 15151/2005), che in quella di merito (numerose le pronunzie di merito che tendono in vario modo ad applicare al reclamo cautelare i principi propri dell'appello, di cui agli artt. 342 ss. c.p.c.: tra le tante cfr. Trib. Firenze 15 luglio 2002, in Fam. Dir., 2003, 3, 263 con nota di De Marzo; Trib. Termini Imerese 12 febbraio 2001, in Giust. civ., 2002, 1416; Trib. Verbania 8 aprile 1999, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 709; Trib. Milano 25 marzo 1996, in Corr. giur., 1997, 2, 216; Trib. Padova 13 febbraio 1996, in Giust. civ., 1996, I, 2, 460; Trib. Catania 23 marzo 1995, in Foro it., 1995, I, 2271; contra però cfr. Trib. Catanzaro 27 maggio 1997, in Giust. civ., 1998, I, 2653; Trib. Torino 14 maggio 1997, in Giur. it., 1999, 538. In dottrina, si legga sempre Genoviva,, ibidem, il quale evidenzia che maggiori spunti ricostruttivi possono essere offerti dall'attenta lettura del novellato testo dell'art. 18, specie se comparato con quelli degli artt. 26 e 99 l.fall., pure significativamente modificati nel correttivo, il tutto tenendo sempre presente la finalità divisata dal legislatore del d.lgs. n 169/2007, tendente sicuramente ad ampliare l'effetto devolutivo del mezzo di impugnazione disegnato per contrastare la sentenza dichiarativa di fallimento).

Per l'effetto devolutivo pieno si è schierata Cass. I, ord. n. 11216/2021, che lo ha riferito anche alla  decisione negativa sulla domanda di ammissione al concordato, perché parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della stessa crisi; e ne ha derivato l'affermazione per cui, ove il debitore abbia impugnato la dichiarazione di fallimento, censurando innanzitutto la decisione del tribunale di revoca dell'ammissione al concordato, il giudice del reclamo, adìto ai sensi degli artt. 18 e 173 l.fall., è tenuto a riesaminare - anche avvalendosi dei poteri officiosi previsti dall'art. 18, comma 10, l.fall., nonché del fascicolo della procedura, che è acquisito d'ufficio - tutte le questioni concernenti la predetta revoca, pur attinenti a fatti non allegati da alcuno nel corso del procedimento innanzi al giudice di primo grado, né da quest'ultimo rilevati d'ufficio, ed invece dedotti per la prima volta nel giudizio di reclamo ad opera del curatore del fallimento o delle altre parti ivi costituite.

Ebbene, l'art. 18, nella versione del d.lgs. n. 5 del 2006, dettava una disciplina specifica dell'appello assai scarna, evidentemente destinata ad essere colmata dal rinvio alle norme di cui gli artt. 342 e ss. c.p.c., nulla dicendosi sul contenuto del ricorso introduttivo e della memoria di costituzione. Peraltro, all'udienza collegiale il contraddittorio sembrava espressamente garantito soltanto al momento delle deduzioni delle parti e non anche in quello dell'eventuale assunzione dei mezzi di prova disposti d'ufficio.

Nella stesura del d.lgs. n. 169 del 2007, la stessa norma disciplina in modo dettagliato il contenuto del ricorso introduttivo, prevedendo, tra l'altro, al n. 3 «l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni» ed al n. 4 «l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti»; prevedendosi altresì specularmente il contenuto della memoria di costituzione, che deve contenere «l'esposizione delle difese in fatto ed in diritto, nonché l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti». Si prevede, poi, espressamente che all'udienza il giudice possa assumere, anche d'ufficio, «tutti i mezzi di prova che ritiene necessari», ma «nel rispetto del contraddittorio».

Ebbene, per fornire un senso a tali pregnanti espressioni ed evitare che le prescrizioni del legislatore si riducano ad «un mero flatus vocis» (così Chimenti, 252; Rascio, 2008, 976), occorre ritenere che tali indicazioni, sul contenuto dei principali atti difensivi delle parti, siano vincolanti per quest'ultime e che dunque la loro inosservanza produca conseguenze processuali a carico del soggetto inadempiente. L'apparente contraddizione tra la struttura libera del reclamo, come tipico mezzo di impugnazione dei provvedimenti resi in camera di consiglio, e la disciplina positiva che l'art. 18 l.fall. prevede per il reclamo avverso la dichiarazione di insolvenza può forse ricomporsi proprio alla luce dell'insegnamento di quella giurisprudenza, che tende ad affievolire il pieno effetto devolutivo del reclamo quando questo abbia ad oggetto provvedimenti camerali in materia di controversie su diritti soggettivi, e non di mera volontaria giurisdizione (Cass. n. 4719/2008, cit.).

Il reclamo. Natura processuale del giudizio

L'art. 18 l.fall. prevede che la sentenza dichiarativa di fallimento sia impugnabile con il reclamo, che si propone davanti alla corte d'appello del distretto di afferenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento, senza che assuma rilievo, ai fini della competenza a giudicare sul reclamo, il trasferimento della sede dell'impresa intervenuto nell'anno anteriore alla domanda di fallimento (App. Venezia, 21 dicembre 2011, n. 2666).

Ebbene, il provvedimento che rigetta il reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento — ovvero che, accogliendolo, revoca il fallimento – assume la forma della sentenza.

Sul punto, è stato già sopra affermato che il lessico contenuto dell'art. 18 l.fall., al pari di quello di cui all'art. 15 (che contiene la disciplina del giudizio di primo grado), proteso a definire la natura giuridica degli istituti processuali, si rivela fuorviante, atteso che questi ultimi non possono essere adoperati con finalità meramente classificatorie, in quanto esprimono esigenze e tecniche di tutela più profonde (De Santis, 2012, 297).

È significativa proprio la vicenda delle modificazioni apportate all'art. 18 dal d.lgs. «correttivo» n. 169 del 2007, nella parte in cui ha sostituito la previsione del mezzo dell'«appello» (come definito dal d.lgs. n. 5 del 2006) con il mezzo del «reclamo». Come già sopra accennato, si legge nei lavori preparatori che la modifica vale ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello desunta dal codice di rito e ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario, stante il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito.

In realtà, l'aver sostituito il termine appello con il termine reclamo di per sé non incide affatto sulla natura e sull'estensione del mezzo d'impugnazione, tanto da potersi argomentare l'effetto integralmente devolutivo del rimedio, discendente dalla sua asserita natura di processo camerale (per i procedimenti camerali in generale, secondo Arieta, in Montesano e Arieta, Trattato di diritto processuale civile, n. 2, Padova, 2002, 1210, «il reclamo ha l'effetto di devolvere in modo pieno e automatico al giudice superiore l'intero oggetto della lite e del giudizio che su di essa si è svolto in prima istanza, onde consentire ad esso di esercitare il riesame quale nuovo e diverso giudice camerale»).

La pretesa dei conditores di assegnare al gravame un effetto integralmente devolutivo si scontra tuttavia con la previsione, contenuta nel 2 comma dell'art. 18 (ed anch'essa introdotta dal d.lgs. n. 169 del 2007), in base alla quale il reclamante deve esporre, nell'atto introduttivo, i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con ciò volendo affermare che occorre formulare veri e propri motivi di impugnazione (di diverso avviso, è Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo del fallimento, in AA.VV., Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, I, Torino, 2009, 349).

Ebbene, non può allora non concludersi nel senso che l'oggetto dell'impugnazione deve considerarsi limitato ai soli motivi formulati dal reclamante (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012,, 299).

Tale regola non può essere messa in discussione per la sola circostanza che l'art. 18 l.fall. non contenga una previsione analoga a quella, di cui all'art. 345 c.p.c., che sancisce il divieto dei nova in appello, in quanto ciò attiene alla diversa problematica delle preclusioni applicabili nel giudizio d'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento (Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, , 2007, 13, il quale evidenzia che l'adozione del nomen reclamo «può rivelarsi neutrale rispetto alle classificazioni impugnatorie e nulla più che una, perniciosa, espressione decettiva». Nel senso che l'adozione del nomen di reclamo è circostanza neutra, inidonea a modificare la natura e la disciplina dell'istituto, ricavate dal sistema e fissate dal dato positivo; v. anche Forgillo, 161).

Nel disegno del legislatore delle riforme degli anni 2006-2007, la previsione del giudizio di reclamo come revisio prioris instantiae assume una spiccata valenza sistematica (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, ibidem).

Sub Julio, la sentenza dichiarativa di fallimento era soggetta ad opposizione dinanzi al medesimo tribunale che l'aveva pronunziata; la sentenza emanata da quest'ultimo era appellabile, e, dunque, ricorribile per Cassazione. Come già sopra accennato, l'apparente ridondanza di quel sistema rimediale impugnatorio rispondeva alla necessità di «sopperire» alla sommarietà della fase prefallimentare con la previsione di un giudizio a cognizione piena, che la dottrina faticava ad inquadrare dal punto di vista sistematico, rintracciandovi le caratteristiche, ora, dell'impugnazione rescindente e devolutiva, accostabile all'opposizione a decreto ingiuntivo (Ferrara e Borgioli, ll fallimento, Milano, 1995, 251; Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1992, 187 s.), ora, del giudizio di cognizione di primo grado (Giorgi, Profili istruttori delle procedure concorsuali, Milano, 1988, 155), ora di una speciale querela nullitatis (Andrioli, voce Fallimento, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 346).

Invero, a fronte di queste incertezze della dottrina, la giurisprudenza riteneva che il giudizio di opposizione a dichiarazione di fallimento avesse il carattere e la funzione sostanziale di un giudizio d'impugnazione di secondo grado (Cass. n. 5900/2010), sulla scia peraltro di quel orientamento della Corte costituzionale, secondo il quale la fase dell'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assumeva certamente valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris istantiae, sicché non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove non opposta, era idonea a passare in giudicato, non soltanto le condizioni che legittimano il provvedimento sono oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma proprio la gravità delle conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione di fallimento rendeva evidente come la «sommarietà» della cognizione camerale andava intesa nel senso non già di «parzialità» o «superficialità», bensì di «deformalizzazione» (Corte cost. n. 460/2005, in Foro It., 2006, I, 639, con nota di Fabiani).

Peraltro, la giurisprudenza aveva consolidato un orientamento piuttosto monolitico, secondo il quale il giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento doveva ritenersi governato dal principio generale dell'onere delle parti di offrire la prova delle rispettive allegazioni, ma altresì dal potere-dovere del giudice di verificare, anche d'ufficio, la sussistenza dello stato di insolvenza e di ogni altro presupposto del fallimento, avvalendosi di tutti gli elementi comunque acquisiti, ivi inclusi quelli relativi alla fase processuale conclusasi con detta dichiarazione, e senza essere vincolato alle conclusioni delle parti e del pubblico ministero. L'officiosità del processo non era, inoltre, limitata allo svolgimento del giudizio di primo grado, ma proseguiva anche nel successivo grado d'appello, salve le preclusioni maturatesi sui punti già decisi con statuizioni non impugnate (Cass. n. 17698/2005; Cass. n. 4727/2004; Cass. n. 10527/1998; Cass. n. 2323/1997).

Ed infine, il giudice dell'opposizione poteva accertare la ricorrenza dello stato d'insolvenza anche sulla base di fatti diversi da quelli considerati al momento dell'apertura della procedura concorsuale, purché essi — anche se conosciuti successivamente — fossero riferibili ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento (Cass. n. 1771/1996, in Dir. Fall, 1996, n, 448, secondo la quale la sussistenza dello stato di insolvenza poteva essere desunta anche dalle risultanze non contestate dello stato passivo, perché esso è normalmente formato da crediti che risalgono ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento ed è altresì suscettibile di essere considerato come elemento idoneo a manifestare lo stato di insolvenza).

La legittimazione a reclamare

Il primo comma dell'art. 18 l.fall. investe della legittimazione a reclamare il debitore e qualunque interessato. Invero, nulla dice la norma in ordine alla legittimazione passiva, e, segnatamente, in ordine alla posizione degli eventuali litisconsorti (Chimenti, La sentenza dichiarativa di fallimento. cit., 255).

Peraltro, va detto che identico ambito applicativo era riconosciuto, in punto di legittimazione, anche dal precedente testo dell'art. 18 ai fini della proposizione dell'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento.

In realtà, la ragione dell'ampiezza della previsione riposa sull'efficacia erga omnes che produce la sentenza dichiarativa di fallimento, e che rende non classificabile a priori la gamma dei possibili interessi coinvolti nella procedura concorsuale e liquidatoria.

In ordine alla legittimazione attiva, essa spetta, innanzi tutto, al debitore dichiarato fallito, rappresentando una conferma della regola generale secondo la quale il fallito perde la legittimazione a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale (cfr. art. 43 l.fall.), ma non può perdere naturalmente la legittimazione in quei giudizi che riguardano i suoi diritti della personalità, ovvero, come nel caso di specie, i suoi diritti di status. Per le medesime considerazioni, occorre riconoscersi la legittimazione ad impugnare agli eredi del fallito, ancorché abbiano accettato l'eredità con il beneficio dell'inventario (Trib. S. Angelo dei Lombardi, 20 giugno 2002, in Dir. fall. 2002, 743; App. Torino, 30 giugno 1915, in Giur. comm. 1977, Il, 442).

Si sostiene in dottrina del tutto correttamente che la legittimazione ad impugnare non spetti al debitore che abbia agito in autofallimento, ai sensi del 1 comma dell'art. 6 l.fall. (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 303, il quale tuttavia evidenzia che tale affermazione può essere accettata nella gran parte delle ipotesi, ma non in tutti i casi, atteso che il debitore dichiarato fallito su ricorso di se medesimo potrebbe avere interesse, a mezzo del reclamo, a far correggere parti della motivazione della sentenza di primo grado idonee alla formazione del giudicato, che non hanno accolto le prospettazioni racchiuse nell'istanza di fallimento (e che, ad esempio, possono rappresentare la base di partenza per chiedere l'esdebitazione).

Devono invece essere considerati non legittimati al reclamo il fallito che abbia fatto acquiescenza alla dichiarazione di fallimento ed il mandatario incaricato di sistemare il dissesto, quando il potere di proporre reclamo non gli sia stato esplicitamente conferito per iscritto (Minutoli, Sub art. 18, in AA. VV., La legge fallimentore. Commentario teorico-pratico, a cura di Ferro, Padova, 2011, 253).

In caso di fallimento di società di capitali, è poi l'amministratore legittimato jure proprio a proporre il reclamo, al fine di rimuovere gli effetti che possono discendere dal fallimento sia sul piano penale (in relazione ad eventuali contestazioni di reati), che sul piano patrimoniale (in relazione ad eventuali azioni di responsabilità) (in questo senso si era espressa, Sub Julio, la giurisprudenza costante con riferimento alla legittimazione a proporre l'opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento, con proposizioni che possono essere de plano estese anche alla legittimazione al reclamo ex art. 18 l.fall.: così, Cass. S.U., n. 3368/2006).

Deve ritenersi legittimato, poi, ad oppugnare la dichiarazione di fallimento anche l'amministratore della società trasferita all'estero, in quanto il trasferimento non fa venir meno la «continuità» giuridica della società trasferita, specie quando la legge applicabile nella nuova sede concordi con il determinarsi di tale effetto (Cass. n. 18944/2005).

Peraltro, la legittimazione deve essere riconosciuta altresì al socio, il quale rientra pieno jure fra i soggetti interessati a contrastare l'apertura dell'esecuzione concorsuale, anche in relazione alla propria posizione di creditore verso la società dichiarata fallita (Cass. n. 1663/1997).

Deve, invece, essere negata la legittimazione attiva al pubblico ministero, per la ragione che la legge fallimentare gli riconosce il potere dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, ma non anche quello per lo revoca della stessa (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 304).

La legittimazione va altresì negata al custode giudiziario di beni sottoposti a sequestro, la cui funzione è limitata alla conservazione ed all'amministrazione di tali beni, in relazione alle quali gli va riconosciuta la legittimazione processuale attiva e passiva, come rappresentante dell'ufficio di un patrimonio separato, esclusivamente rispetto all'esercizio delle azioni relative a quella funzione (così Cass. n. 7147/2000), ma non all'amministratore giudiziario, nominato in sede di sequestro assunto ai sensi dell'art. 321,2 comma, c.p.p., il quale è legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento della società, in quanto i beni siano stati affidati dal provvedimento di sequestro alla sua gestione (Cass. n. 22800/2011).

Di più difficile interpretazione è la norma che attribuisce a tutti coloro che hanno un «interesse» la legittimazione ad impugnare la sentenza di fallimento. Ed invero, la regola generale delle impugnazioni civili è che la legittimazione ad impugnare appartenga alle sole parti del giudizio conclusosi, ancorché estromesse dal processo dall'impugnanda sentenza, ovvero alle quali quest'ultima abbia espressamente negato la legittimazione ad agire (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 305; v. inoltre Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2008, 32).

Occorre, pertanto, chiedersi se la legittimazione di cui parla l'art. 18 l.fall. abbia punti di contatto con quella riconosciuta all'interventore in appello dall'art. 344 c.p.c., che prevede appunto che nel giudizio d'appello è ammesso soltanto l'intervento dei terzi i quali potrebbero proporre opposizione a norma dell'art. 404 del codice di rito (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, ibidem).

La giurisprudenza della Corte regolatrice insegna che l'intervento in appello è limitato dall'art. 344 c.p.c a coloro che sarebbero legittimati a proporre l'opposizione di terzo, giacché esso, nell'apprestare uno strumento di tutela anticipata, consente ai terzi di fare valere le proprie ragioni ancor prima che sia emessa la sentenza che potrebbe pregiudicarli, e nei cui confronti sarebbero legittimati a proporre proprio l'opposizione di cui all'art 404. Ne discende che risulta legittimato ad intervenire in appello colui che potrebbe subire pregiudizio, ai suoi diritti da un determinato esito del giudizio, ovvero l'avente causa di una delle parti, che possa temere pregiudizio da una sentenza frutto di dolo o di collusione delle parti stesse in suo danno, precisandosi che l'ammissibilità dell'intervento deve essere esaminata verificando la sussistenza del pregiudizio con una valutazione ex ante in ordine al possibile esito della controversia, e non già con una valutazione compiuta in sede di decisione alla stregua delle statuizioni da adottare nel caso concreto (Cass. n. 12385/2006).

È noto, tuttavia, che non qualsiasi pregiudizio legittima il terzo alla proposizione dell'opposizione di terzo ordinaria, ma solo quello che deriva dalla titolarità di una situazione incompatibile con quella accertata o eventualmente costituita dalla sentenza impugnata (Cass. n. 2947/2007).

Dunque, il terzo interventore deve far valere nel giudizio d'appello una pretesa del tutto autonoma da quella che forma oggetto di contestazione tra le parti originarie, e per giunta incompatibile con la situazione giuridica accertata dalla sentenza di primo grado, o con quella che eventualmente potrebbe essere accertata dalla sentenza d'appello (Cass. n. 5476/2004).

Ciò posto, deve ritenersi, conformemente alla migliore dottrina (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 307), che sia proprio la ristretta latitudine della legittimazione riconosciuta al terzo opponente ex art. 404 c.p.c. — il quale, come detto sopra, deve prospettare la titolarità di un diritto incompatibile con quello accertato nell'impugnanda sentenza — ad escludere che la legittimazione del terzo a reclamare la dichiarazione di fallimento possa essere apprezzata alla stregua di un'anticipazione del diritto di intervenire ai sensi dell'art. 344 c.p.c.

Peraltro, anche gli orientamenti del diritto vivente consolidatisi sono la vigenza del precedente regime normativo della opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento consigliano la soluzione qui accettata. Così, secondo un risalente ma non per questo non condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'interesse che legittima un terzo a proporre opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento si concretizza nella titolarità di posizioni giuridiche che possono ricevere, anche se solamente in modo eventuale e futuro, un qualsiasi pregiudizio in conseguenza della dichiarazione di fallimento altrui, alla stregua in primo luogo delle norme che regolano gli effetti del fallimento.

Ebbene, l'astratto interesse all'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento deve essere riconosciuto anche al terzo che, creditore del fallito, sia stato soddisfatto prima della dichiarazione di fallimento, attesa la possibilità che egli sia sottoposto alle regole del concorso, ed in particolare a quelle sulle azioni revocatorie, a meno che non si debba escluderne l'interesse in concreto, accertando che il creditore, in relazione all'epoca di estinzione del credito, non possa comunque risentire effetti pregiudizievoli dal fallimento del debitore (Cass. n. 861/1983).

Ad analoga conclusione, dovrebbe altresì pervenirsi sia nei confronti dei soci limitatamente responsabili della società fallita, nella ipotesi in cui rischino di perdere il capitale investito con l'azzeramento della partecipazione; sia in relazione agli amministratori in proprio, anche al fine di evitare l'azione di responsabilità da parte della curatela e ai soggetti che abbiano contrattato con il fallito, e ciò per il timore che il curatore possa sciogliersi dai contratti in essere; ed infine, in relazione ai creditori pignoratizi sottoposti alle limitazioni dell'art. 53 l.fall. (Fabiani, 2006, 360).

Così, per ragioni diverse ma convergenti nella titolarità di un interesse ad impugnare, la legittimazione al reclamo dovrebbe spettare ai creditori che vedono sospeso il corso degli interessi convenzionali e legali ex art. 55 l.fall., agli obbligazionisti, agli ex soci ed ai liquidatori di società cancellate dal registro delle imprese ex art. 2495 c.c. (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 307).

Ebbene, va detto a questo punto che qualora la legittimazione a reclamare dei terzi interessati fosse valutata alla stregua dei presupposti per l'intervento in appello, essa dovrebbe essere negata nella maggior parte dei casi sopra menzionati, restando la previsione dell'art. 18 l.fall. sostanzialmente priva di reale incidenza (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 307), il quale esprime più di qualche dubbio in ordine alla legittimità dell'affermazione secondo cui l'impugnazione dei terzi legittimati a proporre reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento si atteggia alla stregua di un'opposizione di terzo ordinaria, assorbendo anche la facoltà di intervenire in corso di giudizio di gravame, che — nella prospettiva dell'autonoma legittimazione all'impugnazione — dovrebbe ritenersi preclusa (così, anche Fabiani, op. cit., 362).

Occorre, pertanto, concludere nel senso che la legittimazione al reclamo di quanti, comunque interessati, non siano stati parti del giudizio di primo grado sia da considerarsi — nel sistema delle impugnazioni contro i provvedimenti di cognizione ordinaria — caratterizzata da ragioni di «specialità».

L'interesse sottostante alla legittimazione a reclamare la sentenza di fallimento non è un interesse ad impugnare in senso tecnico, cioè, derivante dalla soccombenza nel grado inferiore, ovvero dal pericolo di pregiudizio giuridico che discende dal provvedimento da impugnare. Si tratta, invece, di una manifestazione del generico interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., o, meglio, dell'interesse ad ottenere la rimozione dell'atto giurisdizionale, e cioè della sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto la permanenza dello stesso, pur non incidendo in maniera diretta sul diritto del reclamante, lo può di fatto vanificare, esponendolo ad un eventuale pregiudizio di tipo concreto. Ne discende che occorre riconoscere la legittimazione al reclamo, tra gli altri, ai creditori del fallito (quelli che, ben inteso, non siano intervenuti nel processo di primo grado), non solo quando l'iniziativa sia stata assunta dal debitore o dal pubblico ministero, ma anche nell'ipotesi in cui il fallimento sia stato dichiarato su istanza di altri creditori, in quanto il creditore reclamante può avere uno specifico interesse a dimostrare attraverso un giudizio di riesame, quello ex art. 181 l.fall., che in realtà non sussistono i presupposti per l'apertura del procedimento concorsuale (Bongiorno, cit., 351).

L'amministratore di società di capitali è legittimato "iure proprio" a proporre opposizione alla dichiarazione di fallimento della società, considerata l'ampia formula dell'art. 18 l. fall., che estende la legittimazione a "qualunque interessato", essendo l'opposizione volta a rimuovere gli effetti riflessi, individuabili nelle responsabilità penale e civile, che possono derivare a suo danno dal fallimento. (Fattispecie nella quale è stata affermata la legittimazione a proporre reclamo da parte dell'amministratore che, prima della dichiarazione di fallimento, era già cessato dalla carica ed era stato destinatario del provvedimento di sequestro penale in prevenzione delle quote societarie) (Cass. I, ord.  n. 7190/2019).

Coloro che non sono stati parti del giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento non sono legittimati a ricorrere per cassazione avverso la sentenza della corte d'appello confermativa della menzionata dichiarazione, atteso che la legittimazione a proporre impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, né la specialità del reclamo fallimentare prevale sul sistema impugnatorio ordinario in materia di ricorso per cassazione. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da alcuni dipendenti dell'impresa fallita che in qualità di creditori sarebbero dovuti intervenire ex art. 18, comma 9, l.fall. nel giudizio di merito) (Cass. VI n. 28096/2018).

La legittimazione passiva nel giudizio di reclamo.

Il reclamo va introdotto nei confronti del curatore, senza la partecipazione del quale il giudizio di reclamo non può essere incardinato (Cass. n. 4336/1978, nel giudizio promosso dal fallito in oppugnazione alla sentenza dichiarativa di fallimento e con richiesta di risarcimento dei danni derivanti dal fallimento medesimo, il curatore è parte necessaria con riguardo alla prima domanda e non anche alla seconda, in ordine alla quale la legittimazione passiva spetta esclusivamente ai creditori istanti). Il sesto comma dell'art. 18 l.fall. tiene, anche semanticamente, distinte le posizioni del curatore e delle «altre parti», tutti destinatari della notifica del reclamo.

Sub Julio, si era molto discusso in ordine alla posizione processuale che il curatore assumesse nel giudizio di oppugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, arrivando a sostenersi in dottrina (Lanfranchi, Procedure concorsuali e tutela dei creditori, Milano, 1988, 94) che egli, in quanto organo pubblico, non fosse un rappresentante dei creditori, e dunque un contraddittore necessario, ma che al contempo non fosse neppure un antagonista dell'impugnante. Peraltro, anche dopo le riforme del 2006-2007, è stato affermato che il curatore è una parte neutrale, e ciò nel senso che egli deve prendere le proprie conclusioni nel giudizio di reclamo nell'interesse dell'attuazione della legge, e, pertanto, resistere al reclamo se ritiene giusta la sentenza dichiarativa di fallimento, ma non opporsi allorquando ritenga fondata l'impugnazione (Fabiani, op. cult. cit., 366).

Deve oggi ritenersi che in sede di giudizio di reclamo il curatore è invece una parte come le altre, ed il suo ruolo è quello di contraddire al reclamante, pur potendo, se autorizzato dal giudice delegato, non costituirsi nel giudizio di reclamo. Invero, il giudizio di reclamo e anche (in parte) quello per la declaratoria di fallimento riveste la natura di processo contenzioso di cognizione, sorretto dal principio del contraddittorio. Ne discende che un curatore che avallasse la domanda di reclamo postulerebbe la nullità dell'intera procedura concorsuale, vanificando anche le difese delle altre parti convenute in sede di impugnazione, e negherebbe la stessa ragion d'essere delle sue funzioni (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 309).

Le «altre parti» alle quali va notificato invece il reclamo (e che sono, pertanto, litisconsorti necessari del giudizio di impugnazione) sono tutti i soggetti che hanno partecipato al giudizio di istruttoria prefallimentare, ossia: il creditore istante per il fallimento (Cass. n. 3071/2011); i creditori intervenuti; il debitore che abbia agito in autofallimento ovvero che non abbia proposto il reclamo (Cass. n. 2281/2012); il pubblico ministero che abbia assunto l'iniziativa fallimentare o che sia intervenuto nel processo.

Peraltro, nel giudizio d'impugnazione della sentenza, con cui è stata disposta l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili, è altresì litisconsorte necessario, oltre al curatore del fallimento della società, quello del fallimento individuale che dal primo deriva, il quale ha titolo per resistere sia nell'ipotesi in cui si discuta dell'esistenza e della fallibilità della società, presupposto del singolo fallimento, sia nell'ipotesi in cui sia contestata la qualità di socio dell'opponente o la sua permanenza nella compagine sociale in tempo utile per l'estensione della procedura (Cass. n. 21721/2005, con affermazione di principio valido anche nell'odierno regime impugnatorio. Peraltro, la giurisprudenza della Corte regolatrice ha precisato che i creditori istanti per il primo fallimento assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio d'impugnazione della dichiarazione di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, a cui sia stato esteso il fallimento della società di persone o il fallimento del socio, ritenuto inizialmente un imprenditore individuale: Cass. n. 9359/2001; e Cass. n. 10693/2005).

Da ultimo, va precisato che in caso di pretermissione di un litisconsorte necessario, dovrebbe trovare applicazione l'art. 331 del codice di rito, con la conseguenza che la corte d'appello dovrebbe ordinare alle parti costituite l'integrazione del contraddittorio e, nel caso quest'ultima non avvenga nel termine perentorio assegnato, il procedimento di reclamo si estinguerebbe, e la sentenza dichiarativa di fallimento passerebbe in giudicato (Canazza, 152).

Peraltro, è da ritenersi che la violazione di tale disposizione da parte del giudice del reclamo comporti, a seguito dell'eventuale cassazione della sentenza impugnata, la remissione della causa al giudice dell'impugnazione, perché provveda all'integrazione del contraddittorio ed alla rinnovazione del giudizio (Cass. n. 2796/1997).

Sul punto, va precisato che, in ossequio ai principi generali, in una situazione processuale di cause inscindibili, la notifica dell'impugnazione, eseguita nei confronti di uno solo dei litisconsorti nei termini di legge, introduce validamente il giudizio di gravame anche nei confronti di tutte le altre parti, ancorché l'atto di impugnazione sia stato, a queste, tardivamente notificato (Cass. n. 3071/2011). In tal caso l'atto tardivo riveste la funzione di notificazione per integrazione del contraddittorioex art. 331 c.p.c. e l'iniziativa della parte, sopravvenuta prima ancora dell'ordine del giudice, assolve alla medesima funzione.

L'art. 18, comma 6, l.fall., nel testo vigente, come novellato prima dal d.lgs. n. 5 del 2006 e poi dal d.lgs. n. 169 del 2007, prescrive che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento debba essere notificato al curatore ed alle altre parti che abbiano partecipato al giudizio innanzi al tribunale, prefigurando in tal modo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché nel caso di mancata notifica del ricorso nei confronti di una di esse, la corte d'appello deve disporre l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 331 c.p.c. La violazione della richiamata norma da parte del giudice del reclamo comporta la cassazione, anche d'ufficio, della sentenza impugnata e la remissione della causa al medesimo giudice, perché provveda all'integrazione del contraddittorio ed alla rinnovazione del giudizio (Cass. I, ord. n. 5907/2018).

Segue. La legittimazione passiva del pubblico ministero.

La Corte regolatrice ha, ora, stabilito il principio secondo cui l'atto di impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere notificato al pubblico ministero presso il tribunale, al quale spetta la legittimazione all'impugnazione in qualità di ufficio di procura funzionalmente competente presso il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, mentre l'esercizio delle funzioni di pubblico ministero nel giudizio di impugnazione spetta al procuratore generale, ai sensi dell'art. 70, r.d. n. 12 del 1941, il quale deve essere parimenti destinatario della notifica dell'atto di impugnazione (Cass. n. 19214/2009).

Tuttavia, la costituzione nel giudizio di impugnazione del pubblico ministero presso il tribunale, in luogo del procuratore generale, non determina, però, la nullità della sentenza di secondo grado, ma soltanto la nullità della costituzione del p.m. della quale può dolersi esclusivamente il soggetto che avrebbe dovuto presenziare al giudizio, con la conseguente carenza di interesse a far valere il predetto vizio da parte del ricorrente in Cassazione, il quale resta altresì onerato di dedurre in quale misura l'eventuale partecipazione del procuratore generale al giudizio di reclamo avrebbe potuto determinare un diverso ed a sé favorevole esito dell'impugnazione.

La notificazione va effettuata, pertanto, in utroque, ·stante, da un lato, la legittimazione del pubblico ministero presso il tribunale a proporre la domanda di fallimento e la posizione processuale che l'ufficio riveste nel giudizio di primo grado, e, dall'altro, l'esclusiva legittimazione della procura generale a svolgere le funzioni del pubblico ministero nei giudizi davanti alla corte d'appello.

Secondo il diritto vivente, l'integrazione del contraddittorio nei confronti del pubblico ministero presso il giudice a quo, in sede d'impugnazione, non si rende necessaria in tutte le controversie in cui ne sia contemplato l'intervento, bensì soltanto in quelle nelle quali il pubblico ministero sia titolare del potere di proporre impugnazione, trattandosi di cause che l'ufficio di procura avrebbe potuto promuovere o per le quali comunque sia previsto tale potere ai sensi dell'art. 72 c.p.c. Nelle altre ipotesi, le funzioni del pubblico ministero, non includendo l'autonoma facoltà d'impugnazione, vengono ad identificarsi con quelle che svolge il procuratore generale presso il giudice ad quem (Corte d'Appello e Corte di Cassazione), e restano assicurate dalla partecipazione di quest'ultimo al giudizio d'impugnazione (Cass. S.U.., n. 9743/2008).

Ebbene, questi principi di matrice giurisprudenziale si incrociano con la norma ordinamentale di cui all'art. 70, comma 1, ord. giud. (approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12), ai sensi della quale «le funzioni del pubblico ministero presso lo Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello sono esercitate da procuratori generali della Repubblica e presso i tribunali da procuratori della Repubblica». Ed invero, il successivo 3 comma stabilisce inoltre che «i procuratori generali, gli avvocati generali presso le sezioni distaccate di corte d'appello e i procuratori della Repubblica esercitano le loro funzioni personalmente o per mezzo dei dipendenti magistrati addetti ai rispettivi uffici».

Ne deriva che, salvo deroghe espressamente previste (ricorso nell'interesse della legge; impugnazione nei casi previsti nei commi 3 e 4 dell'art. 72 c.p.c.), legittimato a proporre l'impugnazione è l'ufficio del pubblico ministero, funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza, anche se, proposta l'impugnazione, i relativi atti nella fase di gravame devono essere compiuti dall'ufficio funzionante presso il giudice dell'impugnazione (Cass. n. 6856/1998 e Cass. n. 12236/2003).

Ne deriva altresì che, quando il pubblico ministero sia titolare della legittimazione ad impugnare, la impugnazione deve essere notificata sia al pubblico ministero presso il giudice a quo che a quello presso il giudice dell'impugnazione. Diversamente, allorché la procura della Repubblica non abbia la legittimazione ad impugnare, ma ne sia obbligatorio l'intervento, allora sarà necessario e sufficiente notificare l'atto di impugnazione all'ufficio di procura presso il giudice dell'impugnazione (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 314).

Peraltro, va aggiunto che, in difetto di notificazione, dalla mancata partecipazione del pubblico ministero al giudizio di impugnazione dovrebbe derivare l'onere di integrazione del contraddittorio, in applicazione analogica dell'art. 331 c.p.c., altrimenti il giudizio d'impugnazione è nullo (Cass. n. 461/1998).

Sul punto, va tuttavia ricordato che nella giurisprudenza della corte regolatrice si sta affermando il principio, secondo il quale, pur in presenza di un vizio del contraddittorio, che darebbe astrattamente luogo alla nullità del processo, l'inutile reiterazione del giudizio sarebbe contraria alle esigenze di economia processuale strumentali all'affermazione del principio della ragionevole durata del processo sancito dal novellato art. 111, comma 2, Cost., che impone un'interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice di rito in chiave ancora più accentuatamente funzionale, e ciò anche nel senso della tendenziale preclusione della rinnovazione di atti certamente insuscettibili di offrire risultati diversi da quelli già dati (Cass. n. 2461/2009).

Ne discende che si va, dunque, consolidando la tendenza a ritenere che la violazione della norma processuale assuma rilievo di mezzo d'impugnazione non in sé considerata, ma in quanto abbia condizionatolo svolgimento del giudizio di merito, impedendo l'acquisizione di difese deducibili solo dalle parti, di prove o, anche del contraddittorio su questioni assunte d'ufficio a base del medesimo, sicché, quando la decisione di merito non fosse impugnata per violazione di norme di diritto, ma soltanto per violazione di norme sul procedimento, senza porre la censura in relazione ad alcuno dei profili suddetti, l'allegazione del vizio processuale potrebbe essere considerato non idoneo a giustificare la cassazione della pronunzia (Vittoria, 386).

Pertanto, il vizio processuale risulta «svalutato» tutte le volte in cui — secondo la prospettazione della parte impugnante — esso non abbia inciso in maniera determinante sulla decisione di merito, provocandone l'ingiustizia [così, De Santis, 2012, 314, il quale evidenzia che siffatta ricostruzione del sistema impugnatorio, per quanto mossa da apprezzabili finalità di deflazionare i carichi giudiziari, ostacolando le iniziative processuali pretestuose e temerarie, non va, ad avviso dell'Autore, del tutto immune da dubbi, in specie nei casi in cui la nullità procedimentale, derivante dall'errata applicazione della norma processuale, abbia determinato una violazione del diritto di difesa della parte, stigmatizzando che quella del contraddittorio sarebbe da considerarsi la violazione più grave. Secondo il pensiero dell'Autore, se vi sia il «sospetto» della violazione del diritto di difesa (anche soltanto nel senso che la parte sia stata ingiustamente privata della possibilità di introdurre una difesa nel processo), vi è seriamente da chiedersi se possa definirsi «giusta» una sentenza che non abbia potuto tenere conto di eventuali allegazioni difensive, e, nell'assenza di queste ultime, come l'ingiustizia (o la giustizia) della decisione possa essere accertata ex post dal giudice dell'impugnazione].

È sicuramente questa da ultimo indicata una tematica di rilevante complessità e di fluida attualità, intorno alla quale si svilupperà, anche nella materia fallimentare, una immaginabile evoluzione del diritto vivente.

Profili procedurali

 

Segue. I termini.

La litispendenza del giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. si determina con il deposito del ricorso, contenente il reclamo, nella cancelleria della corte d'appello nel cui distretto è compreso il tribunale che ha dichiarato il fallimento. Il termine per il deposito del ricorso in impugnazione è di trenta giorni (cfr. art. 18, l comma,l.fall.).

Tale termine decorre per il debitore dalla data della notificazione della sentenza a norma dell'art. 17, e per tutti gli altri interessati dalla data dell'iscrizione della dichiarazione di fallimento nel registro delle imprese, ai sensi del medesimo articolo. In mancanza, ai sensi dell'art. 18, 4 comma, l.fall., si applica, in ogni caso, il termine lungo per l'impugnazione, previsto dall'art. 327, 1 comma, c.p.c. (Cass. n. 6979/1991).

Va detto che i termini in questione, oltre ad essere perentori, non sono soggetti a sospensione per il periodo feriale (con la conseguenza che, in caso di applicazione del criterio residuale dell'art. 327 c.p.c., il termine — a seguito delle modifiche al sistema processuale introdotte con la l. n. 69 del 2009 — è di sei mesi). Ed invero, in materia civile, l'art. 3 della l. n. 742 del 1969, sottrae alla sospensione dei termini nel periodo feriale le controversie menzionate nell'art. 91 ord. giud., tra le quali risultano espressamente incluse le cause civili relative alla dichiarazione ed alla revoca dei fallimenti (Cass. n. 17202/2004). E ciò senza alcuna limitazione fra le varie fasi e i diversi gradi del giudizio (Cass. VI, n. 24019/2020; Cass. n. 622/2016).

Occorre però verificare da quando debba decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti dei soggetti che non siano destinatari della notificazione della sentenza dichiarativa di fallimento, nell'ipotesi in cui l'imprenditore fallito (in quanto avente i requisiti soggettivi della fallibilità) non sia iscritto tuttavia nei registri delle imprese (si pensi alle società o imprese irregolari o di fatto), rendendosi così impossibile anche l'annotazione dell'intervenuto fallimento (De Santis, 2012, 317).

Ebbene, in tal caso, non può che valere il criterio del termine lungo, dei sei mesi dal deposito della sentenza dichiarativa di fallimento nella cancelleria del tribunale. È questo un criterio che vale sia per il fallito (al quale, per una qualsivoglia ragione, la sentenza non sia stata notificata), sia per tutti gli altri legittimati all'impugnazione.

Per esigenze di certezza, l'applicazione del termine s'impone anche nei confronti di coloro che non sono stati parti dell'istruttoria prefallimentare e che, tuttavia, per le ragioni sopra esposte, sono legittimati a reclamare la sentenza dichiarativa di fallimento (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, ibidem).

Segue. Contenuto del reclamo e specificità dei motivi di impugnazione. L'effetto devolutivo del reclamo.

La tendenza del legislatore del 2007 verso un effetto integralmente devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento si scontra in realtà con la previsione, contenuta nel 2 comma dell'art. 18 (ed introdotta peraltro proprio dal d.lgs. n. 169 del 2007), norma a tenore della quale il reclamante deve esporre, fin dall'atto introduttivo, i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, equivalendo ciò a dire che occorre da parte del reclamante formulare specifici motivi di impugnazione. Peraltro, la giurisprudenza della Corte regolatrice (Cass. n. 22110/2010) ha precisato che, nel giudizio d'impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, il reclamo, per quanto adeguato alla natura camerale dell'intero procedimento, non è del tutto incompatibile con i limiti dell'effetto devolutivo normalmente inerenti al meccanismo dell'impugnazione, attenendo comunque ad un provvedimento decisorio emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio, tanto ciò è vero che il 2 comma, n. 3, dell'art. 18 l.fall. prescrive che il reclamo deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni, e dunque solo entro tali limiti la corte d'appello può riesaminare la decisione del tribunale, non potendo essere messi in discussione i punti di detta sentenza e dunque i fatti già accertati in primo grado, sui quali il reclamante non abbia sollevato censure di sorta. Invero, il secondo comma dell'art. 18 l.fall. prescrive che il ricorso recante il reclamo — per la cui presentazione, peraltro, occorre avvalersi della difesa tecnica, per le medesime ragioni per le quali quest'ultima è necessaria in primo grado — deve contenere, da un lato, l'indicazione della corte d'appello competente e le generalità dell'impugnante e l'elezione del domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello e, dall'altro, l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni e l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.

Ebbene, la formulazione della norma — il cui contenuto richiama lo schema del ricorso in appello ed in particolare di quello dettato per il processo del lavoro dall'art. 434 c.p.c. — sembra imporre al reclamante un onere di indicazione «specifica» dei motivi di impugnazione, al pari di quanto previsto per l'appello nel giudizio di cognizione ordinaria dall'art. 342 c.p.c. Ebbene, i motivi sui quali si può fondare il reclamo attengono alla ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, presupposti che non si limitano a quelli sostanziali dell'insolvenza e della qualità di imprenditore commerciale sopra soglia e non pubblico, ma si estendono normalmente anche ai presupposti di validità formale o processuale della sentenza, quali la giurisdizione, la competenza territoriale, l'intervento della dichiarazione di fallimento entro l'anno dalla cessazione dell'attività, la soglia di rilevanza della insolvenza, ed anche degli eventuali motivi di nullità della sentenza impugnata.

Ebbene, se così è, ne dovrebbe derivare l'applicazione anche con riferimento al giudizio di reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento di taluni noti principi che concordemente valgono per l'appello ordinario (Rasao, 951).

Invero, l'art. 342 c.p.c. stabilisce che l'appello deve contenere «i motivi specifici dell'impugnazione», con ciò volendo indicare che l'atto d'appello non può limitarsi ad individuare le «statuizioni» concretamente impugnate, e così i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329, secondo comma, c.p.c., ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione (Cass. S.U., n. 4991/1987; Cass. S.U., n. 16/2000; Cass. n. 6396/2004; Cass. n. 23742/2004).

L'atto d'appello, dunque, non può non indicare le singole «questioni» sulle quali il giudice del gravame è chiamato a decidere, sostituendo o meno, per ciascuna di esse, soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure (Cass. n. 2041/2005).

Sul punto, si distingue, in realtà, tra effetto c.d. «devolutivo» dell'impugnazione strettamente inteso — che trova il suo paradigma normativo proprio nell'appello civile ordinario — ed effetto devolutivo c.d. «pieno», che invece la giurisprudenza della Corte regolatrice ha ritenuto debba farsi discendere dalla proposizione del reclamo ex art. 18 l.fall. (Cass. I, n. 8227/2012).

Ebbene, l'effetto devolutivo trova fondamento nell'art. 346 c.p.c., secondo cui il riesame in appello della stessa materia controversa già esaminata in primo grado non ha luogo ipso jure, ossia automaticamente, ma occorre che ogni domanda o eccezione, già proposta e sollevata in primo grado, e non accolta, o anche soltanto non esaminata, sia espressamente riproposta col gravame, principale o incidentale (tantum devolutum quantum appellatum) (Cfr. Ferri, Appello (dir. proc. civ.), in Digesto civ., Agg., XII, Torino, 1995, 571; v. anche Chiarloni, 161 e 173; Proto Pisani, 483 ss; Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011, 376; Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 193 e ss. (il quale, a proposito dell'appello, parla di «effetto devolutivo non automatico in quanto subordinato ad una iniziativa selettiva e chiarificatrice di parte»; v. inoltre Cerino Canova, 1973, 299; Attardi, 1961, IV, 1035; Attardi,, 1991, 146; Bonsignori, 1345; inoltre, si legga Rascio, 1996, 116; Bove, 477).

Pertanto, la norma del codice stabilisce una sorta di «sanzione» decadenziale a carico delle parti, in quanto, se esse non ripropongono domande ed eccezioni, queste ultime «si intendono rinunciate»: per lungo tempo si era ritenuto che l'art. 346 c.p.c. non fosse applicabile nei confronti dell'appellato contumace, che poteva così contare sull'automatica «riemersione» delle domande e delle eccezioni «non accolte» nella precedente fase di giudizio, con la conseguenza che il loro mancato esame, da parte del giudice d'appello, avrebbe comportato la violazione dell'art. 112 c.p.c. (Cass. n. 962/1962; Cass. n. 918/1970; Cass. n. 4231/1983; Cass. n. 7999/1992; Cass. n. 7019/2001). Ma tale orientamento è stato superato dalla Cassazione, sul presupposto che la sottostante opzione interpretativa, oltre ad essere priva di riscontri sul piano testuale, contrasta con l'esigenza di assicurare la ragionevole durata del processo, comportando il prolungamento del giudizio per il riesame di ragioni, che la stessa parte interessata ha trascurato di coltivare (cfr. Cass. n. 7316/2003).

A fronte della regola dell'art. 346 c.p.c., le posizioni dell'appellante e dell'appellato sono, dunque, «simmetriche», nel senso che il primo ha l'onere di investire il giudice d'appello del riesame di tutte le questioni su cui il giudice di primo grado gli ha dato torto, mentre il secondo dovrà allegare fatti costitutivi delle questioni da lui proposte e non accolte.

Inoltre, il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (recante «Misure urgenti per la crescita del Paese»), convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, ha perfino rafforzato l'esigenza della specificità dei motivi di gravame, modificando l'art. 342 c.p.c., e prevedendo che l'atto d'appello debba recare l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado: cfr. Costantino, Le riforme dell'appello civile e l'introduzione del «filtro», in Treccani.it. L'A. precisa che, pur dopo la riforma, «l'appello resta un mezzo di gravame a motivi illimitati, grazie al quale si può denunciare l'ingiustizia della decisione di primo grado, derivante da errori nella valutazione dei fatti, o da errores in procedendo o in iudicando, fonte di specifico pregiudizio per l'appellante» (cfr. p. 14 s.).

Peraltro, anche le sezioni unite della Cassazione hanno precisato che l'appello non rappresenta più, come nel sistema del codice di rito del 1865, pur permanendo la sua funzione sostitutiva quanto alle statuizioni decisorie su diritti impugnati, il «mezzo» per «passare da uno all'altro esame della causa», su tali statuizioni, e non può dunque limitarsi al fine di ottenerne la riforma, ad una denuncia generica dell'ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado, ma deve puntualizzarsi all'interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma «comunque» sostituiti dalla sentenza di appello che non è impugnazione rescindente come il ricorso per Cassazione: Cass. S.U., n. 28498/2005, in Foro it., 2006, 5, 1, 1433, con note, variamente critiche, di Balena, Oriani, Proto Pisani e Rascio; cfr. anche Cass. n. 6018/2011.

Orbene, tale puntualizzazione ulteriore avviene nella denunzia di specifici «vizi» di ingiustizia o nullità dalla sentenza impugnata. Va chiarito che, in questo contesto sistematico, vengono meno i presupposti per ritenere che l'onere probatorio dell'appellante debba essere individuato con esclusivo e retrospettivo riferimento alla posizione da lui assunta nel giudizio di primo grado, con la conseguenza che — se in quel giudizio l'appellante aveva assunto la qualità di convenuto — il suo onere probatorio rimarrebbe integro, anche nella successiva fase di gravame, quanto a tutti i fatti impeditivi o estintivi del diritto fatto valere dall'attore: si legga, in tema, anche De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo, 2012, 1168 e ss. Sul punto, cfr. inoltre Cass. n. 8929/2005.

Va ulteriormente chiarito che il giudizio di appello — pur sempre limitato all'esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame — si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati. Non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice d'appello, il quale fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall'appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, che però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, da ritenersi come tali comprese nel thema decidendum (Cass. n. 7789/2011; Cass. n. 10734/2002; così, anche Cass. n. 7960/2003).

Così, può parlasi anche di un effetto devolutivo «automatico», che investe le sole questioni che possono ritenersi implicitamente connesse a quelle espressamente sollevate dall'impugnante (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, , ibidem).

Ne discende che, nel processo d'appello, il giudice può riesaminare l'intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della devoluzione di parte. Detto altrimenti, il giudice dell'appello non può spingere il giudizio fino a coinvolgere punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni diverse da quelle svolte nei motivi d'impugnazione (così, Cass. n. 2973/2006; cfr. anche Cass. n. 443/2011; Cass. n. 20652/2009).

Ebbene, nella giurisprudenza della Corte regolatrice non si sottrae all'effetto devolutivo, così inteso, anche il reclamo contro i provvedimenti emanati in camera di consiglio, proposto ai sensi dell'art. 739 c.p.c., e ciò soprattutto in quelle ipotesi in cui il procedimento camerale — sempre più considerato dal legislatore processuale come una sorta di «contenitore neutro» nel quale possono trovare spazio, cioè, sia i provvedimenti di c.d. «volontaria giurisdizione», sia i provvedimenti di natura contenziosa — è richiamato dalle norme al fine di disciplinare con caratteristiche di maggiore speditezza giudizi destinati ad essere definiti con provvedimenti idonei al giudicato (Cass. S.U., n. 5629/1996, in Foro it., 1996, 3070; v. anche Cass. n. 14200/2004; Cass. n. 13171/2004; Cass. n. 1850/1998; in dottrina, si legga altresì Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2010, 295).

Ne consegue che anche il reclamo ex art. 739 c.p.c., benché caratterizzato dalla speditezza e dall'informalità del rito, non può risolversi nella mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, ma deve contenere — in applicazione del canone di cui all'art. 342 c.p.c.specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma (Cass. n. 4719/2008; Cass. n. 20261/2006; Cass. n. 14022/2000).

Diverso discorso riguarda, invece, l'effetto devolutivo c.d. «pieno», che di norma si attribuisce al giudizio di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, ibidem).

A quest'ultimo si è — del tutto, correttamente — negata la possibilità di essere circoscritto «ad un solo punto della decisione secondo l'ottica del giudizio di impugnazione» (Corte cost. n. 65/1998 giacché, nella materia sommaria e cautelare, si esige nel controllo da parte di un giudice diverso sull'operato del primo giudice una pienezza di poteri ed assenza di limiti oggettivi, e ciò alla stregua di un nuovo esercizio della funzione cautelare, con i medesimi limiti che era tenuto ad osservare il primo giudice, quali risultano dalla domanda cautelare originariamente proposta (Arieta, Le cautele. Il processo cautelare, in Trattato di diritto processuale civile, XI, Padova, 2011, 1104).

Ciò posto in termini ricostruttivi del sistema, va evidenziato che la questione dell'effetto devolutivo «pieno» del gravame affiora in tre arresti della giurisprudenza di legittimità, riguardanti gli effetti del reclamo ex art. 18 l.fall., nel testo riformato dal d.lgs. n. 169 del 2007 (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, ibidem).

Ebbene, con una prima pronunzia la Corte regolatrice ha osservato che «la natura impugnatoria del reclamo previsto dal d.lgs. n. 169 del 2007, che attribuisce al procedimento l'effetto devolutivo pieno, si coniuga con la dinamica processuale tipica del rito, prescelto dal d.lgs. n. 169 del 2007, perché idoneo a garantire il suddetto effetto, ma soprattutto perché coerente con la natura della precedente fase del procedimento per la dichiarazione di fallimento, di natura contenziosa ma appunto a rito camerale, maggiormente idoneo ad assicurare le esigenze di snellezza, semplicità di forme e celerità che connotano la procedura concorsuale» (Cass. n. 20836/2010, che in motivazione aggiunge altresì che «Il carattere inquisitorio del procedimento, che la natura dispositiva dell'istruzione, assicurata in questa così come nella precedente fase, ha attenuato ma non del tutto eliminato, comunque consente ai giudice di acquisire d'ufficio informazioni per completare il quadro istruttorio e non certo per colmare le lacune delle parti, e, se lo ritiene, anche di dilazionare la tempistica del procedimento, nel rispetto delle regole in cui deve esplicarsi, ammettendo il superamento dei limiti espressamente posti dalla sua dinamica, a suo insindacabile giudizio. Il rito camerale [...] affida al giudice il potere di ammettere allegazioni e repliche, se le ritiene necessarie ad assicurare al debitore d'interloquire sui presupposti della sua fallibilità»).

Successivamente, il giudice di legittimità — richiamando la giurisprudenza di cui si è ora detto e secondo la quale anche il reclamo ex art. 739 c.p.c. non può risolversi nella mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, ma deve contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma, ha ulteriormente precisato che, nel giudizio d'impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, il reclamo, per quanto adeguato alla natura camerale dell'intero procedimento, non è del tutto incompatibile con i limiti dell'effetto devolutivo normalmente inerenti al meccanismo dell'impugnazione ordinaria (così, Cass. n. 22110/2010, in Fall., 2011, 291 ss., con nota critica di Tedoldi, cit.). Invero, il presupposto di tale affermazione è che il reclamo ex art. 18 l.fall. attiene ad un provvedimento decisorio emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio, tanto ciò è vero che il secondo comma, n. 3, dell'art. 18, cit., prescrive che il reclamo deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni, «e dunque solo entro tali limiti la corte d'appello può riesaminare la decisione del tribunale, non potendo essere messi in discussione i punti di detta sentenza (ed i fatti già accertati in primo grado) sui quali il reclamante non abbia sollevato censure di sorta». In quest'ultimo arresto, la Cassazione ha osservato che le disposizioni dettate dal codice di rito con riferimento all'appello ordinario, ed in specie l'art. 342 c.p.c., non sono sempre automaticamente e direttamente applicabili al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, «ma, da questo ad affermare che l'istituto del reclamo nel procedimento camerale è del tutto incompatibile con i limiti dell'effetto devolutivo normalmente inerenti al meccanismo dell'impugnazione, quando questa attenga ad un provvedimento decisorio emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio, ne corre» (Cass. n. 22110/2010). Peraltro, aggiunge la Corte che «L'espressa disposizione del citato art. 18, novellato comma 2, n. 3, laddove prescrive che il reclamo debba contenere «l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni», difficilmente si spiegherebbe se non, appunto, con la necessità di determinare in tal modo i limiti entro i quali la corte d'appello è chiamata a riesaminare la dichiarazione di fallimento emessa dal tribunale. Limiti entro i quali, ovviamente, potranno anche esplicarsi i poteri d'ufficio che il peculiare carattere della materia fallimentare comporta, ma pur sempre entro i confini delle questioni devolutele che impediscono a detta corte di rimettere in discussione i punti della sentenza dichiarativa di fallimento (ed i fatti già accertati in primo grado) in ordine ai quali il reclamante non abbia sollevato censure di sorta».

Ed infine, nella terza pronunzia sempre risalente al 2010 (così, Cass. n. 22110/2010), la Corte di legittimità — pur riconoscendo che il reclamo ex art. 18 l.fall. ha ad oggetto un provvedimento decisorio, emesso all'esito di un procedimento contenzioso, svolto in contraddittorio tra le parti ed idoneo ad acquistare l'autorità di cosa giudicata — ha affermato con risolutezza il principio per il quale il detto reclamo, «adeguato alla natura camerale dell'intero procedimento, è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c»: cfr. anche Cass. n. 12214/2012, la quale afferma un principio di meno agevole interpretazione e secondo il quale il reclamo ex art. 18 l.fall. non può essere considerato «un giudizio di mera legittimità del provvedimento impugnato, essendo invece di regola ritenuto una prosecuzione, davanti ad altro giudice, dello stesso giudizio (è significativo, per l'effetto devolutivo relativamente maggiore del reclamo, il confronto tra la l.fall., art. 18, comma 2, n. 3, e la specificità dei motivi prescritta dall'art. 342 c.p.c.), pur con i limiti derivanti dalla disciplina dettata dalla l.fall., art. 18».

Stante anche i sopra descritti «ondeggiamenti» della Corte regolatrice, occorre dissentire, a parere di chi scrive, dalla tesi secondo cui essi potrebbero, in definitiva, ricomporsi ad unità «fissando gli ibridi principii così riassumibili: l'onere di specificazione dei motivi ex art. 342 c.p.c. s'applica anche al reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento e circoscrive la cognizione dei secondi giudici delle questioni devolute; non vale invece il divieto di nova ex art. 345 c.p.c., libero essendo il reclamante, i terzi legittimati al reclamo e le altre parti di proporre domande, eccezioni e prove del tutto nuove» (così, si esprime Tedoldi, op. ult. cit., 433).

Ebbene, occorre evidenziare che si tratta invece di orientamenti contrastanti, giacché nella giurisprudenza della Corte si afferma il ripudio (nel reclamo ex art. 18 l.fall.) dell'effetto devolutivo non automatico, proprio dell'appello civile ordinario, e la Corte ha altresì affermato il principio per il quale, in caso di difetto di comparizione della parte interessata all'udienza di trattazione, il giudice del reclamo, verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere nel merito il reclamo, restando esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione, ovvero di non luogo a provvedere: cfr. Cass. n. 18043/2010; v. anche Cass. n. 23915/2011; Cass. n. 284/2009. Per un esame più ampio dei presupposti e delle conclusioni delle tematiche qui di seguito affrontate, si rinvia a De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, passim.

Per risolvere la questio iuris qui dibattuta, occorre pertanto affrontare in primo luogo la problematica della natura del giudizio di reclamo (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., ibidem).

Ebbene, l'art. 18 l.fall. prevede che la sentenza dichiarativa di fallimento è impugnabile con il reclamo, che si propone davanti alla corte d'appello del distretto di afferenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento. Sul punto, risulta, in primo luogo, significativa la vicenda delle modificazioni apportate all'art. 18 dal d.lgs. «correttivo» n. 169 del 2007, nella parte in cui ha sostituito la previsione del mezzo dell'«appello» (stabilito dal d.lgs. n. 5 del 2006) con il mezzo del «reclamo»: si legge nei lavori preparatori che «la modifica vale ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello desunta dal codice di rito e ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito». (Così nella Relazione governativa di accompagnamento allo Schema di decreto legislativo n. 169/2007, presentato dal governo alle camere per il prescritto parere delle Commissioni parlamentari).

Tuttavia, non si nega, nei lavori preparatori, né l'incidenza della sentenza dichiarativa di fallimento sui diritti soggettivi, né la natura di cognizione piena del processo di gravame. Ne discende che la sostituzione del termine appello con il termine reclamo non può di per sé incidere sulla natura e sull'estensione del mezzo d'impugnazione, tanto da potersi argomentare l'effetto integralmente devolutivo del rimedio, discendente dalla sua asserita natura di processo camerale (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, ibidem).

Sul punto, non può non sottolinearsi ancora una volta che l'assegnazione al gravame di un effetto integralmente devolutivo deve, tuttavia, confrontarsi con la già citata previsione, contenuta nel secondo comma dell'art. 18 (anch'essa introdotta dal d.lgs. n. 169 del 2007), in base alla quale il reclamante deve esporre, fin dall'atto introduttivo, i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con ciò equivalendosi a dire che deve formulare veri e propri motivi di impugnazione (di diverso avviso è Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo del fallimento, cit., 349, secondo il quale — stante la scelta del legislatore per la forma del reclamo, tipico mezzo di impugnazione dei provvedimenti camerali — non si vedono ragioni sufficienti per escludere che nel giudizio di impugnazione possano proporsi tutte le questioni non sollevate davanti al tribunale in primo grado, o già proposte, ed essere utilizzato ogni mezzo di prova, senza limite alcuno).

Deve invece affermarsi con forza che da quest'ultima previsione è lecito desumere la regola secondo cui l'oggetto dell'impugnazione è limitato ai soli motivi formulati dal reclamante. Se si fosse voluto attribuire al giudice del reclamo una cognizione integrale, tale da sovrapporsi completamente a quella del giudice di primo grado, non sarebbe stato necessario stabilire che il reclamante deve esporre i motivi di impugnazione (così anche Fabiani, 2011, 192).

Peraltro, la regola non può essere neanche messa in discussione per la circostanza che l'art. 18 l.fall. non contenga una previsione analoga a quella di cui all'art. 345 c.p.c., che sancisce il divieto dei nova in appello, atteso che ciò attiene alla diversa problematica delle preclusioni applicabili nel giudizio d'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 2012, ibidem).

Sul punto, va detto che il giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. — la cui natura è quella di processo a cognizione piena, destinato a concludersi con provvedimenti idonei al giudicato — è governato, in rapporto al modello processuale dell'appello ordinario, da regole di specialità, coessenziali alla materia fallimentare.

In realtà, nel disegno del legislatore delle riforme degli anni 2006-2007, la previsione del giudizio di reclamo come revisio prioris instantiae ha assunto una spiccata valenza sistematica (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., ibidem).

Come è noto, in precedenza, la sentenza dichiarativa di fallimento era soggetta ad opposizione dinanzi al medesimo tribunale che l'aveva pronunziata; la sentenza emanata da quest'ultimo era appellabile, e, dunque, ricorribile per Cassazione. Ebbene, risulta evidente che la ridondanza di quel sistema rimediale rispondeva alla necessità di «sopperire» alla sommarietà della fase prefallimentare con la previsione di un giudizio a cognizione piena, di difficile inquadramento sistematico, rintracciando in esso, le caratteristiche dell'impugnazione rescindente e devolutiva, accostabile all'opposizione a decreto ingiuntivo (Ferrara e Borgioli, Il fallimento, cit., 1995, 251; Ricci, Lezioni sul fallimento, cit., 187), ora, quelle del giudizio di cognizione di primo grado (Giorgi, Profili istruttori delle procedure concorsuali, cit., 155), ora di una speciale querela nullitatis (Andrioli, voce Fallimento, in Enc. dir., cit., 346).

Infine, la giurisprudenza riteneva che il giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento avesse il carattere e la funzione sostanziale di un giudizio d'impugnazione di secondo grado (Cass. n. 5900/2010), sulla scorta degli insegnamenti della Corte costituzionale: così, si esprime Corte cost. n. 460/2005, in Foro it., 2006, I, 639, con nota di Fabiani, a tenore della quale «la fase dell'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assume certamente valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae», di talché «non soltanto la sentenza dichiarativa di fallimento, ove non opposta, è idonea a passare in giudicato, non soltanto le condizioni che legittimano il provvedimento sono oggetto di rivalutazione in sede di opposizione, ma proprio la gravità delle conseguenze (non di rado irreversibili) derivanti dalla dichiarazione di fallimento rende evidente come la «sommarietà» della cognizione camerale vada intesa nel senso non già di «parzialità» o «superficialità», bensì di «de formalizzazione».

La giurisprudenza di legittimità aveva sposato un orientamento secondo il quale il giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento doveva ritenersi governato dal principio generale dell'onere delle parti di offrire la prova delle rispettive allegazioni, ma altresì dal potere-dovere del giudice di verificare, anche d'ufficio, la sussistenza dello stato di insolvenza e di ogni altro presupposto del fallimento, avvalendosi di tutti gli elementi comunque acquisiti, ivi inclusi quelli relativi alla fase processuale conclusasi con detta dichiarazione, e senza essere vincolato alle conclusioni delle parti e del pubblico ministero. L'officiosità del processo non era, infine, limitata allo svolgimento del giudizio di primo grado, ma proseguiva anche nel successivo grado d'appello, salve le preclusioni maturatesi sui punti già decisi con statuizioni non impugnate (v., ex multis, Cass. n. 17698/20050; Cass. n. 4727/2004; Cass. n. 10527/1998; Cass. n. 2323/1997).

Peraltro, il giudice dell'opposizione poteva accertare la ricorrenza dello stato d'insolvenza anche sulla base di fatti diversi da quelli considerati al momento dell'apertura della procedura concorsuale, purché essi — pur se conosciuti successivamente — fossero riferibili ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento: Cass. n. 1771/1996, in Dir. Fall., 1996, II, 448, secondo cui la sussistenza dello stato di insolvenza poteva essere desunta anche dalle risultanze non contestate dello stato passivo, perché esso, se è normalmente formato da crediti che risalgono ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento, è altresì suscettibile di essere considerato come elemento idoneo a manifestare lo stato di insolvenza. Si tratta di principi in larga parte superati dalle riforme del 2006-2007 e che risultano essere lontani dalle recenti espressioni della giurisprudenza pretoria, secondo la quale «nell'appello fallimentare si applicano, per la stessa natura del mezzo, le norme degli artt. 345 ss. c.p.c. nelle parti non derogate dall'art. 18 l.fall., norme che, secondo l'ormai communis opinio, configurano un giudizio (non nuovo, ma) volto alla rivisitazione critica della sentenza di primo grado. Tale revisione è possibile e razionale solo se avente ad oggetto un prodotto processuale scaturito da un processo omogeneo, che, come quello delineato dal nuovo testo dell'art. 15 l.fall., sebbene di tipo camerale, non difetta né di presidi garantistici, né di strumenti tecnici idonei ad accertare nel rispetto del contraddittorio delle parti ogni aspetto rilevante della controversia» (così, App. Torino 22 novembre 2006, in Foro it., 2007, I, 1532 ss., 1544, con nota di Fabiani, La transizione dall'opposizione di fallimento all'appello contro la sentenza dichiarativa di fallimento e le acquisizioni probatorie).

Sulla base della nuova formulazione dell'art. 18 l.fall., così come scaturito dalla riforma del 2007, deve escludersi l'effetto integralmente devolutivo del giudizio di reclamo.

Orbene, è stato già sopra evidenziato che il secondo comma dell'art. 18 l.fall. — in sintonia con quanto stabilito dagli artt. 342 e 434 c.p.c. — prevede che il reclamante debba esporre, fin dall'atto introduttivo, i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione (con ciò volendo significare che deve formulare specifici motivi di impugnazione), nonché indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e dei documenti prodotti (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 2012, passim).

Ne discende che tali requisiti dell'atto di reclamo sono «conformativi» dell'oggetto dell'impugnazione ed, indirettamente, della sua natura, più o meno devolutiva in senso pieno, nonché delle facoltà istruttorie riconosciute dalla legge alle parti in questa fase di gravame (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., passim).

Se così è, ne dovrebbe pertanto derivare l'applicazione, anche con riferimento al giudizio di reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, di taluni noti principi che concordemente valgono per l'appello ordinario (Rascio, L'efficacia devolutiva del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 591; in giurisprudenza, si legga Cass. n. 1731/2001, in Foro it., 2001, I, 1881, con nota di Barone).

Ebbene, in primo luogo, va detto che il principio della specificità dei motivi di appello, richiesta dall'art. 342 c.p.c., impone all'impugnante di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza impugnata, in modo tale che sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da colui che ha proposto l'impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata. Ed invero, il gravame si dovrebbe ritenere inammissibile quando, per l'individuazione dei motivi, l'impugnante si richiami genericamente alle deduzioni, eccezioni e conclusioni della comparsa depositata in primo grado, o ad altri scritti difensivi (Cass. n. 15952/2007; Cass. n. 21816/2006).

Peraltro, va aggiunto che la specificità delle censure articolate in sede di gravame serve altresì a circoscrivere l'àmbito cognitivo del giudizio d'impugnazione, e ciò nel senso di ricondurlo entro i limiti delle questioni dedotte dall'impugnante attraverso i motivi specifici. Ne discende che la specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte a quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. In buona sostanza, se la questione esaminata dal tribunale che ha dichiarato il fallimento non sia resa oggetto di censura attraverso uno specifico motivo di reclamo, essa è destinata a stabilizzarsi, e non può ritenersi devoluta alla cognizione della corte d'appello, la quale, a sua volta, non potrà riformare la sentenza di primo grado se non per il motivo addotto a fondamento del gravame, ancorché sulla base di valutazioni giuridiche anche diverse da quelle addotte dalle parti. Ed invero, al giudice d'appello non è precluso l'esercizio del potere-dovere di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, purché essa non si fondi su elementi di fatto nuovi rispetto a quelli che hanno formato oggetto del dibattito processuale, dovendosi riconoscere a quel giudice il potere di definire, anche con riferimento all'individuazione della causa petendi, l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio, onde precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili. Pertanto, il giudice d'appello, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste contenute nell'atto di impugnazione, ben potrà accogliere il gravame per ragioni giuridiche diverse da quelle dedotte dall'appellante, allorquando queste ultime non si configurino come eccezioni in senso proprio, ma attengano semplicemente agli elementi integrativi della fattispecie, alla qualificazione giuridica ed agli effetti del rapporto controverso (Cass. n. 15764/2004).

Quanto appena detto vale anche in relazione a censure ed eccezioni che riguardano questioni rilevabili d'ufficio, di rito e di merito, nelle ipotesi in cui esse siano state proposte e decise in primo grado. In realtà, anche le questioni attinenti alla proponibilità dell'azione sono rilevabili d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo, ma in grado d'appello tale potere officioso sussiste ogni qualvolta le predette questioni, come ogni altra il cui oggetto non è disponibile dalle parti, non siano state proposte e decise in primo grado (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 2012, ibidem).

In tale ultima ipotesi, il potere del giudice dell'impugnazione trova un limite nella preclusione determinata dell'acquiescenza della parte soccombente o di quella, che, pur non avendo l'onere della impugnazione perché vittoriosa per altre ragioni, non abbia riproposto al giudice d'appello la relativa eccezione, incorrendo nella decadenza di cui all'art. 346 c.p.c. (Cass. n. 9297/2007).

Ne consegue che se tali principi sono applicabili al giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall., allora il reclamante — contrariamente a quanto accadeva nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento prima delle riforme — non potrà confidare nell'esercizio di poteri officiosi ovvero lato sensu «inquisitori» della corte d'appello, che, invero, non è investita del potere di rilevare motivi di censura non specificamente articolati, ovvero fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa impugnatoria (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 2012, ibidem. In senso contrario v. Bongiorno, cit., 355, secondo il quale alla corte d'appello devono essere riconosciuti, in sede di reclamo ex art. 18 l.fall., ampi poteri inquisitori, ad esempio di introdurre nel processo fatti non allegati dalle parti, di disporre mezzi istruttori indipendentemente dall'impulso di parte, di acquisire materiale atipico e perfino fonti di informazione che non rientrano nella disponibilità delle parti).

Ne discende, ancora, come ulteriori corollari, che, da un lato, la corte d'appello non potrà indagare sull'esistenza dei presupposti del fallimento, se questi ultimi non siano stati allegati dal reclamante — il quale potrebbe, per fare un esempio, non essere un soggetto fallibile, ovvero non trovarsi in stato d'insolvenza — come fatti costituitivi dell'impugnazione; e che, dall'altro, se il debitore dichiarato fallito abbia impugnato la sentenza di primo grado perché il tribunale non aveva considerato l'eccezione del decorso dell'anno dalla cessazione dell'attività di cui all'art. 10 l.fall., la corte d'appello non potrà motu proprio indagare intorno alla sussistenza del presupposto soggettivo della fallibilità (Così, Fabiani, cit., 371 ss).

Eccezioni e prove nuove nella fase di reclamo.

Il secondo comma, n. 4), dell'art. 18 l.fall. prescrive che nel reclamo vi sia la indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti. Ed invero, la previsione è da leggersi in correlazione con l'undicesimo comma, dove si dispone che, all'udienza, il collegio, sentite le parti, assume, anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente delegando un suo componente (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 324).

La norma non dice espressamente se i resistenti possono formulare eccezioni nuove, e se le parti possono depositare documenti ed articolare mezzi di prova, parimenti nuovi. Essa, inoltre, non contiene espresse previsioni volte ad introdurre, a carico delle parti, preclusioni di carattere assertivo o probatorio.

Pertanto, se si accogliesse la tesi dell'integrale recepimento, in quanto non diversamente disposto dalla legge, delle norme della cognizione ordinaria, dovremmo predicare allora l'applicabilità in parte qua dell'art. 345 c.p.c., e concludere nel senso che nel giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. non sia possibile formulare nuove eccezioni, salvo che le stesse non siano rilevabili d'ufficio (cfr., sul punto qui da ultimo in discussione, Cass. n. 11774/2007, la quale evidenzia che le eccezioni vietate in appello, ai sensi dell'art. 345, secondo comma, c.p.c., sono soltanto quelle in senso proprio, ovvero non rilevabili d'ufficio, e non, indiscriminatamente, tutte le difese, comunque svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte, potendo i fatti su cui esse si basano, risultanti dalle acquisizioni processuali, essere rilevati d'ufficio dal giudice alla stregua delle eccezioni in senso lato. Per fare un esempio, il giudice d'appello può rilevare d'ufficio la nullità del contratto, rientrando nel potere-dovere del giudice la verifica della sussistenza delle condizioni dell'azione, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, e senza incorrere in vizio di ultrapetizione, se il contratto configura un elemento costitutivo della domanda: così, ancora Cass. n. 18374/2006), e sempre che su di esse non si sia formato il giudicato implicito, né depositare documenti non versati agli atti del primo grado, ovvero chiedere nuovi mezzi di prova costituendi, a meno che la parte non dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (Cass., S.U., n. 8203/2005. Peraltro, prima che il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (recante «Misure urgenti per la crescita del Paese»), convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, modificasse l'art. 345 c.p.c., l'articolazione di nuove prove ed il deposito di nuovi documenti potevano altresì essere autorizzati dal giudice del gravame, il quale ritenesse tali prove indispensabili ai fini della decisione).

Sul punto, va precisato che, stante la previsione dell'art. 1 l.fall. — che, come è noto, pone a carico del debitore l'onere di dimostrare di non possedere i requisiti soggettivi e quantitativi di fallibilità — aumentano statisticamente in modo imponente le ipotesi nelle quali il debitore non comparso in primo grado venga dichiarato fallito e ritenga di potersi difendere per la prima volta in sede di reclamo, sicché l'impossibilità, per questi soggetti, di introdurre nella fase del reclamo nuovi fatti impeditivi e nuove eccezioni in senso stretto, nonché nuovi documenti e nuove prove, li lascerebbe irrimediabilmente falliti, pur se non dotati in concreto delle soglie quantitative minime che il legislatore ha ritenuto necessarie per poter ricorrere allo strumento del fallimento per la tutela dei diritti dei creditori (così Paluchowsky, in AA. VV., Manuale di diritto fallimentare, a cura di Pajardi e Paluchowsky, Milano, 2008, 169. Secondo Severini, La sentenza di fallimento e la sua impugnazione, in AA. VV., Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Ghia, Piccininni, Severini, I, Torino, 2011, 565, «l'impossibilità di poter proporre, in un giudizio a cognizione veramente piena, tutti i motivi di gravame, soprattutto se riferibili ad un precedente giudizio a cognizione semiplena, costituirebbe senz'altro una violazione del diritto di difesa»).

Pertanto, la giurisprudenza della Corte regolatrice ha precisato in subiecta materia che, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, l'imprenditore dichiarato fallito, anche se non è comparso nella fase prefallimentare, ovvero non si è difeso in modo specifico, può sempre dedurre domande ed eccezioni nuove e proporre nuovi mezzi di prova, documentali e non, al fine di dimostrare di non aver superato i limiti di fallibilità posti dall'art. 1 l.fall. (Cass. n. 22546/2010).

Ebbene, il presupposto di tale decisione si rintraccia nella circostanza che il giudizio di reclamo, adeguato alla natura camerale dell'intero procedimento, sarebbe caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno cui non si applicherebbero i limiti previsti, nel giudizio d'appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c., pur attenendo il reclamo ad un provvedimento decisorio, emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio e suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata: per una completa ricostruzione della problematica in discussione si rimanda a De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 326. Nel senso dell'efficacia devolutiva piena ed automatica del reclamo, cfr. Santangeli, Le modifiche introdotte dal decreto correttivo 169/2007, 2008, I, 160 ss.; Cavalli, La dichiarazione di fallimento, in AA.VV., Trattato di diritto commerciale, a cura di Cottino, Padova, 2009, 226 s.; Tedeschi, 85.

Deve invece ritenersi che la natura di giudizio contenzioso molto vicino alla cognizione piena assunta, anche in fase di gravame, dal procedimento per la dichiarazione di fallimento non possa condurre, oggi, l'interprete fuori dai limiti segnati dall'art. 345 c.p.c., tanto, cioè, da scardinare — per effetto dell'illimitata apertura ai novale preclusioni maturate nel giudizio di istruttoria prefallimentare: così si esprime efficacemente, De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 2012, 327.

In senso contrario v. App. Torino 21 ottobre 2008, in Fall., 2009, 239, secondo il quale nel procedimento di reclamo non opera affatto il divieto dei nova di cui all'art. 345 c.p.c. Per una posizione mediana v. Minutoli, op. ult. cit., 258, il quale ritiene che, in sede di giudizio di reclamo, non è ammessa l'introduzione di nuove prove, anche per il debitore che non abbia partecipato al giudizio di primo grado, ma che «la prospettazione del reclamante sia svincolata da un rigido limite costituito dalle difese proposte in primo grado, e che sia altresì idonea ad individuare una specifica «area tematica» di discussione e di riesame dell'oggetto del giudizio (vizi in procedendo, qualità di imprenditore commerciale, qualità di imprenditore commerciale fallibile), nel cui ambito — e per il principio dell'allegazione — il secondo giudice ha libertà di manovra, sia cognitiva ed istruttoria, che decisionale».

Pertanto, deve concludersi nel senso che al debitore fallito deve essere riconosciuto il diritto di dedurre nuovi fatti principali volti a neutralizzare i fatti costitutivi della dichiarazione di fallimento, ed il conseguente diritto di provarli, solo nelle ipotesi in cui non abbia potuto svolgere tali attività difensive in primo grado, per causa a lui non imputabile (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, ibidem, il quale discorre, a titolo di esempi, del vizio della notifica del ricorso di fallimento, che abbia determinato la contumacia involontaria del debitore, oppure del fatto sopravvenuto, rimasto ignoto alla parte senza sua colpa, o, ancora, dell'ignoranza incolpevole circa l'esistenza di un documento, anche preesistente al processo ex art. 15 l.fall., che farebbe venir meno i presupposti del fallimento, ad esempio, della ricevuta del pagamento del debito, che priverebbe il creditore istante della legittimazione a domandare il fallimento).

Sul punto, va ulteriormente precisato che, a ben vedere, prima della citata modifica dell'art. 345 c.p.c. ad opera del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito in l. n. 134/2012), si poteva ancora legittimamente discorrere sulla possibilità che il debitore — il quale avesse ritualmente eccepito in primo grado l'assenza di uno o più presupposti della dichiarazione di fallimento — potesse articolare o depositare con reclamo quelle prove e quei documenti nuovi che, ancorché preesistenti e noti, fossero ritenuti «indispensabili» ai fini della decisione, giacché, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, «suscettibili di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia; prove che, proprio perché indispensabili, sono capaci di determinare un positivo accertamento dei fatti di causa, decisivo talvolta anche per giungere ad un completo rovesciamento della decisione cui è pervenuto il giudice di primo grado» (v. Cass. S.U., n. 8203/2005 cit.; Cass. n. 9120/2006; Cass. n. 12179/2008).

Tuttavia, stante l'intervenuta abrogazione, in parte qua, dell'art. 345 c.p.c., deve ritenersi ulteriormente contratta l'area allegativa delle prove «indispensabili» (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, ibidem).

Sul punto, occorre considerare che, per le parti del giudizio di reclamo, le preclusioni delle deduzioni allegative e probatorie potrebbero, in misura più o meno ampia, subire uno spiraglio di riapertura anche in sede di impugnazione, per effetto di due eventi testualmente previsti dall'art. 18 l.fall.

Il primo evento è rappresentato da ciò, che il reclamo sia introdotto da un terzo interessato, il quale non è stato parte dell'istruttoria prefallimentare, ovvero che intervengano in sede di giudizio di reclamo terzi legittimati a proporlo in via autonoma. Orbene, a questi terzi (così come al curatore, che è parte necessaria del giudizio di reclamo) non può non essere riconosciuta libertà di allegazione e di prova, stante l'autonoma legittimazione a reclamare prevista dalla legge.

Ne consegue che al riconoscimento di poteri processuali al terzo reclamante deve necessariamente corrispondere un «recupero» di poteri processuali in capo alle parti originarie del processo, nel rispetto dei principi costituzionali del contraddittorio e della parità delle armi. Perciò, per le parti dell'istruttoria prefallimentare ed, in specie, per il debitore, l'introduzione, ad opera del terzo, di fatti principali e di prove nuovi, consente la formulazione di domande ed eccezioni consequenziali, nonché di prove contrarie, anche «nuove».

Peraltro, il secondo evento, che potrebbe riaprire il ventaglio delle allegazioni in sede di giudizio di reclamo, è rappresentato dall'esercizio di poteri istruttori officiosi da parte della corte d'appello (De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, 2012, 329).

Invero, a mente del comma 10 dell'art. 18, all'udienza, il collegio, sentite le parti, assume, anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente delegando un suo componente. Ebbene, la prova è da ritenersi necessaria allorché è capace di determinare un positivo accertamento dei fatti di causa, decisivo talvolta sia per confermare, sia per giungere ad un completo rovesciamento della decisione a cui è pervenuto il tribunale.

Segue. I poteri istruttori officiosi della corte d'appello.

L'ammissione per via officiosa di mezzi di prova impone, a salvaguardia del principio del contraddittorio, che alle parti del processo di gravame sia data la facoltà di depositare documenti ed articolare prove, che si rendano necessari in relazione ai mezzi officiosi, e ciò sul modello di quanto oggi dispone, per il primo grado di giudizio, l'art. 183, ottavo comma, c.p.c.

Sul punto, giova ricordare che, secondo una parte della dottrina, il decimo comma dell'art. 18, evocando l'esercizio di poteri istruttori officiosi, confermerebbe la natura inquisitoria del giudizio, autorizzando il giudice del gravame a disporre anche mezzi di prova che le parti hanno omesso di richiedere o fornire (Paluchowsky, cit., 169 s.; G. Bongiorno, cit.).

Ebbene, nella vigenza del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, la giurisprudenza aveva sostenuto che, stante il carattere officioso del processo, il giudice potesse prendere in esame, ai fini della prova relativa ai presupposti della dichiarazione di fallimento, tutte le risultanze processuali, senza distinzione tra oneri spettanti all'attore ed oneri spettanti al convenuto (Cass. n. 6953/1994).

Tuttavia, occorre chiarire che — alla luce delle riforme del diritto fallimentare del 2006-2007 — il giudice d'appello, che disponga mezzi di prova d'ufficio, non può ricercare i fatti principali, supplendo alle carenze probatorie delle parti. In realtà, esso deve limitarsi a ricercare fonti di prova idonee a corroborare il convincimento su fatti già allegati, ma insufficientemente provati (così, De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, passim. In giurisprudenza, v. anche Cass. n. 278/2005; Cass. n. 8308/1990).

Ne discende che l'intervento officioso del giudice non può, in conclusione, ribaltare le regole relative alla distribuzione degli oneri probatori, di cui all'art. 2697 c.c.

Sul punto, va anche aggiunto che l'esercizio dei poteri istruttori officiosi della corte d'appello può essere sollecitato anche dalle parti del processo, spettando alla corte il potere-dovere di valutare la necessità di disporre d'ufficio un mezzo di prova, allo stesso modo in cui, prima della riforma del 2012, spettava egualmente alla corte d'appello il compito di valutare l'indispensabilità della prova nuova, richiesta dalla parte nell'appello ordinario, e, se del caso, di ammetterla (De Santis, I limiti dell'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, 2012, passim).

Nel contesto dei poteri istruttori esercitabili dalla corte d'appello nel giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall., si colloca, peraltro, la complessa problematica dell'acquisizione del fascicolo della procedura fallimentare, che il cancelliere, ai sensi dell'art. 90 l.fall., forma immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. Ebbene, nel fascicolo fallimentare potrebbero rinvenirsi atti o documenti, che diano ragione dell'apprezzamento positivo in ordine alla ricorrenza dello stato d'insolvenza, e consentano di esercitare il controllo sull'adeguatezza della motivazione della sentenza dichiarativa di fallimento.

Sul punto, si pensi alle risultanze dello stato passivo, se è vero (come è vero) che l'esame dell'entità dei crediti ammessi al passivo del fallimento ben può confermare, pur se a posteriori, il convincimento del tribunale che ha dichiarato il fallimento in ordine alla sussistenza dello stato d'insolvenza del debitore.

Occorre ricordare che, Sub Julio, era consolidato in giurisprudenza il principio per il quale, nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di fallimento, il carattere officioso ed inquisitorio del giudizio abilitava il tribunale a recuperare dagli atti del fascicolo fallimentare la conoscenza di profili rilevanti per la decisione, indipendentemente dalla costituzione in giudizio del curatore e dalle sue produzioni documentali (Cass. n. 4476/2003). La sussistenza dello stato di insolvenza poteva essere correttamente desunta, come detto, anche dalle risultanze non contestate dello stato passivo: Cass. n. 19141/2006; Cass. n. 11393/2004. Si riteneva che il giudice dell'opposizione avesse addirittura il potere-dovere di accertare l'esistenza dei presupposti richiesti per l'apertura della procedura concorsuale anche in base agli atti del fascicolo fallimentare, le cui acquisizioni conoscitive venivano ascritte alla categoria delle prove atipiche, sicché ben potevano essere valutate a detto scopo le dichiarazioni rese nella fase prefallimentare dal fallito, ovvero da un soggetto privo della capacità a testimoniare, ex art. 246 c.p.c., in quanto titolare di un interesse che poteva legittimare la sua partecipazione al giudizio (ad esempio un creditore del fallito) (Cass. n. 17698/2005).

Ebbene, va chiarito come ancora oggi la corte d'appello sia legittimata all'acquisizione del fascicolo fallimentare, sebbene nei limiti, sopra tracciati, entro i quali il giudice d'appello possa disporre mezzi di prova d'ufficio. Sul punto, va precisato che il collegio può acquisire il fascicolo fallimentare, da cui eventualmente desumere elementi o argomenti di prova, ma che tuttavia si tratta di una mera facoltà, il cui mancato esercizio non esonera la parte interessata dalle conseguenze del mancato assolvimento dell'onere probatorio (Cass. 21 n. 28302/2005; Cass n. 6465/2001, in Dir. fall., 2001, II, 667, con nota di Ragusa Maggiore).

Peraltro, occorre ulteriormente chiarire che l'acquisizione del fascicolo fallimentare necessita di una formale ordinanza istruttoria della corte d'appello, nella quale si specifichi che l'acquisizione riguarda gli atti ovvero una parte degli atti esistenti in quel fascicolo: Fabiani, op. ult. cit., 378, il quale evidenzia che se così non fosse, e si ammettesse l'ingresso automatico e continuo degli atti del fascicolo fallimentare in quello del giudizio di reclamo, «ci si troverebbe facilmente di fronte a prove documentali a inserzione variabile, visto che nella dinamica della procedura fallimentare è normale che vi sia una continua sequenza di atti che vengono inseriti nel fascicolo, con la conseguenza che non si potrebbe mai sapere quali sono gli atti oggetto dell'indagine e se questi atti siano stati conosciuti dalle parti».

Da ultimo, non può essere sottaciuto che il trasferimento di atti dal fascicolo fallimentare a quello del giudizio di reclamo ne implica la piena ostensibilità alle parti di quest'ultimo, alle quali deve essere concessa piena libertà di articolazione istruttoria in relazione — e, se del caso, in replica — alle risultanze degli atti acquisiti.

Fissazione dell'udienza e costituzione delle parti.

La fase di instaurazione e di trattazione del reclamo sono sorrette dai medesimi principi di celerità del rito e di ragionevole durata del processo, che devono ispirare l'intero processo di fallimento: la Corte di Cassazione ha affermato che il giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento «deve essere coordinato con la precedente fase, di natura contenziosa ed a trattazione camerale, volta ad assicurare l'attuazione di esigenze di snellezza e celerità; esso si articola in una fase di costituzione delle parti che si conclude in una unica udienza a trattazione orale, ove ciascuna parte, pur in una sequenza semplificata, è ammessa ad illustrare le proprie difese ed a replicare a quelle avverse, senza che tale dialettica contempli la facoltà delle parti di depositare ulteriori memorie e consenta l'applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 189 e 190 c.p.c.» (così, Cass. n. 20836/2010).

Ebbene, ai sensi dei commi 5 e·8 dell'art. 18 l.fall., il presidente della corte d'appello (ovvero il presidente della sezione della corte d'appello tabellarmente investita di questa materia), nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il relatore, e fissa con decreto l'udienza di comparizione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso.

Deve naturalmente ritenersi che tali termini siano ordinatori (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 334).

Successivamente, il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato, a cura del reclamante, al curatore ed alle altre parti (e cioè, a tutti coloro che sono state parti dell'istruttoria prefallimentare, e che, di conseguenza, divengono litisconsorti necessari del giudizio di reclamo) entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto: si tratta anche qui di un termine evidentemente ordinatorio, non essendo qualificato espressamente dalla legge come perentorio, la cui violazione non determina la improcedibilità del reclamo, salva la necessità del rispetto del termine a difesa di trenta giorni (così, anche App. Reggio Calabria, 21 gennaio 2010, in Fall., 2010, 1415).

Peraltro, tra la data della notificazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine a difesa non minore di trenta giorni.

Va ulteriormente precisato, in subiecta materia, che l'omessa notifica ad una o più parti dell'istruttoria prefallimentare dovrebbe — in applicazione analogica dell'art. 331 c.p.c. — determinare la fissazione di un termine per l'integrazione del contraddittorio in favore dei soggetti pretermessi, la cui inosservanza determina l'improcedibilità del reclamo ed il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, ibidem). Ed infine, la Corte regolatrice ha statuito che, anche nel giudizio di reclamo fallimentare, la notifica dell'impugnazione eseguita, nei termini di legge, nei confronti di uno solo dei litisconsorti, introduce validamente il giudizio di gravame anche nei confronti di tutte le altre parti, ancorché l'atto di impugnazione sia stato, a queste, tardivamente notificato. assolvendo l'atto tardivo alla funzione di notificazione per integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. (Cass. n. 3071/2011).

Le. parti resistenti devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza, eleggendo il domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello. La costituzione si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria contenente l'esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonché l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti. Nulla vieta, tuttavia, ai resistenti di costituirsi direttamente all'udienza ovvero, secundum eventum, anche successivamente, non essendovi materia di reclamo incidentale, che resterebbe precluso in caso di tardiva costituzione (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 336).

Va aggiunto inoltre che la costituzione oltre il termine dei dieci giorni preclude al resistente la formulazione di domande ed eccezioni in senso stretto nuove, nonché il deposito di documenti e l'articolazione di nuovi mezzi di prova, e ciò nelle ipotesi in cui tali attività sono ammesse, secondo quanto già si è riferito sopra.

Sul punto, la giurisprudenza della Corte regolatrice ha opportunamente precisato che, nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, il termine per la costituzione è perentorio, anche in mancanza di un'espressa dichiarazione normativa, senza che il suo mancato rispetto implichi tuttavia decadenza della parte, che vi sia incorsa, dal diritto di opporsi al predetto reclamo, potendo la costituzione sopravvenire nel corso del procedimento, con le limitazioni che la tardività determina per la formulazione di determinate difese (Cass. n. 12989/2009).

Un maggior approfondimento merita invece il discorso relativo alla preclusione avente ad oggetto la riproposizione delle eccezioni rigettate o assorbite all'esito del giudizio di istruttoria prefallimentare. Invero, l'art. 346 c.p.c. sancisce il principio secondo cui le domande ed eccezioni non accolte o rimaste assorbite in primo grado debbono essere riproposte espressamente in sede di gravame, a pena di esclusione dall'oggetto del giudizio di appello. Peraltro, tale regola è applicabile anche alle controversie soggette al rito del lavoro, in relazione alle quali l'art. 436 c.p.c. prevede per l'appellato l'obbligo di costituirsi mediante il deposito di una memoria contenente l'esposizione dettagliata di tutte le sue difese, con la conseguenza che un generico richiamo, contenuto in tale memoria, alle conclusioni assunte in primo grado non può essere ritenuto sufficiente a manifestare la volontà di sottoporre al giudice d'appello una domanda o un'eccezione non accolta del primo giudice, al fine, cioè, di evitare che essa si intenda rinunciata: Cass. n. 12644/2004; Cass. n. 15764/2002. Sul punto, va aggiunto che sempre nel rito del lavoro, ove il giudice di primo grado abbia implicitamente disatteso l'eccezione di prescrizione, rigettando la domanda per motivi di merito, l'eccezione stessa (che ha natura di eccezione in senso stretto, rilevabile soltanto ad istanza di parte) non si ha per riproposta in grado d'appello, se la parte interessata (appellata in sede di gravame) non l'abbia formalmente e tempestivamente dedotta nella memoria di costituzione, ai sensi dell'art. 436 c.p.c. (Cass., n. 18901/2007).

Seguendo il condivisibile orientamento di autorevole dottrina processualcivilistica (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 2012, 337), i sopra esposti principi devono ritenersi applicabili anche nel giudizio di reclamo ex art. 18 1. fall., in considerazione dell'operare del principio tantum devolutum quantum appellatum. Ne discende la conseguente decadenza dalle eccezioni non accolte o rimaste assorbite in primo grado, se non riproposte nel termine dei dieci giorni antecedenti l'udienza.

Da ultimo, deve ritenersi che debba qui trovare applicazione l'art. 335 c.p.c., norma a tenore della tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d'ufficio, in un solo processo. Ed invero, si ripropone in parte qua il contrasto, oggi esistente in giurisprudenza, tra l'orientamento che, in caso di mancata riunione di più impugnazioni ritualmente proposte contro la stessa sentenza, sostiene che la decisione di una delle impugnazioni non determini l'improcedibilità delle altre, sempre che non si venga a formare il giudicato sulle questioni investite da queste ultime, dovendosi attribuire prevalenza — in difetto di previsioni sanzionatorie disposte dall'art. 335 c.p.c. — alle esigenze di tutela del soggetto che ha proposto l'impugnazione rispetto a quelle dell'economia processuale e della teorica armonia dei giudicati (Cass. n. 5846/2008; Cass. n. 4617/2004); e l'orientamento, decisamente preferibile, secondo il quale la mancata riunione delle separate impugnative non incide sulla validità della pronuncia già adottata in relazione ad una di esse, ma non consente una separata pronuncia sulla seconda, che diventa pertanto improcedibile in forza del principio dell'unità della decisione (Cass. n. 21432/2007).

Gli interventi.

Il 9 comma dell'art. 18 l.fall. fissa un termine preclusivo per gli interventi in fase di reclamo, ancorandolo a quello stabilito per la costituzione delle parti resistenti. Ebbene, la legittimazione ad intervenire è riconosciuta a qualunque interessato, come conseguenza di quanto previsto per la legittimazione a reclamare.

In realtà, si tratta in questo caso di una legittimazione eccezionale rispetto alla regola generale dettata dall'art. 344 c.p.c., che limita la legittimazione all'intervento nel giudizio d'appello ordinario ai soli terzi che potrebbero proporre opposizione ai sensi dell'art. 404 c.p.c., in quanto titolari di un diritto incompatibile che potrebbe essere pregiudicato dall'emananda pronunzia in sede d'impugnazione (Cass. n. 12385/2006).

Volendo seguire la progressione della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, occorre ricordare che, Sub Julio, la giurisprudenza della Corte regolatrice si era occupata dell'intervento nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, al fine di affermarne, per lo più, la natura di intervento adesivo dipendente, non solo nella ipotesi in cui il terzo intendesse contrastare l'opposizione ed avesse interesse alla permanenza della procedura fallimentare, ma anche quando egli si schierasse a sostegno delle ragioni dell'opponente (Cass. n. 4698/1997).

Peraltro, sempre la stessa giurisprudenza non riteneva possibile un intervento principale o adesivo autonomo, avendo il giudizio per oggetto il solo accertamento dei presupposti del fallimento e non potendo il terzo prospettare altra tesi se non quella dell'opponente, ovvero di chi sosteneva che il fallimento dovesse essere confermato.

La giurisprudenza di legittimità, più di recente ma riferendosi comunque ad una fattispecie antecedente alle riforme, ha evidenziato che se è vero che, potendo l'opposizione al fallimento essere proposta, ex art. 18 l.fall., non solo dal fallito, ma anche da qualunque altro interessato, allora potrebbe sostenersi che, proprio in virtù di questo ampio spettro di legittimazione, il terzo che abbia interesse alla revoca del fallimento ed intervenga perciò a sostegno delle ragioni già prospettate in giudizio dal fallito, non farebbe che esercitare, in forma d'intervento, quel medesimo potere di azione che gli consentirebbe di proporre autonomamente l'opposizione. Tuttavia, sostiene sempre il giudice di legittimità, una tale obiezione potrebbe avere fondamento solo a condizione che l'intervento di cui si discute fosse stato spiegato quando ancora effettivamente il terzo era titolare di un suo proprio e autonomo potere di azione e, dunque, nel rispetto dei limiti temporali fissati dal citato art. 18 l.fall., dovendosi così ritenere che, una volta decorso il termine indicato da tale norma, il terzo indirettamente interessato alla revoca del fallimento decada dal potere di azione eccezionalmente accordatogli dalla legge, con la conseguenza che il suo intervento in causa, a sostegno delle ragioni dell'opponente, non può che trovare il proprio fondamento giuridico nel disposto della norma generale fissata dall'art. 105 c.p.c., 2 comma, risultando ormai impossibile individuare, anche solo sul piano processuale, una qualche sua autonoma posizione tutelabile (così, Cass. n. 971/2008).

Ebbene, deve ritenersi, anche qui, che i sopra descritti principi possano ritenersi ancora oggi validi, e ciò in considerazione della natura di cognizione piena del giudizio di reclamo, al pari dell'abrogato giudizio di opposizione a dichiarazione di fallimento. Ne discende che l'intervento è da considerarsi tempestivo se effettuato, così come prevede il 9 comma dell'art. 18 l.fall., entro il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti e con le modalità per queste ultime stabilite. Peraltro, l'interventore, in quanto portatore di un interesse ad agire che lo legittimerebbe alla proposizione del reclamo, sarebbe da considerarsi alla stregua di un interventore adesivo autonomo (cfr. art. 105, 1 comma, c.p.c.), e come tale capace di sostenere e fornire autonomo impulso alla domanda impugnatoria, nonché abilitato al deposito di documenti ed all'articolazione di prove, che, se aventi carattere di novità, aprirebbero in realtà la strada, per le altre parti, al diritto di accesso alla prova contraria, secondo il meccanismo già più volte descritto (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 2012, 339). Inoltre, il terzo potrebbe anche intervenire nel prosieguo di giudizio, ma senza un potere di allegazione autonomo, e dunque al solo fine di sostenere la posizione processuale di una delle parti, ed il suo intervento in causa, a sostegno delle ragioni dell'opponente, non può che trovare il proprio fondamento giuridico nel disposto della norma generale fissata dall'ano 105, comma 2, c.p.c.

Trattazione della causa.

Ai sensi dell'art. 18, commi 10 e 11, l.fall., si stabilisce che all'udienza, il collegio, sentite le parti, assume, anche d'ufficio nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, eventualmente delegando un suo componente. La Corte, poi, provvede sul ricorso con sentenza.

L'udienza dinanzi alla corte d'appello è collegiale. Tuttavia, vi è anche la possibilità di delegare, con decreto presidenziale, l'assunzione delle prove ad un componente del collegio. Nell'ottica della semplificazione e dell'accelerazione del rito, la legge sembrerebbe volere che il giudizio di reclamo si svolga tendenzialmente in un'unica udienza, non essendo previsto il deposito di ulteriori atti difensivi oltre a quelli iniziali. Deve ritenersi che non si possano, tuttavia, escludere a priori né il rinvio ad altra udienza — motivato, per fare un facile esempio, dalla necessità di assumere prove —, né il deposito successivo di memorie, e ciò anche relazione ad eventuali memorie conclusionali dopo la rimessione della causa in decisione, soprattutto allorché si appalesi l'opportunità di illustrare, al di là delle ristrettezze temporali dell'udienza, la posizione delle parti in ordine a questioni sollevate o a prove, disposte d'ufficio dalla corte.

Peraltro, se nessuna delle parti si presenta all'udienza, dovrebbe trovare applicazione — in sintonia con le regole della cognizione ordinaria — il combinato disposto degli amo 309 e 181, l comma, c.p.c., sicché, al ricorrere di tale ipotesi, la corte deve fissare un'udienza successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite. Se nessuna delle patti compare alla nuova udienza, la corte ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo di reclamo, con il conseguente passaggio ingiudicato della sentenza dichiarativa di fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 341).

La decisione del reclamo.

Come detto, il provvedimento che definisce il giudizio ex art. 18 l.fall. assume la forma della sentenza, sia che rigetti, sia che accolga il reclamo, revocando, in quest'ultimo caso, il fallimento. Ebbene, l'11 comma dell'art. 18 l.fall., si limita a disporre che «la corte provvede sul ricorso con sentenza». Sul punto, va detto che il 5·comma del medesimo articolo, nella versione dettata dal d.lgs. n. 5/2006, prevedeva che la corte provvedesse con sentenza, emessa ai sensi dell'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, e che, in caso di particolare complessità, la corte potesse riservarsi di depositare la motivazione entro quindici giorni.

Il d.lgs. c.d. «correttivo» n. 169/2007 ha eliminato, del tutto opportunatamente, il rinvio all'art. 281-sexies c.p.c., quale modo ordinario di definizione del giudizio, e, di conseguenza, la possibilità di emettere immediatamente sentenza succintamente motivata in esito alla trattazione orale: nella Relazione illustrativa del d.lgs. n. 169, l'abrogazione del rinvio all'art. 281·sexies è motivata «con l'incongruità di quella previsione rispetto alla struttura camerale del procedimento, anche se è da dimostrare che non valga il contrario e che.cioè, una volta ammessa la sentenza in esito al rito in camera di consiglio, quale tipo di definizione del giudizio più rapido non sia in linea con le esigenze acceleratorie e di semplificazione imposte dalla legge delega fallimentare e sottese all'intera riforma ed alle conseguenti scelte processuali».

Tuttavia, è il caso di ricordare che, in termini più generali, l'art. 27 della legge 12 novembre 2011, n. 183, ha aggiunto, con decorrenza dal 1 febbraio 2012, un comma all'art. 352 c.p.c, prevedendo che, nel giudizio d 'appello di ordinaria cognizione, la corte d'appello, se non provvede alla decisione nei modi tradizionali – ossia previo scambio degli atti conclusionali —, può decidere la causa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c.. Ne discende che occorre ora domandarsi se anche in sede di decisione del reclamo ex art. 18 l.fall., la corte d'appello possa stabilire, nei casi meno complessi, di procedere con le forme più rapide e semplificate dell'art. 281-sexies, applicando per analogia la disposizione codicistica. Sul punto, occorre concordare con quella condivisibile dottrina (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 342) la quale evidenzia che, a ben vedere, il problema dell'applicazione analogica dell'art. 352, ultimo comma, c.p.c neppure si pone, atteso che l'art. 18 l.fall., non prevede un meccanismo decisionale che imponga di passare attraverso la riserva di sentenza e lo scambio di arti difensivi conclusionali. Ne consegue che non deve ritenersi vietato alla corte, dopo la discussione, di dare immediata lettura in udienza della sentenza, contenente — conformemente ai principi generali (cfr. art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.) — la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Peraltro, va anche ricordato che al fine di far decorrere i termini delle successive impugnazioni e di accelerare i tempi di formazione del giudicato fallimentare, il 13 comma dell'art. 18 l.fall., prevede che la sentenza che rigetta il reclamo sia notificata al reclamante ovvero ai reclamanti a cura della cancelleria.

Occorre, a questo punto della trattazione, approfondire la questio iuris in ordine alle conseguenze che deriverebbero dalla pronunzia con la quale la corte d'appello dichiari la nullità della sentenza di fallimento, per una delle ragioni che — ricorrendo all'applicazione delle regole in materia di appello ordinario (cfr. artt. 353 e 354 c.p.c.) — imporrebbero la rimessione della causa al primo giudice. Ed invero, è il caso, per fornire un esempio alla trattazione, della nullità della sentenza derivata dalla nullità della notificazione della domanda di fallimento e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza prefallimentare ex art. 15 l. fall; oppure della violazione delle norme in materia di litisconsorzio necessario, allorché il giudizio di primo grado non si sia svolto nella pienezza del contraddittorio.

Secondo una prima opinione (Scala, Sub art. 18, in AA. VV., Commentario alla legge fallimentare diretto da Cavallini, I, Milano, 2010, 398), la rimessione al primo giudice, per ragioni sistematiche ed esigenze di ordine pratico, non, sarebbe in realtà ammessa, ma la corte d'appello dovrebbe decidere il merito dell'impugnazione, disponendo la rinnovazione degli atti nulli e, se del caso, l'integrazione del contraddittorio.

La tesi sopra riportata non è tuttavia condivisibile, giacché essa presuppone che il giudizio di reclamo abbia carattere interamente devolutivo e che la corte d'appello possa riesaminare funditus la materia del contendere, anche a prescindere dall'articolazione di specifici motivi d'impugnazione, procedendo anche a dichiarare il fallimento in via autonoma (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 343).

Ma, come si è sopra ampiamente argomentato, siffatto effetto devolutivo non è da riconoscersi al giudizio di reclamo. Peraltro, è da dirsi che non è discutibile il principio secondo cui il sistema normativo abbia inteso affidare al giudice di secondo grado un potere di controllo della dichiarazione di fallimento, ma giammai un autonomo potere di dichiarare il fallimento. Tanto ciò è vero che — ai sensi dell'art. 22, penultimo comma, l.fall. — se la corte d'appello dovesse accogliere il reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda di fallimento, non potrebbe giammai deciderla nel merito, dichiarando il fallimento, ma dovrebbe rimettere d'ufficio gli atti al tribunale, affinché sia quest'ultimo a procedere alla dichiarazione di fallimento. Peraltro, va aggiunto, a sostegno di quanto appena detto, che una diversa soluzione non sarebbe neppure concettualmente e sistematicamente possibile ed accettabile, atteso che, ai sensi dell'art. 23 l.fall. il tribunale (e non già la corte d'appello) è organo del fallimento ed è investito dell'intera procedura fallimentare, ed è al tribunale (e non già alla corte d'appello) che il citato art. 23 affida la nomina e la revoca degli altri organi della procedura, ossia del giudice delegato, del curatore e del comitato dei creditori. Al contempo, il penultimo comma dell'art. 22 l.fall. individua l'unus casus di rimessione della causa al primo giudice, e cioè per l'accoglimento del reclamo avverso il decreto di rigetto della domanda di fallimento, inibendo che la rimessione possa avvenire per altre ragioni, ossia, per quanto qui in discussione, in seguito di annullamento della dichiarazione di fallimento all'esito del giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall.

Ne consegue che occorre affermare qui il principio secondo cui, in tutte le ipotesi di accoglimento del reclamo ex art. 18 l.fall., la corte d'appello non potrà fare altro che revocare il fallimento con sentenza che è impugnabile peraltro per Cassazione, senza possibilità di rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c. Ciò non preclude, tuttavia, che la domanda di fallimento possa essere correttamente riproposta dai soggetti a ciò legittimati.

Peraltro, giova ricordare che l'esclusione del potere di rimettere la causa al primo giudice per nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, determinata dalla nullità della notificazione della domanda di fallimento introduttiva del giudizio di primo grado, è stata esclusa dalla Cassazione anche dopo le riforme del 2006-2007, sul presupposto che siffatta nullità, pronunciata dalla corte d'appello, travolge tutti gli atti consequenziali, ivi inclusi il giudizio di cognizione di primo grado, mentre non fa neppure salvi situazioni, fatti ed effetti riferibili alla fase precedente del giudizio, che possano valere come vincoli assoluti per il giudice fallimentare riguardo ad una nuova dichiarazione di fallimento: Cass. n. 18762/20011, la quale evidenzia che «anzi quel giudice... nell'ipotesi di inizio di una nuova fase procedirnentale prefallimentare, non può non riferirsi all'attualità delle situazioni su cui fondare l'accertamento dei presupposti della dichiarazione di fallimento, dal momento che, da un lato, l'effetto retroattivo della pronuncia della corte d 'appello induce a ritenere la dichiarazione di fallimento tamquam non esset, dall'altro, va fatto salvo il principio secondo cui l'accertamento dei presupposti del fallimento va eseguito con riferimento ai fatti ed alle circostanze soggettive ed oggettive esistenti all'epoca della dichiarazione medesima» (vedi anche Cass. n. 7760/1990).

La decisione sul reclamo resa dalla corte d'appello deve provvedere anche in ordine alle spese di lite, seguendo il criterio generale della soccombenza. L'onere effettivo delle spese dovrebbe variare in relazione all'esito del giudizio ed alla posizione soggettiva della parte soccombente.

Sul punto, occorre distinguere, nella ipotesi di rigetto del reclamo, a seconda del soggetto reclamante, che può essere il debitore fallito, il creditore istante per il fallimento ovvero altro creditore intervenuto nel giudizio di istruttoria prefallimentare, ovvero ancora un terzo. Se il reclamante soccombente è il debitore, si ritiene che il provvedimento di rigetto del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non necessiti di una statuizione sulle spese di quel grado di giudizio, perché il curatore, avendo già titolo per acquisire e liquidare tutti i beni del reclamante, non ha bisogno di una ulteriore condanna a rifondere tali spese ai danni di quest'ultimo (App. Napoli, 31 marzo 2010).

Ciò vale tuttavia a condizione che il giudizio di reclamo si sia svolto con la presenza di due sole parti, e cioè il debitore reclamante e la curatela resistente, in quanto, qualora vi sia stata la costituzione di altre parti, litisconsorti necessari del giudizio, allora non si può non tener conto anche della posizione di queste ultime (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 345).

Con riferimento, poi, al profilo delle spese liquidate in favore del creditore, già istante per il fallimento e resistente nel giudizio di reclamo, sono prospettabili due soluzioni, entrambe desumibili dalla previgente esperienza giurisprudenziale del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Ed invero, secondo una prima soluzione accolta dalla Corte regolatrice, non sono ammesse in prededuzione nello stato passivo del fallimento le spese sostenute dal creditore istante nel giudizio di impugnazione della dichiarazione di fallimento, senza che assuma rilievo la sua qualità di litisconsorte necessario, non potendosi desumere da essa l'inerenza delle spese sostenute all'amministrazione del fallimento o alla sua conservazione. Sul punto, deve essere invero chiarito che le spese del giudizio di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento non hanno natura concorsuale, in quanto sorgono in un momento successivo all'apertura della procedura, e non costituiscono, in nessun caso, credito di massa ex art. 111, n. l, l.fall., in quanto la legittimazione passiva del curatore e quella del creditore trovano titolo in situazioni giuridiche diverse (Cass. n. 1186/2006).

Sul punto, la dottrina (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 347) ha obiettato come tale orientamento non sia pienamente idoneo alla valorizzazione della posizione di litisconsorte necessario, che il vigente testo dell'art. 18 l.fall. assegna al creditore istante per il fallimento (Cass. n. 3071/2011), atteso che unico legittimato, oltre al pubblico ministero ed al debitore che agisca in autofallimento, alla proposizione della domanda di fallimento.

Passando, ora, alla ipotesi della sentenza di accoglimento del reclamo, è da dirsi che la corte d'appello deve liquidare le spese del giudizio di reclamo ed, eventualmente, anche di quello di primo grado, facendo applicazione del principio della soccombenza, sicché il creditore istante per il fallimento — a prescindere dal diritto del fallito tornato in bonis a chiedere il risarcimento dei danni — deve essere condannato al pagamento di dette spese in relazione alle circostanze e alle ragioni della domanda di fallimento, nonché alla condotta processuale tenuta nel corso del giudizio di reclamo. Peraltro, la liquidazione delle spese di lite in favore del debitore reclamante e vittorioso nel giudizio di reclamo deve essere altresì garantita nell'ipotesi di domanda di fallimento proposta dal pubblico ministero, restando dette spese a carico dell'erario (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, ibidem).

Le successive impugnazioni della sentenza dichiarativa di fallimento

La sentenza sia di rigetto del reclamo, ovvero di accoglimento dello stesso, con conseguente revoca del fallimento emessa dalla corte d'appello in esito al giudizio di reclamo è ricorribile per cassazione. Invero, il comma 14 dell'art. 18 l.fall. stabilisce che il termine per proporre ricorso per cassazione è, diversamente da quanto stabilito dall'art. 325,2 comma, c.p.c. (per il ricorso in via ordinaria) di trenta giorni. Va precisato che il detto termine è perentorio, conseguendo l'inammissibilità del ricorso proposto oltre la scadenza del termine di trenta giorni dalla data della notificazione della sentenza della corte d'appello (Cass. n. 23975/2010).

Si tratta, di un termine speciale, che ha la funzione di indurre i legittimati, tra quali anche il curatore fallimentare (secondo Cass. n. 1098/2010, è ammissibile il ricorso per cassazione proposto dal curatore fallimentare avverso la sentenza di revoca della dichiarazione di fallimento, non essendo configurabile una carenza di legittimazione del curatore, nonostante l'intervenuta chiusura del fallimento e la cessazione del ricorrente dalla carica, atteso che il fallimento viene meno, con decadenza dei suoi organi, solo cori il passaggio in giudicato della sentenza di revoca), ad una rapida decisione in ordine all'impugnazione (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 349).

Tuttavia, va aggiunto che in caso di mancanza o di invalidità della notificazione, il termine torna ad essere quello lungo di sei mesi dal deposito della sentenza, senza l'ulteriore aggiunta dei 45 giorni di sospensione dei termini per il periodo feriale, non applicabile, come noto, al processo per la dichiarazione di fallimento. Peraltro, occorre precisare che, non essendovi altre norme speciali, il giudizio di legittimità è, per il resto, integralmente regolato dagli artt. 360 e seguenti del codice di rito.

La sentenza della corte d'appello è altresì impugnabile con la revocazione, ai sensi dell'art. 395 c.p.c. (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 350).

È anche ammissibile l'opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. nelle ipotesi in cui il terzo si assuma titolare di una situazione incompatibile con quella accertata ovvero deduca che tale sentenza sia l'effetto di dolo o collusione a suo danno (contra, Bongiorno, cit., 366, secondo il quale l'opposizione di terzo ordinaria sarebbe da escludersi per il fatto che il rimedio ex art. 18 l fall. è esteso ai terzi comunque interessati dalla sentenza dichiarativa di fallimento).

In ordine alla impugnazione per cassazione, occorre altresì valutare la possibile applicazione al ricorso in Cassazione avverso la sentenza resa all'esito del giudizio di reclamo ex art. 18 l.fall. delle modifiche recate dall'art. 348-ter, ultimo comma, e dal nuovo n. 5) dell'art. 360 c.p.c. (De Santis, 2013, 393 e ss.).

È da ritenersi, in primo luogo, che non possa trovare applicazione al giudizio per la dichiarazione di fallimento la previsione (c.d. della «doppia conforme»), contenuta nell'ultimo comma dell'art. 348-ter, in base alla quale il motivo di ricorso di cui al n. 5) dell'art. 360 non può essere sperimentato avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado. In realtà, il quarto comma, rende applicabile tale previsione «fuori dei casi di cui all'articolo 348-bis, secondo comma, lettera a)», escludendo perciò dal suo raggio d'azione le controversie in cui è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, tra le quali anche quelle per la dichiarazione di fallimento.

Nulla osta, invece, all'applicazione del nuovo n. 5) dell'art. 360 c.p.c., che, come si è sopra detto, limita oggi il ricorso in Cassazione per vizio della motivazione alla sola ipotesi dell'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti (De Santis, 2013, ibidem).

Sul punto, è lecito domandarsi se, nonostante le limitazioni introdotte dalla riforma del 2012 nel n. 5) dell'artt. 360 c.p.c. ora ricordate, sia stato realmente eliminato ogni controllo sulla coerenza, logicità e sufficienza della motivazione, oppure se una motivazione insufficiente, illogica o contraddittoria rappresenti un error in judicando de jure procedendo, e ciò nella misura in cui la decisione impugnata non abbia correttamente applicato l'art. 132 c.p.c., che fa assurgere la motivazione ad elemento indispensabile della sentenza, censurabile come tale con il motivo di cui al n. 4 dell'art. 360 c.p.c.: è stato dimostrato da Bove, Giudizio di fatto e sindacato della Corte di cassazione: riflessioni sul nuovo artt. 360 n. 5 c.p.c., in Judicum.it, 2 luglio 2012, 5, come, anche nelle applicazioni dell'art. 360, n. 5), c.p.c., anteriore alla riforma del 1950, «il vizio logico, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra, come se fosse una presenza ineluttabile, di cui, nonostante gli sforzi del legislatore, la prassi e direi il sistema non poteva fare a meno»: l'Autore (cfr. par. 4) preconizza, pertanto, un identico esito applicativo anche in relazione al «nuovo» n. 5) dell'art. 360 c.p.c. («Si potrebbe forse impedire al soccombente di lamentare la violazione delle norme legali sull'interpretazione dei contratti? O ancora si potrebbe impedire di lamentare che il giudice non ha posto a base della decisione un fatto che era notorio o un fatto che non era contestato? Si potrebbe impedire di censurare in cassazione la violazione di una massima di esperienza nella valutazione probatoria o nell'applicazione di un concetto giuridico indeterminato?»).

Più ancora, resta ferma, ancora oggi, la censura per motivazione cd. «apparente», attesa la stretta contiguità di quest'ultima con il paradigma dell'art. 111, settimo comma, cost.: v. Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005 (con riferimento al vizio di motivazione, v., in particolare, 292 ss; e, con riferimento alla materia fallimentare, v. in particolare 471 ss.).

Sul punto, occorre puntualizzare che è pacifico il principio secondo cui con il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'articolo 111 Cost. si possono denunciare soltanto violazioni di legge, con riferimento sia alla legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso, sia alla legge regolatrice del processo. Ne deriva che l'inosservanza, da parte del giudice, dell'obbligo della motivazione su questioni di fatto integra violazione di legge e come tale è denunciabile con il detto ricorso, in quanto si traduca in una mancanza della motivazione stessa, con conseguente nullità della pronuncia per difetto di un requisito di forma indispensabile, ovvero nel suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi, o fra di loro logicamente inconciliabili o comunque perplesse o obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie: De Santis, 2013, ibidem; in giurisprudenza, si legga ex multis: Cass. n. 23238/2004; Cass. n. 26246/2008; Cass. n. 1880/2007; Cass. S.U., n. 5888/1992.

È, peraltro, altrettanto pacifico che — alla stregua del dettato di cui al previgente n. 5) dell'art. 360 c.p.c. (che consentiva la censura per omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione) — la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferiva al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti: con la conseguenza che il vizio di motivazione, sotto il profilo dell'omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, poteva legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, fosse rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esistesse insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione: Cass., S.U., n. 13045/1997.

Se così è, allora è da ritenersi che l'«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», a cui fa riferimento il nuovo art. 360, n. 5), c.p.c., altro non sia che il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, assorbendo così in sé anche la pregressa censura per omessa ed insufficiente motivazione.

Quanto alla motivazione contraddittoria, essa rilevava nella misura in cui avesse inciso sulla ricostruzione del fatto decisivo controverso, con argomenti che non consentono l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, questione che, in buona sostanza, non si discosta da quella inidoneità della motivazione a rivelare la ratio decidendi, che, alla stregua del diritto vivente, era ed è pacificamente censurabile con il ricorso straordinario in Cassazione.

In realtà, va detto che l'«omesso esame» si configura sia nell'ipotesi di radicale mancata menzione del fatto, sia in quella di grave superficialità logica nella sua valutazione (De Santis, 2013, ibidem).

Ne discende che l'interpretazione da fornirsi alla nuova formulazione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. non può essere tale da porsi al fi fuori della previsione di cui al settimo comma dell'art. 111 Cost., per come quest'ultima è considerata nei consolidati orientamenti della giurisprudenza.

In ogni caso, Cass. I, ord. n. 32533/2022ha precisato che, nel caso di accoglimento in sede di legittimità del ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di rigetto del reclamo contro la sentenza di fallimento, la Suprema Corte può direttamente revocare tale dichiarazione e statuire sulle spese di procedura, tenendo conto dell'imputabilità della relativa apertura a norma dell'art. 147 d.p.r. n. 115/2002, ove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto; dovendosi altrimenti procedere alla cassazione con rinvio al giudice di merito.

Decreto di rigetto e audizione del debitore

Se l'istruttoria prefallimentare si conclude senza che siano emersi i presupposti per la dichiarazione di fallimento, per l'assenza dei requisiti soggettivi di fallibilità ovvero dell'insolvenza, il tribunale rigetta la domanda di fallimento con decreto motivato.

Giova ricordare, per completezza di indagine, che secondo un orientamento minoritario nella giurisprudenza di merito, sebbene l'art. 15 l.fall. imponga la convocazione del debitore, dovrebbe ritenersi possibile provvedere sulla istanza anche senza l'audizione di quest'ultimo, atteso che tale formalità sarebbe stata prevista dal legislatore al fine di consentirgli di articolare le proprie difese in vista di una possibile dichiarazione di fallimento, finalità in alcun modo pregiudicata dall'ipotesi di immediata reiezione del ricorso (Trib. Mantova, 16 novembre 2006).

Seguendo questa non condivisibile prassi applicativa, sarebbe possibile emanare inaudita altera parte il provvedimento di inammissibilità del ricorso di fallimento senza svolgere l'istruttoria prefallimentare (Trib. Napoli, 6 novembre 2006, decr.).

La tesi qui non condivisa è in realtà giustificata anche sulla base della valutazione del danno che la sola sottoposizione al giudizio di istruttoria prefallimentare può provocare all'imprenditore, costretto a predisporre in tempi brevi una cospicua documentazione e peraltro sottoposto al rischio del discredito commerciale.

Si è altresì sostenuta in dottrina l'opportunità che — in presenza di domande di fallimento ictu oculi viziate dal punto di vista formale, ovvero basate su un apparato istruttorio palesemente lacunoso – il tribunale possa concedere all'attore un breve termine per porvi rimedio (Montanari, 2007, 566).

Ebbene, tali posizioni interpretative non sono, come già sopra accennato, condivisibili.

In ordine alla impraticabilità del provvedimento di rigetto inaudita altera parte milita, in primo luogo, la considerazione della natura cognitoria del giudizio scaturente dalla istruttoria prefallimentare, e ciò sia che tale giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di fallimento sia che si concluda con un decreto di rigetto della domanda di fallimento. Ed invero, la domanda di fallimento attiva un processo governato dalla iniziativa di parte, che può pertanto in qualsiasi momento desistervi, ma che non è nella disponibilità del tribunale arrestare in limine, senza neppure aver provocato il contraddittorio con il debitore.

Peraltro, non devono essere neanche dimenticati gli effetti del decreto di rigetto e la possibile stabilità da giudicato che esso potrebbe acquisire: Zanichelli, 56, che evidenzia la ulteriore circostanza che in tal caso il decreto non sarebbe neanche comunicato al debitore, nella ipotesi di decreto cd de plano.

Ne discende che in tal caso il debitore sarebbe esposto ad un rischio ben più alto di quello derivante dalla mera convocazione del tribunale nella sede prefallimenare, e cioè che si emetta un provvedimento che lo riguardi, ancorché di inammissibilità ovvero di rigetto della domanda di fallimento, senza sentirne le ragioni (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 363).

Peraltro, il debitore potrebbe avere interesse che il tribunale accerti e dichiari pubblicamente la sua solvibilità con una adeguata motivazione che può derivare soltanto dall'esercizio pieno del diritto di difesa nel contraddittorio delle parti.

Pertanto, il decreto di rigetto deve essere sempre emesso previa convocazione del debitore. Si tratta di un provvedimento che, ancorché rivesta la forma di decreto, incide su diritti soggettivi, assumendo carattere decisorio ed esponendosi, come tale, alla garanzia dei rimedi previsti dalla costituzione e dalla legge fallimentare.

La sentenza della Corte d'appello che revoca il fallimento, la salvezza degli atti compiuti ed il regime delle spese

Se il reclamo ex art. 18 l.fall. è accolto, la corte d'appello revoca il fallimento con sentenza (ricorribile a sua volta in cassazione, per tutti i motivi previsti dall'art. 360 c.p.c.), che è notificata, a cura del cancelliere, al curatore, al creditore che aveva chiesto il fallimento ed al debitore, se non reclamante.

Peraltro, la sentenza deve essere, a tutela del debitore, pubblicata a norma dell'art. 17, cioè annotata presso l'ufficio del registro delle imprese ove l'imprenditore ha sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso l'ufficio corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta.

Tuttavia, va precisato che, se il fallimento viene revocato, restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura. Inoltre, le spese della procedura ed il compenso al curatore vengono liquidati dal tribunale, su relazione del giudice delegato, con decreto reclamabile ai sensi dell'art. 26 l.fall..

Entrando in medias res, occorre considerare, in primo luogo, le questioni attinenti alla salvezza degli atti compiuti.

Ebbene, deve ritenersi, in aderenza a quanto affermato dalla dottrina (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, 383), che le nuove regole che governano il procedimento di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento e la pubblicità del provvedimento che lo definisce valgono a superare il pregresso orientamento della giurisprudenza secondo cui gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento potevano essere integralmente rimossi, e ciò sia in relazione alla determinazione dello status di fallito, sia quanto agli aspetti conservativi che al medesimo si collegano soltanto con il passaggio definitivo in giudicato della sentenza di revoca del fallimento (Cass. n. 16505/2003).

Tuttavia, oggi la sentenza di revoca del fallimento deve ritenersi, almeno per taluni versi, immediatamente esecutiva e tale peraltro da far venire meno, con efficacia ex tunc, quanto meno gli effetti personali che la dichiarazione di fallimento produce sullo status del fallito, fatti salvi gli effetti definitivamente realizzatisi. Depone, invero, in tal senso anche la previsione secondo cui la sentenza che revoca il fallimento è soggetta al regime pubblicitario di cui all'art. 17 l.fall., e deve perciò essere iscritta nel registro delle imprese. Ne discende che se essa non fosse immediatamente efficace, almeno per quanto riguarda gli aspetti personali, non si comprenderebbe per quale ragione debba essere resa ostensibile ai terzi, e non alle sole parti in causa: Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio, I, Bologna, 2006, 406.

Per quanto concerne la clausola di salvezza, relativa agli atti legalmente compiuti, deve ritenersi che la stessa si riferisca agli effetti patrimoniali della dichiarazione di fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 383). Deve ritenersi, pertanto, che l'effetto sul piano patrimoniale dello spossessamento del debitore permanga sino al passaggio in giudicato della sentenza che revoca il fallimento, benché la liquidazione dell'attivo potrebbe restare sospesa sino al passaggio in giudicato della sentenza di revoca (Scala, sub art. 18, cit., 398).

La ratio della previsione normativa riposa su una esigenza di affidamento, rappresentando una forma di bilanciamento tra gli interessi del debitore e gli interessi dei terzi (Fabiani, sub art. 18, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, I, cit., 389).

Da ultimo, va detto che per atti legalmente compiuti devono intendersi quelli posti in essere dagli organi della procedura con le dovute autorizzazioni (F. De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, cit., 385).

Così, la previsione normativa sopra ricordata toglie qualsiasi efficacia a quegli atti – di natura negoziale ovvero processuale – che siano in corso al momento della revoca del fallimento (De Santis, Il processo per le dichiarazioni di fallimento, 2012, ibidem).

Possono proseguire nei confronti dell'ex fallito o essere proseguite dall'ex fallito solo le azioni che potevano essere promosse o che siano state avviate prima del fallimento, divenendo improcedibili tutti i giudizi che presuppongono in atto la procedura, che esprimono posizioni di interesse riferibile alla massa dei creditori e non al soggetto fallito e che possono essere riassunti da chi vi abbia interesse solo ai fini della emanazione di una pronuncia sulla improcedibilità e in ogni caso per provvedere alle spese di lite (Cass. n. 11181/2001).

Peraltro, la revoca del fallimento, ancorché disposta per vizi procedurali o per incompetenza del giudice, fa salvi gli effetti prodotti dalle domande di ammissione al passivo sul decorso dei termini di prescrizione dei relativi crediti, in quanto atti non degli organi della procedura, ma compiuti nei confronti di essa: Cass., n. 19125/2006.

Da ultimo, va ricordato che, a mente dell'art. 147 dpr 30 maggio 2002 n. 115 (testo unico delle spese di giustizia), in caso di revoca della dichiarazione di fallimento, le spese della procedura fallimentare e il compenso al curatore sono a carico del creditore istante, se condannato ai danni per aver chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa, mentre sono a carico del fallito persona fisica, se con il suo comportamento ha dato causa alla dichiarazione di fallimento: Cass. n. 13147/2002.

In assenza di colpa sia del creditore istante per il fallimento, sia del debitore, le spese della procedura sono poste a carico dell'erario, e ciò anche in relazione alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 147, 3 comma, Dpr n. 115/2002, nella parte in cui non prevede che sono spese anticipate dall'erario «le spese ed onorari» del curatore: Corte cost. n. 174/2006; in dottrina, si legga inoltre Minutoli, cit..

Peraltro, il professionista che abbia svolto prestazioni in favore della procedura stessa non può richiedere la liquidazione degli onorari agli organi preposti al fallimento, ma deve proporre un'azione ordinaria o avvalersi di rimedi speciali previsti dall'ordinamento, per richiedere il pagamento delle proprie spettanze all'amministrazione dello stato, tenuta al rimborso (Cass. n. 10099/2008).

Bibliografia

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