Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 77 - Associazione in partecipazione.Associazione in partecipazione.
La associazione in partecipazione si scioglie per il fallimento dell'associante. L'associato ha diritto di far valere nel passivo il credito per quella parte dei conferimenti, la quale non è assorbita dalle perdite a suo carico. L'associato è tenuto al versamento della parte ancora dovuta nei limiti delle perdite che sono a suo carico1. Nei suoi confronti è applicata la procedura prevista dall'art. 150. [1] Comma modificato dall'articolo 63 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoLa norma si occupa di una figura particolare di gestione in forma associata di una impresa economica, chiamata associazione in partecipazione. L'art. 2549 c.c. definisce questa figura come il contratto con cui l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Il secondo comma di tale disposizione prevedeva che l'apporto dell'associato potesse altresì consistere in prestazioni di lavoro, ma gli abusi che nella pratica avvenivano, al fine di scongiurare l'applicazione della tutela vincolistica collegata all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, hanno portato ad una recentissima modifica della norma, operata dall'art. 53 del d.lgs. n. 81/2015 (attuativo del c.d. Jobs Act). Il legislatore è così intervenuto, modificando il secondo comma dell'art. 2549 c.c., e stabilendo che se l'associato è una persona fisica il suo apporto «non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro». Dunque in base alla nuova disciplina sono vietati i contratti di associazione in partecipazione nei quali l'apporto dell'associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro, mentre quelli già in essere rimangono in vigore «fino alla loro cessazione». La logica della norma in commento è quella di evitare una prosecuzione del contratto associativo nel caso di fallimento della parte caratteristica, cioè dell'associante, determinando un pressoché automatico scioglimento del rapporto, con l'effetto di dover «fare i conti» con l'associato in bonis prendendo come riferimento quello della dichiarazione di fallimento. La disposizione in esame non disciplinava, invece, né continua a disciplinare, il caso in cui il fallimento riguardi l'associato, cioè colui che si limita a fornire un apporto, normalmente finanziario o di beni o di servizi (ma non più di lavoro) nell'impresa o in uno o più affari dell'associante. Prima della modifica dell'art. 2549 c.c. avvenuta nel 2015 si era affermato che il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato, si distingue dal contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili di impresa in virtù dell'elemento essenziale della partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite (Cass. n. 25158/2015). Del pari si era ritenuto che nel caso di contratto misto di associazione in partecipazione e collaborazione di lavoro è ammissibile che le parti assumano il reddito netto dell'associante quale parametro per determinare, in percentuale, la distribuzione degli utili (Cass. n. 24427/2015). Più recentemente si è osservato che nell'associazione in partecipazione, ancorché la disciplina dell'art. 2552 c.c. sia derogabile, l'associante non può restare esonerato da ogni perdita, ossia dal rischio di impresa, in contrasto con l'art. 2549 c.c. (Cass. n. 20189/2015). Fallimento dell'associanteCome anticipato, la norma prevede testualmente il solo caso in cui il fallimento riguardi la figura dell'associante, cioè la parte caratteristica del rapporto associativo. Il principio da cui muove la disposizione è che il fallimento debba produrre necessariamente lo scioglimento del rapporto al momento dell'apertura della procedura concorsuale e che si debbano in quel momento «fare i conti» con l'associato. Trattandosi di un contratto di durata, lo scioglimento opera ex nunc. Si ritiene infatti che la prosecuzione del rapporto si colleghi strettamente alla prosecuzione dell'impresa oggetto di associazione, sì che detta prosecuzione, se non per un periodo di tempo strettamente necessario ed in funzione conservativa, sarebbe radicalmente incompatibile con le finalità della liquidazione. La nuova disciplina dell'esercizio provvisorio, ed in particolare l'espressa affermazione che «durante l'esercizio provvisorio i contratti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l'esecuzione o scioglierli» (art. 104 comma 7) pone sicuramente degli interrogativi legati al coordinamento con la pressoché inalterata disciplina di cui alla norma in commento. È parere dello scrivente che la disposizione dell'art. 77 prevalga per specialità rispetto ad una norma di contenuto più generale; inoltre, anche gli effetti legati all'art. 77 appaiono concettualmente prevalenti. Da questo ultimo punto di vista, infatti, producendosi automaticamente nel momento del fallimento dell'associante lo scioglimento del rapporto di associazione di partecipazione, manca un rapporto pendente in cui il curatore possa subentrare o, tantomeno, che possa porre in stand by o decidere di sciogliere, attraverso una propria dichiarazione di volontà, come invece l'art. 104 co. 7 cit. sembra presupporre. Ne deriva che la mutata e più favorevole disciplina dell'esercizio provvisorio non sembra incidere sulla possibile prosecuzione dell'associazione in partecipazione, in caso di fallimento dell'associante. Del resto, uno dei principi di delega previsti dal Disegno di legge n. 3671 bis (approvato dalla Camera lo scorso 1 febbraio 2017), va proprio nel senso, per quanto qui rileva, dello scioglimento automatico dei contratti aventi natura personale (cfr. art. 7 comma 6 lett. b) Sciolto automaticamente il rapporto, l'associato avrà diritto alla restituzione dell'apporto già versato, dedotte le perdite a suo carico. Egli potrà cioè insinuarsi al passivo del fallimento in chirografo per una somma pari alla differenza (se positiva) fra apporto e perdite proporzionalmente poste a suo carico dagli accordi associativi. Nel caso in cui, invece, l'associato non avesse ancora versato il proprio apporto, la norma prevede una disciplina di favore: è infatti previsto che il curatore non possa richiederlo interamente, ma soltanto nei limiti delle perdite maturate a suo carico (in concreto il curatore non richiederà l'intera somma prevista come apporto, ma il minore importo fra questa e l'entità delle perdite che sono imputabili all'associato). Nel caso in cui l'apporto fosse costituito da un bene o da servizi se ne dovrà stabilire il controvalore, eventualmente ricorrendo ad uno stimatore o un perito specifico (si pensi al caso in cui l'apporto dell'associato fosse un brevetto per invenzione). Il curatore, in compenso, ha uno strumento molto agevole per recuperare l'eventuale credito del fallimento verso l'associato, in quanto può fare ricorso allo strumento previsto dall'art. 150 l.fall. dettato in tema di società con soci a responsabilità limitata, nel caso in cui si debbano ottenere dai soci stessi i versamenti ancora dovuti quale apporto di capitale. In pratica si tratta della possibilità per il curatore di ottenere un decreto ingiuntivo direttamente dal g.d. Appare persuasiva la tesi di chi (D'Aquino, Delladio, Fontana, Mammone, 293) ritiene che, ferma la competenza del g.d., a tale provvedimento di applichino le disposizioni di diritto processuale comune, compresa la difesa tecnica, necessaria per la notifica alla parte ingiunta e per far decorrere regolarmente i termini per l'opposizione (ed infatti viene espressamente richiamato l'art. 645 c.p.c.), nonché la possibilità di emettere il provvedimento in forma esecutiva (per la necessità del curatore di ricorrere alla difesa tecnica soltanto in caso di opposizione è invece schierata una non recente giurisprudenza: Trib. Torino, 19 giugno 1981 e Trib. Milano, 20 novembre 1975). Fallimento dell'associatoLa disposizione in commento non disciplina testualmente il caso del fallimento dell'associato. Non si tratta di una svista, ma della minore considerazione che il legislatore dedica al tema del fallimento della parte non caratteristica del contratto di associazione in partecipazione. Il silenzio della norma fa ritenere che si applichi la disciplina di diritto comune nel caso in cui il fallito avesse già interamente versato il proprio apporto. Il curatore dovrà pertanto esercitare, eventualmente ricorrendo alle vie giudiziali, i diritti che gli spettano subentrando nella posizione del fallito (diritto al rendiconto di cui all'art. 2552 comma 3 c.c., divisione degli utili ex art. 2553 c.c., restituzione dell'apporto in caso di inadempimento dell'associante, recesso da un rapporto non a tempo determinato, con restituzione del contributo detratte proporzionalmente le perdite eventualmente maturate). Se l'apporto consisteva nel trasferimento della proprietà del bene ed il trasferimento si è già verificato prima del fallimento vale quanto già detto, prendendo a riferimento la stima del valore del bene. Se invece il contributo consisteva nel godimento di un bene (ad es. di un immobile) si ritiene che l'associato possa riottenere il bene stesso in natura. Nell'ipotesi in cui, invece, l'apporto non sia ancora stato versato al momento del fallimento, si ritiene che si applichi l'art. 72 l.fall.: il rapporto resta quindi sospeso in attesa che il curatore decida se subentrare o sciogliersi dal rapporto di associazione secondo i principi dettati dall'art. 72, al cui commento si rinvia per ogni ulteriore approfondimento. 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