Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 9 - Competenza.

Roberto Amatore

Competenza.

 

Il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa.

Il trasferimento della sede intervenuto nell'anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza1.

L'imprenditore, che ha all'estero la sede principale dell'impresa, può essere dichiarato fallito nella Repubblica italiana anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all'estero 2.

Sono fatte salve le convenzioni internazionali e la normativa dell'Unione europea3.

Il trasferimento della sede dell'impresa all'estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all'articolo 6 o la presentazione della richiesta di cui all'articolo 7 4.

 

[1] Comma sostituito dall'articolo 7 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Comma sostituito dall'articolo 7 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

Inquadramento

Il giudice competente per materia a dichiarare il fallimento è il tribunale.

Peraltro, ai sensi dell'art. 24 l.fall., il tribunale che ha dichiarato il fallimento è altresì competente sotto il profilo funzionale a conoscere di tutte le azioni che ne derivano (De Santis, 2010, 26).

Sul punto, è d'uopo ricordare che le problematiche relative alla competenza del giudice investito della domanda di fallimento attengono tradizionalmente all'individuazione dei criteri di competenza territoriale.

Tuttavia, non va neanche dimenticato che la dimensione transfrontaliera assunta — sia in ambito comunitario che in quello extracomunitario — dall'insolvenza richiede di affrontare il tema della competenza solo dopo aver esaminato, più a monte, le problematiche relative al radicamento della giurisdizione fallimentare italiana, con ciò dovendo pertanto affrontare i rapporti — e, all'occorrenza, anche il coordinamento — fra giudici fallimentari italiani e giudici fallimentari stranieri (per un approfondimento delle questioni trattate, si rimanda a Lo Cascio, 1937 ss. Vedi anche lo scritto di Ricci E.F., 1998, 165, il quale autorevolmente rileva che «la giurisdizione italiana esiste anche nei confronti dell'imprenditore sottoposto a liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria, semplicemente perché spetta comunque all'autorità giudiziaria adita dichiarare almeno l'insolvenza: il che vale sia quando la parte istante abbia chiesto proprio tale dichiarazione, sia quando la parte istante —per errore —abbia chiesto la dichiarazione di fallimento; e il successivo quesito sapere se il fallimento debba essere dichiarato o debba cedere il posto ad altre procedure, è un esclusivo problema di ammissibilità delle procedure concorsuali e di esistenza dei loro presupposti sostanziali»).

Ebbene, occorre ricordare che la legge fallimentare del 1942 aveva ritenuto di risolvere le questioni legate al tema della giurisdizione e della competenza con la disposizione contenuta nell'art. 9, che affidava (ed affida) il potere di dichiarare il fallimento al tribunale del luogo ove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa.

Peraltro, la norma in esame — nel fare salve le convenzioni internazionali — prevedeva (e prevede) altresì che l'imprenditore, che abbia all'estero la sede principale della impresa, possa essere dichiarato comunque fallito in Italia, anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all'estero

Va aggiunto che tali principi sono rimasti immutati nella nuova formulazione dell'art. 9 l.fall. Tuttavia, le riforme del 2006-2007 hanno introdotto importanti innovazioni trasfuse sia nel testo dell'art. 9, sia nei successivi artt. 9-bis e 9-ter, nel sistema processuale della competenza a dichiarare il fallimento.

Sul punto, deve essere anche sottolineato che, per quanto attiene più precisamente alla giurisdizione, l'evoluzione degli ultimi anni è stata segnata dal succedersi di fonti normative esterne alla legge fallimentare, e, in particolare, dal succedersi delle fonti comunitarie.

La insolvenza trasfrontaliera

In effetti la legge fallimentare, nel testo sia del 1942 che in quello risultante dalle successive riforme, non contiene, come detto, una norma specifica espressamente intesa a disciplinare la giurisdizione in materia concorsuale, e ciò ha dato origine ad una intensa attività in giurisprudenza, ma specialmente di dottrina volta proprio ad individuare per via interpretativa il criterio in forza del quale il giudice italiano ha competenza internazionale in campo concorsuale.

Tale problematica potrebbe, tuttavia, sembrare aver perso gran parte del proprio rilievo pratico a seguito del Regolamento CE n. 1346/2000, il quale ha introdotto invero, con il suo art. 3, una normativa specifica ed espressa, in forza della quale la competenza internazionale ad aprire la procedura di insolvenza spetta in primo luogo al giudice dello Stato membro nel quale è situato il centro degli interessi principali del debitore (Il c.d. «COMI», Centre Of Main Interests. Il Regolamento n. 1346 si applica in e tra tutti gli Stati membri dell'Unione (ad eccezione della sola Danimarca). Si comprende così come, se non altro su un piano statistico, la sua disciplina della competenza internazionale potrebbe apparire ormai destinata a valere per la grande maggioranza delle fattispecie concrete, proprio perché per lo più tali fattispecie si muovono in un ambito comunque interno all'Unione).

Ebbene, esaminando il problema dei criteri di giurisdizione italiana in materia concorsuale senza risalire a prima del 1942, basterà segnalare che poco per volta la soluzione venne prevalentemente ravvisata ancorando la competenza internazionale a quella interna, e cioè affermando la competenza del giudice concorsuale italiano ogniqualvolta risultasse che quel giudice fosse competente per territorio.

Detto altrimenti, se un giudice italiano era competente per territorio a conoscere di quella data fattispecie concorsuale, allora sussisteva anche la competenza internazionale italiana. Ne discendeva che il fulcro del meccanismo era individuato nell'art. 9 l.fall.: visto che la competenza territoriale (oltre che funzionale) ad aprire la procedura concorsuale spettava (e spetta) al tribunale italiano nella cui circoscrizione era situata la sede principale dell'impresa del debitore, se tale sede era in Italia, allora sussisteva (e sussiste) anche la competenza internazionale del giudice italiano (Giuliano, 1943; successivamente v. Giuliano, 1967, 238 ss.; Campeis-De Pauli, 116 ss. Per una breve esposizione della evoluzione della dottrina successiva al 1942, v. De Cesari-Montella, 8 s.).

In realtà, è da sottolinearsi che a questo risultato si pervenne per via interpretativa, e non senza qualche difficoltà, difficoltà che tuttavia vennero dai più superate con la l. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, c.d. «Riforma»). Invero, neanche essa contiene una norma esplicita sulla giurisdizione in materia concorsuale. Tuttavia, la stessa stabilisce all'art. 3, comma secondo, ultima parte, che «la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio».

Si ha così la esplicitazione in via generale del principio per il quale i criteri di competenza territoriale valgono anche quali criteri di competenza internazionale del giudice italiano. Ne consegue che, calato il principio generale nella specifica materia concorsuale, anche all'art. 9 l.fall. veniva confermata tale duplice valenza, così come già inteso in precedenza per via ermenutica (per la tesi secondo cui alla materia concorsuale, in quanto speciale, non sarebbe possibile applicare direttamente la (sola) normativa generale portata dalla Riforma: Salerno, 10 ss.; più recentemente, v. anche Queirolo, 277.

In realtà, la problematica esegetica che prevede la giustapposizione dell'art. 3 della Riforma all'art. 9 l.fall. sono rimaste sostanzialmente invariate dal 1995 ad oggi, considerato che anche le novellazioni del diritto concorsuale succedutesi dal 2005 al 2007 hanno lasciato intatto l'art. 9 per la parte che qui interessa, d'altra parte confermando la scelta legislativa di non introdurre una norma specifica in materia di competenza internazionale.

Tuttavia, va ricordato che, in precedenza, la l. n. 218/1995, di riforma del diritto internazionale privato, aveva già ridimensionato la portata della norma dettata dal legislatore del 1942, e ciò sotto almeno due profili (sui rapporti tra la legge n. 218 del 1995 e la giurisdizione fallimentare, v. Salerno, 5.; Carbone, 945), atteso che, per un verso, l'art. 7 della legge del 1995 disciplina l'ipotesi della litispendenza internazionale, prevedendo che, se nel corso di un giudizio sia eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di domanda avente il medesimo oggetto ed il medesimo titolo dinanzi a giudice straniero, il giudice italiano sospende il giudizio, se ritiene che il provvedimento possa produrre effetto per l'ordinamento italiano (sul punto, la Suprema Corte ha precisato che il provvedimento con il quale il giudice adito nega la sospensione del procedimento, richiesta per la pendenza dinanzi ad un giudice straniero della medesima causa — cosiddetta litispendenza internazionale —, ai sensi dell'art. 7,l. n. 218/1995, non è impugnabile con istanza di regolamento di competenza, per le medesime ragioni per le quali non è ammissibile l'impugnazione avverso il diniego di sospensione della causa ai sensi dell'art. 295 c.p.c., e cioè perché l'art. 42 c.p.c. non consente un'interpretazione estensiva, né analogica, essendo norma eccezionale, e perché soltanto il provvedimento che sospende il processo, incidendo sul diritto delle parti alla decisione, giustifica la deroga al principio della non impugnabilità dei provvedimenti ordinatori, separatamente ed anticipatamente dalla sentenza, con l'ulteriore conseguenza che il provvedimento che nega la sospensione del processo non viola gli artt. 3 e 24 Cost.: Cass. n. 15843/2000; Cass. S.U., n. 37/2001, in Giur. it., 2001, 1603, con nota di Canale. Cfr. anche Cass. n. 7354/2007; sull'argomento, v. Martino, La giurisdizione italiana nelle controversie civili transnazionali, Padova, 2000) e che, per altro verso, l'art. 64 della medesima legge prevede una sorta di delibazione «automatica» delle sentenze straniere nell'ordinamento italiano (Attardi, 726. Si v. anche Ricci E.F., 1997, 308 ss.), a condizione che siano assicurate talune garanzie processuali minimali, quali la sussistenza della giurisdizione, il rispetto del contraddittorio, l'assenza di ulteriori rimedi ordinari interni, la non contrarietà all'ordine pubblico italiano (Cass. S.U., n. 9038/2011; Cass. n. 3919/2011). Peraltro, tale doppia previsione trovava nel processo che conduce alla dichiarazione di fallimento il terreno di elezione, atteso che — come ha precisato la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 283/2010), — il consolidato principio secondo il quale le sentenze straniere dichiarative di fallimento sono assoggettate (qualora manchi una convenzione internazionale, che ne disciplini il riconoscimento con criteri di maggiore speditezza e semplicità) all'ordinario procedimento di delibazione previsto dagli abrogati artt. 796 ss. c.p.c. deve ritenersi applicabile tutte le volte in cui l'atto introduttivo del giudizio innanzi al giudice italiano, nel quale la sentenza straniera dovrebbe avere i suoi riflessi, risulti antecedente alla entrata in vigore della legge n. 218 del 1995 (cioè anteriore al 31 dicembre 1996), legge che ha, invece, introdotto, in mancanza di contestazioni, il diverso criterio dell'efficacia automatica della sentenza straniera in Italia (De Santis, 2012, 83).

Sennonché, le riforme del 2006-2007 hanno integralmente confermato l'originaria previsione dell'art. 9 l.fall., con la conseguenza — nell'assenza di disposizioni convenzionali o di diritto comunitario di segno diverso — l'imprenditore, che ha all'estero la sede principale dell'impresa continua a poter essere dichiarato fallito nella Repubblica Italiana, se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all'estero.

Il fallimento dichiarato all'estero concorre in questi casi con quello dichiarato in Italia (nel senso di ritenere inapplicabile alla materia fallimentare la disciplina della c.d. litispendenza internazionale di cui all'art. 7 della l. n. 218 del 1995, cfr. Celentano, Sub art. 9 l.fall., in AA. VV., La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro-Sandulli-Santoro, Torino, 2010, 101).

Va soggiunto che autorevoli voci in dottrina si sono, tuttavia, levate nel senso di rintracciare nell'art. 9 una norma sulla competenza internazionale autosufficiente, e che in quanto tale non richiederebbe una correlazione con l'art. 3 della Riforma (Pajardi-Paluchowski, 134; Bonfatti-Censoni, 14; Jorio, 226). Altri, invece, al contrario, prescindono in toto dall'art. 9, sia esso o no raffrontato con l'art. 3, secondo comma della Riforma sopra indicata, per rifarsi semplicemente e soltanto al primo comma dello stesso art. 3, la cui lettera normativa prevede la giurisdizione italiana nei confronti del convenuto domiciliato o residente in Italia. Detto altrimenti, il debitore insolvente verrebbe assimilato al convenuto, e come tale assoggettato alla giurisdizione italiana, qualora egli abbia la sede della propria impresa, e cioè in sostanza il proprio domicilio, in Italia (Daniele, 1998, 4; Daniele, 1997, 44; Vellani, 365 ss.).

Né manca un ulteriore diverso suggerimento dottrinario, secondo il quale l'unico criterio di competenza internazionale sarebbe contenuto non nell'art. 9, bensì semplicemente nell'art. 1 l.fall., considerata norma materiale di diritto internazionale privato di applicazione necessaria: ne deriverebbe che per la competenza internazionale italiana sarebbe sufficiente l'esercizio di una attività di impresa in Italia (Lupone, 1995, 153 ss., 162, nt. 45; Lupone, 1999, 44).

Va peraltro osservato che, se relativamente vivace è il dibattito in dottrina, la giurisprudenza, sia pure con qualche sfumatura, identifica la competenza interna con quella internazionale. Va detto, i precedenti in specifica materia di apertura della procedura sono, per quanto convergenti, tuttavia singolarmente scarsi (si veda infatti Cass. S.U., n. 3368/2006, ord., in Dir. fall. 2007, II, 18, con nota di Genoviva, Regolamento preventivo di giurisdizione e procedura prefallimentare; nonché, ben più risalente, Cass. n. 4049/1985, in Fall. 1986, 162, con nota di Ceccherini, Ancora sulla giurisdizione a dichiarare il fallimento di società straniere che operino in Italia. L'accostamento tra competenza interna e competenza internazionale ha trovato infatti utilizzazione soprattutto in materia di revocatoria fallimentare: v. ad es. Cass. S.U., n. 2692/2007, oppure in fattispecie particolari, quale la estensione del fallimento della società al socio illimitatamente responsabile: Cass. S.U., n. 14196/2005. Cfr. da ultimo anche Trib. Terni 7 febbraio 2011, in Fall. 2011, con nota di Montella Galeazzo, La competenza internazionale del giudice italiano, 712, il quale evidenzia che la sentenza del tribunale umbro si è applicata soprattutto al problema della giurisdizione nel caso in cui la società debitrice abbia trasferito all'estero la propria sede. Secondo l'Autore il richiamo, invero, all'art. 3 della Riforma, per la parte in cui esso afferma la giurisdizione italiana nei confronti del convenuto che abbia in Italia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio sembra inconferente in materia concorsuale, e del resto anche la stessa sentenza sopra richiamata enuncia tale spunto senza approfondirlo. La sentenza contiene comunque uno spunto interessante, là dove essa ricorda che «da più parti si sostiene che l'art. 9 si pone come norma speciale successiva e tendenzialmente esaustiva, alla quale dovrebbe perciò darsi prevalenza rispetto alle suddette disposizioni di diritto internazionale privato». Sembrerebbe, cioè, che il Tribunale abbia preso partito per quella tendenza dottrinaria di cui sopra si è dato conto, e che ravvisa ai fini della giurisdizione concorsuale una sorta di autosufficienza dell'art. 9, senza necessità di interazione con l'art. 3, secondo comma, ultima parte, della Riforma. Tuttavia, l'iter motivatorio della sentenza emessa dal Tribunale di Terni, che prima si applica a stabilire la giurisdizione italiana, e poi in fine prende in esame il problema della competenza territoriale sembrerebbe indurre che il Tribunale di Terni non abbia fatto proprio il concetto, come si è visto, prevalente, per il quale la competenza internazionale sussiste in quanto sia individuabile un giudice italiano territorialmente competente: tale concetto invero presuppone un iter logico inverso a quello adottato a Terni, e cioè prima si valuta se esista un giudice italiano territorialmente competente, e quindi, nel caso positivo, si afferma la competenza internazionale italiana).

Tornando alla problematica generale, occorre rilevare che, al fondo, la antinomia tra la tesi della autosufficienza dell'art. 9, e quella della necessità che detta norma sia accostata all'art. 3, secondo comma, ultima parte, della Riforma, pone un problema essenzialmente di coerenza e linearità logica. Deve ritenersi che, comunque, l'art. 9 l.fall. deve essere riconosciuto come norma di riferimento per la competenza non solo territoriale e funzionale interna, ma anche e di conseguenza internazionale. Tuttavia, sul piano, appunto, logico, il ricorso anche all'art. 3 della Riforma sembra offrire a sua volta un più solido aggancio, soprattutto testuale, a detto riconoscimento (Montella Galeazzo, 712).

Ma in realtà il più importante fattore che potrebbe indurre a ritenere la validità della identificazione, ai fini che qui interessano, tra competenza territoriale e competenza internazionale, con la conseguenza che fallisce in Italia il debitore che ha in Italia la sede principale della propria impresa, sta nella obiettiva e significativa coincidenza, quantomeno in punto di fatto, tra il concetto di sede principale della impresa e quel «centro degli interessi principali» (COMI) che costituisce il criterio di competenza internazionale nell'ambito del Regolamento n. 1346, e ciò a valere nell'ambito della Unione europea (Montella Galeazzo, 712). Ed invero, attribuendo alla sede principale dell'impresa il rango di criterio di collegamento ai fini della competenza anche internazionale, si perviene, secondo una opinione espressa in dottrina, all'importante risultato di individuare, pur nella differenza terminologica, un unico criterio di competenza internazionale, valido nei confronti sia dell'Unione, che dei Paesi extraunione, criterio incentrato, appunto, sul carattere «principale» dell'insediamento, ovvero degli interessi, del debitore nel nostro Paese. In altre parole, si raggiungerebbe in tal modo il risultato di un criterio di competenza internazionale sostanzialmente unitario, che si tratti sia di Unione che di Paesi esterni all'Unione (Montella Galeazzo, 712).

Deve invece concordarsi con quella autorevole dottrina (De Santis, 2012,ibidem), là dove ritiene che la natura di jus superveniens, che deve essere assegnata al d.lg. n. 5/2006 rispetto alla 1. n. 218/1995, impone che il comma terzo dell'art. 9 1. fall. sia da considerarsi alla stregua di una norma derogatoria della disciplina italiana di diritto internazionale privato.

La giurisprudenza di legittimità ha dettato codesto principio fin dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, rilevando che il sistema normativo italiano in materia fallimentare è informato al criterio della inderogabilità della giurisdizione domestica, fatte salve le disposizioni derivanti da convenzioni internazionali ovvero dalla normativa comunitaria, poiché detto sistema appare univocamente funzionale alla tutela del creditore. Secondo la Cassazione, anche l'art. 25 della 1. n. 218 del 1995 induce ad affermare che, in mancanza di un'effettiva attività imprenditoriale svolta dalla società trasferitasi all'estero (e dunque in presenza di un trasferimento soltanto fittizio), permane la competenza giurisdizionale del giudice italiano. Inoltre, l'art. 10 l.fall. consente la dichiarazione di fallimento in Italia entro l'anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, alla ovvia condizione che l'insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. Pertanto, il combinato disposto delle citate norme — ha concluso la Corte regolatrice — consente di ritenere che la giurisdizione italiana sia esclusa nei soli casi di effettivo e tempestivo trasferimento della sede sociale all'estero, e non anche in quelli di trasferimento fittizio o fraudolento (per i riferimenti giurisprudenziali richiamati nel testo, cfr. Cass. S.U., n. 25038/2008; v. anche Cass. S.U., n. 3368/2009; Cass. S.U., n. 1244/2004; Cass. S.U., n. 26287/2009, in Fall., 2010, con nota di De Cesari; v. anche Cass. S.U., n. 3057/2009, secondo la quale spetta al giudice italiano la giurisdizione con riguardo all'istanza di fallimento presentata nei confronti di società di capitali, già costituita in Italia, che, dopo il deposito del predetto atto — costituente l'inizio del procedimento ex art. 9 1. fall., abbia trasferito all'estero, in Stato extracomunitari, la sede legale: infatti, in considerazione del principio della perpetuatio jurisdictionis, di cui all'art. 5 c.p.c., rileva soltanto il trasferimento avvenuto prima del deposito del ricorso, e sempre che difetti la prova del suo carattere fittizio o strumentale).

Deve pertanto ritenersi che, contrariamente a quanto accade per l'insolvenza transfrontaliera intracomunitaria (che è regolata dalla normativa comunitaria di diretta applicazione negli Stati membri), nell'ipotesi di insolvenza esterna all'ambiente comunitario, il radicamento della giurisdizione italiana prescinde dal momento temporale di introduzione della domanda di fallimento, ovvero dalla presenza in Italia di una sede secondaria del debitore, siccome potenziale titolo per l'apertura di procedure non aventi caratteristiche di universalità (ma vedi anche Vanzetti, 181, il quale propone una diversa ricostruzione del sistema che, muovendo dal richiamo ai sopravvenuti principi che informano il:Regolamento CE n. 1346/2000, perviene alla conclusione secondo cui, in caso d'insolvenza transnazionale extracomunitaria, la giurisdizione italiana sussiste quando vi sia in Italia la sede principale dell'impresa o quando questa sia stata trasferita all'estero dopo la proposizione della domanda di fallimento; diversamente, quando la sede principale dell'impresa si trovi all'estero, la giurisdizione appartiene al giudice straniero, ma il giudice italiano, se sia presente in Italia una sede secondaria del debitore, ha giurisdizione per avviare «un fallimento avente una portata se non meramente territoriale, quantomeno inidonea ad ostacolare fuori territorio della Repubblica l'eventuale portata universale della procedura avviata là dove il debitore abbia la propria sede principale).

Si prescinde altresì dalla circostanza che il debitore sia proprietario, possessore o detentore di beni che si trovano in Italia, ovvero che in Italia egli abbia stipulato contratti o assunto obbligazioni (Celentano, Sub art. 9, cit., 99).

Altra e diversa questione è se possa essere dichiarato fallito in Italia il debitore che — a mente del combinato disposto degli artt. 4, comma primo, e 11, della legge n. 218 del 1995 — abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, dovendosi considerare tacitamente accettata la giurisdizione italiana allorché il debitore abbia chiesto al giudice italiano la dichiarazione del proprio fallimento, ovvero si sia costituito nel giudizio di istruttoria prefallimentare da altri introdotto a suo carico davanti al giudice italiano, senza eccepire il difetto di giurisdizione nel suo primo atto difensivo (Celentano, Sub art. 9, cit., 99).

Deve tuttavia ritenersi, in senso contrario, che il tribunale adìto con domanda di fallimento non possa, in ogni caso, non declinare anche d'ufficio la giurisdizione, allorché risulti in maniera conclamata l'effettivo trasferimento della sede sociale all'estero, nei sensi sopra illustrati, e ciò anche al fine di evitare che si aprano procedure concorsuali inutili (così, anche De Santis, 2012, 86. È utile precisare che, a tenore dei principi generali, il rilievo officioso del difetto di giurisdizione incontra, in ogni caso, il limite del giudicato interno, implicito od esplicito; Cass. S.U., n. 24883/2008).

In realtà, l'esame della problematica dell'applicazione dell'art. 9 l.fall. sotto il profilo della competenza internazionale del giudice italiano può ritenersi marginale, atteso che la normativa italiana, ormai si presenta, almeno prima facie, come di applicazione statisticamente abbastanza ridotta, in presenza del Regolamento CE n. 1346/2000.

Occorre comunque chiedersi, stante la rilevanza pratica della questione, se il secondo comma dell'art. 9 l.fall., e la conseguente prorogatio annuale della competenza internazionale del giudice italiano, valga anche nelle fattispecie rientranti nel detto Regolamento, e cioè, detto altrimenti, va chiarito se in caso di trasferimento effettivo del COMI (Centre Of Main Interests) del debitore dall'Italia in un altro Stato membro, la competenza in materia concorsuale del giudice italiano cessi immediatamente, oppure perduri ancora per un anno, ai sensi del secondo comma dell'art. 9. Ed invero, il problema è evidentemente diverso da quello che si pone nel caso di trasferimento del COMI (Centre Of Main Interests) dopo la presentazione della istanza di fallimento, e cioè in pendenza del processo prefallimentare, giacché in tal caso la stessa Corte di giustizia (sentenza 17 gennaio 2006, C-1/04, S.-S., in Fall. 2006, 907, con nota di Macrì, Trasferimento del centro degli interessi principali e competenza giurisdizionale nel Regolamento (CE) 1346/2000) ha stabilito che siffatto trasferimento è irrilevante al fine di sottrarre la competenza internazionale al giudice inizialmente competente, applicando in tal modo un principio non dissimile da quello del terzo comma del nostro art. 9 l.fall. Diverso è invece il caso della iniziativa di fallimento proposta dopo il trasferimento del COMI ( Centre Of Main Interests ) [App. Milano 14 maggio 2008, n. 18, in Fall. 2009, 65, con nota di De Cesari, L'onere della prova del «centro degli interessi principali del debitore», in una fattispecie in cui la istanza di fallimento era ben posteriore all'anno dal trasferimento (ritenuto fittizio) in Lussemburgo], giacché il Regolamento nulla dispone espressamente al riguardo, e d'altra parte lascia (cfr. art. 4, n. 1) al diritto nazionale di ogni singolo Stato membro la disciplina della procedura di insolvenza, ivi compresa anche la fase prefallimentare, di talché si potrebbe supporre, come sembra preferibile, che nel caso di istanza proposta in Italia contro un debitore che ha trasferito effettivamente il proprio COMI (Centre Of Main Interests) all'estero da meno di un anno, il secondo comma dell'art. 9 sarebbe applicabile.

Tale prospettiva però non è condivisa in dottrina da chi ritiene che il Regolamento è diretto a ripartire tra i vari Stati membri la competenza internazionale ad aprire procedure di insolvenza, di guisa che per ogni dato debitore tale competenza spetti al giudice di uno solo tra gli Stati membri, e tale intento sarebbe pertanto frustrato se per lo stesso debitore si ammettesse la competenza contemporanea di due Stati, l'Italia ai sensi dell'art. 9, secondo comma, e lo Stato del nuovo COMI (Centre Of Main Interests), ai sensi dell'art. 3 del Regolamento (così, Montella Galeazzo, 712 ss. Secondo l'Autore, la soluzione del problema dovrebbe essere ritrovata non tanto nella giustapposizione di una norma del Regolamento ad una di diritto nazionale italiano, bensì all'interno stesso del Regolamento, e cioè in una normativa che valga contemporaneamente sia per l'Italia che per l'altro Stato membro controinteressato. Probabilmente la soluzione, secondo la dottrina da ultimo menzionata, potrebbe rinvenirsi nel Considerando 13 del Regolamento, che, come è noto, definisce il centro degli interessi principali come «il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi», e dando rilievo, all'interno di tale definizione, al criterio della abitualità. In effetti sembra difficile rinvenire la abitualità di un certo insediamento all'estero, quando questo è troppo recente per essere divenuto abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi. Per questa via quindi si potrebbe pervenire, anche nell'ambito del Regolamento, ad una certa prorogatio della competenza internazionale del giudice dello Stato in cui il debitore aveva sino a poco tempo prima il proprio COMI, evitandosi così situazioni che invece si potrebbero presentare con una troppo rigida e schematica interpretazione ed applicazione del primo comma dell'art. 3 del Regolamento.

Ai sensi dell'art. 16 del Regolamento CE n. 1346 del 2000, la decisione di apertura della procedura d'insolvenza da parte di un giudice di uno Stato membro che si sia ritenuto competente, quale giudice dello Stato nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, è riconosciuta in tutti gli altri Stati membri non appena produca effetto in quello in cui è adottata, senza che ai giudici di tali altri Stati sia consentito di sottoporla a valutazione. Ne consegue che le eventuali procedure aperte successivamente in un altro Stato membro, nel cui territorio il debitore possiede una dipendenza, sono procedure secondarie. (Nella specie, la S.C., a seguito della sopravvenuta dichiarazione di fallimento in Lussemburgo di una società per azioni intervenuta nelle more di analogo giudizio pendente in Italia, ha ritenuto inammissibile, per carenza di interesse, il regolamento di giurisdizione proposto dal fallimento : Cass. S.U., ordinanza n. 27280/2017).

Segue. Convenzioni internazionali e normativa comunitaria; Regolamento CE n. 1346/2000 del 29 maggio 2000

In realtà, le convenzioni internazionali sottoscritte in subiecta materia dallo Stato italiano hanno un ambito di applicazione molto limitato (solitamente si tratta di convenzioni bilaterali) mentre i pochi esempi di trattati a carattere multilaterale non riescono a raggiungere il numero di ratifiche sufficienti per l'entrata in vigore. Tra le convenzioni, attualmente in vigore per l'Italia si ricordano: la convenzione italo-austriaca sottoscritta il 12 luglio 1977 e resa esecutiva con l. n. 612/1985, il cui oggetto specifico riguarda per l'appunto la disciplina delle procedure di insolvenza; la convenzione italo-francese per l'esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale, sottoscritta a Roma il 3 giugno, 1930 e resa esecutiva con l. n. 45/1932, poi parzialmente sostituita dalla disciplina contenuta nella convenzione di Bruxelles del 1968; la convenzione italo-britannica per il reciproco riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale, sottoscritta a Roma il 7 febbraio 1964 e resa esecutiva con l. n. 280/1973.

Le procedure di insolvenza erano altresì escluse dal campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 1968, la cui disciplina è ora confluita nel Regolamento CE n. 44/2001 (cfr. Regolamento CE n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale), con ciò rendendo rara l'applicazione dell'ultimo inciso dell'art. 9 l.fall., laddove fa salve le previsioni contenute nelle convenzioni internazionali.

Va pertanto ricordato che la normativa interna non conosceva — prima del Regolamento CE n. 1346/2000 del 29 maggio 2000 — regole di portata generale volte disciplinare il c.d. «fallimento comunitario» (l'espressione è tratta da De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 87). Sul piano dei conflitti di giurisdizione, ed in particolare, non contemplava una disciplina compiuta degli effetti nell'ordinamento interno delle procedure di insolvenza che si aprono ovvero si svolgono all'estero (sul tema, si legga anche Ghia, Norme Unicitral, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio-Fabiani, I, Bologna, 2006, 240 ss.).

Il citato Regolamento CE ambisce, ora, a superare, conformemente alla sua natura di strumento normativo di diretta applicazione negli Stati membri, l'isolamento «monistico» delle giurisdizioni, per realizzare finalmente principi di uniformità (De Santis, 2012, ibidem. Sul tema, si legga altresì Caponi, 220 ss.; Catallozzi, 1915; Cavalaglio, 237; Ricci E.F., Il riconoscimento delle Procedure d'insolvenza, s 2004, 387 e 55.; Id., Le procedure locali, 2004, I. 900; Punzi, 997).

Sul punto, va innanzitutto osservato che il Regolamento comunitario incide direttamente sull'art. 9 l.fall., sostituendolo con una diversa e più ampia disciplina, valida — relativamente ai rapporti tra Stati membri — in tutto il territorio dell'Unione.

Invero, il Regolamento comunitario — che rappresenta il superamento delle convenzioni bilaterali in materia fallimentare esistenti tra gli Stati membri — consente di aprire una procedura principale d'insolvenza nello Stato membro nel quale è situato il «centro degli interessi del debitore», titolare di un'impresa transnazionale, con effetti in tutti gli Stati membri, e ciò secondo il recepito principio di universalità. Ma il medesimo Regolamento consente tuttavia di aprire anche una o più procedure secondarie (o territoriali) in parallelo con la procedura principale nello Stato membro dove il debitore ha una dipendenza, e con effetti limitati ai beni situati in tale Stato. Sul punto, è da sottolineare come il Regolamento (cfr. art. 2, lettera g) offra una definizione in senso non formale del concetto di «dipendenza», intesa come «qualsiasi luogo di operazioni in cui il debitore esercita in maniera non transitoria un'attività economica con mezzi umani e beni», con ciò evidenziando che deve trattarsi di una sede effettiva di svolgimento dell'attività e togliendo pertanto valore, ai fini dell'apertura di una procedura d'insolvenza, alla creazione di dipendenze fittizie.

In buona sostanza, occorre sottolineare che, con la disciplina comunitaria, al primato di libera circolazione dei provvedimenti nel territorio dell'Unione, si affianca il principio di libera apertura della procedura di insolvenza ratione loci, rafforzando l'idea che i giudici (ovvero le autorità investite dei relativi poteri) non si debbano arrestare per carenza di giurisdizione, allorché l'imprenditore insolvente abbia sede in un diverso Stato dell'Unione (De Santis, 2012, 9).

Ne discende che il punto focale della problematica in discussione si sposta invero sulla necessità di individuare la giurisdizione investita del potere di aprire la procedura d'insolvenza, nonché sulla opportunità di adeguare discipline di coordinamento tra procedura principale e procedure secondarie (ovvero territoriali), diventando in buona sostanza una problematica di cooperazione giudiziaria tra Stati in senso proprio.

Il Regolamento ha introdotto (cfr. artt. 16 e 17) il principio dell'effetto automatico in tutti gli Stati membri della decisione di apertura di una procedura di insolvenza transfrontaliera, ancorché temperato dalla possibile coesistenza ovvero sopravvenienza di procedure territoriali. Tale principio fa sì che la decisione di apertura della procedura di insolvenza da parte di un giudice di uno Stato membro sia riconosciuta in tutti gli altri Stati membri, non appena essa produce effetto nello Stato in cui la procedura è aperta (De Santis, 2012, cit., 9).

Ciò determina la necessità di un possibile coordinamento tra i diversi ordinamenti comunitari.

Così, se il fallimento (ovvero l'ammissione ad un'altra procedura concorsuale) non è stato ancora dichiarato nel nostro ordinamento interno, l'istanza di fallimento (di uno o più creditori, del pubblico ministero ovvero dello stesso debitore) diventa improcedibile se riferita alla procedura concorsuale principale, ma potrebbe convertirsi in una dichiarazione di procedura concorsuale secondaria (ovvero territoriale), con effetti limitati ai beni del debitore che si trovano in Italia. L'art. 27, paragrafo 1, del Regolamento, prevede che la preventiva apertura di una procedura principale in uno Stato membro permette di aprire in altro Stato membro una procedura secondaria, anche a prescindere dalla valutazione della sussistenza del presupposto dell'insolvenza.

Se, invece, il fallimento (ovvero l'ammissione ad un'altra procedura concorsuale) è stato già dichiarato, al fine di stabilire l'effettività del criterio della prevenzione, occorre far riferimento alla data di produzione degli effetti della sentenza italiana, che deve essere individuato nella pubblicazione del provvedimento attraverso il deposito in cancelleria ai sensi dell'art. 133 c.p.c., così come richiamato dal 3 comma dell'art. 16 l.fall., e non già nella deliberazione della sentenza in camera di consiglio, che è momento interno all'organo decidente, privo di effetti immediati e diretti [Cass. n. 2546/2000. Perciò, se la decisione di apertura di una procedura principale adottata in altro Stato membro abbia prodotto effetto (secondo la legge o la giurisprudenza di quello Stato) dopo il deposito in cancelleria della decisione italiana, il giudice interno dovrà ritenere, ai sensi del Regolamento comunitario, come principale la procedura aperta in Italia; in caso contrario, quando cioè gli effetti delle decisione straniera si siano prodotti prima del deposito della decisione italiana, quest'ultima potrà valere come apertura di una procedura secondaria ovvero territoriale, con effetti limitati ai beni situati in Italia].

A livello definitorio, va chiarito che la procedura d'insolvenza aperta da un giudice nello Stato dove il debitore possiede il centro principale dei suoi interessi assume il rango di procedura principale.

La procedura di insolvenza secondaria, invece, ha, necessariamente, ai sensi dell'art. 3, paragrafo 3, del Regolamento, carattere liquidatorio ed è tale perché aperta successivamente a quella principale, considerato che — ai sensi dell'art. 1, lett. f) — il momento di apertura della procedura d'insolvenza coincide con quello in cui la decisione di apertura, sia essa definitiva o meno (cioè oppugnabile o meno), comincia a produrre effetto (De Santis, 2012, ibidem).

Va pertanto ribadito che è soltanto il principio della priorità temporale — e non quello dell'importanza qualitativa ovvero quantitativa — a radicare la procedura principale, facendo degradare quella successivamente aperta a rango di procedura secondaria, avente carattere esclusivamente liquidatorio e con effetti limitati, secondo quanto dispone l'art. 27, ai beni del debitore insistenti nel territorio dello Stato membro che la apre.

Ed infine, il Regolamento consente all'interprete di enucleare anche un tertium genus, rappresentato cioè dalla procedura territoriale. In realtà, quest'ultima si differenzia dalla procedura principale, in quanto può essere aperta anche in Stati membri dove il debitore non ha il centro principale dei propri interessi e si differenzia altresì dalla procedura secondaria, in quanto può essere aperta anche precedentemente a quella principale ed autonomamente rispetto ad essa. Il Regolamento, dunque, ammette (cfr. art. 3, §§2-4) l'apertura di procedure territoriali in Stati membri diversi da quello dove si è aperta la procedura principale, a condizione che il debitore abbia in essi una dipendenza, cioè un luogo di operazioni in cui esercita in maniera non transitoria un'attività economica con mezzi umani e con beni (cfr. art. 2, lett. h). Il Regolamento non indica espressamente se nel concetto di dipendenza si comprenda anche la società controllata o collegata, non affondando in alcun modo la questione della insolvenza transfrontaliera del gruppo societario. Forse la risposta più corretta da fornire al quesito è negativa, atteso che, se fosse vero il contrario, l'apertura di una procedura di insolvenza principale a carico della società madre consentirebbe l'apertura di una procedura d'insolvenza secondaria a carico della società figlia, e ciò anche a prescindere dall'accertamento dell'insolvenza (così, De Santis, 2012, 95). Nel medesimo senso cfr. anche Vanzetti, 173, la quale mette in risalto come le società controllate siano dotate di una distinta personalità giuridica, e si atteggino come soggetti autonomi, giuridicamente separati dalla controllante, e quindi inidonee ad essere considerate alla stregua di succursali o dipendenze (in senso contrario, si legga Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, cit., 49).

In conclusione, può dirsi che la finalità dichiarata del Regolamento comunitario n. 1346/2000 è quella di porre le basi per una normativa uniforme dell'insolvenza transfrontaliera a livello comunitario. In realtà, esso persegue un obiettivo di «universalità» della procedura di insolvenza aperta in uno Stato membro, colpendo i beni del debitore dovunque essi si trovino nel territorio dell'Unione e produce negli altri Stati membri i medesimi effetti previsti nello Stato in cui la procedura è aperta, accentrando presso un solo giudice la cognizione di tutte le ragioni di credito verso il fallito (Micheli, 2 ss.).

L'intento di fondo, dichiarato peraltro al n. 4 dei Considerando del Regolamento, è di evitare che le parti siano incentivate dalla difformità di disciplina a spostare beni o procedimenti giudiziari da uno Stato membro all'altro, al solo fine di migliorare la propria situazione giuridica (è il fenomeno che va sotto il nome del cd. forum shopping).

Sul punto, va aggiunto che la possibilità, prevista dal Regolamento di aprire procedure di insolvenza territoriali, i cui effetti siano cioè limitati ai beni situati nel territorio dello Stato membro in cui tali procedure sono aperte, potrebbe apparire, prima facie, come una sorta di attenuazione del detto principio di universalità. Ma, in realtà, nell'ottica comunitaria la previsione di procedure di insolvenza territoriali deve considerarsi un rafforzamento e non già una deroga al principio di universalità (De Santis, 2012, ibidem. Peraltro, il Considerando n. 19 del Regolamento precisa, a questo riguardo, che le.procedure secondarie possono avere come scopo quello di tutelare gli interessi dei creditori locali, ma la loro esigenza può nascere anche dalla complessità di amministrare unitariamente il patrimonio del debitore ovvero dalla circostanza che le divergenze tra gli ordinamenti giuridici interessati siano così rilevanti che potrebbero sorgere difficoltà ad estendere gli effetti procedura di insolvenza dallo Stato.che l'ha aperta agli altri Stati membri).

Emerge pertanto una visione aggiornata del principio di universalità, in cui la tradizionale idea della primazia di un'unica giurisdizione nell'apertura e nella gestione di una procedura d'insolvenza cede gradatamente il passo ad un obiettivo di cooperazione tra Stati, con il possibile coordinamento tra la procedura principale e quelle territoriali e secondarie.

Occorre a questo punto della trattazione approfondire il concetto di COMI, e cioè di centre of main interest.

Ebbene, la competenza giurisdizionale ad aprire la procedura di insolvenza è affidata dal Regolamento CE n. 1346/2900 al giudice dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore.

Sul punto, va detto che per le società e le persone giuridiche, il centro di interessi principale si presume, fino a prova contraria, quello quella sede legale (cfr. art. 3, § 1, del Regolamento).

Non altrettanto è previsto e può pertanto dirsi per gli imprenditori individuali, in relazione ai quali si deve ritenere che il Regolamento non ponga alcuna presunzione in ordine alla corrispondenza tra centro di interessi e sede legale. Ed invero, dovrà essere pertanto l'autorità che apre la procedura a dover allegare la sussistenza, all'interno del territorio dell'ordinamento cui essa appartiene, del centro di interessi di un imprenditore individuale.

Pertanto, la norma affida all'interprete interno il compito di individuare il centro degli interessi principali del debitore e, soprattutto, non esclude l'individuazione, da parte del giudice, della «sede principale» dell'impresa nel senso in cui la intende, ad esempio, anche il primo comma dell'art. 9 1. fall. Peraltro, proprio la lettera del Regolamento autorizza la conclusione che il giudice debba comunque verificare d'ufficio se il centro degli interessi principali della società coincida con il luogo della sede statutaria (De Santis, 2012, 98).

Così, non può escludersi l'apertura, da parte di un giudice di uno Stato membro, di procedure d'insolvenza — come ricadenti nel raggio d'applicazione del Regolamento — di società aventi la sede statutaria all'esterno del territorio dell'Unione, ma il centro principale degli interessi all'interno dello stesso (Trib. Roma 17 aprile 2007, in Fall., 2007, 972).

Per contro, l'apertura di procedure di insolvenza da parte del giudice di uno Stato membro a carico di soggetti aventi il centro principale degli interessi al di fuori del territorio dell'Unione Europea, ma la sede legale al suo interno, resterà interamente regolata dal diritto interno di quello Stato e dagli eventuali accordi internazionali, che esso abbia stabilito con l'ordinamento dove il soggetto per il quale si procede abbia il centro principale degli interessi (De Santis, 2012, ibidem).

Ciò posto, occorre, ora, fornire la definizione del concetto di centro degli interessi principali dell'impresa, di cui parla il Regolamento comunitario, ed occorre altresì chiarire se esso coincida o meno, nella sostanza, con il concetto di sede principale, di cui all'art. 9 l.fall., per il quale si radica, all'interno dello Stato italiano, la competenza territoriale del tribunale fallimentare.

Sul punto, occorre ricordare che, nella tradizione giuridica italiana, la previsione che àncora la competenza del giudice fallimentare al luogo dove l'imprenditore ha la sede principale della sua attività ha radici risalenti. Invero, l'art. 685, comma primo, del codice di commercio del 1882 disponeva che la dichiarazione di fallimento è pronunziata dal tribunale di commercio nella cui giurisdizione il debitore ha il suo principale stabilimento commerciale e l'art. 846 soggiungeva che «il fallimento di una società commerciale è dichiarato dal tribunale di commercio nella cui giurisdizione la società ha la sua sede». Peraltro, ancor prima, l'art. 544 del codice di commercio del 1865 fissava tale competenza in capo al tribunale del luogo del principale stabilimento commerciale del debitore «che aveva cessato di fare i suoi pagamenti», ovvero del luogo in cui si trovava la sede della società.

Ciò lascia intendere che le norme così dettate dai precedenti codici assecondavano l'esigenza che la procedura fallimentare si svolgesse là dove la presenza operante dell'imprenditore commerciale lasciava presumere l'esistenza del maggior numero di creditori concorsuali (si legga Bongiorno, 172). Peraltro, già Gustavo Bonelli osservava che «il fallimento è un giudizio universale, così in rapporto all'attivo che al passivo; poiché esso ha per scopo la liquidazione.dell'intero patrimonio del debitore a soddisfazione di tutti creditori. Esso perciò non può scindersi, e deve necessariamente essere dichiarato e condotto in un sol luogo e da un sol tribunale. A ciò non si fa eccezione neppure nel caso in cui una persona abbia più domicilii commerciali differenti, ovvero sia socio di due società egualmente fallite in luoghi diversi» (così, Bonelli, Del fallimento, cit., 136).

È da soggiungere che, sul tema della sede principale dell'impresa come criterio di individuazione del giudice fallimentare competente, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunziarsi in più occasioni, confermando che la competenza a dichiarare il fallimento spetta al tribunale del luogo ove l'impresa ha la sua sede principale, ove, cioè, promuova sul piano organizzativo i suoi affari, e tale luogo, di regola, si deve presumere coincidente con quello della sede legale (cfr., tra le altre, anche Cass. n. 5391/2005).

Tuttavia, siffatta presunzione di coincidenza può essere vinta dalla prova del carattere fittizio o formale della sede legale, restando irrilevanti in ogni caso i trasferimenti della sede stessa non accompagnati dal reale trasferimento del centro propulsore dell'impresa, ovvero contestuali all'effettiva cessazione dell'attività dell'impresa medesima (Cass. n. 8186/2005; Cass. n. 4206/2003; Cass. n. 8023/2001).

Pertanto, è da dirsi che il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in ordine all'istanza di fallimento di una società con sede all'estero e priva di stabile rappresentanza in Italia, non può essere escluso in relazione al fatto che la società abbia operato negozialmente in Italia, atteso che il luogo in cui si svolge l'attività negoziale dell'impresa non può identificarsi con quello della sua sede, da intendersi come centro degli interessi e dell'effettiva attività amministrativa e direttiva (Cass. S.U., n. 404/1985).

La giurisprudenza della Cassazione guarda, dunque, alla «sede effettiva», piuttosto che a quella «legale», come il punto di imputazione tra l'impresa insolvente e la giurisdizione fallimentare ed al centro prevalente di interessi come criterio di individuazione della sede effettiva.

Peraltro, tale orientamento ha condotto la Corte regolatrice ad escludere la rilevanza degli spostamenti artificiosi e strumentali di sede nell'imminenza della dichiarazione di fallimento con finalità dissuasive in ordine ad eventuali volontà truffaldine e fraudolente dell'imprenditore decotto in danno dei suoi creditori.

Infine, giova ricordare che, in subiecta materia, è altresì intervenuta la Corte di giustizia delle Comunità Europee, dettando principi in parte dissonanti rispetto a quelli enunciati dalla Corte regolatrice italiana.

Ebbene, la Corte europea ha stabilito che quando un debitore è una società controllata la cui sede statutaria è situata in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede la sua società madre, la presunzione contenuta nell'art. 3, n. l, del Regolamento CE (secondo la quale il centro degli interessi principali di detta controllata è collocato nello Stato membro in cui si trova la sua sede statutaria) può essere superata soltanto se elementi obiettivi e verificabili da parte di terzi consentano di determinare l'esistenza di una situazione reale diversa da quella che si ritiene corrispondere alla collocazione in detta sede statutaria. Per contro, quando una società svolge la propria attività sul territorio dello Stato membro in cui ha sede, la circostanza per cui le sue scelte gestionali siano o possano essere controllate da una società madre stabilita in un altro Stato membro, non è sufficiente per superare la presunzione stabilita dal Regolamento (CGCE, Grande Sezione, 2 maggio 2006, in causa c. 341704 (Eurofood); v. anche CGCE, 12 settembre 2006, in causa C. 196/04, Cadbury Schweppes; cfr. ancora CGCE 25 luglio 1991, in causa C. 221/89, The Queen).

Peraltro, la Corte europea ha precisato che il concetto di centro degli interessi principali è proprio del regolamento e deve perciò essere interpretato in modo uniforme e indipendente dalle normative nazionali e più precisamente sulla base del tredicesimo Considerando del Regolamento secondo il quale per centro degli interessi principali si deve intendere il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi.

Ne consegue che il centro degli interessi principali deve essere individuato in base a criteri al tempo stesso obiettivi e verificabili dai terzi. Tale obiettività e tale possibilità di verifica da parte dei terzi sono necessarie per garantire la certezza del diritto e la prevedibilità dell'individuazione del giudice competente ad aprire una procedura di insolvenza principale. Tali certezza del diritto e tale prevedibilità sono ancora più importanti in quanto determinare il giudice competente significa anche, ai sensi dell'art. 4, n. 1, del Regolamento, determinare la legge applicabile. Ne discende altresì che, per determinare il centro degli interessi principali di una società debitrice, la presunzione semplice prevista dal legislatore comunitario a favore della sede statutaria di tale società può essere superata soltanto se elementi obiettivi e verificabili da parte di terzi consentano di determinare l'esistenza di una situazione reale, diversa da quella che si ritiene corrispondere alla collocazione in detta sede statutaria (CGUE I, 20 ottobre 2011, n. 296 in causa C. 396/09. La Corte di giustizia ha altresì stabilito che «la localizzazione in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria di beni immobili appartenenti alla società debitrice, con riferimento ai quali quest'ultima abbia concluso contratti di affitto, nonché l'esistenza, in questo stesso Stato membro, di un contratto stipulato con un istituto finanziario, possono essere considerate elementi obiettivi e, tenuto conto della pubblicità che esse possono presentare, elementi riconoscibili dai terzi. Rimane il fatto che la presenza di attivi sociali, nonché l'esistenza di contratti relativi alla loro gestione finanziaria in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria di tale società possono essere considerate elementi sufficienti a superare la presunzione introdotta dal legislatore dell'Unione solo a condizione che una valutazione globale di tutti gli elementi rilevanti consenta di concludere che, in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società stessa, nonché della gestione dei suoi interessi, è situato in tale altro Stato membro»).

In questo quadro normativo e interpretativo, la Corte regolatrice ha precisato che l'individuazione del giudice fornito di giurisdizione, trattandosi della dichiarazione di fallimento di un'impresa avente sede nel territorio dell'Unione Europea, deve essere operata alla stregua delle disposizioni dettate dal Regolamento CE n. 1346/2000. Ne discende che competente ad aprire la procedura di insolvenza (nozione che invero ricomprende, quanto, all'Italia, anche la procedura di fallimento) è il giudice dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, dovendosi presumere, fino a prova contraria, che l'ubicazione di siffatto centro d'interessi coincida, per le società e le persone giuridiche, col luogo in cui si trova la loro sede statutaria (Cass. S.U., n. 16633/2009, la cui decisione ha espressamente evidenziato che «il centro degli interessi principale del debitore, come chiarito anche dal 13° Considerando del Regolamento, corrisponde al luogo in cui il debitore, medesimo gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi; la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha sottolineato il carattere autonomo della suindicata nozione di centro d'interessi adoperata dal Regolamento, in funzione della necessità di fornire interpretazioni uniformi, non influenzate dalle diverse normative nazionali, ed ha aggiunto che la presunzione di corrispondenza del centro d'interessi dell'impresa con la sua sede legale può essere superata soltanto se elementi obiettivi e verifìcabili da parte di terzi consentono di determinare l'esistenza di una situazione reale diversa da quella che appare corrispondente alla collocazione in detta sede statutaria, come nell'ipotesi in cui una società non svolga alcuna attività sul territorio dello Stato membro in cui è ubicata formalmente la sede». Più di recente, la Cassazione, nel ribadire che la sede effettiva dell'impresa è quella in cui opera il centro motore della stessa e cioè l'organo che prende le decisioni, ha statuito (in maniera non dissonante dagli orientamenti della Corte di giustizia europea) che nell'ipotesi in cui l'attività di un'impresa sia in concreto esercitata in misura più o meno rilevante da un'altra, la sede effettiva della prima potrebbe essere identificata con quella della seconda solo se la prima sia in effetti totalmente inattiva nel senso che ogni decisione viene presa dagli organi amministrativi della seconda nella totale inerzia di quelli della prima, ma non certo quando la controllante che ha delegato l'esecuzione dell'attività mantenga una sua autonomia decisionale, decida in ordine ai limiti e alle modalità con cui la delegata opera nel suo interesse, vigili sull'operato degli amministratori di quest'ultima (o sui propri presso la stessa eventualmente «distaccati») e ne influenzi le decisioni (Cass. n. 26518/2011).

Il decreto con cui la corte d'appello accoglie, ai sensi dell'art. 22, comma 4, l.fall. il reclamo avverso il provvedimento di rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento, rimettendo d'ufficio gli atti al tribunale, deve essere comunicato alle parti, ai sensi del comma 3 della citata disposizione, essendo in facoltà delle stesse segnalare al tribunale la sopravvenuta modificazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Ne consegue che il tribunale, dopo aver sentito le parti in sede di istruttoria prefallimentare, non ha l'obbligo di procedere ad una loro ulteriore convocazione prima di dichiarare il fallimento del debitore (Cass. VI, ord. n. 6594/2017).

Il trasferimento della sede all'estero. Il fenomeno della «estero vestizione»

Non occorrono troppe parole per rilevare come il trasferimento di sede sia uno dei principali e più usati strumenti per chi intenda praticare il cd. forum shopping.

Sul punto, va solo ricordato che la problematica del trasferimento di sede è logicamente successiva all'applicazione del criterio del centro principale di interessi dell'impresa, nel senso che essa rileva, ai fini del radicamento della giurisdizione e della competenza fallimentari, quando sia stato positivamente accertato che l'attuale sede legale sia anche quella effettiva. Ne discende che soltanto in questo caso ha senso stabilire se il trasferimento della sede sia stato fittizio o meno, e se abbia come scopo quello di sottrarsi ad un giudice indesiderato.

In realtà, le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che — prevedendo l'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE n. 1346 del 2000 che competenti ad aprire le procedure di insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore — deve presumersi, quanto alle società ed alle persone giuridiche, che tale centro d'interessi coincida con quello ove si trova la sede statutaria, ma che, qualora, anteriormente alla presentazione dell'istanza di fallimento, la società abbia trasferito all'estero la propria sede legale, e tale trasferimento appaia fittizio, permane in ogni caso la giurisdizione del giudice italiano (Cass. S.U., n. 20144/2011, nella fattispecie concreta, il carattere fittizio del trasferimento della sede societaria all'estero emergeva, secondo la corte, sia dall'equivoca e comunque ingiustificata scissione del trasferimento tra sede legale in uno Stato estero e sede operativa in altro Stato, sia dalla circostanza che tale trasferimento era stato effettuato in epoca assai prossima alla presentazione delle istanze di fallimento, tale da far ragionevolmente supporre che si trattasse di un espediente posto in essere in vista della probabile dichiarazione di fallimento).

Sul punto, la giurisprudenza domestica ha evidenziato altresì che laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta come conseguenza dell'asserito trasferimento all'estero della sua sede sociale, il successivo accertamento della fittizietà del trasferimento — che dunque non comporta il venire meno della giurisdizione del giudice italiano, né determina, come effetto di quella cancellazione, il decorso del termine di cui all'art. 10 l.fall. — non è precluso dal fatto che non sia preventivamente intervenuto, alla stregua dell'art. 2191 c.c., alcun provvedimento di segno opposto alla predetta cancellazione, atteso che per poter fornire la prova contraria alle risultanze della pubblicità legale riguardanti la sede dell'impresa non occorre precedentemente ottenere dal giudice del registro una pronuncia che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva e quella risultante dal registro (Cass. S.U., n. 9414/2013).

Deve pertanto essere ribadito, in subiecta materia, il principio secondo cui, ai sensi dell'art. 9 della legge fallimentare, sussiste la competenza del tribunale del luogo in cui la società aveva precedentemente la propria sede legale in caso di fittizietà del suo trasferimento, mentre la presunzione di coincidenza fra sede legale e sede effettiva può essere superata nel caso in cui si dimostri che nella sede legale non è stato posto in essere alcun atto di gestione o decisione effettiva per la vita dell'impresa (così, anche Cass. I, ord. n. 12285/2005. In ordine alla diversa questione del trasferimento del domicilio fiscale, va detto che ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, nell'ipotesi di esterovestizione, ossia di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma, invece, occorre verificare se il trasferimento in realtà vi è stato, o no, cioè se l'operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica (cfr. Cass. V, n. 2869/2013).

Ebbene, va precisato ulteriormente che la giurisprudenza comunitaria ha sancito che l'art. 3, n. 1, del Regolamento CE n. 13461/2000 deve essere interpretato nel senso che il giudice dello Stato membro, nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore al momento della proposizione della domanda di apertura della procedura d'insolvenza, è competente ad aprire tale procedura allorché il debitore stesso trasferisca il centro dei propri interessi principali nel territorio di un altro Stato membro successivamente alla proposizione della domanda, ma anteriormente all'apertura della procedura (CGCE, Grande Sezione, 17 gennaio 2006, causa C. 1/04).

Orbene, nei rapporti tra Paesi dell'Unione Europea, per stabilire il radicamento della giurisdizione fallimentare, occorre perciò guardare non solo (e non tanto) al momento di proposizione della domanda di fallimento, ma a quello dell'apertura della procedura d'insolvenza. In realtà, tale principio è, nella sostanza, sancito anche dall'ultimo comma art. 9 l.fall., a mente del quale il trasferimento della sede dell'impresa all'estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all'art. 6, o della presentazione della richiesta di fallimento da parte del pubblico ministero, di cui all'art. 7 l.fall.

Come già sopra anticipato, la giurisprudenza di legittimità — premesso che l'accertamento in concreto del luogo ove effettivamente si trova il principale centro d'interessi di una impresa e dell'eventuale non coincidenza di esso con la sede statutaria, ai fini del superamento della predetta presunzione, è compito del giudice nazionale —ha ritenuto che, ove al trasferimento all'estero della sede legale della società non abbiano fatto seguito né l'effettivo esercizio di attività imprenditoriale nella nuova sede né lo spostamento presso di essa del centro dell'attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell'impresa, allora la presunzione di coincidenza della sede effettiva con la nuova indicata sede legale è da considerarsi superata, permanendo la giurisdizione del giudice italiano a dichiarare il fallimento dell'impresa che in Italia abbia avuto, prima del formale trasferimento, la propria sede legale (Cass. S.U., n. 11398/2009).

Per quanto concerne, invece, i rapporti tra giurisdizione italiana e giurisdizione di altro Stato non comunitario, le sezioni unite della Cassazione hanno definitivamente chiarito che spetta al giudice la giurisdizione con riguardo alla domanda di fallimento presentata nei confronti della società di capitali, già costituita in Italia, che, dopo il manifestarsi della insolvenza, abbia trasferito all'estero (e cioè in Stato extracomunitario) la sede legale, allorquando al detto trasferimento non abbia fatto seguito anche il trasferimento dell'effettivo esercizio dell'attività imprenditoriale e del centro dell'attività direttiva ed amministrativa, in quanto il trasferimento si è risolto in un atto meramente formale, restando escluso che esso sia stato posto in essere conformemente alla legge degli Stati interessati: Cass. S.U., n. 3368/2006; v. anche Cass. S.U., n. 1244/2004. Difatti, il trasferimento ad altro Stato extracomunitario della sede di una società, anche se anteriore al deposito dell'istanza di fallimento, non esclude la giurisdizione italiana, essendo essa inderogabile (salve le convenzioni internazionali o le norme comunitarie) e pienamente operante nei casi in cui detto trasferimento non abbia carattere fittizio o strumentale. Per le medesime considerazioni, spetta al giudice italiano la giurisdizione con riguardo all'istanza di fallimento presentata nei confronti di società di capitali, già costituita in Italia che, dopo il manifestarsi della crisi di impresa, abbia trasferito all'estero la sede legale, nel caso in cui i soci, chi impersona l'organo amministrativo ovvero chi ha maggiormente operato per società, siano cittadini italiani senza collegamenti significativi con lo Stato straniero, circostanze che, unitamente alla difficoltà di notificare l'istanza di fallimento nel luogo indicato come sede legale, lasciano chiaramente intendere che la delibera di trasferimento fosse preordinata allo scopo di sottrarre la società dal rischio di una prossima probabile dichiarazione di fallimento (Cass. n. 15880/2013).

Resta, in ogni caso, ferma la previsione, di cui sopra si è già detto, contenuta nel 3 comma dell'art. 9 l.fall., a tenore della quale l'imprenditore, che ha all'estero la sede principale dell'impresa, può essere dichiarato fallito nello Stato italiano, anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all'estero.

Questioni processuali

Il fallimento è un processo esecutivo speciale. La problematica della individuazione della competenza prescinde sia da questioni di valore della controversia, come da quelle della materia per concentrarsi esclusivamente sui problemi attinenti il territorio.

In realtà, nel processo esecutivo individuale la competenza territoriale si radica di regola ove si trovano i beni oggetto del procedimento esecutivo.

Nel processo di fallimento, invece, il principio generale si incentra storicamente sulla individuazione del tribunale competente in quello ove si trova l'impresa dissestata il cui patrimonio deve essere appreso e liquidato, essendo tale ubicazione funzionale non solo alla declaratoria ma anche allo svolgimento di tutta la procedura.

Si deve precisare che la competenza del tribunale del luogo ove si trova la sede della impresa è una competenza a carattere funzionale. Ed invero, la dichiarazione di fallimento può essere promossa dal pubblico ministero; la stessa è in grado di determinare un mutamento nello stato e nella capacità della persona, e peraltro l'oggetto del giudizio è l'apertura della esecuzione forzata concorsuale (Pajardi-Paluchowscki, 123).

Conseguenza della natura funzionale della detta competenza è la inderogabilità della competenza sia in sede di dichiarazione che in sede di svolgimento del processo fallimentare, che è giustificata dalla necessità che tutta la procedura si incardini e ruoti attorno al tribunale ove si trova la sede principale dell'impresa insolvente, giacché ciò è funzionale sia ad una economia di giudizi sia ad una maggiore facilità di informazione e conduzione dell'esecuzione speciale stessa (Bongiorno, 185 ove afferma che la competenza per la dichiarazione di fallimento è assoluta ed esclusiva).

Ne discende, peraltro, che l'esigenza secondo cui la declaratoria di fallimento sia pronunciata dal tribunale della sede principale dell'impresa, sancita dall'art. 9 l.fall., fa sì che il tribunale, ove venga sollevata questione di competenza territoriale o che rilevi d'ufficio l'insussistenza della competenza, non può dichiarare il fallimento se si ritiene incompetente per territorio. Sul punto, giova ricordare che sono sorte in passato numerose questioni in ordine alla ipotesi in cui il fallimento venisse egualmente dichiarato e la questione della competenza sorgesse dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa, in quanto il suo accoglimento determinava la necessità si una automatica rimozione della sentenza emessa da un organo incompetente. Così, erano state elaborate in giurisprudenza costruzioni operative che consentissero in tali casi la trasmigratio judicii anche in presenza di un titolo nullo.

Tuttavia, la giurisprudenza aveva in un secondo momento superato correttamente tale orientamento sulla base del rilievo che la nullità della sentenza dichiarativa poneva nuovamente sul mercato l'imprenditore insolvente, lasciando intatto il problema pratico sopra descritto. La questione aveva comunque continuato ad essere discussa in dottrina ed in giurisprudenza, originando talvolta decisioni particolari, cagionate in realtà dalla soluzione di situazioni concrete: cfr. App. Bari 18 novembre 2003, in Fall., 2004, 915, annotata da Matrelli, Cassazione della sentenza di fallimento per incompetenza, nuova dichiarazione e prospettive di conservazione degli effetti, in una fattispecie nella quale la prima sentenza dichiarativa di fallimento era stata cassata senza rinvio per motivi d'incompetenza territoriale e, nella nuova procedura seguita alla declaratoria da parte del tribunale competente, in sede di verifica del passivo, si era posto il problema della decorrenza degli effetti sospensivi degli interessi sui crediti pecuniari, ed il tribunale aveva ritenuto che si potesse ravvisare una sorte di consecuzione di procedure; la corte d'appello invece aveva fatta propria l'applicazione dei principi in tema di caducazione di ogni effetto della sentenza in caso di riforma ed aveva ritenuto che l'effetto sospensivo degli interessi potesse decorrere solo dalla dichiarazione di fallimento valida.

La sede principale della impresa. Il suo trasferimento nell'anno precedente

Il legislatore, anche con le ultime riforme, ha mantenuto fermo il principio per cui il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa. Ne discende che rimangono valide tutte le elaborazioni formulate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per la corretta individuazione di tale sede.

Sul punto, il principio cardine è quello della sede reale, combinato con quello del centro propulsivo aziendale. Ed invero, la sede principale deve essere innanzitutto effettiva ed effettivamente principale, non solo apparente tale. La ratio della norma verrebbe frustrata se il fallimento si svolgesse in un luogo diverso da quello ove pulsa il cuore della impresa (così, Pajardi-Paluchowscki, cit., 125. Invero, la dottrina sul punto è uniforme ed utilizza una grande varietà di espressioni, quali luogo di coordinamento dei vari fattori della produzione; centro effettivo degli interessi; centro effettivo o dominante di direzione e di svolgimento dell'attività; luogo della prevalente attività direttiva amministrativa; sul punto, si leggano: Bonsignori, Il fallimento, cit., 199; Satta, Diritto fallimentare, cit., 58, Ferrara-Borgioli, Il fallimento, cit., 227).

La giurisprudenza predilige invece l'espressione «luogo dell'attività amministrativa e direttiva»: cfr. Cass. n. 9070/2000. Il problema più severo si pone non solo per l'imprenditore individuale, ma anche per quello collettivo, e ciò in relazione alla figura dell'ente collettivo di fatto, giacché in tal caso la individuazione della sede principale fra più sedi è attività ardua e scivolosa.

La legge civile considera a tal fine solo una sede, e cioè quella legale, la cui indicazione è peraltro necessaria nella richiesta di iscrizione al registro delle imprese, unitamente alle sedi secondarie, secondo quanto positivamente prescritto dagli artt. 2196 e 2197 c.c.

Ebbene, il principio generale è quello secondo cui l'imprenditore viene dichiarato fallito, di regola, presso la sede legale, che dovrebbe rappresentare la sede effettiva della sua attività, perché in tal senso è disposta una presunzione di legge.

Peraltro, se il fallimento viene dichiarato nel luogo della sede iscritta nel registro delle imprese, il debitore non può eccepire alcunché, atteso che è stata l'indicazione dallo stesso fornita al momento della iscrizione. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito costantemente che la competenza a dichiarare il fallimento spetta al giudice del luogo in cui l'imprenditore ha la sede principale che si identifica con quello in cui svolge prevalentemente l'attività amministrativa e direttiva, coincidendo la stessa con la sede legale, a meno che non emergano prove univoche tali da smentire la presunzione predetta (cfr. Cass. n. 6677/2006; Cass. n. 8186/2005, la quale precisa che la presunzione è iuris tantum e può essere superata con la prova che la sede effettiva, e cioè il luogo in cui è esercitata l'attività direttiva ed amministrativa della impresa, sia situata o sia stata trasferita altrove, ovvero dal carattere meramente fittizio o formale della sede legale, cfr. anche Cass. n. 11732/2006).

Sul punto, va chiarito che, sebbene possa essere arduo in alcuni casi l'individuazione del centro direttivo della impresa anche a causa dello svilupparsi di tecnologie aziendali impostate sul decentramento dell'organizzazione, tuttavia è da dirsi che vi è sempre un punto ed uno solo da cui si diparte l'impulso organizzativo e l'attività direzionale e nel quale si decidono tutte le più importanti questioni attinenti alla gestione della impresa (cfr. anche Cass. n. 5391/20055, il quale ha affermato che la competenza a dichiarare il fallimento spetta al tribunale ove l'impresa promuove sul piano organizzativo i suoi affari e tale luogo, di regola, si deve presumere coincidente con quello della sede legale, potendo tuttavia siffatta presunzione di coincidenza essere vinta dalla prova del carattere fittizio o formale della sede legale. A tal fine ha ritenuto irrilevante la circostanza che l'attività imprenditoriale contemplata nell'oggetto sociale si esplicasse in luogo diverso dalla sede legale, essendo necessario, per superare la detta presunzione, dimostrare che in quel diverso luogo si colloca il centro direttivo della società, ove operano i suoi dirigenti, viene tenuta la sua contabilità e normalmente si riuniscono i assemblea i suoi soci).

Pertanto, in conclusione può affermarsi con sicurezza, sulla base dei consolidati insegnamenti della giurisprudenza di legittimità così come recepiti anche dalla giurisprudenza pratica, che — ai sensi dell'art. 9 della l.fall., al fine della determinazione del tribunale competente a dichiarare il fallimento, la quale va operata con riferimento al luogo della sede principale dell'impresa, intesa come sede reale di questa —, la presunzione «iuris tantum» di coincidenza tra la sede legale e quella effettiva può essere superata con il raggiungimento della prova che la sede effettiva, cioè il luogo in cui è esercitata l'attività direttiva ed amministrativa dell'impresa, sia situata o sia stata trasferita altrove, ovvero della prova del carattere meramente fittizio o formale della sede legale (cfr. Cass. I, ord. n. 8186/2005).

Ne discende che, sulla base dei sopra illustrati principi, la competenza a dichiarare il fallimento spetta al tribunale del luogo ove l'impresa ha la sua sede principale, ove, cioè, promuove sul piano organizzativo i suoi affari, e tale luogo, di regola, si deve presumere coincidente con quello della sede legale, potendo, tuttavia, siffatta presunzione di coincidenza essere vinta, come detto, dalla prova del carattere meramente fittizio o formale della sede legale, restando irrilevanti in ogni caso i trasferimenti della sede legale non accompagnati dal reale trasferimento del centro propulsore dell'impresa o contestuali alla effettiva cessazione dell'attività dell'impresa stessa (così, anche Cass. I, ord. n. 1489/2005). Invero, il giudice di legittimità ha ulteriormente chiarito che per sede dell'impresa — agli effetti della individuazione del tribunale territorialmente competente a dichiarare l'eventuale fallimento della medesima, ex art. 9 — deve intendersi la sede reale ed effettiva (Cass. n. 1421/1983; Cass. n. 5786/1982; Cass. I, n. 3897/1986). Pertanto, occorre far riferimento al luogo dove l'imprenditore ha il centro principale dei suoi interessi, il quale centro può coincidere anche con la sede legale dell'impresa, con la ulteriore precisazione che l'accertamento degli elementi e circostanze indicativi del centro reale degli interessi dell'imprenditore e la loro valutazione costituiscono un giudizio di fatto riservato al giudice di merito e sottratto al controllo del giudice di legittimità se congruamente e correttamente motivato (Cass. I, n. 37/1971).

Il momento nel quale deve essere compiuto il predetto accertamento è quello della presentazione della richiesta di fallimento. Ne consegue che per i fini qui in discussione è completamente indifferente tutto ciò che succede dopo di essa.

Tuttavia, il legislatore ha ritenuto di potere inertizzare anche ciò che è avvenuto prima del deposito della istanza di fallimento, in un ambito temporale che l'art. 9 circoscrive nell'«anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa», giacché il trasferimento di sede che sia intervenuto in questo lasso temporale così definito non rileva ai fini della determinazione della competenza per la dichiarazione di fallimento. La ratio di tale formulazione normativa va rintracciata nella creazione, da parte del legislatore, di una sorta di presunzione iuris et de iure di fraudolenza del trasferimento operato nell'anno anteriore al deposito dell'istanza di fallimento. In altre parole, con la riforma si è inteso colpire quelle prassi distorte di trasferimenti abituali e plurimi, senza una concreta corrispondenza tra il trasferimento e lo svolgimento dell'attività, prassi attraverso la quale spesso gli imprenditori in difficoltà si «difendevano» dalle richieste di fallimento legittimamente presentate dai propri creditori (Pajardi-Paluchowscki,, 126).

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti chiarito che il trasferimento della sede legale in concomitanza dello stato di crisi che precede la dichiarazione di fallimento non giustifica la presunzione di coincidenza della nuova situazione legale e formale con quella effettiva, ai fini della competenza territoriale per la dichiarazione di fallimento ex art. 9 della legge fallimentare, essendo prassi ricorrente, di fatto, quella degli spostamenti, anche plurimi, della sede legale in presenza della crisi imprenditoriale, allo scopo di sottrarsi alle azioni esecutive dei creditori e a ritardare l'emersione dell'insolvenza ai fini concorsuali, salva la dimostrazione in concreto dell'esercizio dell'attività degli amministratori nella nuova sede (Cass. n. 5872/1995; Cass. S.U., n. 9417/1994).

Peraltro, il giudice di legittimità ha avuto modo, in subiecta materia, di chiarire che, ai fini della corretta individuazione del tribunale territorialmente competente a conoscere della domanda di fallimento di società commerciale, ai sensi dell'art. 9 l.fall., la presunzione di coincidenza della sede effettiva con la sede legale dell'ente opera, nel caso di trasferimento, con riferimento alla sede precedente, e non già a quella successiva al trasferimento stesso, nei casi seguenti: a) quando il trasferimento sia temporalmente vicino all'istanza di fallimento, e quindi compreso in epoca in cui debba considerarsi già manifestata o quantomeno imminente la crisi economica dell'impresa, atteso che in tale evenienza, poiché viene a mancare un collegamento con una qualsiasi evoluzione delle esigenze dell'impresa stessa, il trasferimento della sede diviene equivoco (se non fittiziamente preordinato ad incidere proprio sulla competenza territoriale) e non consente, dunque, di fondare alcuna presunzione su di esso; b) quando vi è la prova che al trasferimento della sede non corrisponde un reale trasferimento del centro propulsore dell'impresa; c) quando, infine, al compimento delle formalità inerenti al trasferimento non si accompagna l'effettivo esercizio dell'attività d'impresa nella nuova sede (Cass. n. 6693/2002).

Pertanto, deve ritenersi, allo stato della legislazione vigente, che, se per un verso, il trasferimento della sede infrannuale determina invero quella presunzione legale assoluta di fraudolenza del trasferimento, per altro verso, anche quello operato, al di là del limite temporale ora normativamente previsto dall'art. 9, ma in presenza di quegli indici rivelatori della fraudolenza e fittizietà del trasferimento, come la allorquando si acquisisca la prova che al trasferimento della sede non corrisponda un reale trasferimento del centro propulsore dell'impresa ovvero, al compimento delle formalità inerenti al trasferimento non si accompagni l'effettivo esercizio dell'attività d'impresa nella nuova sede, deve ritenersi produttore degli effetti di quella presunzione iuris tantum di fraudolenza del trasferimento, già dichiarata dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata nella vigenza della prima formulazione dell'art. 9, riconducibile alla mancanza di un collegamento con una qualsiasi evoluzione delle esigenze dell'impresa stessa e superabile solo dalla prova della effettività del trasferimento nella nuova sede.

Va tuttavia osservato come quella presunzione assoluta di cui sopra si è parlato, così come normativamente definita, finisce per colpire anche trasferimenti effettivi e non eseguiti per finalità truffaldine, giacché la detta presunzione non ammette prova contraria.

Tuttavia, va detto che la finalità ultima della normativa qui da ultimo in commento appare condivisibile, perché diretta a scongiurare, da un lato, quel fenomeno tristemente conosciuto con la già ripetuta formula di forum shopping e a concentrare, dall'altro, le declaratorie di fallimento nella sede ove risiede tendenzialmente il centro motore e propulsivo della impresa insolvente a tutto beneficio delle legittime aspettative sattisfattorie del ceto creditorio che normalmente è anch'esso collocato logisticamente nelle immediate vicinanze della predetta sede.

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