Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 72 quater - Locazione finanziaria 1

Giuseppe Dongiacomo
aggiornato da Francesco Maria Bartolini

Locazione finanziaria 1

 

Al contratto di locazione finanziaria si applica, in caso di fallimento dell'utilizzatore, l'articolo 72 . Se è disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa il contratto continua ad avere esecuzione salvo che il curatore dichiari di volersi sciogliere dal contratto.

In caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale; per le somme già riscosse si applica l'articolo 67, terzo comma, lettera a) 2.

Il concedente ha diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene.

In caso di fallimento delle società autorizzate alla concessione di finanziamenti sotto forma di locazione finanziaria, il contratto prosegue; l'utilizzatore conserva la facoltà di acquistare, alla scadenza del contratto, la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.

[1] Articolo inserito dall'articolo 59 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

Inquadramento

Il d.lgs. n. 5/2006, introducendo nella legge fallimentare l'art. 72-quater, ha dettato la disciplina degli effetti del fallimento sulla locazione finanziaria (anche se ha per oggetto beni immobili, a meno che non si tratti di immobili da costruire, trovando, in quest'ultimo caso, applicazione l'art. 72-bis l.fall.: Aprile, 2010, 1400), valevole tanto per il cd. leasing di godimento, quanto per il cd. leasing traslativo.

La norma, infatti, senza dare alcun rilievo a tale distinzione (sulla quale, v. oltre), ha stabilito che, in caso di fallimento dell'utilizzatore (salvo il caso dell'esercizio provvisorio dell'impresa, quando il rapporto prosegue automaticamente ma il curatore ha la facoltà di sciogliersi), il curatore ha la facoltà di scegliere tra il subingresso nel contratto, ove pendente (come tale dovendosi considerare quello che, al momento del fallimento, non sia scaduto), assumendone tutti i relativi obblighi (rimasti inadempiuti), e lo scioglimento dal contratto medesimo.

In quest'ultimo caso, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ma è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita (o da altra allocazione del bene stesso) rispetto al credito residuo in linea capitale.

La norma, poi, aggiunge che il concedente ha diritto di insinuarsi nello stato passivo per la differenza del credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene e che i pagamenti delle somme già riscosse, in applicazione dell'art. 67, comma 3, lett. a), non sono revocabili.

L'ultimo comma, infine, prevede che in caso del fallimento della società condente, il contratto prosegue: l'utilizzatore, quindi, conserva la facoltà di acquistare, alla scadenza del contratto, la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.

Il d.lgs. n. 169/2007 ha modificato l'art. 74-quater, stabilendo che la eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra allocazione del bene rispetto al credito residuo in linea capitale deve essere determinata con riferimento a vendite od allocazioni avvenute a «valori di mercato».

Gli effetti del fallimento dell'utilizzatore sul contratto di leasing: lo scioglimento del contatto

In caso di fallimento dell'utilizzatore, l'art. 72-quater stabilisce, come detto, che il curatore ha la facoltà di scegliere tra il subingresso nel contratto e lo scioglimento dal contratto medesimo, in tal modo, implicitamente ma inequivocamente, disponendo che l'esecuzione del rapporto contrattuale, ove pendente al momento del fallimento, è sospesa in attesa delle determinazione assunte dal curatore (Zanichelli, 2008, 175; Capaldo, 1041).

La norma, quindi, rinviando alla regola generale prevista dall'art. 72 l.fall., determina l'applicabilità del relativo regime di autorizzazione (Patti, 2016, 1657) e di costituzione in mora del curatore in caso di inerzia (Capaldo, 1041) e di inefficacia delle clausole di scioglimento in caso di fallimento (Dimundo, 251; Zanichelli, 175; Macrì, 524; Patti, 2016, 1657, 1658).

L'art. 72-quater prevede che il concedente, qualora il curatore opti per lo scioglimento del contratto, ha il diritto:

1) ad ottenere la restituzione del bene, previa proposizione della domanda prevista dall'art. 103 l.fall., con l'applicazione del regime probatorio stabilito dall''art. 621 c.p.c. (Patti, 2016, 1655 ss., 1660, il quale, tuttavia, ammette che la società concedente possa proporre anche istanza ex art. 87-bis l.fall.);

2) ad insinuarsi nello stato passivo: ma non per la somma corrispondente all'importo complessivo dei canoni insoluti bensì solo per la eventuale differenza fra il credito (residuo) vantato alla data del fallimento, a titolo di «capitale» investito (in corrispondenza cioè della somma impiegata dalla società per l'acquisto del bene poi concesso in leasing: Inzitari; secondo Patti, 2007, 135 ss., 137, non è chiaro se debbano essere computati solo i costi per l'acquisto del bene ovvero anche le spese per immettere l'utilizzatore nel possesso del bene) – e pari all'ammontare complessivo di tutti i canoni pattuiti, tanto di quelli già scaduti, quanti di quelli a scadenza successiva rispetto al fallimento, rimasti insoluti (Patti, 2016, 1661; La Torre, 293 ss), al netto della quota di interessi in essi prevista (La Torre, 293 ss.; in senso parzialmente contrario, Vattermoli, 454, e Dimundo, 252, per i quali i canoni scaduti prima della dichiarazione di fallimento e rimasti insoluti devono essere computati per intero, compresi gli interessi di cui sono composti e gli interessi moratori maturati sui canoni insoluti fino al fallimento; così anche Capaldo, 1042, 1043), quale si evince dal piano di ammortamento (sul piano di ammortamento e i relativi rischi di elusione, v. Capizzi, 493 ss., 501 e nt. 41), più il prezzo di opzione (La Torre, 293; Vattermoli, 454; Dimundo, 252) — e la (minor) somma, rispetto a detto credito, ricavata dalla vendita o dalla diversa allocazione del bene, purché in corrispondenza del suo valore di mercato.

Se, però, il ricavato derivante dalla nuova allocazione del bene pareggi o addirittura risulti superiore al credito residuo, il concedente è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene a valori di mercato rispetto al credito in linea capitale (intendendo per tale la somma che la società concedente abbia impiegato per l'acquisto del bene) residuo (quale si evince dal piano di ammortamento, avendo riguardo alla quota di capitale compresa nei singoli canoni, scaduti o a scadere, e rimasti impagati, al momento del fallimento, più il prezzo di opzione).

Resta, naturalmente, fermo, tanto nel caso di eccedenza (tra credito residuo in linea capitale e ricavato dall'allocazione) in favore del concedente, quanto nel caso di eccedenza (tra ricavato dall'allocazione e credito residuo in linea capitale) in favore del curatore, che il concedente, a norma dell'art. 72-quater, comma 3, l.fall., ha il diritto di insinuare al passivo il credito per il residuo capitale (al netto del ricavato dell'allocazione) e gli interessi corrispettivi (compresi nei canoni maturati fino al fallimento e non pagati) e gli interessi di mora maturati sui canoni insoluti fino al fallimento (Patti, Gli effetti, cit., 1655 ss, 1662; La Torre, Il leasing finanziario nel fallimento, cit., 293 ss), escluso in ogni caso il risarcimento dei danni in conseguenza dello scioglimento provocato dal curatore (arg. ex art. 72, comma 4, l.fall.: Dimundo, 252; Vattermoli, 454) ed esclusi gli interessi sui canoni non ancora scaduti (Patti, 2007, 138).

L'allocazione deve essere operata a «valori di mercato».

La norma, introdotta con il decreto correttivo, ha, evidentemente, lo scopo di evitare che il valore residuo del bene sia svilito dalla concedente, interessata solo al recupero del capitale investito, co clausole di determinazione convenzionale del prezzo o per effetto di accordi con terzi acquirente.

L'importo da calcolare a credito della procedura concorsuale non può, quindi, essere determinato autonomamente da parte della società di leasing, ma utilizzando un criterio oggettivo, corrispondente al valore di mercato, il quale potrà essere ricavato da pubblicazioni specifiche o dalla valutazione compiuta da un perito stimatore del bene nominato dal giudice delegato (Bersani, 305 ss 311).

Il concedente ha il dovere di fornire un riscontro documentale in merito alla «nuova» collocazione o allocazione del bene, ed all'ammontare del ricavato da tale operazione, al fine di permettere alla curatela di effettuare conteggi precisi in merito alla sussistenza di un eventuale credito o debito conseguente allo scioglimento del rapporto di locazione (Bersani, 311; Capaldo, 1043; Patti, 2016, 1655 ss, 1662).

La norma non stabilisce il termine entro il quale il concedente debba procedere alla vendita o alla diversa allocazione del bene (Vattermoli, 455) né se abbia semplicemente l'onere di farlo al fine di essere ammesse al passivo per il suo eventuale credito (Aprile, 2008, 151, per il quale quest'ultima soluzione sembra discendere dal dato letterale della norma, laddove fa derivare il credito della società concedente dalla differenza tra il credito originario e il ricavato della vendita o dalla diversa collocazione del bene) oppure se, come sembra preferibile, abbia l'obbligo — quanto meno per i doveri di diligenza e rendiconto che gravano sul mandatario a norma degli artt. 1710 e 1713 c.c. (Vattermoli, 455) — di procedere alla vendita o alla diversa allocazione del bene (per tale soluzione, Bersani, 311, il quale, nel caso in cui la società di leasing non provveda, indica, come possibili rimedi, la possibilità per il curatore di chiedere un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c. o la vendita in danno ex art. 1515 c.c.; così anche Patti, 2016, 1655 ss, 1662; Vattermoli, 455, invece, esclude che il curatore possa interferire nell'attività di riallocazione e dunque, indirettamente, incidere sul valore di realizzo del bene che verrà portato a compensazione del credito del concedente).

Pertanto, se la concedente non provvede alla vendita del bene o alla sua diversa allocazione, il curatore può agire in giudizio per l'accertamento del suo credito (Vattermoli, 455).

Se, invece, la concedente provvede alla vendita o alla diversa allocazione del bene ma a valori inferiori a quelli di mercato, il curatore, che non può interferire sui tempi e i modi dell'operazione, può agire in giudizio per il risarcimento dei danni che la massa ne abbia, per l'effetto, subìto.

Tale credito, peraltro, può essere azionato, in via di eccezione, per paralizzare, in tutto o in parte, la domanda di ammissione al passivo della concedente ex art. 72-quater, comma 2, l.fall.

La disciplina prevista dall'art. 72-quater implica, naturalmente, che il concedente, a seguito dello scioglimento del contratto, chieda ed ottenga dal curatore la effettiva restituzione del bene: solo così, infatti, la stessa può immediatamente provvedere alla sua nuova allocazione (a valore di mercato). D'altra parte, il curatore non può subordinare la restituzione del bene al pagamento delle somme che la società concedente dovesse alla massa, non essendo previsto alcun diritto di ritenzione (Patti, 136; prima della riforma, Cass. n. 10482/1993).

In caso di mancato rinvenimento del bene da parte del curatore, invece, la sua riallocazione, in difetto di restituzione al concedente, non è possibile: in siffatta ipotesi, quindi, il concedente (salvo che non ritenga di chiedere l'insinuazione al passivo per il controvalore del bene al momento del fallimento ovvero in prededuzione se il bene sia stato perduto dal curatore dopo averlo acquisito: art. 103, comma 1, l.fall.) ha il diritto ad insinuare immediatamente al passivo l'intero credito maturato, al momento della dichiarazione di fallimento, verso l'utilizzatore poi fallito per capitale ed interessi (anche di mora), oltre al prezzo di opzione.

Se, però, l'utilizzatore ha stipulato contratto di assicurazione per il furto, il conseguimento della relativa indennità da parte della concedente finisce, in sostanza, per equivalere alla allocazione del bene: in siffatta ipotesi, il concedente ha il diritto di insinuarsi al passivo se e nella misura in cui, dopo aver ottenuto il pagamento dell'indennità (e questa, con la franchigia imposta, corrisponda al valore di mercato del bene), dovesse verificarsi una differenza a suo favore fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricevuto dalla compagnia di assicurazione.

Resta, tuttavia, salva la responsabilità del concedente nei confronti della curatela se e nella misura in cui la mancata allocazione utile del bene al suo valore di mercato sia imputabile alla stessa società concedente. Tale responsabilità può essere azionata nello stesso giudizio di ammissione, per paralizzare l'accoglimento della domanda, ovvero in autonomo giudizio, per il risarcimento dei danni subiti dalla massa.

In altra prospettiva, invece, in caso di scioglimento del rapporto a seguito del fallimento dell'utilizzatore, la società di leasing avrebbe diritto, nel limite del valore effettivo di realizzo del bene, al recupero del capitale residuo, dovendosi però intendere per capitale residuo il capitale compreso nelle sole rate con scadenza successiva alla data della dichiarazione del fallimento e non anche le quote di capitale delle rate scadute e non pagate fino alla data del fallimento, che invece rimarrebbero oggetto di un credito di natura concorsuale unitamente a tutti gli interessi maturati fino alla data del fallimento e all'eventuale capitale residuo (quote capitale delle rate a scadere) non coperto dal realizzo del bene; in tale ricostruzione, l'ammissione riguarda l'intero credito anteriore maturato fino alla data del fallimento per rate scadute e non pagate, con l'aggiunta dell'eventuale credito capitale residuo divenuto esigibile per effetto dello scioglimento del rapporto che risulti non soddisfatto con la ricollocazione del bene sul mercato (Trib. Milano 24 aprile 2012).

Il credito della società concedente è, al momento dello scioglimento, un diritto meramente eventuale.

Non vi è, infatti, certezza, in quel momento, sul se verrà ad esistenza, e cioè l'an, e su quale eventualmente ne sarà il preciso ammontare, e cioè il quantum (Cass. n. 4862/2010).

Ciò comporta che la concedente può (anzi, deve: art. 52 l.fall.) insinuare al passivo tale credito, ma, come la lettera della norma in esame impone («in caso di scioglimento del contratto... il concedente ha diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene»), può farlo solo in un secondo ed eventuale momento: e, precisamente, solo se e nella misura in cui, allocato nuovamente il bene oggetto del contratto di leasing (in qualunque modo ciò accada: con la vendita, la concessione del bene in leasing a terzi, ecc.) — e sempre che ciò accada ai «valori di mercato» (con la conseguente necessità per il curatore, una volta restituito il bene, di verificare, per un verso, che il bene sia effettivamente allocato e, per altro verso, di verificare che sia allocato al suo valore effettivo) — dovesse verificarsi una differenza a suo favore fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato a seguito della nuova allocazione del bene.

In tale ricostruzione, quindi, il concedente, in caso di scioglimento del contratto, oltre alla restituzione del bene, ha il solo diritto di insinuarsi al passivo in un secondo momento qualora, allocato nuovamente il bene oggetto del contratto di leasing, dovesse verificarsi una differenza a suo favore fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato a seguito della nuova allocazione del bene (Cass. n. 4862/2010; Trib. Pordenone 4 novembre 2009).

In altra prospettiva, invece, non può escludersi che, sciolto il contratto (e restituito, o meno, il bene), l'ammissione al passivo del credito per il residuo capitale possa essere domandata (e disposta) senza attendere la previa allocazione del bene medesimo ma, più semplicemente, decurtando il credito predetto del valore di mercato del bene, così come determinato a seguito di stima (Zanichelli, 2012, 68 ss).

In tal caso, il concedente — dopo essersi insinuato al passivo, entro i predetti limiti, con il diritto di partecipare da subito ai riparti successivi all'ammissione (art. 112 l.fall.), ha il diritto — al pari del creditore pignoratizio (Cass. n. 15701/2011 per cui «... la dottrina ha già avuto modo di accostare la disciplina della l.fall., art. 72-quater, nella parte in cui consente al creditore di soddisfarsi sul bene oggetto del contratto di locazione finanziaria al di fuori del concorso, alla regolamentazione dettata per i crediti pignoratizi e per quelli garantiti da privilegio speciale dalla l.fall., art. 53, e per tali crediti è espressamente prevista da tale norma la previa ammissione del credito al passivo fallimentare anche se è destinato ad essere soddisfatto al di fuori del riparto dell'attivo, mediante vendita, diretta (l.fall., art. 53, comma 2) o indiretta (l.fall., art. 53, comma 3) del bene gravato da pegno o privilegio speciale, con esenzione dal concorso sostanziale e non dal concorso formale») — di liquidare il bene e soddisfare, trattenendo il relativo ricavato (ma dedotte le somme eventualmente percepite nei riparti anteriori cui abbia partecipato), il diritto al capitale residuo, senza attendere, quindi, (a differenza del creditore pignoratizio, che ha il dovere di riversare al curatore le somme conseguite, ferma restando la destinazione preferenziale delle stesse: Cass. n. 27044/2006) il riparto: fermo restando, però, che, nell'ipotesi in cui l'allocazione procuri (ovvero avrebbe potuto diligentemente procurare) il ricavo di una somma maggiore di quella stimata in sede di verifica, il curatore potrà agire per la restituzione di tale ulteriore somma, nello stesso modo in cui, ove l'allocazione assicuri una somma inferiore a quella stimata in sede di verifica, di tale somma la concedente può chiedere l'ammissione al passivo.

Non è mancato, infine, chi ha ritenuto che, nell'ipotesi in cui si verifichi il fallimento dell'utilizzatore di un bene concesso in locazione finanziaria ed il curatore opti per lo scioglimento del rapporto giuridico pendente, l'ammissione allo stato passivo del concedente è subordinata all'accertata inferiorità del valore di collocazione del bene sul mercato rispetto al credito residuo per canoni e la certezza in merito all'esistenza del cd. differenziale negativo può ottenersi soltanto con la vendita, o altra collocazione a valori di mercato, del bene concesso in leasing e poi restituito al concedente: tuttavia, ai fini dell'insinuazione al passivo, il concedente non deve attendere che il presupposto della vendita si sia realizzato, potendo procedersi ad una ammissione del credito in via condizionata, che riguarda sia l'an – dal momento che se quanto ricavato dal ricollocamento a valori di mercato del bene dovesse essere superiore al credito residuo da ciò non deriverebbe il riconoscimento di un credito al concedente bensì l'obbligo di quest'ultimo di restituire la somma eccedente al curatore – sia il quantum del diritto di credito, posto che la quantificazione dell'eventuale differenziale negativo dipende dall'entità del ricavato dalla vendita o da altra collocazione a valori di mercato del bene (Trib. Milano 29 luglio 2010; si ritiene, peraltro, che, nel provvedimento di ammissione condizionata all'allocazione, debba essere necessariamente fissato il tempo massimo per la verifica del realizzarsi della suddetta condizione, onde evitare — dato che il verificarsi della condizione dipende esclusivamente dall'iniziativa e da un'attività della società di leasing — un indefinito impedimento all'accertamento quanto meno dell'eventuale surplus di attivo spettante al fallimento: Trib. Milano 24 aprile 2012).

Resta, in ogni caso, fermo — tanto nel caso di eccedenza (tra credito residuo in linea capitale e ricavato dall'allocazione) in favore del concedente, quanto nel caso di eccedenza (tra ricavato dall'allocazione e credito residuo in linea capitale) in favore del curatore — che il concedente ha il diritto di insinuare immediatamente al passivo il credito relativo (non alla restituzione del capitale investito, e cioè finanziato, mediante l'acquisto del bene, all'utilizzatore poi fallito, ma) alla remunerazione del capitale stesso, in corrispondenza della quota di interessi corrispettivi compresa nei canoni pattuiti (e già scaduti al momento del fallimento: e non anche, quindi, degli interessi compresi nei canoni a scadere dopo il fallimento) e degli interessi di mora maturati sui canoni scaduti.

La irrevocabilità dei pagamenti dei canoni.

Resta, infine, la norma per cui i pagamenti che la società concedente abbia ricevuto prima del fallimento sono irrevocabili a norma dell'art. 67, comma 3, lett. a), l.fall., e cioè se eseguiti nei termini d'uso.

Non è, infatti, condivisibile l'idea per cui l'utilizzo della locuzione «somme già riscosse» costituisca l'espressione della volontà legislativa di prevedere un'esenzione più ampia, tale da ricomprendere qualsiasi riscossione di somme in qualsiasi forma avvenuta, includendo anche quelle non avvenute «nei termini d'uso». Ne consegue che il pagamento dei canoni, ove non sia stato eseguito nei termini d'uso, è revocabile (Patti, 2016, 1660; conf. Dimundo, 665; Frascaroli Santi, 464 ss.; La Torre, 293 ss; Zanichelli, 2008, 175).

Gli effetti del fallimento sul contratto di leasing già risolto

Non è chiaro se l'art. 72-quater l.fall. trovi applicazione anche nel caso in cui il contratto di leasing sia già risolto al momento della dichiarazione di fallimento.

Secondo una prima interpretazione, la norma in commento trova applicazione anche nel caso in cui il contratto di leasing sia già risolto al momento della dichiarazione di fallimento dell'utilizzatore (in tal senso, in giurisprudenza, Trib. Udine 10 febbraio 2012 Fall. 2012, 481; Trib. Vicenza 18 settembre 2012; Trib. Perugia 5 giugno 2012; Trib. Padova 14 marzo 2014; Trib. Torino 23 aprile 2012, Fall. 2013, 229 ss; Trib. Treviso 4 febbraio 2013 Fall. 2013, 623; in dottrina, La Torre, 296).

Secondo l'interpretazione preferibile, invece, l'art. 72-quater l.fall. trova applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing (oltre ad essere opponibile, perché emergente da documento dotato di data certa anteriore al fallimento: Bersani, 312) sia pendente al momento del fallimento dell'utilizzatore.

Se, invece, il contratto di leasing si è risolto per inadempimento dell'utilizzatore prima del fallimento di quest'ultimo, la norma che viene in rilievo, infatti, non è l'art. 72-quater l.fall., che presuppone la pendenza del contratto, bensì l'art. 72, comma 5, l.fall., il quale, recependo l'orientamento accolto dalla prevalente giurisprudenza prima della riforma, sancisce l'opponibilità alla massa dell'azione di risoluzione promossa anteriormente al fallimento e degli effetti giuridici conseguenti all'intervenuto scioglimento, oramai «quesiti» al patrimonio giuridico del fallito e non più suscettibili di deviazione rispetto allo schema legale tipico (Cass. n. 2538/2016; conf. Cass. n. 8687/2015; Cass. n. 11293/2011; Cass. n. 11146/2012; Cass. n. 9488/2013; nella giurisprudenza di merito, in tal senso Trib. Mantova 6 febbraio 2008; Trib. Napoli 9 febbraio 2010; Trib. Milano 12 dicembre 2012; Trib. Milano 7 giugno 2012; Trib. Mantova 26 settembre 2013; Trib. Busto Arsizio 7 aprile 2014; Trib. Santa Maria C.V. 30 gennaio 2014; Trib. Padova 2 marzo 2007; in dottrina, Bersani, 305 ss., 308; Patti, 2007, 821 ss; Patti, 2016, 1655 ss, 1666; Capizzi, 493 ss; Zanichelli, 2012, 68 ss). Per Cass. I,  n. 11962/2018 rientra nei poteri del giudice delegato, ai sensi degli artt. 25 e 92 e ss. l. fall. di provvedere alla determinazione dell’equo compenso per l’uso della cosa ex art. 1526 comma 1 c.c. in tema di insinuazione allo steso passivo dei crediti derivanti dal contratto di leasing risolto prima della dichiarazione di fallimento. Si è anche avvertito che la risoluzione del leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore è disciplinata dall’art. 1526 c.c., non incidendo sull’applicazione di tale disposizione l’art. 72-quater l. fall., atteso che siffatta norma non disciplina la risoluzione del contratto bensì il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore (Cass. III, n. 3965/2019). L’azione di risoluzione promossa dal locatore per l’inadempimento dell’utilizzatore assoggettato a concordato preventivo è disciplinata dall’art. 1526 c.c. e non dall’art. 72-quater, che ha natura eccezionale e non riguarda la risoluzione del contratto di leasing bensì il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore (Cass. VI, ord. n. 15975/2018).

In tale prospettiva, se il contratto stipulato dal fallito è, al momento della sentenza dichiarativa, già risolto di diritto (ad es., in conseguenza della dichiarazione della concedente di volersi avvalere, ai fini di cui all'art. 1456 c.c., della clausola risolutiva espressa in essi di regola contenuta) ovvero è passata in giudicato la sentenza che pronuncia la risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore (in caso di azione di risoluzione pendente al momento del fallimento trova, invece, applicazione l'art. 72, comma 5, l.fall.), occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o di leasing traslativo, solo per quest'ultimo potendosi utilizzare, in via analogica, l'art. 1526 c.c., con l'ulteriore conseguenza che, in tal caso, il concedente ha l'onere, se intenda insinuarsi al passivo del fallimento, di proporre la corrispondente domanda completa in tutte le sue richieste nascenti dall'applicazione della norma da ultimo citata (Cass. n. 2538/2016).

Come è noto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 5569/1989; Cass. n. 11614/1998Cass. n. 1731/1994; Cass. S.U., n. 65/1993; Cass. n. 5552/2003; Cass. I, ord. n. 3945/2018) ha individuato due forme di leasing:

il leasing di godimento, pattuito con funzione di finanziamento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con conseguentemente marginalità della eventuale opzione di acquisto) e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi (Cass. n. 6369/2002; Cass. n. 18195/2007: ricorre la figura del leasing di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi; Trib. Milano 12 dicembre 2012, Giur.comm. 2014, II, 491 ss);

il leasing traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare alla scadenza del rapporto un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione di acquisto e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto, rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale (Cass. n. 6369/2002; Cass. n. 23324/2011, per cui il contratto di leasing può essere di godimento o traslativo e che il secondo si differenzia dal primo in quanto si riferisce a beni atti a conservare, alla scadenza del rapporto, un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione, cosicché i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto; Cass. n. 18195/2007, secondo la quale è configurabile il leasing traslativo allorché la pattuizione si riferisce a beni atti a conservare, a quella scadenza, un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione ed i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto; Trib. Milano 12 dicembre 2012).

Le caratteristiche strutturali del cd. leasing «di godimento» sono state identificate: sotto il profilo causale, dalla funzione di finanziamento; sotto il profilo dell'assetto degli interessi, nell'identificazione di quello del concedente nell'intento di realizzare un impiego remunerativo del capitale e di quello dell'utilizzatore nell'ottenere non già la proprietà immediata del bene, bensì la disponibilità del bene stesso, senza esborso di capitali rilevanti, con la conseguente acquisizione del valore di consumazione economica e del potere di sfruttamento del bene, da lui stesso prescelto per le esigenze della sua impresa, fino alla pressoché totale obsolescenza di esso.

Pertanto, in tale figura, il trasferimento di proprietà del bene è nella volontà delle parti meramente eventuale, se non addirittura irrilevante.

Le quote di canone sono determinate non in vista del trasferimento del bene, non incorporano, quindi, ratei di prezzo, ma soltanto ratei del valore d'uso del bene dalle parti ragguagliato, nell'entità, all'impiego del capitale della società di leasing, oltre all'utile ed all'obsolescenza del bene, per cui, alla scadenza del contratto, il bene, a causa dell'obsolescenza tecnica, ha un valore pressoché nullo.

Il contratto è atipico, non ragguagliabile alla vendita ed alla locazione, è regolato dalle norme generali sui contratti, e quindi, dall'art. 1458, comma 1, seconda ipotesi, c.c., e, sussistendo una perfetta corrispettività e sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti durante lo svolgimento del rapporto, neppure si pone alcun problema di squilibrio in conseguenza del trattenimento di tutti i canoni percepiti da parte del concedente.

Diversi sono, invece, gli elementi strutturali del cd. «leasing traslativo» che presenta le seguenti caratteristiche: la vendita del bene assume rilevanza causale essenziale, essendo il godimento concesso in vista della alienazione, pur se è comunque identificabile la funzione di finanziamento, perché il contratto consente all'imprenditore di acquisire il bene, nonostante egli non abbia capitali adeguati; nell'assetto degli interessi delle parti, l'intento del concedente non differisce di molto da quello del leasing finanziario, ma si accentua la funzione garantistica del bene, mentre, invece, l'interesse dell'utilizzatore è quello di acquisire la proprietà del bene, e ciò perché, alla scadenza del contratto, il valore economico residuo del bene è di gran lunga superiore al prezzo di opzione: i ratei pagati scontano, infatti, non solo il valore di godimento, ma anche il valore del bene e ciascun canone sconta una quota di prezzo ed al termine del rapporto l'acquisto costituisce una «situazione di fatto necessitata per l'utilizzatore», proprio «avuto riguardo alla sproporzione tra (l'ancor notevole) valore residuo del bene ed il modesto prezzo di opzione», sempre che non voglia affrontare una perdita economica secca (cfr. Cass. n. 2743/1994 cit.); non sussistendo una corrispettività tra le prestazioni, si integra un evidente squilibrio se la società trattiene i canoni e la cosa resta anche in sua proprietà.

Delineata così la figura del leasing traslativo, nei suoi aspetti funzionali e strutturali, appaiono evidenti le analogie con la vendita con riserva di proprietà: «non esiste, infatti, una sensibile differenza nella funzione socio-economica tra l'ipotesi in cui, nella previsione negoziale del pagamento del prezzo di un bene, le parti esprimano attualmente la volontà di acquisto e di vendita del bene, condizionando il verificarsi dell'effetto reale al pagamento dell'intero prezzo, e l'ipotesi in cui, sempre nella previsione negoziale del pagamento rateale del prezzo, le parti consentano all'utilizzatore di esprimere la volontà di acquisto del bene al termine del rapporto, nella consapevolezza che, senza concrete alternative, l'utilizzatore dovrà esprimere detta volontà acquisitiva» (Cass. n. 2743/1994 cit.; conf. Trib. Palermo 2 maggio 2002).

Questi ed altri elementi di analogia con il contratto di vendita con riserva di proprietà, concernenti la disciplina del rischio di perimento della cosa e dell'esercizio delle azioni che ordinariamente competono al proprietario della cosa, hanno consentito ai giudici di legittimità di affermare l'applicabilità al contratto di leasing traslativo della identica disciplina, ricollegata al dettato dell'art. 1526 c.c.: detta norma è, infatti, finalizzata ad evitare che, in seguito all'inadempimento del compratore, l'equilibrio contrattuale risulti alterato in suo danno e con indebito vantaggio del venditore. La disposizione dell'art. 1526 c.c. è, quindi, una norma imperativa, che esprime un principio generale di tutela di interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing traslativo, nonché di strumento di controllo negoziale dell'autonomia delle parti.

Naturalmente, l'individuazione dell'uno o dell'altro tipo di leasing non deve avvenire seguendo un criterio di pura e semplice valutazione del valore residuale del bene al momento dell'interruzione del rapporto, accertando se lo stesso superi, oppure non, l'entità dei canoni versati, assumendo invece rilievo l'originaria previsione di tali valori al momento della stipula dell'atto, non potendosi infatti escludere che la valutazione del bene eseguita al momento dell'interruzione del rapporto sia diversa rispetto a quella risalente al momento della conclusione dell'accordo, e ciò per le cause più disparate ed impreviste, inerenti, ad esempio, alla conservazione ed alla manutenzione del bene stesso (cfr. Cass. n. 8454/1992).

Occorre, infatti, riferirsi alla volontà negoziale delle parti, e precisamente alla «previsione delle parti circa il valore residuale del bene al momento della naturale scadenza del contratto», nel senso che «... per la distinzione tra i due tipi contrattuali e la loro correlativa disciplina in caso di risoluzione, ciò che acquista rilievo è il fatto che la previsione di futura utilizzabilità del bene superi la durata del contratto» (Cass. n. 12790/1997; in tal senso anche Cass. n. 1731/1994, che fa espressamente riferimento alla «effettiva volontà delle parti contraenti... tradotta nell'accordo negoziale con riguardo al prevedibile scarto finale tra valore del bene e prezzo di opzione»; Cass. n. 11614/1998, che si riferisce al «prevedibile valore residuo del bene alla scadenza del contratto e prezzo di opzione: perché se il primo sopravanza in modo non indifferente il secondo, ciò sta a significare che i canoni hanno incluso per una parte il corrispettivo del valore d'uso e per un'altra il corrispettivo del valore di appartenenza»; Cass. n. 12317/2005; Cass. n. 18195/2007, per la quale l'accertamento della volontà delle parti trasfusa nelle clausole contrattuali rientra nei poteri del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici ovvero per vizio di motivazione. Cass. 13418/2008, in motiv., per cui il leasing di godimento risulta stipulato con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e in corrispettivo di canoni remunerativi esclusivamente dell'uso dei beni locati. Il leasing traslativo risulta invece stipulato con riferimento a beni idonei a conservare alla scadenza del contratto un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e in corrispettivo di canoni che includono anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto da parte dell'utilizzatore. Ed è indiscusso che la riconducibilità del singolo contratto all'uno o all'altro dei due tipi dipende dalla volontà in concreto espressa dalle parti, il cui l'accertamento «rientra nei poteri del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici, ovvero per vizio di motivazione; Cass. n. 24214/2006; Cass. n. 18229/2003).

Ai fini della individuazione del cosiddetto leasing traslativo non, quindi, è sufficiente la modesta entità del prezzo del riscatto, che può sussistere anche nel «leasing» di godimento ed è solo indice del disinteresse della società di «leasing» per la sorte del bene, una volta realizzato l'interesse finanziario con l'esaurimento del piano di ammortamento del credito, ma è necessaria l'effettiva intenzione delle parti contraenti, che tradotta nell'accordo negoziale, con riguardo al prevedibile e previsto (al momento del contratto) scarto finale tra valore del bene e prezzo di opzione (in virtù della natura del bene e della voluta non coincidenza temporale tra la durata del leasing e la sensibilmente superiore durata di consumazione economica del bene), comporti, al termine del rapporto, la necessità del riscatto per l'utilizzatore del bene (Cass. n. 1731/1994).

Né rileva la qualità di imprenditore dell'utilizzatore (Cass. n. 13418/2008, per la quale, ai fini della qualificazione come leasing traslativo di un contratto avente ad oggetto l'utilizzazione di beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo, ciò che rileva, indipendentemente dalla circostanza che concedente sia il produttore del bene ovvero un imprenditore che l'acquisti per porlo a disposizione dell'utilizzatore, è se il godimento temporaneo da parte dell'utilizzatore esaurisca la funzione economica del bene ovvero la durata del contratto sia predeterminata solo in funzione dell'ulteriore differito trasferimento del bene e della rateizzazione del prezzo d'acquisto).

Gli elementi sintomatici in presenza dei quali ci si trovi di fronte ad una fattispecie riconducibile all'una o all'altra delle ipotesi sopra individuate di leasing traslativo e di leasing di godimento, sono che, mentre il leasing di godimento risulta stipulato con funzioni di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e in corrispettivo di canoni remunerativi esclusivamente dell'uso di beni locati, la figura del leasing traslativo è caratterizzata dalla presenza di beni idonei a conservare alla scadenza del contratto un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e in corrispettivo di canoni che includono anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto da parte dell'utilizzatore, precisando, peraltro come la riconducibilità all'una o all'altra categoria dipenda, comunque, dalla volontà in concreto espressa dalle parti, attribuendo altresì rilievo al fatto se il godimento temporaneo da parte dell'utilizzatore esaurisca la funzione economica del bene ovvero la durata del contratto sia predeterminata solo in funzione dell'ulteriore differito trasferimento del bene e della corrispondente rateizzazione del prezzo di acquisto.

Tale distinzione vale, peraltro, anche in materia immobiliare: Cass. n. 23324/2011 ha, infatti, ritenuto che è qualificabile come leasing traslativo (e non come locazione con opzione di acquisto in favore del conduttore) il contratto avente ad oggetto un immobile che, ripartendo il canone in tre quote, delle quali una in conto godimento, una per la costituzione di un fondo opzione di acquisto ed una relativa a parte del costo di costruzione, e fissando il prezzo di trasferimento nel valore di mercato al momento dell'esercizio dell'opzione, come determinato da un collegio di arbitratori, contiene la pattuizione per la quale, in caso di esercizio dell'opzione di acquisto, viene dedotta dal prezzo la quota per la costituzione del fondo opzione di acquisto, poiché, per effetto di tale clausola, la somma da sborsare per l'acquisizione del bene è notevolmente inferiore al valore di mercato.

La distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo è risultata particolarmente rilevante ai fini della individuazione degli effetti in caso di risoluzione del contratto prima del fallimento dell'utilizzatore.

Se si tratta di leasing di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con conseguenziale marginalità dell'eventuale opzione), e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi, la risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell'utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell'art. 1458, comma 1, c.c. in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica.

Se, invece, si tratta di leasing traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto, rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale, la risoluzione del contratto si sottrae a dette previsioni e resta soggetta all'applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall'art. 1526 c.c. con riguardo alla vendita con riserva della proprietà (Cass. n. 6034/1997; Cass. n. 10265/2000). Nello stesso senso Cass. I, ord. n. 3945/2018.

In definitiva, secondo la Suprema Corte, in caso di leasing di godimento, trattandosi di contratto ad esecuzione continuata o periodica, la risoluzione non incide retroattivamente sulle prestazioni già eseguite (art. 1458 c.c., comma 1, c.c.), per cui la società concedente, per un verso, non è tenuta a restituire al fallimento i canoni percepiti e, per altro verso, ha il diritto ai canoni maturati fino allo scioglimento, mentre, al contrario, nel leasing traslativo, la risoluzione del contratto ha effetto retroattivo, non trovando applicazione, come si è detto, l'art. 1458, comma 1, c.c., nella parte in cui sancisce l'irretroattività della risoluzione dei contratti a prestazione continuata: la società concedente, quindi, a differenza di quanto accade nel leasing di godimento, per un verso, non può essere ammessa al passivo per i canoni scaduti e non pagati (e, tanto meno, per quelli non ancora scaduti al momento della risoluzione: Cass. n. 10265/2000) e per i relativi interessi contrattuali, essendo, piuttosto, tenuta, a norma dell'art. 1526, comma 1, c.c. (a tenore della quale «il venditore deve restituire le rate riscosse...»), alla restituzione dei canoni riscossi, e, per altro verso, ha il diritto previsto dall'art. 1526 c.c. all'equo compenso per l'uso della cosa (cfr. per tutte Cass. n. 8919/1993), oltre al risarcimento dei danni (Cass. n. 13418/2008: nel leasing traslativo, in caso di inadempimento dell'utilizzatore, si applica in via analogica la disciplina della vendita con riserva della proprietà, per cui, ai sensi dell'art. 1526 c.c., l'utilizzatore ha diritto alla restituzione delle rate riscosse ed il concedente ha diritto ad un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno).

Resta fermo, nell'una e nell'altra ipotesi, il diritto della concedente alla restituzione dei beni (ovvero, in caso di mancato rinvenimento, del loro equivalente pecuniario: Cass. n. 10265/2000).

In definitiva, in caso di risoluzione del contratto di leasing prima del fallimento dell'utilizzatore, occorre distinguere.

Se il contratto è qualificabile come leasing di godimento, la società concedente ha diritto alla restituzione dei beni (ovvero, in caso di mancato rinvenimento, del loro equivalente pecuniario) e dev'essere ammessa al passivo per il credito ai canoni maturati fino allo scioglimento del contratto ma non di quelli in quel momento non ancora scaduti (Cass. n. 10265/2000), ma, al più, ad un'indennità di godimento dei beni, fino alla loro restituzione effettiva.

Se, invece, il contratto è qualificabile come leasing traslativo, la società concedente ha diritto alla restituzione dei beni (ovvero, in caso di mancato rinvenimento, del loro equivalente pecuniario: Cass. n. 10265/2000) e dev'essere ammessa al passivo solo per il credito all'equo indennizzo (che comprende la remunerazione del godimento del bene ed il deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo ed al logoramento per l'uso, ma non il mancato guadagno da parte del concedente: Cass. n. 13418/2008), salva la compensazione con il suo debito alla restituzione dei canoni ricevuti (Cass. n. 2538/2016).

La società concedente ha diritto all'ammissione al passivo per il risarcimento dei danni (a sua volta compensabile con il debito alla restituzione dei canoni percepiti: Cass. n. 11145/2009, secondo la quale, nel leasing traslativo, in caso di fallimento del compratore e di scioglimento dal contratto non ancora compiutamente eseguito, il credito restitutorio per le prestazioni effettuate dal compratore fallito (i canoni pagati) trova il suo fatto genetico nel venir meno della giustificazione contrattuale dell'attribuzione patrimoniale stessa fin dal momento della sua esecuzione: collocandosi tale momento nel periodo anteriore alla dichiarazione di fallimento, il suddetto credito diviene compensabile con il controcredito del concedente, sorto anch'esso anteriormente a detta dichiarazione, e relativo al risarcimento dei danni per l'inadempimento del fallito, anche quando gli effetti dello scioglimento siano regolati dall'art. 1526 c.c.), come nel caso di deterioramento anormale della cosa dovuto all'utilizzatore (Cass. 13418/2008), se del caso nella misura contrattualmente prevista, a fronte della risoluzione di diritto dei contratti stipulati, quale conseguenza della clausola risolutiva espressa in essi contenuta, e della dichiarazione di volersene avvalere resa prima del fallimento dell'utilizzatrice. Infatti, in caso di previsione della clausola risolutiva espressa, quando il contraente «in bonis» se ne sia avvalso prima del fallimento, il contratto deve ritenersi già risolto alla data di apertura della procedura concorsuale tant'è che la relativa pronuncia non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa dell'avvenuta risoluzione. In particolare, nel caso in cui dopo la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore ne intervenga il fallimento, il concedente che intenda far valere il credito risarcitorio derivante da una clausola penale in suo favore è tenuto a proporre la domanda di insinuazione al passivo, in seno alla quale deve indicare la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto o, in mancanza, allegare una stima attendibile del valore di mercato, onde consentire al giudice di apprezzare l’eventuale manifesta eccessività della penale, ai sensi art. 1526, comma 2, c.c. (Cass. S.U. n. 2061/2021).

La determinazione convenzionale di tali danni (cd. indennità di risoluzione), tuttavia, dev'essere valida: e tale non sembra quella con la quale le parti hanno quantificato l'indennità di risoluzione con riferimento a tutti i canoni a scadere al momento della risoluzione oltre al prezzo di opzione, trattandosi di clausola che, determinando l'ammissione al passivo per i canoni a cadere, finisce, in sostanza, per determinare proprio l'effetto che, come detto, l'art. 1526 c.c. ha voluto evitare, ed è, quindi, in frode alla legge (artt. 1344 e 1421 c.c.).

In ogni caso, il giudice può, anche d'ufficio, può ridurne l'ammontare, come consentito dagli artt. 1384 e 1526, comma 2, c.c., a norma dei quali, «qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l'indennità convenuta» (Cass. n. 9161/2002, che non ha considerato meritevole di censura la decisione di appello che, facendo corretta applicazione dell'art. 1526, ultimo comma, c.c., ha ritenuto eccessivo che il concedente trattenesse l'intero monte dei canoni versati, determinando l'equo compenso in misura corrispondente al valore delle utilità ricavate dall'utilizzatore secondo le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio; Cass. n. 574/2005, per cui, quanto al risarcimento del danno, se il contratto ne preveda la liquidazione attraverso una clausola penale, questa può essere ridotta dal giudice a norma dell'art. 1384 c.c., se eccessiva, tenendo conto del guadagno che il concedente si attendeva dal contratto se l'utilizzatore avesse adempiuto alla propria obbligazione di pagamento dei canoni; Cass. n. 888/2014, per cui, in tema di leasing immobiliare, al fine di accertare se sia manifestamente eccessiva, agli effetti dell'art. 1384 c.c., la clausola penale che attribuisca al concedente, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, l'intero importo del finanziamento ed in più la proprietà del bene, occorre considerare se detta pattuizione attribuisca allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, tenuto conto che, anche alla stregua della Convenzione di Ottawa sul leasing internazionale 28 maggio 1988, recepita con legge 14 luglio 1993, n. 259, il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l'utilizzatore avesse esattamente adempiuto). Cass. n. 19272/2014, per cui, in materia di leasing traslativo, le parti possono convenire, ai sensi dell'art. 1526 c.c., applicabile in via analogica, l'irripetibilità dei canoni versati al concedente in esito alla risoluzione del contratto, la cui natura di clausola penale ne preclude, nel giudizio successivamente instaurato, la rilevabilità d'ufficio e la deducibilità dopo il decorso dei termini di cui all'art. 183 c.p.c., trattandosi di eccezione in senso stretto).

Il subingresso del curatore

Il curatore può scegliere la prosecuzione del contratto: evidentemente, in funzione del successivo acquisto dei beni stessi da parte del fallimento.

Con il subingresso, infatti, il curatore acquisisce la medesima posizione contrattuale che aveva l'utilizzatore fallito, assumendo l'obbligo di pagare, in prededuzione, i canoni, nonché, se esercita il diritto di opzione, il relativo prezzo (Bersani, 309, 310; Vattermoli, 453; Aprile, 2010, 1397; Patti, 2016, 1655 ss, 1658).

Non è chiaro, peraltro, se, in caso di subingresso, il curatore assuma l'obbligo di pagare in prededuzione solo i canoni maturati e scaduti dopo il fallimento o se tale obbligo si estenda anche a quelli maturati e scaduti prima della sentenza dichiarativa: in tal senso, prima della riforma, Cass. n. 22013/2007; Cass. n. 4969/2007; dopo la riforma, tale conclusione è stata sostenuta da Patti, 2016, 1655 ss, 1658, 1659, invocando, tra l'altro, l'art. 74 l.fall.; Vattermoli, 453).

In tale prospettiva, la scelta del curatore circa il subentro o lo scioglimento del contratto non può prescindere dalla stima del bene.

Appare, anzi, opportuno che il curatore, fin dalla fase di inventario, richieda la nomina di un consulente tecnico che proceda alla valutazione del bene oggetto del contratto.

Il curatore, infine, al fine di assumere una valutazione consapevole in ordine alla eventuale prosecuzione del contratto, deve verificare l'entità dei pagamenti già effettuati e quelli da effettuare, compreso il riscatto, fino alla scadenza de rapporto.

In caso di inadempimento da parte del curatore ai suoi obblighi contrattuali, trovano applicazione gli ordinari rimedi per il caso di inadempimento (Vattermoli, 420).

Il fallimento della società concedente

L'art. 72-quater, comma 4, l.fall. prevede che, in caso di fallimento della società concedente, il contratto di leasing prosegua fra le parti.

La norma ripete il testo dell'art. 7 del d.l. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito con l. 26 febbraio 2004, n. 45.

Tale norma aveva già previsto che la sottoposizione a procedura concorsuale delle società autorizzate alla concessione di finanziamenti sotto forma di locazione finanziaria non è causa di scioglimento dei contratti di locazione finanziaria, inclusi quelli di carattere traslativo, e non consente agli organi della procedura di optare per lo scioglimento dei contratti stessi.

Da ciò deriva che il contratto prosegue regolarmente fra le parti: l'utilizzatore conserva il diritto di riscattare il bene, previo pagamento di tutti canoni residui e del presso di opzione, nei tempi e nei modi pattuiti (cfr. Patti, 2016, 1664).

In caso di inadempimento dell'utilizzatore, trovano applicazione le regole contrattuali originariamente pattuite.

La locazione finanziaria

La l. 4 agosto 2017, n. 124, Legge annuale per il mercato e la concorrenza, ha disciplinato in dettaglio una particolare specie di leasing denominata “locazione finanziaria”. L’art. 1, commi da 136 a 140 dispongono:

“ 136. Per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l'intermediario  finanziario  iscritto  nell'albo  di  cui all'articolo 106 del testo unico di cui  al  decreto  legislativo  1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le  indicazioni  dell'utilizzatore,  che  ne assume tutti i  rischi,  anche  di  perimento,  e  lo  fa  mettere  a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione  e  della  durata del contratto. Alla scadenza del contratto l'utilizzatore ha  diritto di acquistare la  proprieta'  del  bene  ad  un  prezzo  prestabilito ovvero, in caso  di  mancato  esercizio  del  diritto,  l'obbligo  di restituirlo.

  137. Costituisce grave inadempimento dell'utilizzatore  il  mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i  leasing  immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o  un  importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria.

  138. In caso  di  risoluzione  del  contratto  per  l'inadempimento dell'utilizzatore ai sensi del comma 137, il  concedente  ha  diritto alla  restituzione  del   bene   ed   è   tenuto   a   corrispondere all'utilizzatore  quanto  ricavato   dalla   vendita   o   da   altra collocazione del bene, effettuata ai valori di  mercato,  dedotte  la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non  pagati  fino  alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e  del  prezzo  pattuito  per  l'esercizio  dell'opzione  finale   di acquisto, nonchè le spese anticipate per il recupero  del  bene,  la stima e la sua conservazione per il tempo  necessario  alla  vendita.

Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore  realizzato  con  la vendita o altra collocazione  del  bene  e'  inferiore  all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo precedente.

  139. Ai fini di cui  al  comma  138,  il  concedente  procede  alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati.

Quando non e' possibile far riferimento ai predetti  valori,  procede alla vendita sulla base di una stima effettuata da un  perito  scelto dalle parti di  comune  accordo  nei  venti  giorni  successivi  alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel  predetto termine, da un perito indipendente scelto dal concedente in una  rosa di   almeno   tre   operatori   esperti,    previamente    comunicati all'utilizzatore, che puòesprimere la sua preferenza vincolante  ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento  della  predetta comunicazione. Il perito è indipendente  quando  non  è  legato  al concedente da rapporti di  natura  personale  o  di  lavoro  tali  da compromettere l'indipendenza di giudizio. Nella procedura di  vendita o ricollocazione il concedente si attiene  a  criteri  di  celerità, trasparenza e pubblicità adottando  modalità  tali  da  consentire l'individuazione del migliore offerente  possibile,  con  obbligo  di informazione dell'utilizzatore.

  140. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 72-quater  del regio decreto 16 marzo 1942,  n.  267,  e  si  applica,  in  caso  di immobili da adibire ad abitazione principale, l'articolo 1, commi 76, 77, 78, 79, 80 e 81, della legge 28 dicembre 2015, n. 208”.

 La giurisprudenza ha precisato che gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi prima dell’entrata in vigore della l. 124/2017, sono regolati dall’art. 72-quater l. fall, applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore; pertanto il concedente in questo caso ha diritto alla restituzione del bene e deve insinuarsi nel passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. La vendita avviene a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo (Cass. I, n. 8980/2019). Nello stesso senso Cass. I, n. 12552/2019, la quale ha ricordato che l’art. 72-quater ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti. La disciplina dettata dalla l. 124/2017 non ha effetti retroattivi, per cui il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, dell’art. 1526 c.c., anche se la risoluzione sia stata seguita dal fallimento, non essendo per contro applicare analogicamente l’art. 72-quater l. fall. (Cass. S.U. n. 2061/2021).

Bibliografia

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