Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 7 - Iniziativa del pubblico ministero 1 .

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Iniziativa del pubblico ministero 1.

 

Il pubblico ministero presenta la richiesta di cui al primo comma dell'articolo 6:

1) quando l'insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore;

2) quando l'insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 5 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

Inquadramento

L'eliminazione del fallimento d'ufficio ha privato di fondamento la questione, discussa in base al vecchio testo, dell'art. 6 l.fall., relativa alla natura dell'iniziativa del p.m., la quale, non potendo conseguentemente essere più qualificata come una mera segnalazione al tribunale, può essere oggi senz'altro considerata esercizio di un'azione.

Questione di legittimità costituzionale

Con un evidente inversione logica e cronologica dell'argomentare, occorre partire dal recente arresto della giurisprudenza della Corte Costituzionale, rappresentato dalla sentenza del 9 luglio 2013 n. 184 (con la predetta sentenza la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, d.lgs. n. 5/2006, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., dal Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare).

Il giudice delle leggi si è pronunciato proprio sulla questione angolare della legittimità costituzionale della norma che, nell'ambito della riforma organica della legge fallimentare, ha espunto dall'ordinamento il potere del Tribunale fallimentare di fare luogo d'ufficio alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente. Sull'enorme rilevanza concreta della questione non è il caso di indugiare più di tanto: è agevole considerare che, particolarmente in un momento, quale il presente, di grande «sofferenza» per il mondo delle imprese, l'attribuzione al giudice del potere officioso di fare luogo alla dichiarazione di fallimento rappresenta un elemento decisivo nella fissazione delle regole di gestione della crisi di impresa.

A seconda dei punti di vista, invero, esso può porsi: — da un lato, come un opportuno argine rispetto al rischio di abuso dei molteplici strumenti offerti dalle ormai innumerabili riforme del concordato preventivo e degli altri mezzi di soluzione della crisi (e forse anche come l'estremo mezzo di controllo per evitare le frequenti forme, sempre abusive, di eterodirezione dell'impresa in crisi); — dall'altro lato, come residuo «arcaico» di un potere d'ufficio, da considerarsi definitivamente cancellato dalla forte «privatizzazione» della disciplina della crisi di impresa (sulla questione, si legga anche Sanzo).

La questione appare, dunque, fondamentale, poiché, ancor prima di entrare nel merito dell'opportunità o meno della scelta del riformatore, ci si trova di fronte all'ostacolo formale rappresentato dal dubbio circa l'esistenza del potere di introdurre una modificazione normativa di tale portata: ostacolo di per sé idoneo ad impedire in radice ogni valutazione di opportunità, poiché tocca il problema dello «sconfinamento» nell'esercizio della delega legislativa da parte del potere esecutivo, in un territorio di competenza esclusiva del potere legislativo. Il Tribunale di Milano, con ordinanza datata 31 maggio 2012 (sul punto, v. anche in ilfallimentarista.it, con nota di Galletti), aveva invero sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma dell'art. 4 del d.lgs. n. 5/2006, per la parte in cui, nel sostituire l'art. 6 l.fall., aveva eliminato la previsione di dichiarazione anche «d'ufficio» del fallimento dell'imprenditore: la questione era emersa in un procedimento di istruttoria prefallimentare in cui il collegio sindacale di una società in liquidazione, nell'inerzia del liquidatore, aveva ritenuto di potersi surrogare all'organo rappresentativo e, dunque, a nome della società aveva presentato un'istanza di fallimento «in proprio». Il Tribunale, in realtà, qualificata correttamente l'istanza di fallimento come proveniente «da un terzo non creditore» (in sé dunque non legittimato alla formulazione dell'istanza stessa) aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, segnalando che l'art. 1, comma sesto, della l. 14 maggio 2005, n. 80 (per l'appunto la legge-delega per la riforma organica, che convertiva il d.l. 14 marzo 2005, n. 35) non contemplava minimamente la possibilità che il Governo, nell'esercizio delle funzioni delegate, espungesse dall'ordinamento il potere in questione. La lettura della motivazione della sentenza in esame appare molto interessante — anche al di là del nucleo centrale della ratio decidendi — perché da essa emerge l'estrema articolazione, e, sotto certi aspetti, la puntigliosità, della difesa svolta dall'Avvocatura generale dello Stato per contrastare la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma. Difesa che non pare azzardato definire «strenua», poiché non ha trascurato alcun elemento, formale e sostanziale, finalizzato a detronizzare il rischio di dichiarazione di incostituzionalità: dalla inammissibilità per irrilevanza della questione nel processo a quo, alla inammissibilità per pretesa erroneità nella individuazione, da parte del Tribunale, della norma costituzionale che avrebbe cagionato la denunciata illegittimità, alla infondatezza per la parzialità del procedimento ermeneutico seguito dal Giudice rimettente. Quel che comunque più rileva è che il Giudice delle leggi, nella fattispecie, ha superato ogni questione formale (reputando che il percorso seguito dal Tribunale fosse ineccepibile) ed ha affrontato il merito della questione, reputandola però infondata (cfr. Sanzo, cit.).

La Corte — a fronte dell'obiettiva assenza, nella legge delegante, dell'attribuzione al Governo del potere di eliminare dall'ordinamento la dichiarazione «di ufficio» del fallimento dell'insolvente, ha ritenuto che, al fine di valutare la sussistenza o meno di un eccesso di delega, l'interprete è chiamato ad effettuare un duplice procedimento ermeneutico, avente ad oggetto, da un lato, la norma delegante il cui contenuto fissa «oggetto, principi e criteri direttivi della delega»; e, dall'altro, la norma delegata, «da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi».

Invero, alla luce di alcuni precedenti della stessa Corte costituzionale, la questione è stata ritenuta infondata soprattutto alla stregua del principio secondo cui, al fine di verificare la ricorrenza di un eccesso di delega, «i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegato sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (cfr. Corte cost. n. 341/2007). L'applicazione del principio sopra evidenziato alla vicenda concreta ha consentito alla Corte Costituzionale di escludere l'eccesso di delega, in considerazione dei seguenti rilievi di ordine logico-costituzionale: a) il legislatore delegante, nella fattispecie, aveva espressamente previsto che il legislatore delegato, al di là dei poteri specificamente attribuitigli, realizzasse «il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti»; b) l'ordinamento processuale civile «è, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, ispirato dal principio «ne procedat judex ex officio»; c) conseguentemente è coerente con un principio generale dell'ordinamento «rimuovere le ipotesi normative che si contrappongano al ricordato principio tendenziale»). La Corte muove pertanto dal presupposto che, nella fattispecie concreta, il potere di «deroga» in capo al Governo, rispetto alle specifiche previsioni della legge delega, si potesse ritenere scaturire dal richiamo, contenuto nella stessa legge delega, all'obbligo per il legislatore delegato di «realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti», con già giustificando la legittimità della eliminazione di un potere officioso che, di norma, nel processo civile non è contemplato.

Sul punto, è lecito domandarsi se il richiamo «al necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti» sia, al contrario, indirizzato, soprattutto nell'ambito di una riforma organica qual era quella di cui si parla, a «limitare» il potere del legislatore delegato, al quale, per l'appunto, il legislatore delegante aveva attribuito un potere eccezionale che si sarebbe dovuto esercitare in forma «conservativa», indirizzato dal principio della coerenza con l'ordinamento preesistente.

L'eliminazione, non contemplata dal legislatore delegante, di un potere officioso disciplinato positivamente da oltre un sessantennio, non sembra invece fosse consentita dal generico richiamo alla coerenza con principi che, peraltro, si collocano certamente al di fuori della normativa concorsuale (Sanzo, cit.). Sul punto, non può sfuggire che il ragionamento operato dalla Corte cost. presta il fianco ad un duplice rilievo, che si evidenzia, da un lato, nel pericolo che il potere esecutivo ecceda la delega proprio invocando principi conservativi della legge delegante e giustifichi tale eccesso richiamando principi «tendenziali» appartenenti ad altre branche dell'ordinamento; e, dall'altro, nella constatazione che il giudice delle leggi conservi, in sede di verifica, un margine di discrezionalità che finisce per essere eccessivo, trascuri il contenuto effettivo della legge-delega e, di volta in volta, reputi la ricorrenza o meno di un eccesso alla stregua di criteri non obiettivi. Ne discende che, persino un principio meramente «tendenziale» — come tale qualificato dalla stessa Corte —, neppure richiamato per relationem dal legislatore delegante, finisce per legittimare ex post quello che obiettivamente si palesa come un eccesso di delega, con la ulteriore conseguenza della maggiore imprevedibilità delle decisioni giurisprudenziali della Consulta, dal momento che l'esecutivo oggi sa che potrebbe tranquillamente legiferare anche al di fuori della delega, purché individui nell'ordinamento un qualche principio «tendenziale» che giustifichi la innovazione non delegata.

L'insolvenza nel corso di un giudizio civile

Premessa questa incidentale riflessione sulla giurisprudenza costituzionale in merito alla legittimità della abrogazione del potere officioso per la declaratoria di fallimento (premessa, come detto, introdotta, al di là delle esigenze sistematiche della trattazione, per ragioni puramente cronologiche collegate alla attualità della decisione del giudice delle leggi), occorre trattare funditus la questione del ruolo del pubblico ministero in relazione allo svolgersi della istruttoria prefallimentare.

Sul punto, è noto il dibattito giurisprudenziale spiegatosi sulla questione interpretativa dell'art. 7, n. 2, l.fall. e sulla possibilità di segnalazione da parte dello stesso giudice fallimentare dello stato di decozione per le valutazioni del P.m. in ordine alla possibilità di presentare istanza di fallimento.

Ebbene, occorre registrare, in subiecta materia, un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità la cui ratio decidendi non era tuttavia in alcun modo condivisibile (cfr. Cass. I n. 4632/2009. Nel caso affrontato dalla Corte di legittimità il ricorrente, nel corso dell'istruttoria prefallimentare,  aveva desistito dalla domanda di fallimento, ma il tribunale aveva trasmesso gli atti — in pratica, la notitia decoctions — al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 7, n. 2, l.fall., affinché valutasse se esercitare l'iniziativa fallimentare di cui all'art. 6, primo comma. Dichiarato, poi, il fallimento su istanza del pubblico ministero, la corte d'appello, in sede di impugnazione, aveva annullato la sentenza dichiarativa di fallimento, per violazione degli artt. 6 e 7 l.fall., sul duplice presupposto che la riforma aveva soppresso il potere del tribunale di aprire d'ufficio la procedura fallimentare, limitando la relativa iniziativa al debitore, al creditore ed al pubblico ministero (art. 6); e che essa avesse, al contempo, escluso che l'iniziativa del pubblico ministero potesse essere sollecitata (una volta sopravvenuta la desistenza del ricorrente) dallo stesso tribunale fallimentare, su segnalazione resa ai sensi dell'art. 7 e ciò in virtù dei principi di terzietà ed imparzialità del giudice, sanciti dall'art. 111 Cost.). Invero, con la pronunzia qui in esame la Suprema Corte aveva ritenuto in apicibus, che se si consentisse al tribunale fallimentare di inoltrare la segnalazione al pubblico ministero, si svuoterebbero di significato le ragioni della soppressione dell'iniziativa officiosa, tradendo al contempo lo spirito della previsione costituzionale di terzietà ed imparzialità dell'organo decidente.

Quest'ultima, stante il principio nemo iudex sine actore, che governa la giurisdizione, intenderebbe evitare che il giudice che decide possa anche solo apparire come l'attore del procedimento sul quale giudica, pur quando abbia reso la decisione nei soli termini di improcedibilità o di estinzione del procedimento. Peraltro, tale conclusione sarebbe stata, a parere della Corte di Cassazione, corroborata anche dalle nuove previsioni («tutte allineate sotto il medesimo perentorio precetto della soppressione dell'iniziativa di ufficio») che non consentono più l'estensione d'ufficio del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili che tali risultino dopo la sentenza dichiarativa di fallimento (cfr. art. 147 l.fall.); e che — in materia di concordato preventivo — esigono che il fallimento possa essere dichiarato solo su istanza dei creditori o del pubblico ministero, una volta intervenuti il decreto di inammissibilità del concordato medesimo ex art. 162 l.fall., il decreto di revoca ex art. 173 (in caso di occultamento o dissimulazione di parte dell'attivo, di dolosa omissione della denunzia di uno o più crediti o ancora di esposizione di passività insussistenti, nonché di commissione di altri atti di frode), il decreto di rigetto dell'omologa ex art. 180 o il decreto di risoluzione ex art. 186 l.fall. (per un più approfondito esame della questione, si rimanda a De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziative fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, in Fall. 2009, 521). Inoltre, la Suprema Corte, nel corso della esposizione delle sue rationes decidendi, si era interrogata altresì sull'interpretazione da assegnare alla locuzione «procedimento civile » come luogo nel quale un giudice — ai sensi del n. 2 dell'art. 7 l.fall. — può rilevare e segnalare l'insolvenza al pubblico ministero affinché eserciti l'iniziativa fallimentare, e, segnatamente, se essa comprenda anche il giudizio di istruttoria prefallimentare. La risposta negativa al quesito da ultimo formulato era rinvenuta nella soppressione ad opera della riforma del previgente art. 8 l.fall. il quale stabiliva che l'insolvenza accertata «nel corso di un giudizio civile... di un imprenditore che sia parte del giudizio» fosse dal giudice portata a conoscenza del tribunale competente per la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che la duplice circostanza che l'espressione «imprenditore parte del procedimento» non sia rifluita nell'attuale disposto del n. 2 dell'art. 7, e che, ai sensi di quest'ultima norma, l'insolvenza dovesse risultare e non essere oggetto di specifico accertamento, «porta ulteriormente a concludere che l'oggetto del procedimento civile, nel quale trova occasione per essere esercitato il potere-dovere di segnalazione, non possa essere quello per la dichiarazione di fallimento» (così si esprimeva la richiamata sentenza della Corte cost. n. 4632/2009, cit.: in buona sostanza, se nell'originario sistema della legge fallimentare, in cui era consentita l'iniziativa d'ufficio, il riferimento all'imprenditore parte del giudizio non lasciava dubbi su ciò, che il procedimento non fosse quello prefallimentare, non essendo concepibile la segnalazione del tribunale a sé medesimo, «la soppressione di tale riferimento appare giustificata dalla necessità di evitare che, con il venir meno dell'iniziativa di ufficio, possa essere ritenuta comunque legittima la segnalazione, proprio alla stregua del fatto che il procedimento prefallimentare ha come parte l'imprenditore soggetto al fallimento». Ciò non avrebbe impedito che il tribunale fallimentare segnalasse al pubblico ministero l'insolvenza che incidentalmente risulti nei riguardi di soggetti diversi da quelli destinatari dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, non trovando in tal caso la segnalazione ostacolo nei principi che governano la giurisdizione ed in quello di terzietà del giudice). Né poteva obiettarsi — conclude la Cassazione — che l'astensione ovvero la ricusazione del giudice costituissero il rimedio a tale evenienza, giacché «al di là della difficoltà di inserire la fattispecie di cui si tratta nella ipotesi dell'astensione obbligatoria, che sola giustifica la ricusazione, non sembrano ipotizzabili — sul piano sistematico, a causa degli interventi compiuti con la novella prima e con il correttivo dopo e con il disposto dell'art. 25, pen. comma, l.fall., soluzioni secondo cui «il giudice delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato né può far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti «, che a quegli interventi si correla — interpretazioni che legittimino pratiche operative che non siano rigorosamente consonanti con il rispetto del principio di terzietà, oltre che di imparzialità del giudicante, e che trovino soltanto negli artt. 51 e 52 ragione per essere contrastate.

La decisione della Suprema Corte — poi superata dalla giurisprudenza di legittimità successiva (su cui si dirà infra) — non era tuttavia condivisibile. Per una prima reazione alla sentenza della Corte, si segnala Trib. Mantova 12 marzo 2009. Nella motivazione del provvedimento si legge: «osservato che nessun argomento, in ordine all'insussistenza di un potere del tribunale fallimentare di prospettazione al pubblico ministero di situazioni di potenziale insolvenza, può trarsi dalla disciplina del concordato preventivo, giacché la mancata previsione della segnalazione da parte del tribunale nelle ipotesi di cui agli artt. 162, 173, 180 e 186 l.fall. trova la sua giustificazione nella partecipazione del pubblico ministero al procedimento (art. 161 ult. comma, l.fall.), finalizzata proprio all'assunzione da parte di questi di autonome e opportune iniziative quando il concordato non è ammesso, è revocato, non è omologato, è risolto o annullato; rilevato che anche l'omessa previsione di una segnalazione del tribunale nell'ipotesi di cui all'art. 147 l.fall. non assume particolare significato ai fini dell'interpretazione dell'art. 7 n. 2) l.fall., posto che, con riferimento ai soci illimitatamente responsabili, è prevista la proposizione dell'istanza, oltre che da parte dei creditori o dei soci falliti, anche da parte del curatore, che è organo fallimentare; osservato, quindi, che non si rinvengono elementi testuali o sistematici che consentano di negare che la procedura fallimentare sia procedimento civile da ricomprendere nella previsione dell'art. 7, n. 2, l.fall.; valutato, peraltro, che la legittimazione alla segnalazione da parte del giudice civile non può dipendere dall'oggetto e/o dall'attività svolta nello specifico giudizio e ritenuta quindi irrilevante pure la distinzione operata dalla suprema corte tra l'ipotesi in cui l'insolvenza riguardi il debitore — in cui la legittimazione del tribunale fallimentare alla segnalazione sarebbe negata — rispetto a quella in cui riguardi un soggetto diverso da quello destinatario dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento — in cui la segnalazione sarebbe consentita —, posto anche che in entrambi i casi l'eventuale dichiarazione di fallimento sarebbe poi pronunciata dal medesimo tribunale, e quindi i paventati dubbi di terzietà si riproporrebbero nell'identica maniera (omissis)».

Deve invero ritenersi, in subiecta materia, che il tribunale fallimentare sia legittimato alla segnalazione di cui all'art. 7, n. 2, l.fall. in esito all'estinzione per desistenza di una precedente istruttoria prefallimentare, non potendo accomunarsi l'iniziativa d'ufficio alla mera segnalazione al pubblico ministero di una situazione da cui potrebbe risultare la sussistenza dell'insolvenza di un imprenditore, atteso che, in questo secondo caso, è il pubblico ministero che vaglia autonomamente la notizia pervenuta, valutando se proporre o meno l'istanza di fallimento. La sentenza della Corte, pur non condivisibile, offre tuttavia lo spunto per un approfondimento delle questioni sottese al dibattito giurisprudenziale sopra tratteggiato e per un excursus della annosa vicenda relativa alla attivazione officiosa della procedura fallimentare.

Sul punto, va segnalato che nella pronunzia della Suprema Corte (il riferimento è sempre alla sentenza n. 4632/2009, cit.; il primo precedente della giurisprudenza di legittimità, in realtà, in subiecta materia) è ricorrente — rappresentandone, in certo senso, una premessa ineludibile — l'affermazione secondo la quale il procedimento per dichiarazione di fallimento si inscrive nell'area dei giudizi ad iniziativa di parte, ai quali è strettamente funzionale la garanzia costituzionale di terzietà e di imparzialità del giudice.

Sebbene non si possa che salutare con entusiasmo questa affermazione, che rappresenta il chiaro indice di un'incipiente evoluzione della giurisprudenza nomofilattica nel senso dell'estensione al giudizio di istruttoria prefallimentare della natura e delle regole del giudizio cognitorio (De Santis, Istruttoria prefallimenatre e diritto di difesa, in Fall. 2008, 316 ss.; Id, Istruttoria prefallimmentare e giudicato di rigetto, in Fall. 2008, 956 ss.; Id, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, in Fall. 2009, 80), tuttavia non è affatto condivisibile il principio che esclude, sotto pena di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, il potere-dovere del tribunale competente di segnalare l'insolvenza al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 7, n. 2, l.fall., nelle ipotesi in cui l'istruttoria prefallimenatre non si chiuda con una decisione di merito, cioè con sentenza di accoglimento o decreto di rigetto della domanda di fallimento. Sul punto, giova ricordare che — a seguito delle riforme del 2006-2007 — la legittimazione ad introdurre domanda di fallimento appartiene, ai sensi dell'art. 6 l.fall., ai creditori, al pubblico ministero ed allo stesso debitore. Invero, l'iniziativa del pubblico ministero è circoscritta dall'art. 7 ai casi in cui l'insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall'irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore. Ancora, il pubblico ministero può apprendere la notitia decoctionis dalla segnalazione proveniente dal giudice che abbia «rilevato» l'insolvenza nel corso di un «procedimento civile» (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem). Trattasi di una legittimazione «plurale», che tiene conto della potenziale varietà degli interessi coinvolti: interessi, innanzi tutto, privati, in quanto derivanti dall'impossibilità per il ceto creditorio di ottenere soddisfazione delle pretese in maniera diversa (e meno invasiva) dall'esecuzione concorsuale, nonché dall'esigenza dello stesso debitore di affidare agli organi concorsuali la ragionata soluzione di quelle pretese; ma interessi anche pubblici (soprattutto se connessi alla repressione di reati), affidati alla cura ed alla gestione della Procura della Repubblica. Sul punto, si legga anche Satta (Diritto fallimentare, cit., 53), là dove osservava che «la molteplicità dei legittimati è un altro segno dell'incomunicabilità, salvo che nel fine ultimo, la soddisfazione dei creditori, tra l'esecuzione individuale e il procedimento concorsuale», poiché «l'insolvenza dell'impresa, si può dire sinteticamente, è un fatto che interessa tutti. Interessa l'ordinamento, perché l'impresa fa parte dell'organizzazione economica generale, e quindi il suo dissesto incide su questa organizzazione, portando alla necessaria eliminazione dell'impresa. Di qui l'iniziativa del p.m. o la dichiarazione ex officio. Interessa i creditori, che nell'insolvenza possono veder pregiudicate le loro ragioni, sia per la disintegrazione del patrimonio del debitore, che costituisce la loro garanzia, sia per la violazione della par condicio. Interessa il debitore stesso, che non vuole aggravare la sua situazione, né veder disperdere i propri beni attraverso disordinate azioni singolari»).

Come si conviene ai processi di cognizione, trattasi oggi di una legittimazione esclusivamente «di parte», privata o pubblica che essa sia. Ebbene, la soppressione dell'iniziativa fallimentare d'ufficio rappresenta un tratto caratterizzante ed apprezzabile tra le pur numerose innovazioni processuali introdotte nella legge fallimentare dalle riforme a cavallo tra il 2006 e il 2007. Tuttavia, deve concordarsi con quella autorevole dottrina la quale ritiene che l'apprezzamento per la scelta del legislatore del 2006 di sopprimere l'iniziativa officiosa non deve presupporre alcuna «avversione ideologica verso il ruolo del giudice quale soggetto abilitato a contribuire alla disclosure giudiziaria dell'insolvenza», non potendo neanche ignorare «le buone prassi da tempo e a molte latitudini capaci di canalizzare in modo ordinato verso il tribunale fallimentare tutte le notizie sensibili ai fini dell'apertura del concorso», ed azzerando in tal guisa «l'esperienza, condotta in molti uffici giudiziari con successo, di un'organizzazione selettiva della notitia decoctionis» (Ferro, 39 s.). Peraltro, non può neanche dirsi che la soppressione dell'iniziativa d'ufficio sia la conseguenza del fenomeno della cd. «privatizzazione» del fallimento, nella misura in cui il ruolo preponderante dell'autorità giudiziaria avrebbe ceduto il posto al perseguimento di modelli di efficienza economica e di conservazione delle risorse e dei valori d'impresa. Anzi è proprio la concezione privatistica della gestione dell'insolvenza a comportare «che lo stesso procedimento propedeutico alla dichiarazione di fallimento debba essere organizzato secondo modelli quanto più possibile prossimi alle regole del diritto comune e quindi ai processi del codice di rito»: così, Fabiani, 106; si legga anche Stanghellini, 162).

L'iniziativa del Pubblico Ministero

In realtà, è proprio sul terreno processuale che va rinvenuta la ratio dell'eliminazione di ogni iniziativa officiosa ed, al contempo, la permanenza dell'iniziativa del pubblico ministero, atteso che, oggi l'istruttoria prefallimentare si presenta come un processo di parti, regolato dal contraddittorio, dal diritto alla prova e dalla paritaria difesa e che, pertanto, al pari di tutti i processi governati dall'impulso di parte, mal tollera l'iniziativa officiosa in ordine alla proposizione della domanda, soprattutto quando a giudicare è il medesimo giudice che ha esercitato l'iniziativa (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem. Sul punto, tornano d'attualità le parole del Bonelli (cfr. Bonelli, Del fallimento, cit., 224 s.) allorché sottolineava la singolarità della disposizione (olim contenuta nell'art. 688 del codice di commercio) sull'iniziativa officiosa «in quanto ammette il tribunale non solo a provvedere senza domanda di parte, ma anche senza aver provocato dal naturale e normale organo tutelare del diritto sociale offeso, che è il Ministero Pubblico», sicché «la dichiarazione di fallimento diviene veramente una funzione sociale, un atto d'impero più che di giurisdizione». Nei decenni più recenti alcune tesi accreditate erano venute a ridurre l'àmbito di applicazione della iniziativa officiosa, salvandone tuttavia la legittimità in termini processuali. Sul punto, si legga Ferrara —cfr. Ferrara-Borgioli, Il fallimento, cit., 241 —, secondo il quale — oltre ai casi in cui l'insolvenza risultasse da una procedura di amministrazione controllata o di concordato preventivo — la dichiarazione d'ufficio era consentita solo in ipotesi determinate, e, precisamente, nei casi declinati dall'art. 8 l.fall. (che la riforma ha abrogato). La norma prevedeva che, se nel corso di un giudizio civile risultasse l'insolvenza di un imprenditore parte di quel giudizio, il giudice di quel processo, se incompetente, ne riferisse al tribunale competente per la dichiarazione di fallimento. Precisava Ferrara che «occorre che il giudizio si svolga nei confronti di un imprenditore, il quale quindi sia parte di esso, ed occorre che nel corso del giudizio, quindi in contraddittorio, risulti la sua insolvenza (è chiaro che non basta l'affermazione dell'altra parte)».

Sotto il precedente regime normativo, si erano tuttavia affermate «prassi virtuose» perorate dalla giurisprudenza pratica e teorica, le quali avevano affermato il principio secondo cui il tribunale non poteva dichiarare d'ufficio il fallimento in base alla conoscenza di uno stato di insolvenza in qualsiasi modo ricevuta. Tuttavia, le ipotesi dell'iniziativa d'ufficio non erano limitate ai casi in cui i presupposti per la dichiarazione di fallimento fossero già stati accertati su iniziativa di una parte interessata — come si verifica nella conversione di altra procedura concorsuale alternativa al fallimento, ovvero di annullamento della stessa, ovvero ancora nei casi di estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili —, giacché l'art. 8 l.fall. conferiva all'iniziativa d'ufficio un'apertura estesa a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente, nell'esercizio della sua ordinaria attività, acquisisse la conoscenza dell'insolvenza di un imprenditore, ovvero i relativi presupposti gli risultassero dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in un altro procedimento giurisdizionale [cfr. sempre De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem. Più in generale, si era ritenuto che — oltre alle ipotesi previste dalla legge — in particolare quella dell'art. 8 oggi abrogato — tutte le volte in cui un giudice poteva procedere d'ufficio, «chiunque ha il potere di stimolarne l'attività rappresentando i fatti, in presenza dei quali dovrebbero essere pronunciati i provvedimenti di cui si parla», sicché «sino a quando nessuna denuncia è proposta, il potere di dichiarare il fallimento deve essere concepito in capo al giudice competente come un potere mero. In tal modo, il tribunale che non dichiari il fallimento, del quale conosce i presupposti, può forse essere considerato poco diligente sotto il profilo del costume; ma non per questo gli si può imputare la violazione di un dovere giuridico inerente alle sue funzioni» — così, Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 166 s.. Sul punto, v. anche Cavalli, Cavalli, La dichiarazione di fallimento, in AA.VV., Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, XI, 2, Padova, 2009, 162, nota 67, il quale rileva che l'abrogato art. 8 l.fall. (unitamente all'art. 13, anch'esso abrogato, che imponeva ai pubblici ufficiali abilitati a levare protesti cambiari di trasmettere ogni quindici giorni al presidente del tribunale un elenco dei protesti per mancato pagamento levati nei quindici giorni precedenti) «strutturava una sorta di (sia pur rudimentale ed imperfetto) monitoraggio delle insolvenze predisponendo, in via istituzionale, alcuni veicoli d'informazione qualificata chiaramente indirizzati a provocare l'esercizio dei poteri ufficiosi del tribunale fallimentare»].

Veniva comunque escluso, in dottrina (Satta, 55) che la dichiarazione d'ufficio potesse intendersi come l'attribuzione di un autonomo potere inquisitorio del tribunale.

In questo contesto normativo ed interpretativo, si pervenne al noto pronunciamento della Corte Costituzionale del 2003 (Corte cost. n. 240/2003, in Fall., 2003, 1049, con nota di Lo Cascio), che dichiarò non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 l.fall., entrambe sollevate in riferimento all'art. 111, comma secondo, Cost., rientrando nella discrezionalità del legislatore riconoscere al giudice il potere officioso ovvero disporre che il giudice riferisca in ogni caso dell'insolvenza, affinché si attivi, al pubblico ministero. La Consulta muoveva dall'affermazione che la fusione, in un unico soggetto, delle funzioni del domandare e del giudicare sulla domanda è certamente contraria al principio costituzionale di imparzialità-terzietà, ma «ciò non implica la costituzionalizzazione del processual-civilistico principio della domanda e il bando di qualsiasi iniziativa officiosa». Il «principio della domanda» dovrebbe identificarsi «con un qualsiasi atto di impulso, proveniente da soggetto diverso dal giudice, che sottoponga al di lui giudizio una situazione fattuale potenzialmente riconducibile (anche se dall'istante non ricondotta) ai presupposti del fallimento». Ne conseguiva, secondo il ragionamento della Corte, che anche l'iniziativa officiosa «non lede il fondamentale principio di imparzialità-terzietà del giudice, quando il procedimento è strutturato in modo che, ad onta dell'officiosità dell'iniziativa, il giudice conservi il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti«. Tuttavia, nella prospettiva della Consulta, il paradigma normativo dell'iniziativa officiosa avrebbe dovuto strutturarsi secondo limiti ben circoscritti, tali da non ledere i principi di terzietà ed imparzialità. Ed invero, tali principi sarebbero risultati compromessi ove al tribunale fallimentare fosse stato consentito»di promuovere il procedimento prefallimenatre sulla base di una notitia decoctionis comunque acquisita, ma non può dirsi compromesso ove la conoscenza di una situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza derivi (non già da quella che, attesa l'informalità della fonte, ben può definirsi scienza privata del giudice, bensì) da una fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel corso di un procedimento, del quale il giudice sia, come tale, investito «. A fortiori si sottraeva alla censura d'incostituzionalità l'ipotesi in cui un giudice civile, diverso dal tribunale competente per la dichiarazione di fallimento, riferisse a quest'ultimo dell'insolvenza emersa nel corso di un giudizio civile davanti a lui pendente e del quale fosse parte l'imprenditore insolvente. Qui «si è in presenza di una notitia decoctionis non soltanto formalizzata, ma acquisita ab externo, sicché è escluso in radice che il tribunale, essendo chiamato ad accertare con pienezza di poteri l'esistenza dei presupposti (soggettivo e oggettivo) che altro giudice — investito come tale di un procedimento giurisdizionale — si è limitato a sommariamente delibare, possa assumere, anche solo apparentemente, la veste di attore». Tuttavia, il destino dell'iniziativa officiosa era, dunque, segnato, e le riforme del 2006-2007 l'hanno opportunamente abrogata.

In realtà, proprio la soppressione dell'iniziativa officiosa ha enfatizzato il ruolo propulsivo del pubblico ministero. Sul punto, giova ricordare che, a differenza di quanto avviene per il creditore e per il debitore, l'art. 6 l.fall. non dispone che la domanda di fallimento presentata dal pubblico ministero assuma la forma del ricorso, essendo a ciò sufficiente una mera «richiesta», che tuttavia la procura può formalizzare esclusivamente nei casi previsti dall'art. 7 l.fall., e cioè, da un lato, allorquando, come più volte ricordato, l'insolvenza risulti nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall'irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore e, dall'altro, quando l'insolvenza risulti dalla segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. In precedenza, l'art. 6 prevedeva che il fallimento potesse essere dichiarato su «istanza» del pubblico ministero, ed il successivo art. 7 sembrava imporre alla Procura della Repubblica di presentare l'istanza nei casi in cui l'insolvenza risultasse dalla fuga o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore.

Ed invero, malgrado il contrario avviso espresso dalla dottrina (cfr. Satta, 54; v. anche Ferrara-Borgioli, 240), la giurisprudenza aveva affermato che il potere del pubblico ministero di assumere l'iniziativa fallimentare non fosse limitato alle ipotesi di cui all'art. 7, ma rivestisse carattere generale, sul presupposto che tale norma non avesse «lo scopo di limitare il potere di iniziativa del pubblico ministero di cui all'art. 6, ma quello diverso di rendere doverosa la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento, quando lo stato di insolvenza del debitore risulti dai casi previsti dall'art. 7» (v. Cass. n. 15407/2001, in Fall., 2002, 1295, con nota di Federico). La ratio di questo orientamento riposava sull'assunto che la facoltà di chiedere il fallimento non costituisse per il pubblico ministero l'esercizio di un potere di azione, risolvendosi in una denuncia al tribunale perché questo provvedesse d'ufficio (cfr. Cass. n. 9885/1995).

Ebbene, con la soppressione dell'iniziativa officiosa le mutate caratteristiche dell'istruttoria prefallimentare sospingono l'iniziativa del pubblico ministero verso la disciplina processualcivilistica, e, segnatamente, verso l'applicazione della norma di carattere generale dettata dall'art. 69 c.p.c., a mente del quale «il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge». Invero, il fondamento del potere di azione riconosciuto dalla legge al pubblico ministero trova conforto in ciò, che taluni interessi privati, talune posizioni soggettive individuali, presentano una qualche rilevanza per la collettività, e ciò nel senso che risponde all'interesse della collettività che esse ricevano tutela nel processo ed il pubblico ministero è lo strumento del quale si serve l'ordinamento per salvaguardare la regola del processo imperniato sull'impulso di parte, anche quando debbono essere tutelati interessi di natura pubblica (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem; cfr. anche Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 2007, 367; Grasso, Gli interessi della collettività e l'azione collettiva, in Riv. dir. proc. 1983, 231).

Ne discende che la conseguenza più rilevante della applicazione di tali principi — desumibile dal testo dell'art. 69 c.p.c. — risiede nell'ulteriore corollario secondo cui l'attività del pubblico ministero nel processo civile è fondata sul principio di tassatività, dovendo egli esercitare l'azione civile ed intervenire nel processo nei casi stabiliti dalla legge. Sul punto, va ribadito ciò che è un principio ormai acquisito nell'ordinamento positivo, e cioè che non può esistere un potere generale della procura di agire nel processo civile, né le ipotesi in cui la legge riconosce al pubblico ministero il potere di agire sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva (v. Vellani, voce Pubblico ministero nel diritto processuale civile, in Dig., Sez. civ., XVI, Torino, 1997, 142; Morozzo della Rocca, voce Pubblico ministero (Diritto processuale civile), in Enc. dir., XXXVII, 1988, 108; Vigoriti, Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc. 1974, 296.) Anche nelle ipotesi in cui la legge attribuisce il potere di proporre azione a «chiunque vi abbia interesse» (il che è ricorrente nelle controversie in materia di stato e capacità delle persone), in realtà siffatto potere non è riferibile al pubblico ministero, ma ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all'esistenza o alla non esistenza dello status, del rapporto, o dell'atto dedotto in giudizio (cfr. in giurisprudenza Cass. n. 2515/1994; Cass. n. 4201/1989).

Peraltro, va ulteriormente chiarito che il pubblico ministero non è tenuto obbligatoriamente ad esercitare l'azione civile tutte le volte in cui la legge gliene affidi il potere, ma soltanto che —allorquando egli abbia notizia dell'accadimento di fatto, in presenza del quale la legge prevede l'esercizio dell'azione —deve considerarsi obbligato a compiere la necessaria attività di approfondimento e, solo ove si convinca che sussistano le condizioni per richiedere un provvedimento di accoglimento, proporre la domanda [De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem. V. anche Morozzo della Rocca, voce Pubblico ministero (Diritto processuale civile), cit.].

Deve essere pertanto chiarito che la posizione del pubblico ministero nei processi civili non è parificabile a quella delle parti private, poiché egli agisce per dovere d'ufficio e nell'interesse pubblico, mentre le altre parti perseguono interessi individuali e privati. Ne consegue ancora che egli è parte solo in senso formale, non potendo disporre degli interessi di carattere generale di cui la legge gli affida la tutela. Pertanto, il p.m. non può rinunziare all'azione una volta esercitata, e, una volta che sia stato esercitato l'atto di iniziativa, spetta esclusivamente al giudice decidere sull'azione promossa, senza che eventuali ripensamenti del pubblico ministero possano vincolarlo nel momento della decisione, e senza neppure che siano vincolanti le conclusioni da lui formulate (cfr. Cass. n. 698/1999). Soppressa pertanto l'iniziativa officiosa, la procura è integralmente gravata, in sede di iniziativa fallimentare, dell'onere di stabilire la rilevanza della notitia decoctionis rispetto alla tutela del pubblico interesse e di formulare al tribunale la richiesta di fallimento, dovendosi tuttavia precisare che non qualsiasi notizia può, tuttavia, indurre il pubblico ministero ad esercitare l'azione fallimentare, bensì soltanto alcune notizie «qualificate», che cioè provengono dal procedimento o dal processo. Ed invero, l'art. 7 declina due distinte categorie di ipotesi, all'interno delle quali può emergere la notizia qualificata d'insolvenza. La prima categoria comprende le ipotesi in cui l'insolvenza risulta nel corso di un «procedimento penale». Sul punto, va chiarito che la formula normativa è sufficientemente ampia per riferirsi sia al processo (caso per il quale è il giudice delle indagini preliminari o del dibattimento a riferire alla procura l'evidenza dell'insolvenza), sia al procedimento (caso per il quale è la stessa procura che, in sede di indagini preliminari, riscontra la possibilità che vi sia insolvenza) (così, sempre De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem). La giurisprudenza ha assunto una diversa posizione. Essa ha affermato che il P.M. può rinunciare all'istanza presentata ai sensi dell'art. 7 l. fall. poiché la sua richiesta è da equipararsi al ricorso dei creditori e i suoi poteri sono gli stessi delle parti private, fermo restando che la rinuncia non determina effetti definitivi, potendo l'istanza di fallimento essere successivamente riproposta dallo stesso P.M. (Cass. I, ord. n. 10511/2022).

In realtà, anche le ipotesi, specificatamente previste dal legislatore relative alla fuga, all'irreperibilità o alla latitanza dell'imprenditore, alla chiusura dei locali dell'impresa, al trafugamento, alla sostituzione ovvero alla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore sono esemplificative di eventi e circostanze che possono emergere nel corso del processo o del procedimento penali, ma non aliunde, avendo il legislatore considerato tali eventi potenzialmente sintomatici di uno stato di insolvenza. La seconda categoria comprende invece la segnalazione d'insolvenza proveniente dal giudice, che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. Siffatta previsione sostituisce quella già esistente nell'abrogato art. 8 l.fall., la quale prevedeva che il giudice civile potesse riferire la notizia d'insolvenza al tribunale competente per la dichiarazione del fallimento, se essa risultasse nel corso di un giudizio civile di cui l'imprenditore era parte.

Il Pubblico Ministero è legittimato a richiedere il fallimento, ai sensi dell'art. 7, n. 1, l.fall., non solo qualora apprenda la "notitia decoctionis" da un procedimento penale pendente, ma anche ogni qualvolta la decozione emerga dalle condotte specificamente indicate nella norma sopra indicata, le quali non sono necessariamente esemplificative di fatti costituenti reato e non presuppongono come indefettibile la pendenza di un procedimento penale (Cass. I, ordinanza n. 646/2019).

Sul punto, non si può dubitare che per «procedimento civile» debba intendersi, innanzi tutto, il processo di cognizione ordinaria — anche se celebrato con rito speciale — ma, anche, i procedimenti sommari, cautelari, camerali ed il processo esecutivo. Non si può neanche escludere che la segnalazione venga inoltrata anche dalla Corte di Cassazione (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem. Peraltro, deve ritenersi che nell'alveo del procedimento civile, ove può emergere la notitia decoctionis, si comprendano anche quei processi di cognizione lato sensu riconducibili al processo civile, quali i processi dinanzi al giudice amministrativo, tributario e contabile).

Tuttavia, deve osservarsi come l'ipotesi più ricorrente di processo civile all'interno del quale possa risultare lo stato d'insolvenza rimanga proprio l'istruttoria prefallimentare.

In realtà, la notitia decoctionis è un evento che mantiene il suo potenziale interesse ai fini dell'attivazione dell'iniziativa del pubblico ministero anche nei casi di desistenza alla domanda di fallimento da parte del debitore, come spesso avviene allorquando il creditore venga tacitato dall'imprenditore insolvente con un pagamento avvenuto in corso di istruttoria prefallimentare. Ebbene, in questi casi il tribunale fallimentare — benché privo dell'iniziativa officiosa — potrebbe ritenere rilevante segnalare la notitia decoctionis al pubblico ministero che non sia costituito nel processo, trasmettendogli copia degli atti. Ciò potrebbe avvenire sia in corso di istruttoria prefallimentare (quando la segnalazione riguarda un soggetto che non ne sia coinvolto, come può anche accadere nella pratica applicativa), sia all'esito della stessa, allorché il tribunale debba dichiararne l'improcedibilità per rinunzia o l'estinzione per inerzia (D'Aquino, 50).

Peraltro, la notitia decoctionis potrebbe altresì emergere all'esito del procedimento di concordato preventivo. Ed invero, a seguito del d.lgs. n. 169/2007 (correttivo della precedente riforma introdotta con il d.lgs. n. 5/2006) il legislatore ha definitivamente chiarito che il tribunale non può dichiarare il fallimento d'ufficio, pur quando dichiari l'inammissibilità della proposta concordataria per difetto dei presupposti ex art. 162 l.fall. o perché non sono state raggiunte le maggioranze previste dalla legge come previsto dall'art. 179, ovvero ancora quando revoca l'ammissione al concordato ai sensi dell'art. 173 l.fall., rigetta l'omologazione o annulla o risolve il concordato ex art. 186, medesima legge. Non è infatti dubitabile che la notitia decoctionis, colta dal tribunale in sede di esame degli atti del procedimento di concordato, sia trasmissibile al P.M., e ciò con particolare riferimento alla ipotesi in cui quest'ultimo non abbia partecipato al procedimento (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem).

 In proposito Cass. I, n. 976/2021ha preso posizione. Essa ha affermato che qualora la domanda di concordatp preventivo sia dichiarata inammissibile, è legittima la segnalazione dell'insolvenza del proponente operata dal tribunale nei confronti del P.M., il quale, acquisita la notitia decotionis, ben può sollecitare la dichiarazione di fallimento poiché la legittimazione a richiederlo ai sensi dell'art. 162 l. fall. non esclude quella prevista dall'art. 7, n. 2, stessa legge essendo il procedimento di concordato preventivo un “procedimento civile” ai sensi di quest'ultima norma (Cass. I, n. 976/2021).

Deve pertanto ritenersi, con autorevole dottrina (così Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in AA. VV., La riforma della legge fallimentare, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2006, 42). La concentrazione della legittimazione a proporre l'azione dichiarativa di fallimento in nome dell'interesse pubblico in capo al solo P.M. è il logico e naturale precipitato dei principi declinati dalla Corte Costituzionale nel 2003 (di cui sopra si è detto) nel senso che la segnalazione di situazioni di fatto, in ipotesi riconducibili allo stato di insolvenza, debba derivare non già da quella che, attesa l'informalità della fonte, può definirsi scienza privata del giudice, bensì da una fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel corso di un procedimento giustiziale. Solo il giudice è, pertanto, investito — nel rispetto delle garanzie del processo o del procedimento — del potere-dovere di segnalare il potenziale stato di insolvenza ad un altro magistrato, affinché valuti se esercitare o meno l'iniziativa fallimentare. Ai soggetti non legittimati ai sensi dell'art. 6 l.fall., i quali ritengano di dover segnalare all'autorità giudiziaria la sussistenza di uno stato d'insolvenza, legato o meno a condotte rilevanti sul piano penale, è concesso di attivare i procedimenti, civili o penali, eventualmente previsti dalla legge, anche al fine di fare emergere la notitia decoctionis, che, ai sensi dell'art. 7 l.fall., il pubblico ministero sia oggi il «collettore » delle segnalazioni qualificate d'insolvenza provenienti dai giudici dei processi e dei procedimenti, ovvero dai magistrati che hanno in corso indagini penali, essendo l'unico legittimato a fare domanda di fallimento in nome dell'interesse pubblico.

In ordine alla natura giuridica della segnalazione di insolvenza, va detto che la trasmissione al pubblico ministero della notitia decoctionis emersa nel corso del procedimento non è un atto avente contenuto decisorio, neppure come precipitato di una cognizione di tipo sommario, non incidendo — né direttamente, né indirettamente — sui diritti di alcuno e non essendo suscettibile di impugnazione (De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem). Deve pertanto ritenersi che la valutazione decisoria del tribunale non sia tecnicamente «pregiudicata» dall'avvenuta segnalazione, non soltanto perché il tribunale, all'esito dell'istruttoria prefallimentare, e ciò dopo aver compiutamente acquisito quegli elementi di decisione che la desistenza dell'originario attore aveva inibito, ben potrebbe rigettare con decreto la domanda di fallimento, ma anche perché, diversamente opinando, la terzietà dell'organo giudicante sarebbe compromessa pur quando la segnalazione d'insolvenza abbia riguardato — come può anche accadere — un soggetto terzo, diverso dal debitore già soggetto ad istruttoria prefallimentare, per il quale il pubblico ministero esercita la domanda di fallimento dinanzi al medesimo tribunale [De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, cit., ibidem. L'Autore evidenzia del tutto correttamente che la segnalazione d'insolvenza va altresì tenuta distinta, quanto al rischio di parzialità, dall'ipotesi — oggi declinata dal penultimo comma dell'art. 25 l.fall. — nella quale il giudice delegato sia chiamato a trattare i giudizi che egli stesso abbia autorizzato, ovvero possa far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti. In questi casi, invero, la terzietà del magistrato sarebbe pregiudicata dal fatto che egli ha già compiuto (autorizzando l'azione) una delibazione della fondatezza della domanda (al cui accoglimento sarebbe inevitabilmente incline), ovvero, rispettivamente, dal fatto che ha egli stesso posto in essere l'atto oppugnato]. Del resto, l'autonomia della valutazione compiuta dal pubblico ministero in ordine alla serietà della notitia decoctionis, nonché all'«utilità» di attivare la leva fallimentare sarebbe, di per sé, già sufficiente a giustificare la legittimità della segnalazione proveniente dal tribunale fallimentare dinanzi al quale il giudizio di istruttoria prefallimenatre si sia estinto (per rinunzia o per altra ragione) e dinanzi al quale esso potrebbe essere — previa valutazione della procura — riproposto.

Va aggiunto che tecnicamente esiste una cesura tra l'atto di trasmissione della segnalazione d'insolvenza, ancorché qualificata dalla natura del soggetto da cui essa proviene, e la domanda di fallimento proposta dalla procura. È su quest'ultima e non già sulla segnalazione, che il tribunale adìto ex art. 15 l.fall. dovrà giudicare. Ne discende che l'oggetto del nuovo giudizio è perciò diverso da quello estinto, all'esito del quale il tribunale ha ritenuto di inoltrare la segnalazione, e ciò dovrebbe porlo al riparo, anche sotto questo ulteriore peculiare profilo, dal sospetto che ne sia minata la terzietà (Cass. n. 9483/2002). Del resto, diversamente opinando, il sospetto potrebbe sorgere anche tutte le volte in cui il tribunale abbia già rigettato la domanda di fallimento, e quest'ultima venga ad esso riproposta ratione competentiae da un altro soggetto legittimato, il quale — non avendo partecipato al primo giudizio di istruttoria prefallimentare — non subisce gli effetti preclusivi del giudicato di rigetto (De Santis, Istruttoria prefallimentare e giudicato di rigetto, cit., 960).

Sulla questione dibattuta in quest'ultime pagine è oggi intervenuto un recentissimo arresto del giudice di legittimità, reso peraltro a Sezioni unite. Invero, ha statuito il Supremo Collegio che allorquando il procedimento finalizzato alla dichiarazione di fallimento non si concluda con una decisione nel merito, il tribunale fallimentare può disporre, ai sensi dell'art. 7 l.fall., la trasmissione degli atti al P.M., affinché valuti se instare per la dichiarazione di fallimento, non sussistendo alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, di cui all'art. 111 Cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell'imprenditore a seguito di richiesta del P.M. conseguente alla segnalazione da parte dello stesso giudice (Cass.S.U. n. 9409/2013). S è poi affermata la legittimità della segnalazione dell'insolvenza di chi ha proposto la domanda di concordato preventivo, dichiarata inammissibile, al P.M. il quale, acquisita così la notitia decotionis, può sollecitare la dichiarazione di fallimento, poiché la legittimazione ai sensi dell'art. 162 l. fall. non esclude quella prevista dall'art. 7 n. 2 stessa legge, essendo il procedimento di concordato preventivo un procedimento civile ai sensi di quest'ultima norma (Cass. I, n. 976/2021).  Il P.M. ha il potere di formulare la richiesta di fallimento anche nel caso di rinuncia alla domanda dopo l'apertura del procedimento di revoca di cui all'art. 173 l. fall., in quanto la detta rinunzia non determina la cessazione automatica del procedimento concordatario e non elimina il potere di iniziativa del P.M. fondato sulla ravvisata esistenza di atti di frode (Cass. I,  n. 27936/2020).

Ebbene, va osservato che la stessa Corte di Cassazione ha evidenziato che l'eliminazione dell'iniziativa d'ufficio dal testo dell'art. 7 l.fall., l'abrogazione dell'art. 8 e la nuova formulazione dell'art. 7, comma secondo, hanno determinato la emersione di una difficoltà interpretativa in ordine ai poteri esercitabili dal tribunale fallimentare.

Su basi normative diverse, si ripropone oggi il contrasto a suo tempo insorto sul fallimento d'ufficio. Ed invero, nonostante un autorevole filone dottrinale fosse assai critico verso la norma dettata dall'art. 8, parlando anche di «giurisdizione senza azione» e di violazione dei principi di terzietà e imparzialità del giudice, divenuti evidenti dopo la riforma dell'art. 111 Cost., la giurisprudenza e la stessa Corte costituzionale si erano costantemente pronunziate nel senso della piena compatibilità costituzionale dell'istituto (Lubrano di Scorpaniello, Legittima la dichiarazione di fallimento su istanza del P.M., in ilfallimentarista.it, 17 luglio 2013).

La riforma della legge fallimentare sembrava aver posto fine alla disputa, non solo a causa della ricordata abrogazione del fallimento d'ufficio, ma anche con la ridefinizione del potere di iniziativa del p.m., apparsa ai più di segno restrittivo, in quanto, se da un lato va qualificato come potere di «azione» e non di mera «denunzia», dall'altro l'elenco delle fattispecie del vigente art. 7 è da ritenersi tassativo. E ciò, come detto, all'interno di una disciplina del processo prefallimentare molto più organica del passato e rinnovata in profondità, vicina al giudizio contenzioso ordinario e comunemente qualificata come «processo tra parti».

Tuttavia, la prassi applicativa ha evidenziato invero una sorta di difficoltà interpretativa delle norme qui in esame, le quante volte il tribunale fallimentare, obbligato a seguito della rinunzia al ricorso da parte del creditore a chiudere il procedimento, aveva ritenuto di dover comunque sollecitare il p.m. ad un esame della situazione emersa nel procedimento prefallimentare, ordinando la trasmissione degli atti alla Procura per valutare la sussistenza dei presupposti per la proposizione di una richiesta di fallimento.

In realtà, il dubbio sulla legittimità di tale condotta è emerso immediatamente, e la prima risposta della giurisprudenza di legittimità (cfr. sempre Cass. n. 4632/2009, cit. Sulla scorta di una lettura «costituzionalmente orientata», la Prima sezione civile ritenne che la segnalazione al P.M. da parte del Tribunale fallimentare fosse in contrasto con i principi di terzietà ed imparzialità del Giudice (art. 111 Cost.). Altro Collegio della stessa sezione ha invece ribaltato l'indirizzo nel 2012, altre tre sentenze, recependo una linea interpretativa largamente prevalente tra i giudici di merito) è stata, come sopra evidenziato, molto ristrettiva.

Ebbene, le Sezioni Unite esplicitamente sposano oggi la linea emersa nella giurisprudenza di merito, riprendendone quasi tutti gli argomenti.

Ribadiscono anzitutto la centralità dell'interpretazione letterale ex art. 12 preleggi, dell'art. 7, comma secondo, l.fall. che si riferisce a qualsiasi «procedimento» civile, e non più al «giudizio», come l'abrogato art. 8. Ed invero, il vocabolo ha oggi una portata più ampia, comprensiva anche del procedimento prefallimentare.

Aggiunge la sentenza che la legge attribuisce al p.m. un potere di iniziativa collegato alla segnalazione ricevuta dal giudice civile, senza alcuna limitazione di sorta circa la provenienza.

Peraltro, si legge un'affermazione in parte nuova — e di valenza rafforzativa- che è quella secondo cui la formulazione dell'art. 7, comma 2, è dovuta alla soppressione del fallimento d'ufficio, e consente di delineare una «estensione del dovere di segnalazione rispetto al passato». La configurazione in termini di doverosità era stata prefigurata anche dalle decisioni a sezioni semplici precedenti al pronunciamento delle Sezioni Unite, e tuttavia la sentenza sembra ampliarne la portata, allorché pone il relativo obbligo quale sorta di esplicita compensazione dell'abrogazione dell'art. 8.

Viene, poi, recepito e riproposto il profilo di interpretazione storica e dell'intenzione del legislatore, ricavabile da un passo della relazione alla riforma del 2006, già valorizzato dalle pronunzie già intervenute nel corso del 2012 da parte sempre del Supremo Collegio.

Orbene, le SS.UU. respingono invece la tesi della violazione dei principi del «giusto processo», ribadendo che la segnalazione non ha contenuto decisorio, neppure di tipo sommario, e dunque non vi è pregiudizio per la terzietà ed imparzialità del tribunale. Peraltro, viene pure ribadita l'autonomia reciproca tra p.m., il quale valuta in piena autonomia se dar seguito alla segnalazione proponendo il ricorso, e la successiva decisione del Tribunale nel nuovo procedimento.

Da ultimo, la sentenza in esame precisa che il tenore letterale dell'art. 7, comma secondo, non implica l'accertamento preventivo dell'insolvenza da parte del giudice segnalante, e comunque il presupposto dell'iniziativa consiste nell'apprezzamento positivo da parte del p.m. circa la fondatezza della segnalazione (Lubrano di Scorpaniello, Anche il Giudice fallimentare è un Giudice civile e può segnalare l'insolvenza al P.M, in ilfallimentarista.it, 17 luglio 2013).

In dottrina, vi chi ha criticato il pronunciamento reso a Sezioni Unite là dove non ha approfondito la compatibilità della interpretazione formulata dell'art. 7 con il dettato dell'art. 111 Cost., precisando che in tema merita di essere richiamato l'art. 6, comma 1, della Convenzione dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce il diritto di ogni persona a un «esame imparziale della causa», oltre che pubblico e in tempi ragionevoli, da parte di un tribunale «indipendente ed imparziale» (cfr. Lubrano di Scorpaniello, Legitttima la dichiarazione di fallimento su istanza del P.M., cit., il quale ha evidenziato che nella sentenza Procola c. Lussemburgo del 27 settembre 1995, la Corte EDU ha statuito che la situazione in cui «le medesime persone abbiano potuto esercitare, in relazione ad una medesima decisione, due diversi tipi di funzione, è sufficiente a sollevare perplessità sul grado di imparzialità strutturale dell'istituzione stessa», e quindi «in sé sufficiente a viziare l'imparzialità del tribunale in questione». L'Autore sostiene altresì che la situazione in esame non è neanche paragonabile al caso in cui lo stesso debitore venga nuovamente giudicato dal medesimo tribunale a seguito di nuovo ricorso dei creditori: questa seconda ipotesi è del tutto fisiologica, sia per la necessaria precostituzione del giudice naturale, sia perché in essa manca ogni sollecitazione o altra attività del tribunale fallimentare — rimasto assolutamente terzo ed estraneo — prodromica alla proposizione del nuovo ricorso. Sul punto, v. anche Ricciardi, La legittimità della segnalazione d'insolvenza da parte del tribunale fallimentare, in ilfallimentarista.it, 28 giugno 2013; v. inoltre Federico, Segnalazione dell'insolvenza e terzietà del giudice, in Fall. 2012, 1299; Canazza, Iniziativa del pubblico e potere di segnalazione del tribunale fallimentare, ibidem, 1305; De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, cit., 50 ss.).

La rinuncia alla proposta di concordato preventivo, formulata dal debitore nel corso del procedimento di revoca del concordato medesimo, non determina di per sé, prima di una formale dichiarazione di improcedibilità ad opera del tribunale, la chiusura del procedimento, sicché il P.M., che, a seguito della comunicazione ex art. 173 l.fall., partecipa ordinariamente al procedimento, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle altre parti, ben può rassegnare le proprie conclusioni che comprendono, oltre alla valutazione negativa della proposta concordataria, anche l'eventuale richiesta di fallimento in ragione della ritenuta insolvenza dell'imprenditore di cui sia venuto a conoscenza a seguito di tale partecipazione (Cass. I, n. 12010/2018). 

Alla richiesta di fallimento formulata dal Pubblico Ministero a seguito della dichiarazione di improcedibilità della domanda di concordato preventivo per rinuncia del proponente, non si applica il disposto dell'art. 7 l.fall., in quanto la parte pubblica, una volta informata della proposta di concordato preventivo ai sensi dell'art. 161, comma 5, l.fall., partecipa ordinariamente al procedimento, rassegnando in udienza le proprie conclusioni orali, che possono comprendere anche l'eventuale richiesta di fallimento dell'imprenditore in ragione della sua ritenuta insolvenza, di cui ha avuta conoscenza per effetto di detta partecipazione (Cass. I , ordinanza n. 6649/2018 ).

Bibliografia

Amatore, Le dichiarazioni di fallimento, Milano 2014; Bonelli, Del fallimento, I, Milano, 1923, 224; Cavalli, La dichiarazione di fallimento, in AA.VV., Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, XI, 2, Padova, 2009, 162, nota 67; D'Aquino, Sub art. 7, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 50; De Santis, Istruttoria prefallimentare e misure cautelari, in Fall., 2009, 80; De Santis, Segnalazione d'insolvenza, iniziative fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, in Fall. 2009, 521; De Santis, Istruttoria prefallimenatre e diritto di difesa, in Fall., 2008, 316 ss.; De Santis, Istruttoria prefallimmentare e giudicato di rigetto, in Fall. 2008, 956 ss.; Fabiani, Sub. art. 6, in AA. VV., Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio-Fabiani, I, Bologna, 2006, 106; Federico, Segnalazione dell'insolvenza e terzietà del giudice, in Fall. 2012, 1299; Ferrara-Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 241; Ferro, Sub art. 6, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 39 e ss.; Grasso, Gli interessi della collettività e l'azione collettiva, in Riv. dir. proc. 1983, 231; Lubrano di Scorpaniello, Legittima la dichiarazione di fallimento su istanza del P.M., in il fallimentarista.it, 17 luglio 2013; Lubrano di Scorpaniello, Anche il Giudice fallimentare è un Giudice civile e può segnalare l'insolvenza al P.M., in ilfallimentarista.it., 22 aprile 2013; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 2007, 367; Morozzo della Rocca, voce Pubblico ministero (Diritto processuale civile), in Enc. dir., XXXVII, 1988, 108; Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1997, 166 s.; Ricciardi, La legittimità della segnalazione d'insolvenza da parte del tribunale fallimentare, in ilfallimentarista.it, 23 giugno 2013; Sanzo, La Corte Costituzionale e la dichiarazione di fallimento d'ufficio, in ilfallimentarista.it, 29 luglio 2013; Satta, Diritto fallimentare, III, aggiornata ed ampliata da Vaccarella-Luiso, Padova, 1996, 53; Stanghellini, Proprietà e controllo dell'impresa in crisi, in AA. VV., Riforma del diritto societario e riflessi sulle procedure concorsuali, a cura di Medichini, Torino, 2005, 162; Vellani, voce Pubblico ministero nel diritto processuale civile, in Dig. Sez. civ., XVI, Torino, 1997, 142; Vigoriti, Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc. 1974, 296.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario