Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 5 - Stato d'insolvenza.Stato d'insolvenza.
L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. InquadramentoLa riforma del diritto fallimentare ha lasciato immutato l'art. 5 della legge del ‘42, che definisce lo stato d'insolvenza, con ciò volendo segnalare la perdurante vitalità di un concetto che è stato elaborato dalla dottrina italiana sulla scia dell'esperienza dottrinaria tedesca (cfr. Bonelli, commento a Cass. Torino, 12 maggio 1898, in Foro it., 1898, I, c. 731 ss.; v. anche Pellegrino, 163 ss). Tuttavia, in linea astratta, non si potrebbe escludere che la portata precettiva della definizione, di cui sopra, sia stata modificata dagli interventi su altri punti del sistema (Jorio, Introduzione, in Il fallimento, a cura di Ambrosini, Cavalli, Jorio, in AA. VV., Trattato di dir. comm., diretto da Cottino, XI, 2, Padova, 2009, spec. 15; Nigro-Vattermoli, 65 ss.; Cavalli, 2009, 123 ss. Per un meditato approfondimento del concetto d'insolvenza si veda, fin d'ora, Bione, 196 ss.. Per una disamina completa e approfondita dell'istituto si rimanda a Terranova, Insolvenza, 2013, 1 ss.), nonché dalla evoluzione dei rapporti economici e sociali, ai quali le procedure concorsuali debbono essere applicate (Terranova, 2009, I, 153 ss.). In realtà, occorre chiedersi se il concetto d'insolvenza sia ancora adeguato a regolare la materia, o se le trasformazioni avvenute nel campo economico in questo ultimo secolo non avrebbero dovuto imporre al legislatore una riflessione più approfondita, magari sempre nel solco delle idee bonelliane, ma con una maggiore attenzione alle esigenze dell'industria e della finanza che impongono d'anticipare, per quanto possibile, il momento in cui si prende atto delle difficoltà dell'impresa (Terranova, Insolvenza, 2013, ibidem. In realtà, la maggior parte dei critici ha evidenziato il fatto che la riforma non ha introdotto alcun meccanismo d'allerta e prevenzione, come invece è accaduto in Francia e, sull'esempio di questa, in molti altri Paesi (cfr. Jorio, da ultimo nell'introduzione al volume sul fallimento del Trattato Cottino, già citato, v. anche Fabiani, 2011, 86-89; cfr. Pacchi, 2011, I, 286); altri autori lamentano, invece che non si sia seguito il sistema tedesco, di rendere rilevanti, in determinate ipotesi, il «pericolo d'insolvenza», o la pura e semplice «incapienza patrimoniale» (v. Gugliemucci, La legge tedesca dell'insolvenza (Inolvenz-Ordnung) del 5 maggio 1994, Milano, 2000; Mangano, 67 ss.); su queste basi, poi, vi è chi propone d'introdurre dei presupposti differenziati, a seconda del tipo di procedura da attivare, o a seconda del tipo d'impresa, sulla quale intervenire (cfr. Sabato, 1996, 1192 ss.). In termini astratti, si deve riconoscere che molte di queste critiche colgono nel segno, per lo meno nel senso che sarebbe stata opportuna una maggiore articolazione della disciplina relativa alla insolvenza (Terranova, Insolvenza, 2013, 12). In concreto, tuttavia, deve osservarsi che gli unici interventi effettuati dal legislatore sono andati nella direzione diametralmente opposta, rispetto a quella di anticipare il momento in cui l'impresa può essere sottoposta ad una procedura concorsuale, atteso che risulta essere opinione comune quella secondo cui l'insolvenza presupponga una crisi finanziaria attuale ed irreversibile, cosicché si ritorna – con espressioni più moderne, ma dotate, in buona sostanza, dello stesso significato – al vecchio concetto di «cessazione dei pagamenti», con la sola cautela d'aggiungere alla «cessazione materiale» la cosiddetta «cessazione virtuale» dei pagamenti (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem. l'Autore in modo acuto osserva che non deve meravigliare più di tanto, se negli ambienti più vicini alla pratica finiscano col prevalere concezioni un po' più rozze del fenomeno della insolvenza, giacché il fallimento in Italia è un istituto riservato alle imprese di modeste o modestissime dimensioni, per le quali il dissesto si manifesta sempre con una serie di inadempimenti, con la conseguenza di rendere superfluo distinguere tra una crisi finanziaria attuale ed una crisi finanziaria prospettica; tra cessazione dei pagamenti e insolvenza, o pericolo d'insolvenza. Il discorso cambia se ci si riferisce a realtà imprenditoriali di maggiore rilevanza economica (che però sono soggette solo all'amministrazione straordinaria o alla liquidazione coatta amministrativa), assistendosi qui a vicende che provocano perdite su perdite, ma che non si traducono in una interruzione dei flussi finanziari o in altre anomalie nei rapporti esterni, e ciò o perché la mano pubblica provvede ad assicurare la liquidità necessaria per pagare i lavoratori ed i fornitori oppure perché la struttura stessa dell'impresa è tale (si pensi alle banche o ad altri intermediari finanziari, i cui patrimoni, già a norma di legge, possono essere immobilizzati solo in parte), da non far mancare la liquidità necessaria ad effettuare i pagamenti, se non in un momento estremo, nel quale già tutto è perduto (così, Terranova, L'insolvenza, 2013, 83). Lo stato di insolvenza: generalitàPuò affermarsi che – per quanto concerne l'insolvenza – non è necessario infrangere le prassi consolidate nella pratica giudiziaria, atteso che nei casi ordinari il giudice fallimentare ha a disposizione una serie di strumenti per adattare i concetti astratti al caso concreto. La prospettiva di approfondimento muta radicalmente, invece, allorquando si tratti di capire se vi siano dei criteri direttivi per risolvere i «casi difficili», giacché in questa prospettiva «macroeconomica» si apprezza davvero la esigenza di un'adeguata precisazione dei concetti (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 12). In termini ancora generali, può affermarsi che può essere utile concettualmente diversificare i concetti di insolvenza, a seconda del tipo d'impresa da assoggettare alle procedure concorsuali, o di affiancare al predetto concetto una serie di nozioni ancillari, in modo da articolare meglio l'accertamento del dissesto. Sul punto, può osservarsi, unitamente alla autorevole dottrina sopra richiamata, che si potrebbe differenziare il presupposto oggettivo delle varie procedure concorsuali, a seconda del tipo d'impresa da dichiarare insolvente, atteso che la liquidazione coatta delle società assicurative e bancarie, come l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, non possono «attendere» – per eliminare il gruppo dirigente ed intervenire in maniera efficace sulla crisi – che si verifichi la cessazione dei pagamenti, o un evento sostanzialmente analogo, come la sospensione dell'attività od altri eventi similari. Ne discende che la dichiarazione giudiziale di insolvenza viene chiesta con riferimento ad un momento nel quale i sintomi dello squilibrio economico non si erano ancora manifestati all'esterno. Potrebbe pertanto concludersi nel senso che l'insolvenza prevista dalle leggi speciali (a partire dal testo unico bancario) avrebbe caratteristiche diverse da quelle enunciate dall'art. 5 della legge fallimentare (v. infra). Tuttavia, appare preferibile, al fondo, non avallare questa posizione giacché l'accoglimento della tesi comporterebbe una vistosa frattura del sistema. Invero, occorre riflettere sulla circostanza che sarebbe arduo decidere fino a che punto la nozione specialistica di insolvenza potrebbe essere utilizzata anche ai fini dell'applicazione di altri complessi di norme, a partire proprio dalle disposizioni penali (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Peraltro, non può essere sottovalutato che la nozione fissata dall'art. 5, l.fall., non coincide affatto con quella di crisi finanziaria attuale ed irreversibile, di cui parla un parte della dottrina e della giurisprudenza, ma è in realtà molto più ampia e flessibile. Ed infine, va aggiunto che se si articolano i presupposti delle procedure a seconda del tipo d'impresa, diventerebbe arduo stabile il limite preciso per individuare quali attività commerciali dovrebbero essere assoggettate ad un trattamento più severo. Sul punto, l'autorevole dottrina da ultimo menzionata ritiene, in modo del tutto condivisibile, che, tenendo conto della complessità della questione, sarebbe semplicistico prevedere nozioni diverse d'insolvenza, a seconda della tipologia d'impresa da assoggettare ad una procedura concorsuale, perché si dovrebbe guardare, piuttosto, alla eziologia della crisi e ai suoi prevedibili sbocchi. Ne discende che, in queste condizioni, è preferibile continuare ad operare con un concetto unitario d'insolvenza, con l'accortezza di renderlo il più elastico possibile, invece di sposare tesi atomistiche, che portano ad una proliferazione di regimi diversi, spesso inconciliabili tra loro. In conclusione, pare corretto affermare che, in subiecta materia, la riforma ha innovato pochissimo in materia e, comunque, non ha toccato la nozione d'insolvenza, che emerge dall'art. 5, comma secondo, l.fall. Sul punto, va tuttavia precisato che l'insolvenza è un concetto operazionale, il cui contenuto non può essere desunto solo da usi linguistici più o meno consolidati, ma viene determinato sulla base dei problemi che l'interprete si trova a dover risolvere, e cioè tenendo conto degli scenari che gli si prospettano, quando deve scegliere se accelerare i tempi dell'intervento, o soprassedere (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 26). Detto altrimenti, la ipotesi in esame è quella tipica della interpretazione orientata alle conseguenze (Mengoni, 1 ss.), giacché il giudice è chiamato a soppesare i contrapposti interessi, sulla base di criteri, che si possono compendiare nella valutazione, da un lato, delle caratteristiche dell'impresa, dell'evoluzione del mercato, della situazione patrimoniale e finanziaria del debitore e, dall'altro, delle possibilità di soluzioni alternative, dell'affidabilità di chi chiede una dilazione nei pagamenti e delle motivazioni di chi pressa per una soluzione immediata e definitiva e per il timore di far disperdere il patrimonio dell'obbligato, con ciò non volendo significare che l'interprete resti arbitro di decidere ad libitum quando dichiarare lo stato d'insolvenza, ma richiedendosi al contrario all'interprete una cultura economica e giuridica molto maggiore, rispetto agli standard d'una volta. Il rapporto fra insolvenza ed inadempimentoDopo l'esame della genesi del concetto giuridico di «stato di insolvenza» (cfr. supra), risulta agevole individuare gli interventi operati dalla legge del '42. Il nuovo testo della norma ha, da un lato, soppresso ogni riferimento alla «cessazione dei pagamenti» ed ha parlato, senza più alcuna ambiguità, di «insolvenza» e, dall'altro, ha soppresso il riferimento alla mancanza di «giustificazione» degli inadempimenti, ritenendolo implicito nel rilievo che i perdetti inadempimenti dovrebbero, comunque, dimostrare l'impotenza a pagare del debitore. Inoltre, la riforma del '42 ha mantenuto il riferimento alle altre circostanze, di cui parlava l'art. 705, cod. comm., ma non le ha qualificate più come «indizi», bensì come «fatti esteriori» (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 49). Peraltro, la legge fallimentare così riformata introduce il concetto di «regolarità» dei pagamenti, che costituisce la maggiore innovazione apportata dalla detta riforma, anche se, forse, in maniera non del tutto consapevole, atteso che per molto tempo si è continuato a discutere se un pagamento sia «regolare» quando sia «esatto», ai sensi dell'art. 1218 c.c., oppure quando sia stato effettuato con mezzi che l'art. 67, l.fall., considera «normali» (nel complesso la sostanza della norma è rimasta quella voluta dal Bonelli, così si esprime Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem. Tuttavia, sulla sua interpretazione la dottrina si è quasi subito divisa, atteso che, da un lato, vi era chi — Provinciali, 1974, 287 ss.; Id., 1951, 127 — osservava che il legislatore, se davvero avesse voluto modificare il regime giuridico preesistente, avrebbe dovuto parlare di «insolvibilità» e non di «insolvenza», giacché questo ultimo termine in italiano non esprime l'impotenza a pagare, bensì la pura e semplice inattività dell'obbligato; e vi era chi aggiungeva, sempre nella stessa direzione — Azzolina, 269; Rossi, Equivoci sul concetto d'insolvenza, in Dir. fall. 1954, I, 175 ss. —, che gli inadempimenti avrebbero conservato un ruolo centrale nella struttura del sistema, giacché basterebbero da soli ad imporre il fallimento, pur in mancanza degli altri «fatti esteriori», di cui si parla nella seconda parte della norma; e che, dall'altro lato, si collocava la dottrina maggioritaria — Satta, 43 ss.; Ferrara, 135 ss.; Ferri, 2010, 643 —, che faceva propria la lezione bonelliana, segnalando come la maggiore novità della legge fallimentare doveva essere colta nel fatto d'aver collegato le procedure concorsuali alla crisi dell'impresa, valorizzando così l'elemento della incapacità di adempiere (il «non essere in grado»), piuttosto che il semplice inadempimento. Per un approfondimento delle questioni qui affrontate, si rimanda a Terranova, Lo stato d'insolvenza. Per una concezione formale del presupposto oggettivo del fallimento, in Giur. comm. 1996, I, 82 ss.). In realtà, il confronto tra il sistema accolto nella legge fallimentare e quello proposto dal vecchio codice di commercio ha permesso di chiarire che le differenze più sostanziose – tra i due testi normativi – si sostanziano, da un lato, sul particolare rilievo attribuito all'impossibilità di pagare come presupposto del fallimento e sull'equiparazione tra «inadempimenti» e «fatti esteriori», ai fini della prova dell'insolvenza e, dall'altro, nell'aver posto come obiettivo da perseguire la «regolarità» dei pagamenti (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 57). Sul punto, va precisato che la dottrina è rimasta a lungo incerta, quando si è trattato di chiarire come si dovesse intendere l'espressione «adempiere regolarmente le proprie obbligazioni», giacché vi era chi (Ferrara, 135) riteneva che l'avverbio de quo volesse alludere all'esattezza degli adempimenti, negli stessi termini in cui ne parlavano l'art. 1218 e gli articoli del codice civile che si occupano dell'adempimento contrattuale (cfr. gli artt. 1176-1200 c.c.); altra parte della dottrina (Andrioli, 316 ss.), proponeva, invece, di considerare «regolari» i pagamenti effettuati in denaro o con altri mezzi normali, ai sensi dell'art. 67, l.fall. Orbene, risulta convincente e condivisibile quella autorevole dottrina (Terranova, Lo stato d'insolvenza, cit., 119 ss.) che ritiene queste ultime interpretazioni più convincenti, giacché la prima dottrina tra quelle sopra ricordate renderebbe la precisazione compiuta dai redattori della legge fallimentare del tutto inutile e ridondante, atteso che l'adempimento, o è esatto ai sensi del codice civile, ovvero non è tale, non essendo liberatorio per il debitore; e la seconda dottrina s'ispirava al precedente art. 705 cod. comm., aggiungendo tuttavia un concetto arbitrario al testo della norma attualmente in vigore. Invero, se il debitore fosse stato in grado di soddisfare – sia pure con mezzi anomali (ovviamente accettati dall'accipiens) – tutti i creditori, nessuno avrebbe avuto di che dolersi in termini di inadempimenti giuridicamente rilevanti. Sul punto, non si può non condividere quella dottrina da ultimo menzionata (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 58), la quale osserva che, in primo luogo, il legislatore si riferisce agli adempimenti nel loro insieme, e non ai singoli atti solutori e che, inoltre, il debitore gestisce in realtà un'impresa commerciale, la quale si configura come un'attività organizzata. Ne discende che i pagamenti, di cui qui in parola, s'atteggiano come un'attività solutoria alimentata da un flusso di risorse che si risolve in un circolo, che diventa virtuoso o vizioso, a seconda del rapporto tra costi e ricavi. Ne consegue ancora, come ulteriore corollario del ragionamento qui così impostato, che il significato più pertinente dell'avverbio «regolarmente» di cui al secondo comma dell'art. 1 è quello che lo stesso acquisisce quando viene riferito ad un flusso finanziario (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Sul punto, l'Autore evidenzia come al legislatore non interessi il fatto che questo o quell'adempimento venga effettuato in ritardo, o in maniera difforme dal programma concordato dalle parti: importa solo che l'attività solutoria, nel suo complesso, venga effettuata senza sospensioni o interruzioni, in modo da ingenerare nei creditori il ragionevole affidamento che il debitore sia ancora in grado di pagarli tutti (in linea di massima, e preferibilmente, con la finanza prodotta dalla stessa attività d'impresa). Pertanto, la regolarità si muove su un piano completamente diverso da quello dell'esattezza del pagamento ovvero dell'uso di mezzi monetari di varia specie per estinguere le obbligazioni. Esso è un concetto tipico dell'attività d'impresa, perché l'organizzazione presuppone l'ordine e l'ordine può essere ottenuto solo attraverso il rispetto di tempi e regole (Ferri jr., 2010, I, 765 ss., spec. 769 ss; Stanghellini, 207 ss.; v. anche Fauceglia, 2011, I, 38 ss.; v. anche Galletti, 195 ss.; Gugliemucci, 34). Non a caso il Bonelli per il suo progetto aveva scelto l'espressione «far fronte» (alle obbligazioni), che implicava in realtà un'attività preparatoria degli adempimenti, in qualche modo «programmata»). Deve ritenersi che la regolarità dei pagamenti possa essere apprezzata solo se si prende in considerazione un certo lasso di tempo, giacché i flussi hanno un necessario svolgimento diacronico, con la necessaria conseguenza che la valutazione dello stato d'insolvenza deve essere svolta con un giudizio di tipo prognostico. Il giudice fallimentare dovrà valutare in che modo gli eventuali inadempimenti registrati nel passato e segnalati dal pubblico ministero o dai creditori a sostegno dell'istanza di fallimento si collochino nella prospettiva dell'attività futura d'impresa, con dimensione pertanto, come sopra accennato, diacronica della valutazione del fenomeno della insolvenza. Del resto, la necessità di una prognosi trova conferma in un dato di legge espresso ed incontrovertibile. Come si è detto, il secondo comma dell'art. 5 consente l'apertura del fallimento anche quando non si sono ancora verificati degli inadempimenti, ma l'insolvenza si è manifestata attraverso altri «fatti esteriori». Sul punto, è necessario ad osservare che la legge, allorquando utilizza la forma disgiuntiva inadempimenti «od» altri fatti esteriori autorizza a ritenere che vi possa essere un'insolvenza anche senza cessazione dei pagamenti. Invero, poiché l'impotenza a pagare è destinata per sua natura a sfociare in una cessazione dei pagamenti, si è autorizzati a sostenere che tale evento — per il momento solo potenziale — deve essere «previsto» come certo, in un futuro più o meno prossimo (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 60. Sul punto, l'Autore osserva che in una società meno evoluta sotto il profilo della produzione e trasmissione dei dati informativi, era ancora possibile sostenere che il debitore potesse essere dichiarato fallito solo quando si fossero verificati degli eventi eclatanti (i fatti di bancarotta), che l'opinione pubblica poteva percepire in maniera diretta ed immediata, con la conseguenza d'indurre i creditori a rompere il banco del commerciante, o che il giudice (in una successiva fase storica) doveva limitarsi ad accertare. In una società come quella attuale, ove l'informazione riveste grande rilevanza sociale ed anche conseguentemente giuridica, non appare concepibile che, di fronte alla notizia di un grave perdita economica – alla quale l'imprenditore individuale o i soci non sono in grado di far fronte – non si evidenzino conseguenze giuridiche dall'evento, solo perché non si è ancora interrotto il flusso dei pagamenti, o non si è verificato alcuno dei fatti tipizzati dalle vecchie norme in materia). Ne consegue che, sotto questo ultimo profilo, un giudizio fondato su fatti diversi dalla materiale interruzione dell'attività solutoria deve necessariamente avere natura prognostica. Venendo ora in medias res, occorre ricordare la ricorrente affermazione secondo cui l'insolvenza non deve essere confusa con l'inadempimento, e ciò nel duplice senso che il debitore può essere dichiarato fallito, anche se non ha ancora interrotto i pagamenti e che, viceversa, la presenza di uno o più inadempimenti non implica necessariamente l'apertura di una procedura concorsuale. Per la storia, va ricordato che il codice di commercio francese – nella versione del 1838 – e quello italiano del 1865 avevano lasciato il dubbio che la cessazione dei pagamenti (dovendo essere intesa in senso materiale) potesse consistere anche in un solo rifiuto d'adempiere, a prescindere dalla circostanza che dipendesse dalle condizioni economiche del debitore, ovvero da una sua scelta volontaria e dunque anche a prescindere dalla circostanza che l'inadempimento fosse giustificato, o meno. Il codice del 1882 aveva trovato un'equa mediazione sul punto, disponendo espressamente che «il rifiuto di alcuni pagamenti per eccezioni che il debitore in buona fede potesse ritenere fondate non è prova della cessazione dei pagamenti». Tuttavia, la teoria bonelliana si era spinta oltre, sostenendo che gli inadempimenti sarebbero solo un indizio dello stato d'insolvenza, con l'aggravante di costituirne una «prova indiretta», da rendere significativa attraverso la ricostruzione del quadro fattuale completo nel quale il rifiuto di adempiere era maturato (tuttavia, lo stesso Bonelli mostrava molte perplessità, quando si trattava di attribuire una rilevanza giuridica alla distinzione tra «cessazione» e «sospensione» dei pagamenti, giacché non si sarebbe dovuto fornire troppo credito alle sempre ottimistiche previsioni del debitore e, comunque – in un ordinamento che conosceva altri strumenti di composizione della crisi (in allora: il concordato preventivo) – l'unica alternativa al fallimento doveva restare il tempestivo avvio di un'altra procedura concorsuale, che garantisse la par condicio creditorum: cfr. Bonelli, Del fallimento, cit., 72 ss. (par. 44); v. anche Ferri jr., 1970, II, 328 ss.). In realtà, come osserva autorevole dottrina, la situazione non è grandemente cambiata nel vigore della legge fallimentare (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 62).La giurisprudenza condivide il principio secondo cui l'accertamento dello stato d'insolvenza si debba fondare su una valutazione prognostica, ma sul piano prettamente pratico non si può escludere che, anche in presenza di inadempimenti, il giudice si mostri restio ad aprire subito il concorso tramite la declaratoria di fallimento. In realtà, deve ritenersi che la questione ora in esame è una materia aperta alle indagini casistiche, nelle quali ciò che conta è la situazione complessiva dell'impresa, atteso che determinate anomalie dei processi solutori – sopportabili nel breve periodo – alla lunga possono essere il sintomo di una crisi finanziaria incipiente, della quale è necessario prevedere gli sviluppi, con la ovvia precisazione che se il rischio d'insolvenza diventa pressante, la strada da perseguire per evitare il fallimento resta quella di raggiungere un accordo con i creditori con i vari strumenti previsti dalla legge fallimentare. Volendo, a questo punto, trarre delle conclusioni definitive in ordine alla esegesi dell'art. 5 l.fall. onde fissare la consistenza normativa del presupposto oggettivo del fallimento, va detto che l'articolo in esame si apre con una premessa esplicativa, e cioè che l'imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito, così fornendo la integrazione dell'art. 2221 c.c., articolo che sta nel capo della insolvenza ma il cui tessuto normativo non accenna neanche lontanamente ad una definizione della insolvenza stessa. L'art. 5, come detto sopra, puntualizza il contenuto di questo status, precisando per l'appunto che «lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni». Così, la norma si divide in due parti, indipendenti, con un ordine logico invertito, giacché nella prima si descrive la manifestazione del fenomeno, nella seconda il fenomeno stesso. Deve ritenersi pertanto, in coerenza con quanto già sopra annunciato, che, secondo una ricostruzione logico argomentativa dell'istituto, solo gli inadempimenti manifestino sempre lo stato di insolvenza, mentre ciò non sarebbe per gli altri fatti esteriori sintomatici, e ciò sia perché essi possono non essere sintomo d'insolvenza e sia perché, invero, dal punto di vista lessicale i due fatti ovvero ordine di fatti (qualificati i primi e in bianco i secondi), risultano essere del tutto equiparati nella economia della norma (Pajardi, Paluchowscki, cit., 94). Per la possibilità di procedere alla declaratoria di fallimento, previo accertamento dello stato di insolvenza anche in assenza di qualunque inadempimento, perciò sulla base della valutazione di altri fattori che vengono ritenuti equipollenti, cfr. Trib. Potenza 11 giugno 1994, in Banca Borsa e tit. di cred., 1995, II, 610). La segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia della posizione di sofferenza del cliente ha per presupposto una nozione meno rilevante di insolvenza rispetto a quella propria della materia fallimentare; lo sbilanciamento tra l’attivo e il passivo patrimoniale deve essere com unque attentamente valutato perché l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo costituisce uno dei tipici fatti esteriori dell’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni (Cass. I, n. 28635/2020). La definizione normativa dello stato di insolvenza avviene pertanto su basi oggettive (cfr., in tal senso, anche l'espressione «non è più in grado») ed impinge nell'intera situazione patrimoniale dell'imprenditore, cogliendo un atteggiamento di funzionalità dell'impresa e non già un momento statico della vita della stessa (Ragusa Maggiore, 62 e Satta, 50, che riconoscono il fenomeno della insolvenza come un fenomeno dinamico patrimoniale), e richiedendo, pertanto, manifestazioni esteriori che sono indicate attraverso un sistema misto, e cioè attraverso il rilevamento di fatti tipici ovvero di fatti atipici che possono essere invero entrambe significativi della insolvenza (Censoni, 26). Lo stato di insolvenza ha una dimensione eminentemente dinamica, nel senso che si tratta di un fenomeno che agisce su un soggetto in continua trasformazione, qual è l'impresa, e che riguarda tendenzialmente la potenzialità di quest'ultima, tanto ciò è vero che il suo accertamento comporta, come detto, un giudizio di tipo prognostico che si desume dai fatti accertati e dal comportamento del debitore (Nigro, 19). Sul punto, va segnalato, come metodo di indagine, che non è vero che il momento statico sia privo di concreta rilevanza, atteso che lo stesso rappresenta il primo e spesso rilevante esame viene compiuto dal giudice fallimentare inevitabilmente sulla situazione analitica dei fattori aziendali, così come fotografata in un determinato momento storico dal bilancio ovvero da una situazione patrimoniale, al fine di cogliere sinteticamente lo stato di salute della impresa (Pajardi, Paluchowscki, 57); tuttavia quello statico è solo il momento iniziale della indagine giudiziale giacché l'accertamento deve incidere strumentalmente anche sul momento statico al fine di appurare la sorte di quello dinamico. In realtà, il dettato normativo parla sostanzialmente di capacità, e cioè di essere in grado di far fronte alle proprie obbligazioni con mezzi normali e alle pattuite scadenze; pertanto, si deve ritenere che il momento valutativo dinamico, nel giudizio sull'accertamento dello stato di insolvenza, prevalga su quello statico, e ciò anche nel senso che potrebbe sussistere una situazione statica negativa, supplita tuttavia dalla capacità dell'imprenditore di accedere al credito tale da scongiurare una fase di stallo dei pagamenti e dunque l'emersione dello stato di insolvenza dell'imprenditore. Sul punto, va precisato che l'ordinamento si occupa della insolvenza, e cioè dell'incapacità — come detto sopra — di far fronte alle obbligazioni assunte, solo quando ciò leda la sfera giuridica altrui, ovvero quando si presuma che via sia una pluralità di soggetti le cui pretese creditorie siano frustrate dall'inadempimento dell'imprenditore. Ebbene, deve precisarsi che per la dichiarazione di fallimento dell'impresa occorre che questa sia in una condizione patologica, e dunque che il suo status sia idoneo a ledere, in via potenziale ovvero attuale, le sfere giuridiche di terzi, sotto il profilo della mancata soddisfazione delle obbligazioni assunte nei loro confronti, non avendo importanza, per l'accertamento qui in esame, che l'inadempimento sia uno ovvero ve ne siano numerosi, e nemmeno che le obbligazioni siano adempiute tutte, se l'adempimento avviene con mezzi anomali e non alle scadenze pattuite, e dunque non regolarmente (cfr. Trib. Roma 6 dicembre 2000, in Fall., 2001, 833; Trib. Milano, 2 dicembre 1993, in Fall., 1994, 645. Cfr. anche Trib. Sulmona, 3 aprile 2003, in Fall., 2003, 1230, cha ha al contrario sostenuto che se l'inadempimento riguarda un unico credito che è oggetto di accertamento giudiziale e la cui contestazione risulti manifestamente infondata, esso non integra il sintomo della insolvenza e in ogni caso l'inadempimento di una obbligazione non è sufficiente affinché un imprenditore possa essere dichiarato fallito in quanto non può di per sé costituire sintomo di dissesto dell'impresa commerciale, a meno che non sia accompagni ad altri elementi sintomatici; cfr. altresì App. Potenza 23 dicembre 2005, in Dir. Gius., 2006, 22, 29, annotata da Di Marzio). Sul punto, va tuttavia precisato che se la mancata soddisfazione delle obbligazioni è dovuta ad una situazione di illiquidità temporanea e passeggera del patrimonio, essa non integra, secondo la giurisprudenza lo stato di insolvenza. Tale conclusione, assunta dalla giurisprudenza anche prima della riforma (Cfr. Trib. Roma 10 aprile 1987, in Dir. fall., 1987, II, 7, 184; Trib. Padova, 13 maggio 1997, in Fall., 1998, 208, con la precisazione che si rinviene la insolvenza quando l'impossibilità di adempiere è cronica ed irreversibile; cfr. ancora Trib. Torino 10 aprile 1997, in Dir. fall., 1997, II, 533 e Trib. Roma 8 febbraio 1995, in Dir. fall., 1995, II, 2, 190), è a fortiori ancor più valida dopo la legge n. 5 del 2006 che ha precisato come l'insolvenza sia una particolare specie dei più ampio genus delle crisi d'impresa (cfr. il terzo comma dell'art. 160 l.fall.). Benché il testo normativo dettato dell'art. 5 l.fall. sia rimasto inalterato, e dunque giustifichi una lettura del medesimo nel senso che si possa parlare di insolvenza solamente quando i sintomi si siano esteriorizzati, dovendosi escludere negli altri casi, le modifiche della legge in ordine agli istituti relativi alla soluzione negoziale delle crisi d'impresa (cfr. gli istituti disciplinati dagli artt. 67, comma terzo, lett. d, e 182-bis e dalla procedura di cui all'art. 160 l.fall.), inducono a ritenere che si possa accertare l'esistenza del insolvenza anche attraverso una esteriorizzazione minima ovvero in assenza di essa, come fattore di sviluppo, all'interno di un giudizio prognostico congruamente motivato (la più recente giurisprudenza ha affermato che ai fini della dichiarazione di fallimento lo stato di insolvenza dell'imprenditore è configurabile anche in assenza di protesti, pignoramenti e azioni di recupero dei crediti, i quali non costituiscono parametro esclusivo del giudizio sul dissesto, atteso che è la situazione di incapacità del debitore a fronteggiare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni a realizzare quello stato, secondo le previsioni dettate dall'art. 5: cfr. anche Cass. n. 9856/2006). In realtà, il giudizio prognostico può portare a ritenere che lo stato di insolvenza sia reversibile, ma ciò non ne esclude l'esistenza, a meno che l'entità dei sintomi e il complesso della situazione in cui si trova l'impresa non dimostrino che l'imprenditore è in grado di far fronte alle obbligazioni assunte (cfr. Cass. n. 26217/2005, la quale ribadisce che affinché vi sia insolvenza si deve essere in presenza di una situazione di impotenza strutturale e non soltanto transitoria; mentre Cass. n. 2211/2000, afferma che vi è una ontologica identità fra stato di insolvenza e stato di momentanea difficoltà dell'impresa, differenziandosi i due fenomeni soltanto in relazione alla possibilità di una prognosi positiva o negativa circa lo sviluppo della crisi, nel caso in cui al debitore venga concessa una moratoria). Ebbene, il procedimento logico di accertamento dello stato di insolvenza è necessariamente induttivo, atteso che parte da alcuni elementi esteriorizzati, sintomatici, per accertare l'esistenza di uno status dell'impresa, non dichiarato né ammesso dalla stessa (Pajardi-Paluchowscki, 97). Ne discende che, per questa ragione, operandosi nel campo delle presunzioni (cfr. Cass. n. 3865/1984, Trib. Milano 18 marzo 1985, in Fall., 1985, 677. Si deve affermare pertanto che, ai fini della opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento per carenza di insolvenza, non è risolutiva la circostanza della chiusura del fallimento per assenza di domande di insinuazione al passivo (conforme Trib. Milano, 14 maggio 1987, in Fall., 1987, 994), all'interno di un processo, gli elementi sui quali il tribunale basa il proprio accertamento devono necessariamente essere gravi, precisi e concordanti, tali da dimostrare l'esistenza di uno stato di insolvenza che deve essere irreversibile ed oggettivamente conoscibile da un soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (in dottrina, si è sostenuto che la conoscibilità dello stato di insolvenza dovesse essere oggettiva: cfr. Pajardi, La sentenza di fallimento, Milano, 1961, 361; in giurisprudenza in senso conforme: Cass. n. 33602/1983; cfr. anche Cass. n. 3761/1991). Da ultimo, va ricordato che il giudizio sulla sussistenza dello stato di insolvenza, benché presuntivo, è sicuramente un giudizio di mero fatto che, ove eseguito alle ordinarie regole di logicità e sufficienza della motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 26217/2005; Cass. n. 4455/2001, in dottrina, cfr. Bonsignori, 361). Segue. L'insolvenza e lo stato di crisiIl nuovo testo dell'art. 160, l.fall., al primo comma dispone che il concordato preventivo può essere proposto dall'imprenditore «che si trova in stato di crisi», ed all'ultimo comma aggiunge che «Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato d'insolvenza» (sul punto, v. Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 80), che icasticamente osserva che sul piano tecnico queste disposizioni lasciano un certo sconcerto, perché sembrerebbe che il legislatore della riforma abbia tenuto ad «estendere» il privilegio del concordato preventivo anche ad imprenditori che non siano ancora in stato d'insolvenza, senza considerare che chi chiede ai propri creditori uno «sconto» sul debito, per ciò stesso dà a vedere di non essere in grado d'estinguerlo. Il fenomeno sarebbe — secondo l'Autore — tanto evidente che, per secoli la richiesta di una moratoria, l'abbandono dei beni ai creditori, la proposta di un concordato sono stati considerati tipici fatti di bancarotta, e cioè come fatti «equipollenti» ad una «cessazione materiale dei pagamenti». La autorevole dottrina da ultimo citata ritiene, che il legislatore si sia deciso a compiere questo strano intervento (su una norma, che non aveva mai dato problemi) per elargire agli imprenditori in difficoltà un ulteriore beneficio, in modo da invogliarli ad avanzare una proposta concordataria, senza dover essere stigmatizzati da un marchio infamante. Si sarebbe pensato, così, di far assumere all'istituto una funzione di prevenzione della crisi per riparare alla mancata previsione delle procedure d'allerta: cfr., sul punto, anche Pacchi, 2005, 23 s.; Lo Cascio, 2011; Ferro; Marinoni-Della Chà, 758; Rocco Di Torrepadula, 216). Sul punto, occorre chiedersi se, a fini ricostruttivi del sistema, la procedura – poiché è stata estesa anche a creditori non insolventi – abbia mutato natura giuridica, nel senso che l'imprenditore potrebbe chiedere un sacrificio ai propri creditori, non già per superare una situazione di sbilancio patrimoniale o di temporanea difficoltà finanziaria, bensì semplicemente per «ristrutturare» l'impresa, al fine di incrementarne la produttività e di meglio attrezzarla nei confronti della concorrenza (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 82). Sul piano teorico questa ricostruzione potrebbe sembrare seducente e porterebbe davvero l'istituto al di fuori dell'area delimitata dall'art. 5, l.fall. Sul piano pratico, tuttavia, essa va incontro all'obiezione che il beneficio del concordato non viene chiesto ad un'ipotetica autorità che governi l'economia, vigilando sulla produttività delle imprese; ma viene chiesto ai creditori, i quali, verosimilmente non concederebbero il loro assenso, se non fossero mossi dall'intento egoistico di salvare le loro ragioni creditorie (cfr. sempre, Terranova, 2013, ibidem, il quale fa osservare che l'ammodernamento degli impianti aziendali, il loro ampliamento, o una ristrutturazione organizzativa, sono obiettivi che il debitore deve perseguire con le proprie forze, chiedendo semmai nuove risorse finanziarie al mercato, non potendosi sacrificare i diritti dei creditori in nome di presunte finalità istituzionali, che non hanno nulla a che vedere con un'economia di mercato). In realtà, la funzione dell'istituto è rimasta invariata, con l'unica differenza che il tribunale non è più chiamato – almeno in prima battuta – a verificare se il concordato sia conveniente per i creditori, ovvero se il debitore sia in grado di pagarli tutti senza falcidie. Nello stesso tempo, tuttavia, quanto precede non deve indurre a ritenere che nulla sia cambiato per quanto concerne i rapporti tra concordato preventivo e fallimento. La forza delle parole, invero, ha spinto il legislatore della riforma ad interporre – per una presunta esigenza logica – una rigorosa cesura tra le due procedure, nel senso che la mancata approvazione della proposta concordataria da parte dei creditori non implica l'automatica apertura del concorso esecutivo, ma rimette l'iniziativa nelle mani dei creditori e del pubblico ministero (ex art. 162, comma secondo, e art. 179, comma primo, l.fall.), i quali dovranno chiedere che venga accertata l'insolvenza (cfr. sempre Terranova, Insolvenza, 2013, , cit., 85, il quale osserva puntualmente che anche in questo caso la differenza può sembrare più formale che sostanziale, dato che la proposta di concordato costituisce comunque un grave indizio (non si può parlare di una vera e propria confessione, dato che si verte su interessi non disponibili) della sussistenza del dissesto, con la precisazione tuttavia che la nuova disciplina consente al debitore di dimostrare che l'insolvenza, nel frattempo, è stata eliminata: o perché si è trovato un acquirente dell'azienda (ed il prezzo è tale da poter soddisfare tutti i creditori); oppure perché è in corso una fusione, perché sono entrati nuovi soci, perché un cliente ha pagato, perché si sono sbloccate certe risorse (un credito IVA, il corrispettivo di un appalto) e via dicendo).In via definitiva, può ritenersi che i concetti di «stato di crisi» e di «stato di insolvenza» si pongono tra loro in rapporto di genere a specie (Pajardi-Paluchowscki, cit., 814), rientrando nel primo sia l'insolvenza vera e propria sia situazioni ad essa prodromiche o finitime, destinate a distinguersi sul piano di un loro possibile superamento, sia pure attraverso provvedimenti straordinari di riorganizzazione e ristrutturazione del debito (Cavalli, 2006, 31). Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della integrazione del presupposto oggettivo dello stato di crisi è sufficiente «uno stato di difficoltà economico-finanaziaria non necessariamente destinato ad evolversi nella definitiva impossibilità ad adempiere impossibilità ad adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni» (Così, Cass. n. 18437/2010; in senso analogo, nella giurisprudenza di merito Trib. Modena 16 ottobre 2009, in Fall., 121; App. Milano, 12 ottobre 2006, in Fall., 2007, 32; Trib. Milano, 10 marzo 2006, in Fall., 2006, 570). Risulta ovvio che la ratio della modificazione del presupposto oggettivo di accesso alla procedura concorsuale minore è da individuarsi nella anticipazione della utilizzabilità dello strumento concordatario sin dalla fase iniziale delle difficoltà di impresa, affinché possano essere adottati per tempo i necessari interventi risanatori e conservativi (così, Pajardi-Paluchowscki, cit., 813. Alcune decisioni hanno individuato la soglia minima della crisi nella illiquidità momentanea, assimilabile alla «temporanea difficoltà di adempiere» già presupposto oggettiva dell'amministrazione controllata: cfr. Trib. Roma 1 febbraio 2006, in Dir. fall., 2007, II, 95; Trib. Sulmona, 19 gennaio 2006, in Fall., 2006, 608; Trib. Bologna, 15 novembre 2005, in Giur. comm., 2006, II, 891), anche se non possono escludersi situazioni di declino economico compatibili con la regolarità dei pagamenti: cfr. Trib. Salerno, 5 ottobre 2005, in Dir. fall., 2006, II, 153 che ha consentito l'accesso alla procedura all'impresa che non sia più in grado di conseguire il proprio oggetto sociale). Accordi e comportamenti escludenti lo stato di insolvenza. Il pactum de non petendo e la fiducia dei creditoriRisulta interessante esaminare, a questo punto della trattazione, l'ipotesi in cui, pur di fronte a uno stato di insolvenza conclamato, e cioè all'incapacità del debitore di far fronte alle proprie obbligazioni, si possa escludere la sussistenza dello stato di insolvenza in base ad un accordo concluso tra debitori e creditori che inibisca le iniziative cautelari ed esecutive che gli stessi sarebbero legittimati ad assumere. Si allude alla ipotesi che, nella prassi applicativa, prende il nome di pactum de non petendo, e cioè un atto negoziale che esclude la possibilità di agire giudiziariamente o in via arbitrale per ottenere coattivamente l'esecuzione dell'obbligazione che pacificamente il debitore non è in grado di soddisfare (Dimundo, 905; Lembo, 1084; Romano, 1035). Invero, il patto può essere puro oppure accompagnarsi ad una rinegoziazione delle scadenze dei debiti insoddisfatti, fungendo in tal modo da elemento prodromico ad una sorta di piano di ristrutturazione dei debiti e dei crediti (così, Pajardi-Paluchowscki, cit., 100). Sul punto, è stato osservato in dottrina che la circostanza per la quale tale strumento continui ad essere utilizzato o possa comunque essere utilizzato in alternativa ovvero in aggiunta alle figure di composizione concordata della crisi fa sì che lo stesso mantenga la sua rilevanza nel panorama dei tentativi di soluzione della crisi ovvero di rimozione temporanea dell'insolvenza (D'Aquino, Sub art. 5, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 35). Occorre avvertire sul punto qui da ultimo in discussione che, in ragione della mancanza di una tutela autonoma del pactum e di una sua tipicità legale, affinché lo stesso possa produrre propri effetti concreti ed apprezzabili, ed in particolar modo rimuovere lo stato di insolvenza, devono necessariamente aderirvi tutti i creditori ovvero un numero tale che il tribunale possa dedurre dalla sua entità la sussistenza di una fiducia larghissima e generalizzata nel proprio debitore da parte del ceto creditori. In giurisprudenza si sono espressi per la necessità di una adesione totalitaria il Trib. Napoli, 23 aprile 2002, in Giur. Merito, 2003, 1952; Trib. Roma, 29 luglio 1981, in Fall., 1982, 596. V. anche Cass. 7 luglio 1992, n. 8271, in Fall., 1993, 33). Sul punto, va tuttavia precisato che al tempo non sussisteva la possibilità di far ricorso alla procedura di cui all'art. 67 ovvero o meglio ad un procedura di cui all'art. 182-bis. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha invero di nuovo affermato che l'efficacia del pactum, pur non essendo condizionata all'adesione di tutti i creditori, è tuttavia correlata alla sua idoneità ad escludere lo stato di insolvenza del debitore, se e in quanto esso testimoni la condizione di credito e di fiducia di cui gode nel ceto creditorio considerato nel suo complesso (Cass. n. 27386/2005). Contra, Trib. Palermo 18 settembre 2000, in Gius., 2000, 1416, che ha escluso che il patto possa escludere l'insolvenza quando questa persista a causa di altre situazioni obbligatorie estranee all'accordo, scadute e non soddisfatte. Quanto, poi, alla sussistenza concettuale dell'insolvenza, anche la esistenza di una percentuale rilevante di aderenti deve ritenersi idonea ad escludere l'insolvenza a patto che la quota di non aderenti possa essere facilmente affrontata dalla impresa che attraverso il patto ritrova l'equilibrio finanziario (v. Cass. n. 5736/1993). In conclusione, deve ritenersi che — per escludersi lo stato di insolvenza in presenza di un pactum con i creditori — la quota di non aderenti al patto deve essere facilmente affrontata dalla impresa debitrice la quale attraverso l'accordo deve poter ritrovare con agevolezza l'equilibrio finanziario. La sussistenza dello stato di insolvenza, anche di fronte alla difficoltà economica di adempiere le obbligazioni scadute, deve essere esclusa in via indiziaria anche nell'ipotesi in cui si accerti concretamente che, nonostante le obbligazioni scadute anche da molto tempo, nessuno dei creditori abbia assunto iniziative recuperatorie coattive, mentre gli stessi creditori continuano a fornire l'imprenditore, facendogli credito (Pajardi-Paluchowscki, ibidem). Questo tipo di comportamento assunto dal ceto creditorio può fondatamente indurre il tribunale a ritenere che non sussista uno stato di attuale insolvenza, poiché, pur in presenza della crisi, i creditori continuano a fidarsi del debitore, fornendogli ulteriori chances di adempimento e consentendogli di esercitare la sua capacità produttiva (Trib. Milano, 22 luglio 2002, ove si è escluso che fosse configurabile lo stato di insolvenza di una impresa, pur priva di risorse finanziarie, in presenza di assoluta mancanza di richieste di pagamento da parte dei creditori). I debiti «scaduti e non pagati» di cui all'ultimo comma dell'art. 15 l. fall.Una volta chiarito il concetto di insolvenza, occorre tuttavia ora esaminare, in stretta connessione, il contenuto dell'ultimo comma dell'art. 15, l.fall., norma a tenore della «Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei crediti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferire a euro trentamila...». si è voluto offrire con tale norma una copertura legale alle prassi di alcuni grandi tribunali italiani, i quali, per non essere oberati da un compito improprio di «recupero crediti», avevano cercato di tenersi al riparo da istanze di fallimento legate a pretese d'importo bagatellare, attraverso un atteggiamento – spesso informale, talvolta recepito in regolamenti e circolari di carattere programmatico e organizzativo – volto a scoraggiare le iniziative dei piccoli creditori (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 65). Dal punto di vista concettuale, autorevole dottrina (Terranova, Insolvenza, 2013, ibidem), ha posto fondatamente il dubbio che la disposizione introdotta con la riforma venga ad incidere – sia pure indirettamente – sul concetto di insolvenza, giacché il fallimento non può più essere dichiarato se non vi sono dei crediti «scaduti e non pagati» per un determinato importo complessivo indicato nella norma da ultimo ricordata. Si potrebbe invero ipotizzare che, sotto questo profilo, gli inadempimenti siano tornati ad essere – non già nella veste di meri sintomi dell'impotenza a pagare – ma quali fatti costitutivi, indispensabili ai fini dell'apertura del concorso. Sul punto, deve ritenersi che la disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 15 sia talmente estranea alla logica del sistema, da aver indotto la parte più consapevole della dottrina a cercare in tutti i modi di ridurne la rilevanza teorica e pratica. Volendo ora ripercorrere gli orientamenti che si sono manifestati sulla questione da ultimo in esame, occorre ricordare che una parte della dottrina (De Santis, 332), si è spinta ad affermare che la norma de qua individuerebbe un ulteriore limite dimensionale dell'impresa da collocare accanto a quelli dettati dal secondo comma dell'art. 1, l.fall.; altra autorevole dottrina (Sandulli, spec. 97-9) ha sostenuto che l'entità dei crediti scaduti e non pagati sarebbe rilevante solo quando l'insolvenza risulti da inadempimenti, e non quando emerga dagli altri «fatti esteriori», presi in considerazione dall'art. 5, l.fall.; tuttavia, la maggioranza della dottrina è concorde nel rilevare che la norma più volte citata non incida sulla nozione di insolvenza, giacché si limita a rendere improcedibile la domanda, qualora nel corso dell'istruttoria prefallimentare non si raggiunga la prova del nuovo requisito richiesto ex lege. Deve ritenersi che la collocazione ed il tenore letterale della norma mostra chiaramente la circostanza secondo cui il legislatore non ha inteso modificare, con la introduzione dell'ultimo comma dell'art. 15 l.fall., la nozione di insolvenza, ma ha voluto solo introdurre un ulteriore limite alla possibilità di attivare la procedura fallimentare, in ipotesi nelle quali è probabile che le spese della procedura superino il valore del credito per il quale si agisce. Peraltro, occorre evidenziare che la detta preclusione opera solo in sede di apertura del fallimento e non già per l'accesso alle altre procedure concorsuali (accordi di ristrutturazione dei crediti, concordato preventivo, amministrazioni straordinarie di vario tipo, liquidazioni coatte amministrative) nelle quali le valutazioni prospettiche, in merito alla sorte dell'impresa in crisi, acquistano un ruolo molto più incisivo (Terranova, Insolvenza, 2013, 66). Inoltre, l'autorevole dottrina qui più volte richiamata (il richiamo è sempre a Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem. L'Autore evidenzia altresì che, se è vero che l'ultimo comma dell'art. 15 sembra voler mettere in primo piano l'attualità degli inadempimenti, è anche vero che la riforma nel suo complesso valorizza le valutazioni prognostiche: istituti come i piani di risanamento — di cui all'art. 67, comma terzo, lettera d), gli accordi di ristrutturazione di cui all'art. 182-bis, l.fall. ed il concordato preventivo non avrebbero senso, se non si potesse dare rilievo al fatto che le modifiche apportate all'esposizione debitoria eliminano, in prospettiva, l'insolvenza. Naturalmente, l'imprenditore in crisi deve essere in grado di dimostrare che i predetti accordi gli consentono di ripristinare al più presto la regolarità dei flussi solutori; ed il giudice deve accertare la fattibilità del piano, in modo da garantire che tutti i creditori — compreso il creditore che ha presentato l'istanza di fallimento — vengano soddisfatti per intero ed alla scadenza, non appena la parentesi processuale si sia chiusa. È ovvio, però, che, se bastasse il fatto storico di uno o più inadempimenti ad imporre l'apertura del concorso esecutivo, l'intero disegno della riforma verrebbe vanificato), ha acutamente osservato che il concetto di debito scaduto e non pagato include anche i rapporti obbligatori di più lunga durata (i.e i mutui), per i quali si possa invocare la decadenza dal beneficio del termine ai sensi dell'art. 1186 c.c. mettendo ciò in evidenza che l'insolvenza debba essere valutata «a prescindere» dall'ammontare della pretesa del creditore istante, perché proprio l'indagine prospettica sulla futura capacità d'adempiere del debitore può fornire indicazioni importantissime sulla reale entità del passivo «esigibile» a vista. In conclusione, può ritenersi che il senso di questo ulteriore limite alla fallibilità vada rintracciato, da un lato, nella dichiarata volontà di evitare i fallimenti di entità così modesta che il costo per la collettività dell'attivazione della procedura fallimentare non risultasse giustificato, dall'altro nel recepimento di una prassi assunta dai tribunali più rilevanti volta alla deflazione delle dichiarazioni di fallimento. Il limite contenuto nell'art. 15, ultimo comma, è stato incrementato ad euro trentamila nell'ambito del decreto correttivo, e ciò in apparente controtendenza con la volontà di ampliare le soglie di fallibilità contenuta nella modifica dell'art. 1 da parte del predetto decreto. Tale contrasto non esiste ed è solo apparente, atteso che se, per un verso, vi è la indubbia volontà di aumentare le soglie di fallibilità, per altro verso è restata assolutamente valida e condivisa la prospettiva di evitare fallimenti inutili e di attivare la procedura fallimentare ed i suoi inevitabili costi di gestione. Detto altrimenti, di fronte ad una obbligazione insoddisfatta di così lieve entità economica, sintomatica di un piccolo dissesto, il legislatore ha preferito non consentire la dichiarazione. Peraltro, va anche aggiunto che l'esistenza di un solo inadempimento, come anche l'esistenza di un inadempimento modesto, non è di per sé significativa, dovendo essere integrata da una indagine concreta della situazione dell'impresa, per poter dimostrare la sussistenza della insolvenza. Va precisato che il limite qui in esame fa riferimento esclusivamente a debiti scaduti e dunque ha una valenza certamente diversa rispetto alla soglia di non fallibilità di cui alla lettera c) dell'art. 1 l.fall., ove l'ammontare dell'indebitamento fa riferimento, indifferentemente, a debiti scaduti e non scaduti. Sulla natura giuridica di tale limite, si è detto da una parte della dottrina che sia una condizione di procedibilità dell'azione esecutiva concorsuale; da altri che rappresenti una causa di non fallibilità, restando del tutto autonoma rispetto all'insolvenza (Vitiello, 27). Sul punto, va aggiunto che se si accoglie la tesi della sua riconducibilità alla condizione di procedibilità, allora la stessa non dovrà essere oggetto di eccezione e potrà essere rilevata anche officiosamente dal giudice (Trib. Pescara, 19 dicembre 2006, in Fall., 2007, 553). Insolvenza e temporanea difficoltà d'adempiereVa ricordato che la riforma del 2006 ha abrogato l'istituto dell'amministrazione controllata, eliminando dunque di fatto la problematica sulla questione del se la temporanea difficoltà d'adempiere sia una forma d'insolvenza ovvero qualcosa di diverso. Tuttavia, può essere utile un approfondimento della questione per ragioni di completezza di indagine. Peraltro, il concetto di «difficoltà d'adempiere», espulso dal sistema nel modo sopra accennato, è rientrato poi in gioco, poiché costituisce – in un contesto normativo diverso – uno dei profili del sovraindebitamento del debitore civile. Ebbene, in materia di temporanea difficoltà d'adempire erano state proposte tre teorie (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 86). Per la prima teorica si tratterebbe di una situazione di vera e propria insolvenza; per la seconda, si tratterebbe di una situazione di illiquidità, da tenere distinta dal dissesto economico; per la terza, si sarebbe invece in presenza di una situazione intermedia, nella quale non si riesce a stabilire se l'impresa possa ancora risollevarsi con le proprie energie finanziarie ovvero se, in mancanza di una moratoria, sarebbe destinata a soccombere (per un approfondimento, si rimanda a Satta, 478 ss.; Lanfranchi, 485 ss.; Lo Cascio, 1989; Niutta, 503; per la tesi intermedia, v. anche Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Comm. S.B., a cura di F. Bricola e F. Galgano, art. 64-71, I, Parte generale, Bologna-Roma, 1993, 167 ss.). Sul punto, occorre concordare con quell'autorevole dottrina (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem), la quale sostiene che la temporanea difficoltà d'adempiere non potesse, nel regime previgente, essere identificata con una situazione di illiquidità la cui radice intaccava la struttura economica dell'impresa, atteso che la rilevante circostanza che nel 1976 si fosse prolungata la durata massima della procedura da uno a due anni rendeva poco attendibile la tesi che si volesse porre rimedio solo a problemi di carattere finanziario. Ed invero, in un lasso di tempo così lungo, sarebbe stato possibile affrontare anche criticità di natura diversa. Peraltro, giova ricordare che l'ammissione alla procedura di amministrazione controllata era subordinata alla dimostrazione che esistessero «comprovate possibilità di risanare l'impresa», di talché si deve escludere ogni accostamento tra la situazione d'insolvenza e quella qui in esame. Non si può sottovalutare che il nostro ordinamento regolava in maniera diversa il passaggio dall'amministrazione controllata al fallimento, rispetto all'analoga vicenda che collegava il concordato preventivo all'apertura del concorso; e non si poteva trascurare, inoltre, che la concessione di una dilazione è stata sempre considerata – sul piano delle valutazioni sociali – come qualcosa di meno della concessione di uno «sconto» sull'ammontare del credito, tanto ciò è vero che in molti ordinamenti la prima può essere concessa anche senza il consenso dei creditori (Ferri, Insolvenza e temporanea difficoltà d'adempiere, in Riv. dir. comm. 1964, I, 445 ss.). Proprio sulla base di questi ultimi rilievi, risulta condivisibile quella dottrina già sopra menzionata secondo la quale la temporanea difficoltà d'adempiere non potesse essere né equiparata, né contrapposta, allo stato d'insolvenza, giacché la prognosi sulle possibilità del debitore d'uscire indenne dalla crisi — senza l'aiuto della moratoria — non sarebbe stata né «fausta» né «infausta», bensì semplicemente «dubbia» o, se si preferisce, «riservata» (le espressioni virgolettate sono state estratte da Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, cit., 171 ss.). Al momento dell'ammissione alla procedura la situazione economica sarebbe stata tanto incerta, da non permettere di stabilire se l'imprenditore fosse già insolvente, o meritasse ancora la fiducia del sistema. In ogni caso, poi, sul piano formale mancava ogni accertamento del giudice al riguardo. Insolvenza e dissestoSul punto, occorre chiarire che nel linguaggio atecnico i termini «insolvenza» e «dissesto» vengono talvolta considerati sinonimi. Tuttavia, va ricordato che il legislatore ha utilizzato il secondo nel campo della disciplina penalistica del fallimento, in una accezione che sembra essere diversa dal concetto l'insolvenza. Il termine «dissesto» non ha un contenuto semantico univoco e perfettamente stabilizzato, giacché i vocabolari lo definiscono come un «disordine, economico o morale, difficilmente correggibile», oppure come uno «stato di precarietà» (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 89). Nel campo giuridico-economico, si scopre che, in alcuni casi, il predetto termine designa una situazione più grave dell'insolvenza in quanto segnala una situazione nella quale l'organizzazione imprenditoriale si sarebbe irrimediabilmente dissolta e l'azienda avrebbe cessato di produrre o si sarebbe addirittura disgregata. Sotto altro profilo, il termine designerebbe, invece, una situazione di confusione o di disorganizzazione che non implica necessariamente una interruzione dei flussi finanziari. Più delicata questione è invece l'utilizzazione del termine «dissesto» nel campo del diritto penale fallimentare. Qui, la predetta espressione lessicale sembrerebbe recuperare per intero il proprio significato etimologico, di «essere fuori sesto», di non essere più «in equilibrio» sotto il profilo economico. Ne discende che, da tale punto di vista, le circostanze che hanno provocato il dissesto potrebbero risalire a tempi molto anteriori alla situazione d'insolvenza che ha portato, poi, alla dichiarazione di fallimento ovvero potrebbero essere addirittura anteriori alla registrazione delle prime perdite in bilancio. Se quanto precede è vero, allora deve ritenersi che la nozione penalistica non possa essere accostata né allo sbilancio patrimoniale né al concetto d'insolvenza (Terranova, Insolvenza, 2013, ibidem). Lo squilibrio tra attivo e passivoLa questione della sussistenza di uno squilibrio fra l'attivo patrimoniale ed il passivo di bilancio di una società ovvero tra le componenti attive del patrimonio di un imprenditore ovvero di quelle passive è sempre stato oggetto di ampia discussione. Lo squilibrio tra attivo e passivo in favore di quest'ultimo è elemento fortemente sintomatico di uno stato di crisi ed in effetti si presenta in modo costante nelle imprese che vengono dichiarate fallite, ma ciò non riveste un valore assoluto (cfr. Cass. n. 26217/2005, che ha fissato il principio secondo cui lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività. E anche il dato di un assai marcato sbilanciamento tra l'attivo e il passivo patrimoniale accertati, pur se non fornisce, di per sé solo, la prova dell'insolvenza — potendo comunque essere superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affari, o da eventuali ricapitalizzazioni dell'impresa — nondimeno deve essere attentamente valutato, non potendosene per converso radicalmente prescindere, perché l'eventuale eccedenza del passivo sull'attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, nella maggior parte dei casi, uno dei tipici «fatti esteriori» che, a norma dell'art. 5 si mostrano rivelatori dell'impotenza dell'imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni: Cass. I, n. 26217/2005). In realtà, non può non ritenersi che lo squilibrio in parola rappresenti un sintomo la cui esteriorizzazione va valutata in una chiave anche prospettica in connessione alla prognosi sull'attività produttiva della impresa (Pajardi-Paluchowscki, 102). Potrebbe in realtà prospettarsi l'ipotesi in cui il detto squilibrio non sia significativo, giacché l'imprenditore gode ancora di fiducia da parte degli enti creditori e finanziari, potendo far fronte pertanto alle proprie obbligazioni attraverso il ricorso al credito, pur in presenza di un forte sbilanciamento delle componenti patrimoniali (Satta, 50, che evidenzia che la vera causa della insolvenza sia costituita, nella realtà effettuale, dalla perdita del credito da parte dell'imprenditore). Per contro, può dirsi che la stessa circostanza che l'attivo patrimoniali superi il passivo non necessariamente esclude l'esistenza della insolvenza, atteso che la stessa è una situazione di impotenza della impresa a far fronte, con mezzi ordinari e alle scadenze pattuite, alle proprie obbligazioni (l'esubero nello stato patrimoniale delle poste attive su quelle passive non necessariamente porta ad escludere l'esistenza dello stato d'insolvenza, secondo Cass. n. 8656/1992; Cass. n. 5525/1992. Si pensi all'ipotesi di impresa caratterizzata da una forte immobilizzazione patrimoniale costituita da immobili difficilmente liquidabili senza la alienazione dei quali l'impresa non è in grado di far fronte ai costi principali della produzione). La sintomatologia degli inadempimentiConsiderato che il giudizio sullo stato di insolvenza rappresenta pur sempre un giudizio indiziario di tipo prognostico, il tribunale deve vagliare la sussistenza di tale status anche attraverso la verifica del numero e della tipologia di inadempimenti che rappresentano invero la sintomatologia più evidente dello stato di insolvenza. Così, proprio l'inadempimento di un'obbligazione di tenue contenuto economico potrebbe di per sé condurre verso un giudizio di emersione dello stato di insolvenza, per il valido argomento secondo cui l'impresa non è in grado di soddisfare una obbligazione modesta, soprattutto se si tratta di una obbligazione il cui contenuto, seppur di esigua identità economiche, fa iscrivere quel credito in una categoria fondamentale per l'attività aziendale (vedi il caso di un credito vantato da un «fornitore strategico» della impresa). Sul punto, va precisato che incide, in modo indubbio, sull'accertamento dello stato di insolvenza anche la natura della obbligazione che sia rimasta inadempiuta (Pajardi-Paluchowscki, 103), risultando anch'esso un indice di valutazione sintomatico e rilevante. Si pensi, per fare un facile esempio, alla mancata corresponsione del canone di locazione immobiliare dello stabile ove l'impresa esercita la sua attività ovvero ancora del corrispettivo per la erogazione del servizio del gas o della telefonia fissa, ove la prima si presenta indispensabile per il mantenimento in vita del ciclo produttivo e le seconde per mantenere la funzionalità degli impianti e della rete commerciale. È stato già affermato nelle pagine precedenti che anche il singolo inadempimento può essere indice di insolvenza se accompagnato da caratteristiche esteriori che evidenzino lo stato di decozione dell'imprenditore, potendo invero essere proprio il sintomo chiarificatore di uno stato di insolvenza già conclamato. Del resto, un solo inadempimento di importo trascurabile e senza rilievo potrebbe invece dimostrare che non si versi in stato di insolvenza, e ciò a maggior ragione ove tale inadempimento sia collegato ad una scelta volontaristica del debitore di non voler adempiere perché la relativa prestazione ritenuta come non dovuta (così, App. Potenza 23 dicembre 2005, in Dir. e Gius., 2006, fasc. 22, con nota di Di Marzio, afferma che l'inadempimento di una sola obbligazione non è sufficiente affinché un imprenditore possa essere dichiarato fallito, in quanto non può di per sé costituire sintomo di dissesto dell'impresa commerciale, in senso conforme anche Trib. Genova, 6 aprile 1993, in Fall., 1993, 775; contra, Trib. Milano, 2 dicembre 1993, in Fall., 1994, 645 il quale ha affermato che è sufficiente un solo inadempimento, qualora si manifesti con una peculiare esteriorità che manifesti l'esistenza di un patrimonio in dissesto e l'oggettiva impossibilità del debitore di soddisfare regolarmente con mezzi normali gli obblighi assunti). Detto altrimenti, l'esistenza di un solo inadempimento rappresenta un fatto polisenso, dovendo, poi, l'analisi concreta svolta in relazione alla entità, alla natura e alla situazione globale dell'impresa che illuminerà sulla circostanza se si tratterà di un fatto sintomatico esteriore o meno dello stato di insolvenza. La sintomalogia dei fatti equipollentiDopo aver affermato più volte la natura prospettica e prognostica dell'accertamento dello stato d'insolvenza, è opportuno tuttavia precisare che una maggiore «elasticità» di concetti non implica una maggiore «indulgenza» nei confronti del debitore, presentando invero l'impostazione seguita dalla legge fallimentare proprio il vantaggio di sottoporre alle procedure concorsuali anche i soggetti che, sul piano formale, non hanno ancora cessato i pagamenti, con una anticipazione pertanto della soglia di rilevabilità dello stato di insolvenza (così, Terranova, Insolvenza, 2013, 67. Evidenzia l'Autore che era proprio questo l'obbiettivo principale della ricostruzione del Bonelli, dovendo tuttavia precisare che la situazione, al giorno d'oggi, si presenta in termini del tutto diversi da quelli esaminati dall'Autore da ultimo citato: cfr., sul punto, Bonelli, Del fallimento, cit., 6, 77 s.. Il Bonelli, invero, riteneva che lo stato d'insolvenza potesse essere dichiarato solo in presenza di anomalie comportamentali del debitore, in qualche modo paragonabili agli espedienti (la continuazione dei pagamenti «con mezzi rovinosamente o fraudolentemente procurati»), di cui parlava la seconda parte dell'art. 705, del codice di commercio del 1882. Oggi, invece, si assiste al fenomeno di imprese, che continuano a comportarsi in maniera irreprensibile nei confronti dei fornitori e della clientela, ma che producono giorno dopo giorno perdite così imponenti, da fare ritenere certo che ogni ulteriore ritardo nella dichiarazione d'insolvenza (la quale, per fortuna, non implica più la necessaria dissoluzione dell'organismo produttivo) comporterà ulteriori danni per i creditori, per il personale e, spesso, per l'intera collettività dei contribuenti. Una grande banca in crisi, un'impresa che gestisce un servizio pubblico essenziale, una multinazionale del settore agro-alimentare, possono avere in cassa – nonostante le perdite – la liquidità necessaria per protrarre la produzione ancora per un lasso di tempo apprezzabile. Un intervento anticipatorio nel trattamento della crisi risulta, tuttavia, necessario: sia per non pregiudicare ulteriormente il patrimonio dell'ente; sia per trovare soluzioni, che non interrompano in maniera traumatica l'attività d'impresa, con l'inevitabile conseguenza di disperdere l'avviamento e di recare seri danni al tessuto produttivo circostante: così, ancora Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Sul punto, occorre chiedersi se – in assenza di condotte anomale del debitore – l'insolvenza possa essere accertata sulla base di pure e semplici valutazioni economiche, sia pur fondate sull'opinione di un esperto ed avallate dal giudizio di un'autorità pubblica. In realtà, tutto dipende dall'entità dei capitali che si è disposti ad investire nell'impresa per eliminarne le criticità (di costi, di prodotto, di modello organizzativo, di cultura manageriale, etc.); nonché dal numero d'anni, che l'investitore è disposto ad attendere, prima di tornare all'utile, potendo tali varianti, per altro, essere a loro volta influenzate dalla circostanza che la esternalizzazione di certi costi (quelli derivanti dalla dissoluzione dell'organismo produttivo) in genere si riflette su collettività più ampie di stake-holders, e finisce, dunque, con il ricadere, in un modo o nell'altro, sugli stessi soggetti economici (enti territoriali, enti pubblici, istituzioni finanziarie anche sovranazionali, etc.), ai quali ci si rivolge per un intervento di salvataggio (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Di qui, la necessità di far emergere, anche dal punto di vista normativo, lo stato di crisi alle prime avvisaglie al fine di consentire al debitore di apprestare i necessari strumenti di salvataggio della impresa. In alcuni ordinamenti si è introdotta la nozione di «pericolo di insolvenza» che abilita il debitore ad accedere spontaneamente alle procedure concorsuali, mentre l'intervento autoritativo del giudice — sia pure sollecitato dai creditori o dal pubblico ministero — è riservato alle situazioni di «insolvenza» vera e propria, o di «sovra-indebitamento». Come sopra accennato, lo scopo di tali misure è di lasciare al debitore la massima libertà d'azione, fino a quando è ancora possibile ricapitalizzare la impresa su basi volontarie (con un intervento diretto del titolare o dei soci di maggioranza, oppure con il ricorso a capitali esterni: tramite l'accettazione di nuovi partecipanti nella compagine sociale, o tramite una fusione, uno scorporo d'azienda, e via dicendo), facendo tuttavia salva la possibilità d'aprire il concorso, non appena la situazione dovesse precipitare. Ebbene, come è noto la nostra legge fallimentare non conosce, almeno sul piano formale, la nozione di pericolo d'insolvenza, sebbene il concetto di «crisi», adottato come presupposto degli accordi di ristrutturazione e del concordato preventivo, sul piano pratico si avvicini molto al predetto concetto. Peraltro, il regime penalistico, poi, è piuttosto blando, giacché il reato di bancarotta semplice (art. 217, comma primo, n. 4, l.fall.) si realizza, non già per il ritardo con cui il debitore ha chiesto il proprio fallimento (come accadeva, peraltro, sotto il codice di commercio del 1882), bensì solo quando il predetto ritardo abbia aggravato il dissesto. Inoltre, la perdita del capitale minimo è considerata come una causa di scioglimento della società, la quale deve essere avviata (in mancanza di nuovi apporti) quanto meno alla liquidazione volontaria. Ed invero, anche in questo caso, però, la sanzione per la violazione del precetto è molto tenue, atteso che, per un verso, è di carattere risarcitorio e che, per altro verso, si lega comunque ad un aggravamento del dissesto, che non sempre è agevole dimostrare. Occorre pertanto chiarire quale sia la natura di quei «fatti esteriori» che, ai sensi dell'art. 5, possono costituire, in alternativa alla cessazione dei pagamenti, il presupposto per la dichiarazione di fallimento. Autorevole dottrina (Terranova, Lo stato d'insolvenza, cit. § 2 e 8. Altra dottrina, altrettanto autorevole, aveva evidenziato tuttavia, riprendendo alcuni spunti del Bonelli e del Ferrara, che non vi sarebbe alcun nesso tra l'assoluta atipicità dei fatti allegabili per dimostrare l'insolvenza e la loro ascrizione al sistema delle prove: se ne dovrebbe desumere, pertanto, che i predetti «fatti esteriori» avrebbero natura costitutiva e che, come tali, sarebbero oggetto di un semplice accertamento da parte del giudice, al quale resterebbe preclusa la possibilità di fondare su una prognosi l'apertura del concorso (così Nigro-Vattermoli, cit., 67) aveva sostenuto che i predetti fatti – non essendo stati tipizzati dal legislatore ed avendo come caratteristica comune quella di essere idonei a dimostrare l'impotenza a pagare del debitore – avrebbero dovuto essere qualificati come semplici indizi, privi di qualsivoglia efficacia costitutiva. Sul punto, giova tuttavia ricordare che in subiecta materia si è formata una communis opinio, sostanzialmente non controversa. Invero, tutti ritengono che le valutazioni relative all'insolvenza non possano trarre spunto da giudizi diffusi nell'opinione pubblica e privi d'ogni serio riscontro fattuale, sicché la detta valutazione deve essere fondata su «fatti». Inoltre, la dottrina è unanime nel ritenere che l'insolvenza non possa essere accertata sulla base di perizie esplorative, chieste dal creditore istante o dal pubblico ministero, dovendo questi soggetti fornire la prova — sia pure indiziaria — del presupposto oggettivo del fallimento e non potendosela procurare attraverso la violazione della sfera di riservatezza del debitore, di talché i predetti fatti debbono essere qualificati «esteriori». Ciò premesso, occorre ora per il proseguo della indagine chiarire quando un fatto possa essere definito «costitutivo». Seguendo il ragionamento dell'autorevole dottrina più volte richiamata in quest'ultime pagine e che chi scrive considera, sul punto qui da ultimo in discussione, del tutto convincente e condivisibile, occorre puntualizzare che le due forme di «costitutività» la cui «vicinanza» concettuale è più evidente con la materia in esame sono rappresentate, da un lato, da quella del titolo esecutivo (che consente al creditore di promuovere la vendita coattiva dei beni del debitore e di partecipare alla distribuzione del ricavato, a prescindere dalla prova della titolarità del diritto) e, dall'altro, da quella dei fatti di bancarotta, la cui sussistenza era ritenuta necessaria e sufficiente per aprire il concorso, a prescindere da ogni accertamento sulle condizioni patrimoniali del debitore. Non è arduo cogliere le differenze tra i fatti «costitutivi», da ultimo ricordati, ed i fatti «esteriori», di cui parla l'art. 5. La dottrina processualistica ha spiegato come il titolo esecutivo sia dotato di una notevole autonomia rispetto al diritto sottostante fino al punto da escludere che possa essere qualificato come una semplice prova del medesimo sia pure «sintetica». In ogni caso, poi, non può dimenticarsi che i titoli esecutivi sono rigidamente tipizzati dalla legge, mentre ciò non accade per i presupposti del fallimento. La questione si prospetta in termini più delicati per i «fatti di bancarotta». Qui esisteva una tipizzazione sociale che giustificava la già detta preclusione di ogni ulteriore accertamento sulla realtà sottostante. Oggi, invece, ai predetti «fatti esteriori» si chiede solo la capacità di «dimostrare» che il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Ne discende come risulti evidente, alla luce di quanto ora affermato, la differenza tra la «tipicità» del fatto e la sua natura «costitutiva». Ebbene, se il titolo esecutivo potesse essere sostituito da un documento qualunque ovvero dalla prova testimoniale dell'esistenza della pretesa, non avrebbe senso esaltarne il ruolo sino al punto di affermare che, senza il titolo, il creditore non è legittimato ad esercitare determinati poteri sul patrimonio del debitore. Allo stesso modo, se i fatti di bancarotta non fossero stati almeno socialmente tipici (la fuga, la latitanza, la chiusura dei locali, etc.), non si sarebbe potuto stabilire in quali casi l'iniziativa dei creditori doveva essere considerata legittima. Sul punto, occorre tuttavia precisare che l'esperienza concreta insegna che i gradi di tipicità possono variare giacché in alcuni casi l'ordinamento s'accontenta della stabilità di alcuni tratti comuni alle fattispecie o ai rapporti da assoggettare ad un certo trattamento giuridico, mentre altrove pretende una corrispondenza al modello normativo molto più stringente e rigorosa (Terranova, Insolvenza, 2013, ibidem). In conclusione, può ritenersi che i fatti costitutivi debbono, pertanto, essere dotati di un livello di tipicità tale, da renderli agevolmente riconoscibili. Ciò detto, appare ora evidente l'importanza del passaggio che si è operato nel diritto fallimentare moderno allorquando si è passati da un sistema fallimentare basato sull'accertamento d'alcuni «fatti-evento» (i.e. la cessazione dei pagamenti e gli altri fatti di bancarotta) ai sistemi fondati su «fatti-situazione» (insolvenza, incapienza patrimoniale, stato di crisi, etc.), da «accertare» per il tramite di complesse valutazioni che sfociano in una prognosi sulla futura capacità d'adempiere del debitore. Ne consegue che i fatti esteriori di cui parla l'art. 5 l.fall. sono dei semplici indizi, che differiscono dalle comuni presunzioni, solo perché non possono essere acquisiti con indagini che mettano a repentaglio la riservatezza degli affari del debitore (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Occorre ora invece scrutinare, sul versante pratico, quali siano i così detti «altri fatti esteriori» che l'art. 5 considera equipollenti agli inadempimenti. Sul punto, non può dirsi autonoma la così detta cessazione dei pagamenti. Essa non è altro che una serie di inadempimenti caratterizzata dalla sincronia e soprattutto dalla decisa manifesta volontà dell'imprenditore di bloccare all'unisono tutti rapporti con i debitori. In realtà, la forza sintomatica di questo comportamento è indiscutibile, tanto ciò è vero che in molti paesi è considerata la prova principe dell'esistenza dello stato di insolvenza ovvero la situazione normale nella quale la insolvenza sussiste (come è noto, la cessazione dei pagamenti era alla base del presupposto oggettivo del fallimento prima della legge 267 del 1942, sin dal codice napoleonico). Minore, sebbene non lieve, è la forza sintomatica della chiusura dei reparti ovvero di interi stabilimenti, accompagnata dal licenziamento in massa dei lavoratori, ovvero dall'attivazione per quest'ultimi della cassa integrazione. In realtà, la decisione potrebbe essere determinata anche dalla legittima opzione dell'imprenditore di ristrutturare l'impresa ovvero di riorganizzare i fattori produttivi, ma se la stessa viene ad accostarsi ad altri indizi rivelatori, quali la riduzione del credito bancario ovvero la esistenza di un bilancio squilibrato, allora dovrà ritenersi che il sopra descritto fenomeno possa essere legittimante ascritto alla tipica sintomatologia della insolvenza. Anche la fuga dell'imprenditore rappresenta un antico caso di manifestazione esteriore dello stato di insolvenza, che continua ad avere la sua valenza sintomatica (Pajardi-Paluchowscki, 105). La fuga potrebbe essere in realtà determinata anche da altri fattori, per es. giustificata dalla commissione di reati da parte dell'imprenditore e dalla sua volontà di mantenersi in stato di latitanza. Accanto alla fuga, si colloca tradizionalmente il sintomo del suicidio o del tentativo di suicidio). Una particolare forza sintomatica va poi riconosciuta alla commissione di reati legati alla situazione precaria dell'impresa, dovendosi ritenere sempre valido il teorema indiziario in base al quale l'imprenditore che commette reati – per evitare le gravi conseguenze discendenti in termini di discredito sociale dalla emersione del suo stato di decozione – deve ritenersi già in una situazione di conclamata insolvenza. Ma si pensi altresì anche a quei fatti di reato, per il cui accertamento è propria necessaria la dichiarazione di insolvenza, come nella ipotesi di bancarotta preferenziale nelle quali solitamente il debitore preferisce pagare i soci postergati ovvero creditori a lui vicini, pretermettendo il pagamento degli altri creditori, così evidenziando il suo stato di decozione e di dissesto patrimoniale e finanziario. Sono altresì sintomatici dello stato di insolvenza anche comportamenti tenuti dell'imprenditore che, in alcuni casi, potrebbero essere anche legittimi, ma che, letti in successione logica ovvero in connessione con altri elementi di valutazione, sono sicuramente sintomatici dell'incapacità dell'imprenditore stesso di far fronte alle proprie scadenze. Si pensi, per fare un facile esempio, all'imprenditore che sistematicamente sposta la propria sede legale, collocando, senza apparente giustificazione economica ed organizzativa, la predetta sede in luoghi geograficamente diversi e non collegati tra loro da alcuna motivazione di carattere aziendale. Tale comportamento – che potrebbe sembrare prima facie illogico –, se è unito alla constatazione che nei luoghi di trasferimento non sussiste alcuna organizzazione aziendale e che la stessa si è dileguata ovvero è stata accompagnata dalla messa in liquidazione di fatto dell'impresa, indica, senza mezzi termini, la volontà dell'imprenditore di sottrarsi alle obbligazioni contratte con i propri creditori e di non voler pertanto adempiere alle prestazioni pecuniarie discendenti dalle predette obbligazioni (Pajardi-Paluchowscki, ibidem). Venendo ora ad affrontare l'ulteriore questione del sintomo dei pagamenti effettuati con mezzi anormali (sul punto, non occorre pensare solo al classico esempio della datio in solutum, ma anche alla ipotesi della cessione del credito IVA futuro in pagamento, ovvero alla cessione del credito per i canoni di locazione di un immobile di proprietà in pagamento di un debito), va detto che l'accertato ricorso sistematico, ovvero quanto meno non isolato, ai pagamenti irregolari costituisce comportamento che denuncia in maniera evidente lo stato di insolvenza, secondo la puntuale previsione dell'art. 5 che tratta per l'appunto di incapacità a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (Pajardi, Sub art. 5, in AA. VV., Codice, cit.. § 10). Un altro capitolo della sintomatologia è rappresentato dalle cosiddette vendite rovinose, cioè vendite grandemente sottocosto ovvero a condizioni di pagamento temporalmente così dilatate da costituire in termini economici una vera e propria perdita secca dal punto di vista patrimoniale, ma che vengono realizzate dall'imprenditore nella pressante necessità di acquisire liquidità, con la quale far fronte alle obbligazioni scadenza. Altra sintomatologia da affrontare riguarda il fenomeno, particolarmente accentuato nell'imminenza del fallimento e dunque significativo dello stato di insolvenza, della concessione di garanzie, soprattutto di natura reale, tramite l'accensione di ipoteche ovvero la concessione di pegni, ovvero tramite una sistematica sostituzione a debiti chirografari di debiti garantiti tramite la concessione di mutui ipotecari, episodi che dimostrano, ove il sinallagma contrattuale si presenti privo di equilibrio economico, anche il venir meno della fiducia del ceto creditorio nei confronti dell'imprenditore e la necessità per quest'ultimo di impegnare, sotto forma di garanzia, gli assets dell'impresa al fine di poter continuare l'attività imprenditoriale con una rinnovata fiducia dei creditori (Pajardi-Paluchowscki, 106). Ulteriore profilo sintomatologico dello stato di insolvenza riguarda l'attivazione da parte dei creditori di atti esecutivi, atteso che, a fronte di questi, è più probabile che vi sia una impossibilità di pagare piuttosto che una cattiva volontà o una semplice inerzia del debitore. Piuttosto, giova ricordare che ben difficilmente un imprenditore, che ha la capacità di pagare, consente di lasciarsi pignorare ed asportare attrezzature, macchinari ovvero altri strumenti necessari per lo svolgimento dell'attività produttiva imprenditoriale. E invero, meno significativi, perché è abbastanza comuni nella prassi, sono i pignoramenti presso terzi di crediti e le relative assegnazioni, benché il consentire il pignoramento nei confronti degli istituti di credito — che immediatamente si allarmano e quasi automaticamente procedono alla revoca degli affidamenti — costituisce un comportamento molto rischioso che imprenditore probabilmente affronta solo allorquando non ne possa più fare meno, quando, cioè, non è più in grado per l'appunto di far fronte alle proprie obbligazioni. Da ultimo, va detto che riveste un ruolo indiziario molto significativo dello stato di insolvenza la revoca a tappeto degli affidamenti eseguiti dalle banche, e ciò dopo che sono intervenuti protesti, atteso che l'imprenditore deve poter accedere al credito e la persistenza di facilitazioni creditizie è incompatibile con l'esistenza di protesti in genere di quelli recenti in particolare. Sul punto, va aggiunto che la reiterazione di protesti assurge invece a sintomo gravissimo per un imprenditore commerciale del suo stato di decozione e dissesto patrimoniale. Per quanto concerne, infine, i dati estraibili dal bilancio, occorre ricordare che gli stessi, una volta cristallizzati nei bilanci depositati presso il Registro delle imprese, acquistano piena valenza confessoria, considerato che provengono direttamente dall'imprenditore. Ai fini della dichiarazione di fallimento, costituiscono indizi esteriori dell'insolvenza, gli elementi sintomatici che esprimono lo stato di impotenza funzionale e non transitoria dell'impresa a soddisfare le proprie obbligazioni, secondo una tipicità - desumibile dai dati dell'esperienza economica - rivelatrice dell'incapacità di produrre beni o servizi con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze dell'impresa medesima (prima fra tutte l'estinzione dei debiti), nonché dell'impossibilità di essa di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose compromissioni del patrimonio (Cass. I, ordinanza n. 6978/2019). L'insolvenza nel codice civile. Il sovra indebitamento del debitore civile e del consumatoreIn termini ricostruttivi, occorre innanzitutto ricordare che — ai sensi dell'art. 1186 c.c. — il debitore decade dal beneficio del termine se «è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse». Sul punto, va precisato che la dottrina ha sempre sottolineato che la nozione di insolvenza, alla quale fa riferimento la norma da ultimo citata, è sostanzialmente diversa da quella definita dall'art. 5, e ciò perché rinvierebbe ad un apprezzamento statico del valore della cosiddetta garanzia patrimoniale generica, considerata in funzione del soddisfacimento coattivo dei creditori, senza tenere conto del credito di cui gode l'obbligato e della conseguente capacità produttiva dell'impresa (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 98). Ebbene, si è ulteriormente specificato nel dibattito dottrinario che la norma in esame non regolerebbe il rischio corso dal creditore, di non essere pagato alla scadenza (rischio di primo livello, o di default), bensì quello di non essere sufficientemente garantito dal patrimonio del debitore (rischio di secondo livello, o di recovery) [così, Galletti, 195 ss.; Galletti,, Sub art. 5, in AA. VV., Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, 77 ss. Ne consegue che, secondo l'Autore, il titolare della pretesa sottoposta a termine (il mutuante) non potrebbe anticipare le iniziative di carattere cautelare o esecutivo nei confronti del debitore (il mutuatario), sol perché costui non ha più la liquidità necessaria per adempiere: a condizione, però, che il valore complessivo del patrimonio responsabile (da apprezzare in maniera prospettica, e cioè tenendo conto del presumibile prezzo di realizzo dei beni alla data prevista per l'adempimento) sia sufficiente a soddisfare tutte le pretese]. In realtà, la tesi dottrinaria da ultimo citata ha avuto il merito di riaprire il dibattito su un argomento rimasto per molto tempo ai margini della discussione scientifica. Sul punto, la dottrina (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem) ha osservato che la principale differenza tra le due norme messe a confronto — cioè l'art. 1186 c.c. e l'art. 5 —risiede nel fatto che la prima si pone in una prospettiva individualistica di tutela di un singolo rapporto obbligatorio, mentre la seconda si pone in una prospettiva «oggettiva» e nella direzione di tutela dell'intera massa dei creditori. Risulta condivisibile, sul punto qui da ultimo in discussione, l'affermazione secondo cui la detta divergenza risulta ancora più evidente, se si considera che l'art. 1186 c.c. diventa operativo solo quando si verifica un «fatto nuovo» che giustifica un intervento sul programma originariamente fissato dalle parti, occorrendo, detto altrimenti, che il debitore sia «diventato» insolvente ovvero che non abbia prestato le garanzie promesse ovvero abbia diminuito le garanzie personali, e ciò «per fatto proprio» (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 99. L'Autore evidenzia che la norma civilistica non si caratterizza per il fatto di regolare il profilo della garanzia del credito, piuttosto che il profilo dell'adempimento, perché, se è vero che la sua seconda parte si riferisce alla recovery, è anche vero che sarebbe un'inversione logica (un vero e proprio usteron proteron) considerare il riferimento all'insolvenza come qualcosa che attiene alla sola garanzia patrimoniale, e non anche alla capacità di adempiere del debitore). Pertanto, la nuova impostazione teorica si apprezza particolarmente per l'invito a considerare in una prospettiva dinamica anche i problemi posti dalla norma civilistica, atteso che, per stabilire se il creditore a termine può azionare subito la propria pretesa, non è sufficiente constatare che vi sia un mutamento attuale nel patrimonio del debitore, ma è necessario chiedersi se il predetto mutamento sia destinato ad incidere sulla situazione che si verificherà alla data pattuita per la scadenza del debito. In conclusione, può affermarsi che il termine «insolvenza» conserva il suo riferimento alla regolarità dell'attività solutoria, sia pure in un orizzonte temporale più vasto, la cui dimensione si commisura al termine di scadenza del rapporto obbligatorio, con la precisazione tuttavia che le problematiche sottese all'art. 1186 c.c. sono completamente diverse da quelle dell'art. 5, benché tra le due norme sia rintracciabile un collegamento sul piano operativo. Per completare il quadro ricostruttivo, occorre ora illustrare la nozione di «sovraindebitamento» utilizzata dal legislatore in relazione alla definizione del presupposto oggettivo delle procedure concorsuali destinate alla «composizione della crisi» del cosiddetto debitore civile e del consumatore. Sul punto, va detto che il termine «Sovraindebitamento» rappresenta la traduzione letterale del termine tedesco «Ueberschuldung» che designa, in Germania, il presupposto delle procedure concorsuali rivolte contro persone giuridiche ovvero contro società prive di personalità giuridica, ma costituite esclusivamente da persone giuridiche (Guglielmucci, in La legge tedesca sull'insolvenza, Milano, 2001, 41). Sul punto, è stato precisato che la «Ueberschuldung» ricorre quando il patrimonio del debitore non copre più le obbligazioni esistenti: proprio per questo motivo è stato suggerito dalla dottrina qui in esame d'utilizzare, come corrispondente italiano, l'espressione «sbilancio patrimoniale». Il riferimento al «bilancio» (al quale implicitamente rinvia la nozione di «sbilancio»), non deve far ritenere, tuttavia, che, ai fini dell'apertura del concorso, siano decisive le risultanze del documento contabile, con il quale si chiude l'esercizio annuale dell'impresa, perché è necessario discostarsene almeno in due casi, e cioè: quando non è ragionevole prevedere la continuazione dell'attività (nel qual caso si dovrebbe abbandonare la prospettiva del going-concern, con il conseguente superamento delle valutazioni effettuate sulla base del costo d'acquisto o di rimpiazzo, per sostituirle con il presumibile prezzo di realizzo); oppure, quando le poste dell'attivo non rispecchiano il valore di mercato dei beni che compongono il patrimonio della persona giuridica, come spesso accade quando si utilizza il criterio del costo storico: cfr. Guglielmucci, La legge tedesca sull'insolvenza, cit., 4-5; v. anche Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, cit., 101). Occorre tuttavia precisare che in Germania la nozione della Ueberschuldungè stata da sempre utilizzata per accelerare i tempi dell'apertura del concorso, ritenendosi invero che, allorquando ci si riferisca a persone giuridiche, sia consono, per i giudizi che qui interessano, apprezzare anche risultanze contabili precostituite, giacché già la presenza di un patrimonio netto negativo determina comunque la emersione di una situazione di pericolo che giustifica l'attivazione delle tutele dei creditori, e ciò anche se non si è ancora verificata né l'impotenza a pagare (la Zahlungsunfaehigkeit) né la cessazione materiale dei pagamenti (la Zahlugseinstellug) (Mangano, 103-115). In Italia, invece, il corrispondente concetto di sovraindebitamento è stato da ultimo utilizzato in procedure che possono essere aperte solo ad istanza di un debitore «persona fisica» che non eserciti un'attività economica di un qualche rilievo, giacché deve restare al di sotto delle soglie indicate dal secondo comma dell'art. 1, l.fall. (Macario, 2013, 15 ss.; Id., 2012, 231; Di Marzio, 659; cfr. anche AA. VV., n. 2). Tuttavia, nonostante le rilevate diversità concettuali tra i due ordinamenti in esame, deve ritenersi che il legislatore italiano abbia voluto più semplicemente far ricorso ad una terminologia completamente nuova rispetto a quella utilizzata nel diritto fallimentare, proprio perché il mutamento del registro linguistico serve a segnalare che i problemi da risolvere sono diversi e che, pertanto, deve essere diverso anche l'approccio nell'affrontarli. Sul punto, potrebbe sembrare che la nozione di «sovraindebitamento» sia stata utilizzata per chiarire che – quando si entra nel campo civilistico – il presupposto della procedura non deve essere più valutato in una prospettiva dinamica — la cui valutazione debba tener conto della prevedibile sorte della attività economica e dei flussi finanziari che la alimentano —, bensì in una prospettiva statica, nella quale è sufficiente mettere a confronto l'attivo con il passivo. Tuttavia, occorre concordare con quella autorevole dottrina la quale ritiene che questa tesi – indubbiamente suggestiva sul piano linguistico – trova insuperabili ostacoli in entrambe le definizioni fornite a distanza di pochi mesi dal nostro legislatore. Ed invero, il precedente testo dettato dal secondo comma dello art. 6 l. 27 gennaio 2012, n. 3, disponeva che per «sovraindebitamento» doveva intendersi «una situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni». Come è dato constatare, già nella prima stesura dell'art. 6 non rilevava una situazione di puro e semplice sbilancio patrimoniale, e ciò non solo perché l'espressione finale della norma – portando l'attenzione sulla definitiva incapacità d'adempiere e sulla regolarità dei flussi solutori – aveva fatto diretto riferimento alla nozione di «insolvenza», per come era stata intesa da sempre dalla giurisprudenza, ma anche perché il confronto tra attivo e passivo non avrebbe dovuto essere compiuto in una prospettiva statica, bensì in una prospettiva dinamica (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 103). In realtà, risulta decisivo l'argomento secondo cui – dovendosi prendere in considerazione la parte del patrimonio «prontamente liquidabile» per pagare i creditori – non si sarebbe potuto fare a meno di prestare attenzione alle scadenze dei singoli rapporti obbligatori, per accertare se le disponibilità liquide e i flussi finanziari erano in grado d'estinguerli, non potendosi operare un mero riscontro tra l'attivo ed il passivo e dovendosi al contrario effettuare una valutazione prognostica dello stesso tipo di quella richiesta ai fini dell'accertamento dell'insolvenza in sede fallimentare. Ebbene, questa impostazione non è stata smentita, bensì accentuata, dalla novella di cui al d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con l. 17 dicembre 2012, n. 221. Ed invero, il legislatore non solo ha confermato le due espressioni dianzi riportate (quella relativa al «patrimonio prontamente liquidabile» e quella concernente la «regolarità degli adempimenti»), ma ha ulteriormente specificato la prima, aggiungendo che il predetto squilibrio tra attivo e passivo deve determinare una «rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni» (Terranova, Insolvenza, 2013, 104), che evidenzia, per definire il sovraindebitamento, accanto alla nozione di insolvenza si è tirato fuori il vecchio arnese — che si credeva ormai definitivamente superato e dimenticato — della «difficoltà di adempiere». L'Autore evidenzia altresì che desta perplessità una definizione legislativa che metta assieme tre concetti (sbilancio patrimoniale, difficoltà d'adempiere, insolvenza) che hanno avuto ciascuno una propria storia, non solo in Italia, ma anche nei Paesi circonvicini. Nonostante ciò, l'Autore evidenzia che non è difficile individuare quale sia l'intento del conditor legis, volendosi da parte di quest'ultimo semplicemente scongiurare il pericolo che qualcuno potesse sbarrare la strada ad una procedura – che dovrebbe condurre all'esdebitazione (totale o parziale) del debitore civile o del consumatore – prendendo a pretesto il fatto che il suo patrimonio, astrattamente considerato, ha un valore tale da coprire tutte le obbligazioni ancora in essere. Sul punto, cfr. anche Terranova, 2012; Id., Presentazione, in La «nuova» composizione della crisi da sovraindebitamento, cit., 1 s., e più ampiamente in G. Terranova, Il concordato, 2013, I, 1-62). In conclusione, va pertanto chiarito che il sovraindebitamento (nella nostra esperienza) non ha nulla a che vedere con lo sbilancio patrimoniale, ma in molti casi finirà con il coincidere con una situazione d'illiquidità, o di semplice difficoltà d'adempiere. L'insolvenza nelle società in liquidazioneCostituisce invero principio incontroverso in dottrina e in giurisprudenza (cfr. Sandulli, 102 s.; Mandrioli, Lo stato d'insolvenza dell'impresa, in AA. VV., La riforma della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009,155 ss.; Cass. n. 19141/2006; Cass. n. 6170/2003; Cass., n. 3321/1996. Ma si legga nella giurisprudenza più recente anche Cass. I, n. 13644/2013, a tenore della quale «Quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione dell'art. 5 legge fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto — non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci — non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte»), quello secondo cui l'insolvenza dei patrimoni imprenditoriali in liquidazione debba essere valutata sulla base di parametri diversi da quelli di un'impresa in piena attività produttiva, non dovendosi far riferimento, per la prima, alla volontaria regolarità dei flussi solutori, bensì alla capienza del patrimonio del debitore – valutato a prezzi di realizzo – rispetto ai debiti da estinguere. Qui la valutazione prospettica diventa di lungo periodo, non dandosi rilievo alla circostanza per la quale il debitore non sarà in grado di estinguere alcune obbligazioni alle scadenze convenute, ma imponendosi al contrario ai creditori di attendere l'esito della liquidazione del patrimonio, purché vi siano garanzie sufficienti – sempre sulla base di una prognosi – per un pagamento integrale dei debiti alla fine della procedura (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., 139). Qui l'Autore evidenzia che si torna a riconoscere una primazia alle esigenze della proprietà su quelle dell'impresa, nel senso che l'aspirazione dei creditori alla tempestività degli adempimenti viene sacrificata al diritto del debitore di liquidare con calma i propri beni, purché il patrimonio sia adeguato alle necessità di soddisfacimento del ceto creditorio. Ritiene l'autorevole dottrina da ultimo citata che, sotto certi profili, è anche giusto che sia così, perché, se si prende a modello la liquidazione fallimentare, si deve ammettere che non vi è alcuna garanzia di una sua maggiore efficienza (in termini di tempo e di rendimenti), rispetto alla liquidazione volontaria). Tuttavia, deve ritenersi che se la liquidazione volontaria dei beni si incaglia ovvero procede disordinatamente – senza fornire ai creditori quelle certezze, alle quali hanno diritto – la possibilità di accedere alle procedure concorsuali deve restare aperta. In conclusione, può dunque affermarsi che allorquando la società debitrice è in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione dell'art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto — non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci — non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (così, anche Cass. I, 19141/2006, cit.; cfr. anche Cass. I, n. 6170/2003; Cass. I, n. 6550/2001). Il principio secondo il quale l'insolvenza della società non può necessariamente desumersi da uno squilibrio patrimoniale, il quale può essere eliminato dal favorevole andamento degli affari o da eventuali ricapitalizzazioni, non è invocabile quando la società è in liquidazione, ossia quando l'impresa non si propone di restare sul mercato, ma ha come unico suo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali ed alla distribuzione dell'eventuale residuo attivo tra i soci. In tale ipotesi, pertanto, la valutazione giudiziale, ai fini dell'accertamento delle condizioni richieste per l'applicazione della l.fall. art. 5, non può essere rivolta a stimare, in una prospettiva di continuazione dell'attività sociale, l'attitudine dell'impresa a disporre economicamente della liquidità necessaria per far fronte ai costi determinati dallo svolgimento della gestione aziendale, ma deve essere diretta, invece, ad accertare, come già sopra accennato, se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali (così, anche, in giurisprudenza Cass. I, n. 3321/1996). In sostanza, poiché l’obiettivo della società è di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci, non è richiesto che essa disponga di credito e di risorse e quindi delle liquidità necessarie a soddisfare le obbligazioni contratte; la valutazione del giudice pertanto deve essere effettuata con riferimento alla situazione esistente alla data della dichiarazione del fallimento e deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentono di assicurare l’uguale e integrale soddisfacimento dei creditori sociali (Cass. VI, n. 24660/2020). La difficoltà di pronta liquidazione dell’attivo può rilevare in quanto sintomatica di un risultato di realizzo inferiore rispetto a quello contabilizzato dal debitore, così finendo per esprimere valori oggettivamente inidonei a soddisfare integralmente la massa creditoria (Cass. I, n. 28193/2020). Tuttavia, è principio altrettanto indiscusso in giurisprudenza (cfr. Cass. I, n. 11393/2004; Cass. I, n. 1771/1996) quello secondo cui, nel procedimento di opposizione alla dichiarazione di fallimento, la sussistenza dello stato di insolvenza può essere correttamente desunta anche dalle risultanze non contestate dello stato passivo, oltre che in genere dagli atti del fascicolo fallimentare (cfr. anche Cass. I, n. 4886/1997), sicché risulta correttamente espresso quel orientamento secondo cui appare decisivo e rilevante, ai fini che qui interessano, anche quanto risultante dalla procedura fallimentare e con riferimento al rapporto tra il passivo accertato e l'attivo stimato. L'insolvenza nei gruppi di societàLa riforma delle procedure concorsuali non ha dettato un disciplina organica per le crisi dei gruppi (cfr., per un esame dell'istituto, Libonati, 207 ss.; cfr. anche Di Sabato, 343; si legga anche Vassalli, 90). Per la giurisprudenza del tempo cfr. Cass. n. 8656/1992. Secondo molti autori si tratterebbe di una lacuna grave, giacché impedirebbe alla nostra legge fallimentare di restare al passo con i tempi. La predetta carenza normativa trova la propria causa, da un lato, in un dissidio interno alla commissione «Trevisanato», nella quale erano emerse delle posizioni oltranziste, volte a rendere la capogruppo direttamente responsabile per le obbligazioni delle controllate, in evidente contrasto con la soluzione accolta dall'art. 2497 c.c. (le medesime posizioni, del resto, erano emerse a tratti anche nella giurisprudenza di merito: cfr., ad esempio, Trib. Crotone, 28 maggio 1999, n. 8656, in Giust. Civ., 2000, I, 1533), anche se puntualmente contrastata dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. n. 12114/1992; Cass., n. 8656/1992; da ultimo Cass. n. 23344/2010); e, dall'altro, nella valutazione che l'unica strada per dare rilevanza all'insolvenza del gruppo, in quanto tale, resta comunque quella di una valutazione prospettica delle sorti delle singole società (così, Terranova, 2013, 123 ss.). Sul punto qui da ultimo in discussione, risulta convincente quella dottrina (Terranova, 2013, ibidem), che evidenzia, in subiecta materia, una considerazione unitaria del gruppo sino a quando le sue attività restano in una fase fisiologica, ovvero quando, sopravvenuta la crisi, se ne cerchi la soluzione in un complessivo intervento risanatore, da attuare attraverso specifici accordi con i creditori (in questo stesso senso si sono espressi: Gambino, 367; Fauceglia, Il fenomeno del gruppo, 2011, II, 247; v. inoltre Fabiani, 2008, 1313; Scognamiglio, 1093; inoltre si legga Bonelli, 1 ss.). Se si passa, invece, alla fase della liquidazione, la circostanza che siano aperti tanti fallimenti diversi, quante sono le società insolventi, può presentare indubbi vantaggi, rintracciabili sia nel fatto l'autorità giudiziaria competente è quella più vicina alla sede della singola impresa, con indiscutibili benefici, non solo per i creditori, ma anche per la gestione della procedura in termini custodia e vendita dei beni, nonché conoscenza del mercato e via dicendo; sia nella ulteriore valutazione che la pluralità di organi consente di instaurare in maniera più limpida il contraddittorio, quando si tratta di accertare le responsabilità per il dissesto delle società partecipate e reintegrare le sfere patrimoniali delle medesime (la giurisprudenza ritiene legittima una riunificazione delle procedure concordatarie, che consenta di sottoporre ai creditori del gruppo una proposta complessiva, pur mantenendo distinte le varie masse patrimoniali delle singole società e le relative votazioni: Trib. Roma, 11 marzo 2011 (decreto), cit.; Trib. Ivrea, 21 febbraio 1995 (decreto), in Fall. 1995, 969; Trib. Roma, 25 novembre 1993 (decreto) in Giur. comm. 1994, II, 100. Sotto quest'ultimo profilo, non può sorprendere se lo strumento finora utilizzato per sistemare le crisi dei gruppi sia l'accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dall'art. 182-bis l.fall.: questa procedura, invero, fondandosi sul solo consenso dei diretti interessati, permette di superare i vincoli che tuttora sussistono per il concordato preventivo ove occorre regolare la formazione delle maggioranze, e dunque meglio si presta a sistemare situazioni complesse, anche se sconta il limite (che rende davvero auspicabile una nuova disciplina dei concordati in materia) di non poter piegare il dissenso dei creditori rimasti estranei all'accordo (cfr. Terranova, Conflitti d'interessi e giudizi di merito nelle soluzioni concordate delle crisi d'impresa, in La Riforma della Legge Fallimentare, a cura di Fortunato, Giannelli, Palermo, 2011, 105 ss.). Orbene, la giurisprudenza (cfr. Cass. n. 2871/1992; Cass., n. 9704/1990; V. anche Mandrioli, Lo stato d'insolvenza dell'impresa, cit., 160-162. È opportuno osservare, tuttavia, che il sostegno finanziario del gruppo può impedire la dichiarazione d'insolvenza di una società controllata, nonostante le perdite subite dalla medesima: cfr. Cass. n. 9260/2011; Galletti, Stato d'insolvenza, cit., 97; Abete, 1163) si è sempre opposta ad una valutazione unitaria dell'insolvenza del gruppo e pretende invero che questo presupposto del fallimento venga accertato con riferimento alla singola società da sottoporre alla procedura concorsuale, costituendo questa posizione una garanzia, non solo per i soci delle società in bonis – che vedono rispettata l'autonomia patrimoniale dell'ente di cui detengono le partecipazioni –, ma anche per i creditori delle medesime, i quali non debbono temere che i flussi di risorse che dovrebbero essere destinati a soddisfare le loro pretese siano dirottati ad altri fini. Tuttavia, non si può negare che qualche problema sussiste, e ciò sia perché il venir meno del sostegno del gruppo può rendere insolvente una società che, all'apparenza, si manteneva in buona salute; e sia perché molto spesso le azioni (di vario genere), volte a reintegrare il patrimonio delle società controllate, finiscono col rendere incapienti (e quindi insolventi) anche le holding o le sub-holding del gruppo, che all'inizio potevano sembrare immuni dalla crisi (cfr., di nuovo, Terranova, Insolvenza, 2013, 127). Qui la tecnica della valutazione prognostica potrebbe consentire, in realtà, d'anticipare la dichiarazione di insolvenza (in tal senso, Libonati, Il gruppo insolvente, cit., 209). In conclusione, può affermarsi che nel campo del diritto fallimentare anche le concezioni atomistiche del gruppo presentano dei vantaggi, se non altro sotto il profilo di una più attenta e scrupolosa tutela dei diritti soggettivi. La dichiarazione di insolvenza nelle società ammesse alla procedura di liquidazione coatta amministrativaL'accertamento giudiziario dello stato di insolvenza – sia anteriore che posteriore al decreto di apertura della liquidazione coatta amministrativa – ha la funzione di rendere applicabili, con effetto a decorrere dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione le disposizioni della legge fallimentare sugli atti pregiudizievoli ai creditori, e ciò anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata, nonché le disposizioni penali previste dagli artt. 216-219 e 223-225 l.fall. Sul punto, giova ricordare che una parte della dottrina ritiene che la sentenza che accerta lo stato di insolvenza operi una conversione della l.c.a. in fallimento, trattandosi di una vera e propria dichiarazione di fallimento (Satta, 549). La tesi non è tuttavia condivisibile, poiché, se è pure esatta l'equiparazione del contenuto e degli effetti dei due provvedimenti (cfr. Cass. n. 1947/1968; Trib. Milano, 31 marzo 1977, in Dir. fall., 78, II, 523), gli effetti della sentenza che accerta lo stato di insolvenza si producono soltanto dalla data del decreto di apertura della l.c.a. ovvero ad esso retroagiscono nella ipotesi di cui all'art. 202 l.fall., senza influire sulla struttura e finalità della l.c.a.. In realtà, postulare una conversione della procedura significherebbe del resto assoggettare a fallimento imprese che ne sono escluse (Bonsignori, in Comm. S. B., 33 ss). Peraltro, la preventiva dichiarazione di insolvenza non costituisce una condizione di validità del provvedimento di liquidazione (così, Cons. St. 12 giugno 1963, n. 452, in Cons. Stato, 63, I, 909), neppure nella ipotesi in cui la liquidazione sia stata disposta per insufficienza dell'attivo. Sul punto, la giurisprudenza (cfr. App. Torino, 29 settembre 2010) ha avuto modo di precisare che nell'accertamento dello stato d'insolvenza di una società sottoposta a l.c.a. il tribunale deve limitarsi ad accertare il solo requisito oggettivo, restando escluso ogni sindacato valutativo circa i requisiti soggettivi. Va chiarita, in primo luogo, la diversità della procedura di fallimento da quella di liquidazione coatta amministrativa per natura e finalità, giacché mentre la prima è una procedura concorsuale esclusivamente prevista per l'imprenditore commerciale che non goda dei requisiti esonerativi dell'art. 1, secondo comma, lett. a), b), c) l.fall., la seconda è invece una procedura per le imprese individuate direttamente dalla legge rispondente a ragioni di interesse generale, non riducibili al solo stato di insolvenza. L'analogia tra l'istruttoria propria della liquidazione coatta amministrativa e quella prefallimentare è ravvisabile solo nelle modalità di accertamento dello stato d'insolvenza dell'impresa che devono svolgersi, ai sensi dell'art. 195 l.fall., nelle forme indicate dall'art. 15 l.fall.. Sotto quest'ultimo profilo è stato affermato in giurisprudenza che nel procedimento per la dichiarazione dello stato di insolvenza di una società, su richiesta, ai sensi dell'art. 202 l.fall., del commissario liquidatore della liquidazione coatta amministrativa, il contraddittorio, per l'esercizio del diritto di difesa, deve essere instaurato, ex artt. 195 e 15 l.fall., nei confronti dell'organo che aveva la rappresentanza legale dell'ente stesso alla data cui si fa risalire detta insolvenza, nella specie dichiarata avendo riguardo al momento della messa in liquidazione della società; ne consegue che, in caso di previo commissariamento governativo, legittimato al contraddittorio è solo il commissario governativo alla predetta epoca investito della carica, la quale comprende, di regola, tra i poteri di gestione ordinaria, le medesime prerogative degli amministratori, ivi inclusa la piena rappresentanza processuale (così, Cass. I, 2 dicembre 2010). Tuttavia, l'unico presupposto previsto per l'ammissione di un'impresa alla procedura di l.c.a. è l'insolvenza, posto che non vi è alcun richiamo ai requisiti dimensionali di cui all'art. 1 l.fall. e ad un loro apprezzamento nell'ambito della procedura di l.c.a. Sempre nella stessa direzione si colloca quella giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 9681/2013), che del tutto correttamente ritiene che la dichiarazione d'insolvenza di una società ammessa alla procedura di l.c.a., a norma dell'art. 195 della legge fallimentare, non è impedita dalla circostanza che l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferiore a euro trentamila, non applicandosi in tal caso l'art. 15, ultimo comma, della legge medesima. Peraltro, va ulteriormente chiarito che la valutazione della sussistenza del requisito dell'insolvenza deve essere effettuata con riferimento al momento della emanazione del decreto di ammissione alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, così che devono a tal fine ritenersi ininfluenti eventuali fatti sopravvenuti, quali la stipula di un atto di transazione od altre iniziative che abbiano determinato la capienza del patrimonio dell'impresa al fine del soddisfacimento dei creditori (Trib. Milano, 1 febbraio 2012). Per quanto concerne, invece, l'accertamento del presupposto oggettivo, e cioè dello stato di insolvenza, va ricordato che giurisprudenza e dottrina hanno dovuto necessariamente colmare il vuoto normativo relativo all'individuazione delle caratteristiche da attribuire al concetto di insolvenza. Ci si è interrogati se la definizione dovesse trovare spunto nella previsione dell'art. 5 l.fall., ovvero fosse del tutto avulsa dalla realtà commerciale delle altre imprese (Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, in Fall. 993). In merito alla società cooperative, il previgente art. 2540 c.c. prevedeva (prima della riforma) che «qualora le attività della società risultassero insufficienti per il pagamento dei debiti, l'autorità governativa cui spettava il controllo sulla società, potesse disporre la liquidazione coatta amministrativa». Sul punto, va osservato che la circostanza per la quale il concetto di insolvenza era disciplinato specificatamente sia in ambito civile che fallimentare, quale requisito di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa, aveva suscitato in passato contrasti giurisprudenziali legati alla differenziazione fra insolvenza civile e commerciale. Ebbene, il divario tra le due disposizioni derivava dal fatto che mentre la definizione di insolvenza fornita dal codice civile richiamava una situazione in cui le attività erano inferiori alle passività, per la legge fallimentare il concetto era più ampio, riguardando — come è noto — più in generale l'illiquidità, la mancanza di credibilità creditizia, l'incapacità di far fronte con i mezzi normali ai pagamenti. I diversi concetti avevano dato vita, soprattutto nel caso di cooperative assoggettabili tanto a fallimento che a liquidazione coatta amministrativa, ad un orientamento secondo il quale le norme contenute all'interno della legge fallimentare (artt. 2-196 l.fall.) avrebbero implicitamente abrogato le disposizioni contenute all'interno del codice civile, con la conseguenza che l'insolvenza delle cooperative esercenti attività commerciale sarebbe stata sanzionata esclusivamente dal fallimento, mentre per tutte le restanti società avrebbero operato le norme sulla liquidazione coatta (Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit., ibidem). Ebbene, va aggiunto che fino al 1975 gli interventi legislativi sulla regolarizzazione dell'insolvenza delle società cooperative furono solamente di tipo integrativo, limitandosi ad individuare detto elemento quale presupposto idoneo a richiedere la procedura da parte dell'Autorità di vigilanza. Solo con la l. 17 luglio 1975, n. 400, contenente «Norme intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione coatta amministrativa degli enti cooperativi» si tentò di rimediare al conflitto tra le norme civilistiche e fallimentari. Ed invero, la legge citata aveva provveduto ad elencare le società cooperative in stato d'insolvenza sottoponibili a l.c.a. e ad allineare i concetti di insolvenza sia all'interno dell'art. 2540 c.c. sia all'art. 5 l.fall., chiarendo che il presupposto oggettivo per la dichiarazione della l.c.a. dovesse essere ricercato nelle disposizioni di quest'ultima, con la conseguenza che il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa poteva esser disposto in presenza non solo di inadempimenti, ma anche nell'ipotesi di altri fatti non necessariamente rappresentati da insufficienza dell'attivo rispetto al passivo (sul concetto di insolvenza nelle cooperative, cfr. Lazzareschi-Murer-Ruffini, 79; Bonfante, 1983; Aguglia, L'accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, in Dir. fall. 1988, I, 638; Bassi; Pacchi, 1999, I, 297; Panzani, 1425; Maceroni, 1, 12; Castiello d'Antonio, 1443; Marasà, 2004; Sandulli-Valensise, 2005; Schettini, 185; Cotronei, 517 ss.; Bonfante, 2010; Panzani-Fauceglia, 2010; Ceccherini-Schirò,; Di Rienzo, 34). Deve ritenersi che detto orientamento non sia mutato nemmeno dopo la riforma del diritto societario. Anzi il d.lgs. n. 6/2003 ha disposto che le norme riguardanti l'insolvenza delle società cooperative siano contenute all'interno del titolo VI, libro IV, del codice civile, ove all'art. 2545 terdecies c.c. si specifica che «in caso di insolvenza della società l'autorità governativa alla quale spetta il controllo della società dispone la liquidazione coatta amministrativa...». Sul punto, occorre evidenziare che diversamente dal previgente art. 2540 c.c. il concetto di insolvenza non viene specificato nelle sue caratteristiche, ma soltanto individuato quale presupposto per sottoporre la società a liquidazione coatta, o, in caso di svolgimento di attività commerciale, anche a fallimento. Non vi è più pertanto da interrogarsi sulla diversità dei concetti disciplinati dalla legge, essendo ormai uniformato il criterio interpretativo ancorato all'art. 5. (Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit., ibidem). Va inoltre precisato che l'art. 195 l.fall. prevede l'accertamento preventivo dello stato d'insolvenza solo per quelle imprese soggette esclusivamente alla liquidazione coatta amministrativa (con esclusione del fallimento) ovvero le banche, le Sim, le Sicav, le società di gestione del risparmio, i fondo pensioni, le assicurazioni, le società fiduciarie e di revisione, le cooperative che non gestiscono attività commerciali. Orbene, la mancata previsione della procedura preventiva di insolvenza per le altre imprese, assoggettate ad entrambe le procedure, quali per esempio le cooperative esercenti attività commerciale, si spiega con la circostanza che i creditori insoddisfatti ben potrebbero richiedere il fallimento. Ne consegue che quando si verifica una situazione di insolvenza l'ammissione alla liquidazione coatta potrà essere consentita per le cooperative soggette anche a fallimento solo ricorrendo al disposto dell'art. 2545 septiesdecies, che prevede questa procedura per le cooperative che non siano in grado di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite (così, ancora Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit., ibidem). Giova ulteriormente ricordare che ai sensi dell'art. 2540 c.c., nella formulazione in vigore sino al dicembre 2003, le società cooperative che avevano ad oggetto un'attività commerciale erano soggette a fallimento oltre che a liquidazione coatta amministrativa, dovendosi qui chiarire che la scelta fra l'una e l'altra procedura era regolata dal principio della prevenzione temporale sancito dall'art. 196 l.fall., secondo cui l'apertura del fallimento precludeva la liquidazione coatta amministrativa e, viceversa, il provvedimento di liquidazione precludeva il fallimento. Peraltro, l'art. 2545-terdecies c.c. — nel ricalcare la previsione dell'art. 2540 c.c. — ha evidenziato, ora, che in caso di insolvenza le cooperative che svolgono attività commerciale siano soggette anche a fallimento, ribadendo il principio della prevenzione di cui sopra. Deve pertanto concludersi nel senso che tutte le cooperative che non svolgono attività commerciale sono escluse dal fallimento e ad esse si applica esclusivamente la disciplina della liquidazione coatta amministrativa ed eventualmente l'accertamento dello stato di insolvenza (Barbieri, Irrilevanza del requisito soggettivo di fallibilità nell'accertamento dello stato di insolvenza, cit., il quale evidenzia come, ad esempio, le cooperative edilizie, siano esse libere o a contributo pubblico, che assegnino gli alloggi sociali ai propri soci, in totale assenza di cessione a terzi debbano ritenersi assoggettabili esclusivamente a liquidazione coatta con esclusione del fallimento; viceversa le cooperative che svolgono attività commerciali sono potenzialmente assoggettabili ad entrambe le procedure). Peraltro, l'autorità giudiziaria ha l'onere di accertare preventivamente l'esistenza di attività commerciale al fine di stabilire se essa sia assoggettabile anche al fallimento, dovendosi precisare in subiecta materia che la natura commerciale dell'attività svolta da una società cooperativa deriva esclusivamente dalla circostanza che essa eserciti questo tipo di attività e dalla sussistenza del conseguente scopo di lucro. Inoltre, va aggiunto che 'indagine su tale aspetto non può ritenersi precluso dal fine mutualistico della cooperativa, atteso che l'attività commerciale non è incompatibile con la finalità mutualistica, giusto il disposto dell'art. 2540 c.c. (Cass. n. 3856/1980; Trib. Roma 17 novembre 1982, in Fall., 1983, 944; Trib. Milano 16 dicembre 1986, in Fall., 1987, 865; AA. VV., Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Ghia-Piccininni-Severini, Torino, 2011, vol. 1, 191). Ebbene, la norma non specifica tuttavia chi debba accertare questa insolvenza. Secondo un orientamento, potendo l'insolvenza essere accertata unicamente dal tribunale, la messa in liquidazione coatta amministrativa potrebbe verificarsi solo per le cooperative che non siano soggette al fallimento in quanto diversamente la dichiarazione di insolvenza determinerebbe ex se l'apertura della procedura (Bonfante, Sub art. 2473 c.c., in AA. VV., Il nuovo diritto societario, Commentario, diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, Bologna, 2004, 2663). Pertanto, quando si verifica una situazione di insolvenza l'ammissione alla liquidazione coatta potrà essere consentita per le cooperative soggette a fallimento solo ricorrendo al disposto dell'art. 2545-septiesdecies c.c. L'insolvenza delle bancheSotto il profilo dell'insolvenza, gli istituti di credito presentano una notevole peculiarità, giacché, essendo le imprese preposte alla regolazione dei flussi finanziari e monetari (e dunque della liquidità) dell'intero sistema economico, ben difficilmente si trovano nell'impossibilità di pagare, se non nel momento in cui il dissesto abbia già eroso l'intero patrimonio (Terranova, Insolvenza, 2013, ibidem). Sotto questo peculiare profilo, le crisi bancarie sono state assoggettate ad una disciplina particolare, tanto ciò è vero che si era anche pensato d'elaborare una specifica nozione di «insolvenza bancaria» da contrapporre all'insolvenza delle altre imprese (la giurisprudenza prevalente appare favorevole ad una concezione unitaria dello stato d'insolvenza: per tutte, v. Cass. n. 9408/2006. In dottrina, cfr. Terranova, L'insolvenza delle banche, in Stato di crisi e stato d'insolvenza, a cura dello stesso, Torino, 2007, 83-102, e già, con il titolo L'accertamento giudiziale dell'insolvenza delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 1999, I, 1 ss.; cfr. anche Fortunato, La liquidazione coatta delle banche dopo il testo unico: lineamenti generali e finalità, in Banca borsa, tit. cred., 1994, 761; v. inoltre Nigro, Crisi e risanamento delle imprese: il modello dell'amministrazione straordinaria delle banche, Milano, 1985, 69 ss. L'Autore evidenzia altresì che il sistema dei controlli su questo delicatissimo settore del mercato — tanto nel suo complesso, quanto sulle singole aziende che lo compongono — è poi così articolato e rigoroso, da consentire – almeno in teoria – diagnosi molto precoci, non essendo pertanto necessario introdurre una nuova nozione d'insolvenza, anche perché le misure di allarme possono scattare, in presenza di irregolarità amministrative o di perdite, molto tempo prima che il dissesto abbia fatto danni irrimediabili). Si temeva che, applicando puramente e semplicemente i criteri imposti dall'art. 5 si sarebbe corso il rischio di ritardare troppo i tempi dell'intervento giudiziale, con grave pregiudizio degli interessi del ceto creditorio: se infatti l'insolvenza dovesse presupporre una cessazione materiale dei pagamenti o, comunque, una serie di inadempimenti e di altri comportamenti anomali, si metterebbe l'istituto di credito nelle condizioni di disperdere tutto l'attivo — costituito, per la maggior parte, da titoli, denaro e altre risorse monetarie — con grave pregiudizio del pubblico risparmio e dei creditori-risparmiatori. Tuttavia, va detto che la norma della legge fallimentare è talmente elastica, da non far correre pericoli del genere, giacché la prognosi – soprattutto se confortata da dati contabili in qualche modo certificati – può spingersi anche in un arco temporale spostato in avanti, in modo tale da scongiurare il pericolo di una completa dispersione del patrimonio [Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem. L'Autore evidenzia altresì che il sistema dei controlli su questo delicatissimo settore del mercato (tanto nel suo complesso, quanto sulle singole aziende che lo compongono) è poi così articolato e rigoroso, da consentire – almeno in teoria – diagnosi molto precoci, non essendo pertanto necessario introdurre una nuova nozione d'insolvenza, anche perché le misure di allarme possono scattare, in presenza di irregolarità amministrative o di perdite, molto tempo prima che il dissesto abbia fatto danni irrimediabili]. Occorre tuttavia approfondire, in primo luogo, la questione della fase dell'amministrazione straordinaria, che in genere precede l'eventuale provvedimento di messa in liquidazione della banca. Sul punto, va detto che la legge non è chiara nello stabilire se durante la procedura l'autorità giudiziaria debba astenersi dall'intervenire con un accertamento dello stato d'insolvenza che imporrebbe l'immediato passaggio, pertanto, alla fase della liquidazione. Peraltro, vi sarebbero molti indizi di segno contrario, atteso che, se è vero che i commissari straordinari sono esonerati dal presentare per tutto il corso della loro gestione dei veri e propri bilanci di esercizio — sostituiti da mere situazioni patrimoniali, compilate «sulla base dei dati disponibili» —, in modo da non trovarsi nella condizione di dover certificare l'entità delle perdite (che potrebbero azzerare o rendere addirittura negativo il patrimonio netto) e se è vero, altresì, che la normativa applicabile tende a negare che la sospensione dei pagamenti, autorizzata dalla Banca centrale, configuri un'ipotesi di insolvenza, tuttavia è altrettanto vero che non vi è alcuna norma dalla quale si evinca che il tribunale non possa intervenire a «disturbare» l'attività di risanamento o di ricapitalizzazione intrapresa dai commissari e, anzi, le disposizioni dianzi ricordate mettono a disposizione dell'eventuale creditore dissenziente un agevole argomento a contrario. Il problema era sorto già con il vecchio art. 63, comma quinto, della legge bancaria del 1936, ove si diceva che la sospensione dei pagamenti, disposta dalla Banca d'Italia, non costituiva «cessazione dei pagamenti». Tuttavia, la dottrina dell'epoca aveva dato un'interpretazione assai restrittiva della norma, sostenendo che essa non avrebbe precluso l'accertamento giudiziale dello stato d'insolvenza, qualora quest'ultima risultasse da altri «fatti esteriori»: in tal senso cfr. De Martini, Moratorie di aziende di credito e dichiarazione di stato d'insolvenza, in Banca, borsa, tit. cred., 1950, II, 167 ss. Ebbene, il terzo comma dell'art. 74 del T.U. delle norme in materia bancaria e creditizia ha modificato, sul punto, la dizione della vecchia norma, statuendo che «la sospensione [dei pagamenti] non costituisce stato d'insolvenza». Sul punto, la dottrina è propensa ad attribuire a tale modifica una portata sostanziale, nel senso che per tutta la durata della moratoria sarebbe escluso un intervento giudiziale volto all'accertamento dell'insolvenza della banca: in tal senso cfr. Sabato, 1192 ss. La questione può essere risolta utilizzando al massimo l'elasticità concessa dalla nozione d'insolvenza. Ebbene, allorquando ancora non si sia verificata la cessazione materiale dei pagamenti, l'ordinamento lascia all'imprenditore una larga discrezionalità, per verificare se esiste ancora la possibilità di trovare le risorse per ricapitalizzare la società e finanziare un piano di risanamento, ovvero se tale alternativa risulti preclusa dalla circostanza che, per un verso, i soci (e per le banche di maggiori dimensioni spesso si tratta di enti pubblici ovvero, addirittura, dello Stato in prima persona) dichiarano di non volere più investire e che, per altro verso, non sono disponibili altre soluzioni strutturali (quali fusioni, scorpori e così via), allora, a questo punto, l'amministrazione straordinaria serve solo a preparare una soluzione liquidativa meno dolorosa (Terranova, Insolvenza, 2013, cit., ibidem). Se quanto detto risulta indiscutibile, allora se ne deve dedurre che la dichiarazione di insolvenza non può essere ammessa, fino a quando i tentativi di risanamento hanno concrete probabilità di riuscire (ed i soci hanno mostrato una seria disponibilità all'intervento finanziario ovvero si profila una operazione societaria strutturale utile per il risanamento), senza arrecare danno – almeno in una valutazione prospettica – ai creditori. Se, al contrario, i predetti tentativi falliscono, ovvero appaiono troppo velleitari, si deve passare alla fase liquidativa, e ciò anche la di là della valutazione che in cassa vi siano ancora liquidità necessarie per sopravvivere per un lasso di tempo apprezzabile. Occorre, da ultimo, domandarsi se nel caso d'insolvenza degli istituti di credito sia ancora corretto parlare di un giudizio prognostico, ovvero se in quest'ultimo caso ci si debba limitare a prendere atto di una situazione patrimoniale che fotografi una determinata situazione contabile ovvero patrimoniale, giacché l'esperienza insegna che, allorquando l'autorità giudiziaria è chiamata a pronunciarsi sull'insolvenza di una banca, in genere il patrimonio di quest'ultima, almeno nelle sue componenti essenziali — e cioè, il portafoglio crediti, la tesoreria, gli sportelli — è già stato liquidato e di solito trasferito ad altre banche, per non far venir meno la continuità aziendale, con esiti che consentono di conoscere l'entità delle perdite (Terranova, L'insolvenza delle banche, cit., 85 ss., 88 ss.). In queste condizioni, parlare di una prognosi potrebbe sembrare una mera finzione. Tuttavia, il giudice dovrà adottare ancora una volta (ed in questo caso anche a garanzia degli organi della procedura) il metodo della c.d. prognosi postuma, riportandosi idealmente – con uno sforzo di valutazioni suffragato da prove – al momento con riferimento al quale gli è stato chiesto d'accertare lo stato d'insolvenza. Lo stato di insolvenza di una banca sottoposta a liquidazione coatta amministrativa - la cui sussistenza, ai sensi dell'art. 82, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, deve essere riscontrata con riferimento al momento dell'emanazione del provvedimento di liquidazione - si traduce, sulla base della generale previsione dell'art. 5 l.fall., applicabile in assenza di autonoma definizione, nel venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie per l'espletamento della specifica attività imprenditoriale. La peculiarità dell'attività bancaria - la quale implica che l'impresa che la esercita disponga di molteplici canali di accesso al reperimento di liquidità per impedire la suggestione della corsa ai prelievi - fa peraltro sì che assuma particolare rilevanza indiziaria, circa il grado di irreversibilità della crisi, il "deficit" patrimoniale, che si connota come dato centrale rispetto sia agli inadempimenti che all'eventuale illiquidità (Cass. I n. 20186/2017). BibliografiaAA. VV., L'insolvenza del debitore civile. Dalla prigione alla liberazione, a cura di Presti-Stanghellini-Vella, in Analisi giuridica dell'economia, Bologna, 2004, n. 29; Abete, L'insolvenza del gruppo e nel gruppo, in Fall. 2009, 1163; Aguglia, L'accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, in Dir. fall. 1988, I, 638; Amatore, Le dichiarazioni di fallimento, Milano, 2014; Andrioli, voce <Fallimento>, in Enc. dir., vol. 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