Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 106 - Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere 1 2 .

Federico Rolfi

Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere12.

 

Il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione; può altresì cedere le azioni revocatorie concorsuali, se i relativi giudizi sono già pendenti.

Per la vendita della quota di società a responsabilità limitata si applica l'articolo 2471 del codice civile.

In alternativa alla cessione di cui al primo comma, il curatore può stipulare contratti di mandato per la riscossione dei crediti.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 93 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Rubrica modificata dall'articolo 7, comma 4, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007.

Inquadramento

L'art. 106 è dedicato alla cessione dei crediti, delle azioni e delle quote facenti capo al fallimento, innovando – almeno sul piano formale – il contenuto della norma ante Riforma, quando il riferimento espresso era limitato alla sola vendita dei beni mobili, anche se va ricordato che sul piano giurisprudenziale si era già pervenuti alla dichiarazione di ammissibilità, ad esempio, delle cessioni di crediti, secondo le prassi virtuose in uso presso alcuni tribunali.

Con riferimento alla cessione di crediti, occorre osservare che la previsione opera per le ipotesi in cui, soprattutto i crediti, non siano ceduti come parte del complesso aziendale ai sensi dell'art. 105 (Liccardo-Federico, 1773), dovendosi, semmai, rilevare un collegamento con la previsione della cessione «aggregata» delle attività contemplata dall'art. 105, quinto comma (Fontana-Leuzzi, 2325).

Il Decreto Correttivo ha modificato la rubrica, sostituendo il termine «vendita», con quello «cessione», ed adottando, conseguentemente, una espressione più ampia (Fontana-Leuzzi, 2331; Paluchowski, 1337) e maggiormente compatibile con alcuni dei meccanismi di trasferimento contemplati dalla norma (in particolare quelli previsti dall'art. 2471 c.c. per il trasferimento di quote di s.r.l.), peraltro dettando una disciplina distinta da quella delle vendita dei beni mobili (Paluchowski, 1337). Lo scopo della previsione è evitare che l'attività liquidatoria sia rallentata dalla tempistica del recupero dei crediti e della definizione dei giudizi pendenti, optando per una monetizzazione immediata che può incidere sulle prospettive di ricavo, ma trasferisce sul cessionario il rischio da inadempimento o da esito negativo del giudizio (Masturzi, 987; Minutoli, 1452; Paluchowski, 1337).

Anche nel caso della norma in esame l'opzione di fondo del legislatore è stata in favore della «cessione in blocco» (c.d. «cessioni aggregate») dei rapporti giuridici facenti capo all'azienda (De Santis, 315; Minutoli, 1452), ove gli stessi non siano oggetto di cessione unitaria assieme all'azienda ex art. 105 l.fall., quale soluzione che non solo consente di pervenire alla c.d. «realizzazione anticipata dell'attivo» (accelerando conseguentemente la definizione della procedura concorsuale), ma anche meglio risponde all'esigenza complessiva di conservazione e riallocazione dei valori dell'impresa fallita, tipica della «nuova» liquidazione fallimentare (Paluchowski, 1337).

In quest'ottica la cessione «atomistica» costituisce comunque ipotesi residuale, da adottare solo qualora la cessione in blocco (o anche «in blocchi») non sia realizzabile, così come ipotesi residuale – in quanto ancor più onerosa e meno celere – dovrebbe essere la riscossione diretta dei crediti da parte del Curatore. Parimenti residuale risulta la riscossione diretta dei crediti, in quanto modalità meno efficiente e fonte di una dilatazione di costi e tempi (Paluchowski, 1338).

La cessione dei crediti e la cessione dei diritti

Il trattamento dei crediti – e quindi l'opzione tra cessione in massa, cessione atomistica, concessione del mandato a riscuotere con terzi, o, infine, riscossione diretta – dovrà essere espressamente esaminato e trattato nel programma di liquidazione, con adeguata giustificazione delle ragioni che potranno giustificare la specifica scelta operata, ed indicazione dei relativi dati (Masturzi, 988; Minutoli, 1454; Paluchowski, 1338). Il prezzo di cessione dovrà essere determinato in considerazione dei caratteri di vari crediti (età, entità, alea, etc.), e sarà anzi comunque auspicabile che il Curatore si affidi ad una società specializzata per effettuare una due diligence (Paluchowski, 1338).

La cessione potrà concernere tutti i crediti per i quali non operi il divieto di cui all'art. 1260 c.c., compresi quelli futuri, condizionali, o in contestazione e compresi quelli fiscali (Paluchowski, 1338), a condizione che siano possibili, leciti e determinati o – come nel caso dei crediti futuri – determinabili (Ambrosini, 647; Paluchowski, 1338). La cessione dei crediti futuri ha come peculiarità che l'effetto traslativo si realizzerà solo quando i crediti verranno ad esistenza, mentre sino a quel momento la cessione avrà solo efficacia obbligatoria (Masturzi, 989; Paluchowski, 1338). In ogni caso perché si possa cedere un credito futuro è necessario che il rapporto da cui scaturisce sia già esistente al momento della cessione medesima.

La cessione dei crediti in contestazione può avere ad oggetto tutte le pretese suscettibili di incrementare il patrimonio del fallito. Potrebbero, quindi, ritenersi comprese – quali accessori del credito oggetto di cessione (Minutoli, 1453; Paluchowski, 1339) — le azioni risarcitorie, ivi compresa l'azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali ex art. 146 l.fall., anche se non mancano dubbi sul punto.

Anche la scelta del cessionario dovrà comunque avvenire con procedure competitive ai sensi dell'art. 107, previa stima e pubblicità, e pertanto anche tale profilo dovrà essere adeguatamente esaminato e risolto nel programma di liquidazione. Peraltro anche in questo caso dovrebbero valere le limitazioni alla cedibilità dei crediti, e cioè: a) le limitazioni relative soggettive stabilite dall'art. 1261 c.c. (per le cessioni di crediti) e dall'art. 1471 c.c. (per le cessioni assimilabili a vendite) (Bruschetta, 1172; Paluchowski, 1339); b) le limitazioni assolute oggettive derivanti dagli artt. 1260 c.c. e 46 l.fall., e quindi dalla esclusione dalla massa fallimentare dei crediti personali del fallito (Fontana-Leuzzi, 2326; Liccardo-Federico, 1775; Minutoli, 1453).

A questi divieti dovrebbero aggiungersi quello riguardante la società che abbia effettuato la due diligence ai fini della redazione del programma di liquidazione, per la potenziale situazione di conflitto di interessi (Paluchowski, 1339), mentre più discussa è l'applicabilità analogica del divieto stabilito dall'art. 124 per il coniuge ed i prossimi congiunti del fallito nonché le società del gruppo di cui la società fallita faceva parte (Paluchowski, 1339).

Con la cessione il fallimento assume la sola garanzia di esistenza del credito, e quindi la cessione medesima dovrebbe avvenire pro soluto ex art. 1266 – risultando quindi opportuna un'attenta due diligence nel programma di liquidazione — mentre una cessione pro solvendo non appare compatibile con le finalità di accelerazione della definizione della procedura concorsuale, visto che espone il fallimento alla chiamata in garanzia del cessionario in caso di contestazioni del ceduto (Ambrosini, 647; Liccardo-Federico, 1775; Masturzi, 989; Paluchowski, 1340; Saracino, 2172).

Trovano, infine, applicazione le norme di cui agli artt. 1260 segg. c.c. (Masturzi, 989), e quindi l'obbligo di notificazione al ceduto di cui all'art. 1264, e l'estensione della cessione ai privilegi, alle garanzie ed agli accessori di cui all'art. 1263 (Paluchowski, 1338).

Nonostante il riferimento in rubrica, l'art. 106 l.fall.non contiene alcuna disciplina della cessione di «diritti». Si ritiene, conseguentemente, da taluni che il riferimento vada inteso ai diritti discendenti dalle azioni risarcitorie, ed in genere ai diritti che discendono da azioni diverse da quelle concorsuali nonché ai diritti diversi dalle partecipazioni societarie che sono alienabili analogicamente ai beni mobili (come i diritti di opzione). Per altri «diritti», come quelli sulle opere dell'ingegno, operano invece norma specifiche, come l'art. 108-ter (Paluchowski, 1340).

La Suprema Corte ha affermato che la natura consensuale del contratto di cessione di credito non comporta, nel caso di cessione di credito futuro, il trasferimento immediato del credito al cessionario, in quanto tale trasferimento si verificherà solo nel momento in cui il credito viene ad esistenza (Cass. I, n. 8333/2001; Cass. I, n. 6422/2003).

La cessione dei crediti fiscali

Tra i crediti del fallimento, ben possono rientrare crediti di natura fiscale, fermo restando, per la cessione dei crediti futuri, il già menzionato vincolo della determinatezza o determinabilità dei crediti stessi, ed il correlato differimento dell'effetto traslativo al momento della effettiva venuta in esistenza dei crediti (Fontana-Leuzzi, 2327).

La cessione dei crediti fiscali è, peraltro, oggetto di uno speciale regime e trovava già prima del 2006 una parziale disciplina negli artt. 43-bis e 43-ter d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, e l'art. 1 d.m. 30 settembre 1997, n. 384, disciplina che non trova deroghe nella liquidazione fallimentare (Fontana-Leuzzi, 2331)

In particolare la cessione deve riguardare i crediti di imposta risultanti dalla dichiarazione annuale e richiede la particolare formalità dell'atto pubblico o scrittura privata autenticata, dovendo poi essere notificata all'ufficio delle entrate o al centro di servizio presso il quale è stata presentata la dichiarazione dei redditi del cedente, nonché al concessionario del servizio della riscossione.

La cessione è in ogni caso inefficace se al momento della notifica, risultano a carico del cedente eventuali iscrizioni a ruolo relative a tributi erariali, notificate in data anteriore a quella della notifica dell'atto di cessione. In tal caso la cessione ha effetto solo per gli importi eccedenti quelli oggetto delle iscrizioni a ruolo. La cessione non pregiudica i poteri della Amministrazione finanziaria relativi al controllo delle dichiarazioni dei redditi, all'accertamento e all'irrogazione delle sanzioni nei confronti del contribuente che ha ceduto il credito d'imposta.

Una delle difficoltà connesse alla cessione dei crediti tributari concerne quei crediti tributari futuri concernenti detrazioni e rimborso, che divengono esigibili solo dopo la chiusura del fallimento, in quanto sorgono solo con la dichiarazione finale che il curatore è tenuto a presentare ex art. 5 d.p.r. 22 luglio 1998, n. 322, ed ex art. 5 d.p.r. 7 dicembre 2001, n. 435 (Fontana-Leuzzi, 2327). Va infatti ricordato che i crediti per ritenute possono essere richiesti a rimborso soltanto nella dichiarazione finale ex artt. 80 e 183 T.U.I.R. 22 dicembre 1986, n. 917, mentre il credito matura al termine della procedura, e cioè in un momento in cui non esiste più la possibilità di compensare l'IVA a credito con quella a debito (Fontana-Leuzzi, 2328).

Da tali difficoltà sono scaturite proposte di soluzioni pratiche come la cessione dei crediti tributari in favore di società finanziarie specializzate, la presentazione di dichiarazioni annuali con rimborso anticipato delle ritenute d'acconto, fino al riconoscimento di una speciale ultrattività degli organi della procedura in funzione della riscossione dei crediti e dell'esecuzione del riparto anche dopo il decreto di chiusura del fallimento (una rassegna completa in Fontana-Leuzzi, 2328). Tra queste anche l'idea della costituzione di un trust finalizzato all'acquisizione all'attivo fallimentare di crediti tributari, oggetti, tuttavia di forti perplessità circa la sua compatibilità con la chiusura del fallimento e la cessione degli organi fallimentari (Fontana-Leuzzi, 2329), e tali da rendere ancora preferibile il meccanismo della cessione.

Il mandato all'incasso

La soluzione alternativa alla cessione è la conclusione di un mandato per la riscossione dei crediti. Quest'ultimo si differenzia dalla cessione perché in esso non vi è alcun trasferimento del credito ma si attua la mera attribuzione al mandatario della legittimazione a riscuotere il credito medesimo in nome e per conto del mandante, il quale conserva la titolarità esclusiva del credito (Minutoli, 1454). Non si ha, quindi, un effetto acceleratorio (De Santis, 320), ma il mero sgravio della procedura da oneri e costi di riscossione diretta. Ciò vale a spiegare perché tale soluzione debba ritenersi sussidiaria rispetto all'opzione primaria della cessione in blocco, e perché, conseguentemente la scelta del ricorso al mandato all'incasso debba essere adeguatamente motivata nel programma di liquidazione.

Appare opportuno che il mandato sia conferito – secondo alcuni ricorrendo a procedure competitive — a società specializzate nel recupero crediti la cui struttura organizzativa dovrebbe consentire una maggiore professionalità nel recupero ed una abbattimento significativo dei costi — concordando ex ante il relativo compenso, operando una preventiva due diligence (Paluchowski, 1346), e prevedendo un termine per l'esecuzione (De Santis, 320).

Il mandato all'incasso non trasferisce il credito al mandatario e conseguentemente non ostacola una successiva cessione del credito o allo stesso mandatario o a terzi (De Santis, 319; Liccardo-Federico, 1777). Vale, del resto, la regola di cui all'art. 1723 c.c., e quindi la revocabilità del mandato, salvo l'obbligo del mandante di risarcire i danni, se la revoca non è dovuta a giusta causa (De Santis, 321).

Costante è l'affermazione in giurisprudenza per cui la distinzione tra cessione del credito e mandato all'incasso consiste nel fatto che la cessione produce l'immediato trasferimento del credito ad altro soggetto, che quindi diviene unico legittimato a riscuotere il credito in nome proprio, mentre il mandato all'incasso conferisce al mandatario solo la legittimazione a riscuotere il credito in nome e per conto del mandante, che ne conserva la titolarità esclusiva (Cass. I, n. 17162/2002, Contratti, 2003, 593; Cass. I, n. 1391/2003, Fall. 2003, 1187).

Secondo le prassi in uso presso alcuni tribunali – ed in applicazione del principio per cui il mandatario si deve attenere alle istruzioni del mandante (art. 1711) — sarà opportuno anche «proceduralizzare» la prassi (ad esempio prevedendo una scansione «invio raccomandata – invio di operatore in loco – eventuale trattativa transattiva – instaurazione del giudizio») e concordando convenzioni per l'impiego di legali collaboratori della società di recupero, autorizzati dal g.d. (Paluchowski, 1347). Il contratto quadro e la previsione della facoltà per il «recuperatore» di addivenire anche ad un accordo transattivo (fissandone ex ante i limiti) dovranno essere inseriti nel programma di liquidazione, per essere approvati dal Comitato dei Creditori (Paluchowski, 1347).

La cessione delle quote

L'art. 106 menziona espressamente la sola cessione delle quote di s.r.l. richiamando l'art. 2471 c.c., il quale prevede che l'espropriazione della quota di s.r.l. avviene notificando il pignoramento sia al debitore che alla società con iscrizione nel registro delle imprese (Masturzi, 998). Nel caso del fallimento, al posto del pignoramento si dovrà procedere alla notifica ed all'iscrizione della sentenza dichiarativa di fallimento nel registro delle imprese (Bruschetta, 1176; Fontana-Leuzzi, 2332) — secondo alcuni anche dell'inventariazione della quota (Paluchowski, 1341), o dell'ordinanza che dispone la vendita (Masturzi, 999) — mentre gli amministratori della s.r.l. dovranno invece provvedere alla sollecita annotazione del vincolo nel libro soci (Paluchowski, 1341).

Avvenuta l'espropriazione – e descritte nel programma di liquidazione le modalità con cui si vuole procedere (Minutoli, 1457) — si deve distinguere tra: a) quote liberamente trasferibili — per le quali il curatore può procedere ai sensi degli artt. 2469 e 2470 c.c. (Ambrosini, 649) con ricorso ai meccanismi competitivi di cui all'art. 107 l.fall., previa stima delle quote (Bruschetta, 1174; Paluchowski, 1342) —; b) quote non liberamente trasferibili — per le quali l'art. 2471 c.c. prevede un doppio meccanismo: b1) accordo tra curatore e società in ordine alla vendita della quota (previa stima della quota da parte di un esperto), ritenendosi superate le criticità in tema di compatibilità col principio del ricorso generale alle procedure competitive stabilito dall'art. 107 l.fall.(Bruschetta, 1173), ma ferma, secondo alcuni, la necessità che l'accordo stesso sia inserito in un supplemento del programma di liquidazione, e sottoposto all'approvazione (Liccardo-Federico, 1779; Saracino, 2181); b2) in caso di mancato accordo, vendita (Masturzi, 999), non essendo necessario il ricorso al g.e., sempre con il rispetto delle modalità competitive ex art. 107 (Masturzi, 999; Minutoli, 1457) fermo restando che la vendita sarà privata di effetto se, entro dieci giorni dall'aggiudicazione la società presenterà un acquirente (anche se lo stesso non abbia partecipato alla gara: Masturzi, 999) che offra lo stesso prezzo (in tal caso il g.d. dichiarerà con decreto l'inefficacia dell'aggiudicazione ed aggiudicare all'acquirente «presentato»: Paluchowski, 1341); c) quote gravate da divieto assoluto di alienazione (art. 2469 c.c.), per le quali da alcuni si ipotizza la impossibilità di espropriazione qualora il vincolo di indisponibilità risulti da atto certo con data anteriore al pignoramento (atto costitutivo della società), mentre secondo altre voci il Fallimento potrebbe giungere alla liquidazione della quota esercitando il diritto di recesso contemplato dalla medesima norma.

È poi possibile che l'atto costitutivo della società contempli il fallimento quale causa di esclusione del socio ex art. 2473-bis c.c., nel qual caso la quota dovrà essere liquidata secondo le norme sul diritto di recesso.

Il riferimento all'accordo ed alla vendita con incanto pone il problema della compatibilità di tali procedure con il rispetto delle procedure competitive e della preferenza per la vendita senza incanto (Paluchowski, 1341; Saracino, 2180). Le modalità di liquidazione dovranno essere inserite nel programma di liquidazione con la conseguenza che il decreto del g.d. che, in esecuzione del programma approvato dal Comitato dei Creditori, autorizza la vendita della quota dovrà essere notificato alla società.

L'art. 106 l.fall.non si occupa invece della cessione di azioni, strumenti finanziari vari e quote di società di persone (Fontana-Leuzzi, 2333; Paluchowski, 1341).

Per quanto concerne le azioni di S.p.A., parte della dottrina ritiene che il richiamo all'art. 2471 operi anche per la vendita delle azioni con clausola di gradimento o prelazione (Ambrosini, 649; Bruschetta, 1176; Masturzi, 999; Paluchowski, 1341; ma dubbi in Saracino, 2182). La tesi, tuttavia, non ha riscosso consenso unanime, in quanto da altri è stata obiettata la natura eccezionale dell'art. 2471 c.c. e del richiamo che a tale previsione viene operato dall'art. 106 l.fall.

Le azioni liberamente trasferibili e gli strumenti finanziari immessi nel sistema accentrato di gestione in regime dematerializzato sono invece vendibili come beni mobili, seguendo le previsioni dell'art. 107 l.fall., non operando la normativa dell'art. 28 d.lgs. 24 giugno 1998, n. 213 (e la correlata delibera CONSOB 15 settembre 1998, n. 11600) in quanto il fallimento non può considerarsi venditore professionale (Paluchowski, 1341), dovendosi sul punto richiamare anche l'art. 33, comma 1, lett. e), Regolamento CONSOB 14 maggio 1999, n. 11971, che — in attuazione della riserva di cui all'art. 100, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 – ha individuato come ipotesi di inapplicabilità della disciplina in tema di sollecitazione all'investimento il caso delle vendite coattive connesse a procedimenti previsti dalla legge (Fontana-Leuzzi, 2337).

Per le quote di società di persone l'art. 2288 prevede che il socio dichiarato fallito è escluso di diritto dalla società, con la sola eccezione della quota dell'accomandante, il cui trasferimento può avvenire con il consenso della maggioranza ex art. 2322 c.c. Rimane quindi per il Curatore la sola possibilità di chiedere la liquidazione della quota ex art. 2289 c.c. sulla base del valore monetario che essa aveva al momento dello scioglimento del rapporto sociale (Paluchowski, 1341).

Per le società cooperative il fallimento determina l'esclusione di diritto del socio fallito, con la conseguenza che il Curatore potrà chiedere la liquidazione della quota (art. 2527) o chiedere il rimborso delle azioni (art. 2355) (Fontana-Leuzzi, 2334).

Le istruzioni del Tribunale di Milano emanate dal Tribunale di Milano per la liquidazione dell'attivo nel 2007, prevedono per le vendite di strumenti finanziari dematerializzati l'impiego della alla vendita a messo di commissionario, di cui agli artt. 532 e 533 c.p.c., mediante delega ad un intermediario autorizzato. Permane, infatti, il ruolo dell'intermediario che, sulla scorta di una copia autentica del provvedimento di aggiudicazione, ovvero del provvedimento che certifica l'esito della vendita, si occuperà di presentare la richiesta alla società di gestione accentrata di operare la registrazione del trasferimento degli strumenti finanziari (Fontana-Leuzzi, 2339).

La cessione delle azioni

La Relazione alla Riforma, nel presentare l'art. 106 veniva ad affermare il principio della la cedibilità di tutte le azioni dirette a conseguire incrementi del patrimonio del debitore, giustificando le opinioni che ritengono che siano cedibili tutte le azioni, quale che ne sia il titolo finalizzate ad incrementare il patrimonio del fallito (Ambrosini, 648; Paluchowski, 134). Tra le azioni cedibili, quindi, rientrerebbero anche le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, dei liquidatori e degli organi di controllo, nonché l'azione ex art. 2476 nei confronti dei soci, subordinatamente alla loro preventiva instaurazione da parte del curatore (De Santis, 337; Fontana-Leuzzi, 2340; Paluchowski, 1345).

In realtà, la locuzione impiegata dalla norma (che fa riferimento ai crediti «anche oggetto di contestazione») appare assai meno esplicita, in quanto, mentre la norma sul concordato fallimentare (art. 124) a prevedere la cessione illimitata di tutte le azioni, l'art. 106 menziona in modo inequivoco la sola cessione delle azioni revocatorie. Proprio la diversità di formulazione ha indotto a concludere che le azioni diverse da quelle revocatorie possano essere cedute solo se collegate ad un credito a sua volta oggetto di cessione, quali accessori del credito medesimo (De Santis, 330; Minutoli, 1455). A tale profilo interpretativo si somma, poi, il problema di stabilire se per la cessione di tali azioni valga lo stesso presupposto stabilito espressamente per la cessione delle azioni revocatorie, e cioè che il relativo giudizio sia già stato instaurato (Bruschetta, 1173; Fontana-Leuzzi, 2340), o se invece sia sufficiente che le stesse siano state inserite nel programma di liquidazione ed autorizzate dal g.d. (De Santis, 343; Masturzi, 989).

Il regime della cessione delle azioni revocatorie, espressamente contemplato dalla norma, infatti, subordina la cessione – a differenza di quanto previsto nell'art. 124 l.fall. (Paluchowski, 1343) — alla preventiva instaurazione del giudizio. Quest'ultima condizione è stata introdotta – come ricordato dalla Relazione – allo scopo di evitare condotte speculative (Masturzi, 992; Paluchowski, 1343) e comporta che, per procedere alla cessione, dovrà essere stato almeno notificato (o depositato, se la forma è quella del ricorso) l'atto introduttivo del giudizio, non bastando che l'azione sia prevista nel programma di liquidazione (Paluchowski, 1343). Non dovrebbe ostare alla cessione la situazione di cancellazione, interruzione o sospensione del giudizio, a condizione che lo stesso possa ancora essere riattivato e proseguito (De Santis, 343; Minutoli, 1455).

La locuzione «azioni revocatorie concorsuali» è da ritenersi riferita non solo alle revocatorie «di massa» (art. 67 l.fall.) ma anche alle revocatorie ordinarie (artt. 66 l.fall.e 2901 c.c.) (De Santis, 336; Masturzi, 991; perplesso Minutoli, 1455) ed alle azioni di inefficacia (artt. 64 e 65 l.fall.) (Miraglia, 372; Tarzia, 864). Nondimeno il dato letterale del riferimento alle azioni revocatorie «concorsuali», ha indotto una tesi (De Santis, 333) ad per operare una distinzione nel senso che: a) le azioni concorsuali (e cioè le azioni per le quali opera il disposto di cui all'art. 24 l.fall.) sarebbero cedibili solo se aventi ad oggetto una domanda di revocatoria già pendente; b) le azioni non concorsuali – e cioè le azioni che già esistevano nel patrimonio del fallito al momento dell'apertura del concorso – sarebbero cedibili purché collegate al recupero di un credito ceduto, e tra di esse potrebbe comprendersi l'azione di responsabilità ex art. 146 l.fall.

Più discutibile è la cedibilità dell'azione risarcitoria per abusiva concessione di credito, atteso che l'arresto delle Sezioni Unite sulla legittimazione del Curatore ha affermato la pertinenza ai singoli creditori di detta azione, la quale non mirerebbe ad incrementare la massa ma gioverebbe ai soli singoli creditori concretamente danneggiati. Di qui la esclusione di tale tipo di azione dal novero delle azioni cedibili (De Santis, 330).

La norma non menziona il divieto – previsto invece nel progetto di riforma e menzionato nella Relazione – della cessione ai prossimi congiunti del fallito o alle società del gruppo di cui la fallita faceva parte, ma resta la possibilità di un'applicazione analogica del divieto espressamente stabilito dall'art. 124 l.fall.(Masturzi, 994).

Secondo l'opinione prevalente, oggetto della cessione – nonostante alcune diverse opinioni (De Santis, 347; Fontana-Leuzzi, 2340; Liccardo-Federico, 1776; Saracino, 2175) – non sono i beni oggetto della revocatoria (che, secondo questa tesi, verrebbero ad essere trasferiti al cessionario per effetto del passaggio in giudicato della revocatoria), ma il diritto controverso (Masturzi, 990), e quindi la facoltà che chi ha promosso l'azione, per effetto dell'accoglimento della revocatoria medesima, avrà di aggredire i beni medesimi come se non fossero mai usciti dal patrimonio del soggetto fallito (Bruschetta, 1173; Minutoli, 1455; Miraglia, 375; Paluchowski, 1344).

Ciò comporta che il ceduto convenuto in revocatoria potrà sollevare anche nei confronti del cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del curatore (Masturzi, 994; Miraglia, 375; contra Bruschetta, 1173). Discusso è, tuttavia, se tra tali cessioni possa comprendersi quella inerente l'assenza di eventus damni, in virtù della capienza del patrimonio dell'imprenditore fallito (favorevole Liccardo-Federico, 1776). L'opinione favorevole viene contrastata da una voce, secondo la quale il patto di cessione delle revocatorie avrebbe rilevanza sostanziale, mirando ad attuare una liquidazione anticipata indipendentemente dagli sviluppi concreti del fallimento.

Inoltre anche nei confronti del cessionario il ceduto potrà esercitare – una volta soccombente – la facoltà di acquistare il bene in sede di espropriazione o di evitare l'espropriazione corrispondendo il valore del bene.

Il cessionario riuscito vittorioso nella revocatoria, quindi, potrà limitarsi ad annotare la sentenza di revoca per gli immobili; ad apporre i sigilli per i mobili; a procedere all'iscrizione per le partecipazioni sociali e poi procedere a liquidare coattivamente il bene con le forme dell'espropriazione forzata.

Dal punto di vista processuale, poiché la cessione configura una successione a titolo particolare nel giudizio ex art. 111 c.p.c., il giudizio medesimo proseguirà tra le parti originarie, senza provocare alcuna interruzione (Ambrosini, 647; De Santis, 345; Masturzi, 991), e la sentenza emessa nei confronti del curatore cedente (il fallimento ben potrebbe risultare ancora aperto), spiegherà effetti anche nei confronti del cessionario, anche se il cessionario potrà intervenire in giudizio ed il curatore potrà essere estromesso (De Santis, 346; Masturzi, 991; Paluchowski, 1343). La criticità di questa soluzione è data dal fatto che il terzo ceduto potrebbe non acconsentire all'estromissione, per costringere il Fallimento a stare in giudizio, ritardandone la chiusura, in modo da assicurarsi la chance di insinuazione tardiva ex art. 70 l.fall.in caso di accoglimento della revocatoria.

Per questo è stato ipotizzato da alcuni che nel caso della cessione delle azioni derivanti dal fallimento il principio dettato dall'art. 111 c.p.c. debba essere rimodellato sulla peculiarità di una situazione che vede – non va dimenticato – il ruolo del curatore comunque venire meno a seguito della cessione dell'azione di massa al terzo. Al riguardo si è richiamata la previsione in materia di liquidazione coatta delle banche (art. 92, ultimo comma, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385) — che consente, nel caso di cessione in blocco di rapporti, la estromissione a domanda dei soli commissari liquidatori dai giudizi inerenti i rapporti ceduti — quale esempio di soluzione difforme da quella desumibile dal solo art. 111 c.p.c., sebbene le peculiarità di tale disciplina creino problemi di applicazione a situazioni diverse da quella per la quale è stata espressamente concepita. Altre opinioni si sono rifatte all'orientamento assunto dalla Suprema Corte nel concordato fallimentare – in virtù del quale che il venir meno, con l'omologazione, della funzionalità del curatore comporterebbe l'interruzione del giudizio e la necessaria riassunzione da parte del cessionario – per affermare l'applicabilità di tale principio anche all'ipotesi di cessione ex art. 106 c.p.c., affermando che con la cessione dell'azione si assisterebbe comunque al venir meno del ruolo del Curatore (che è portatore di un interesse della massa e non di un interesse proprio), ed alla conseguente necessità che il giudizio sia proseguito o riassunto dal cessionario ex artt. 300 segg. c.p.c. Altre opinioni, ancora, limitano l'applicazione all'ipotesi di cui all'art. 106 l.fall.del principio elaborato dalla Suprema Corte per il concordato fallimentare al solo caso in cui, a seguito della cessione, il Fallimento proceda alla sollecita distribuzione del ricavato e venga immediatamente chiuso, giacché anche in tal caso il Curatore verrebbe meno come organo della procedura.

È comunque da escludere che la successiva chiusura del Fallimento, mentre l'azione ceduta ex art. 106 l.fall.è ancora pendente e si è assistito all'intervento del cessionario, comporti l'applicazione dell'art. 120 l.fall. (improseguibilità delle azioni promosse dal Curatore), che quindi in questa ipotesi trova una deroga. Più complesso è il discorso qualora, pur essendo avvenuta la cessione, il cessionario non sia ancora intervenuto al momento della chiusura del Fallimento, giacché in tale ipotesi nulla, sul piano formale, osta alla declaratoria di improseguibilità (Tarzia, 866).

Non meno problematico è il profilo del trattamento del credito di massa del terzo nei cui confronti sia stata vittoriosamente esperita la revocatoria. L'accelerazione della chiusura della procedura che dovrebbe derivare dalla cessione delle azioni rischia di precludere anche la possibilità di una insinuazione tardiva, anche se questa potrebbe avvenire anche oltre il termine dei dodici mesi, trattandosi di ritardo giustificato, pur comportando la partecipazione ai soli riparti residui (Paluchowski, 1344). In tal modo al terzo residuerebbe la sola possibilità di agire verso il fallito in bonis, salvo il ricorso all'escamotage di opporsi alla estromissione del Fallimento dal giudizio ex art. 111 l.fall., di fatto vanificando lo scopo della cessione (De Santis, 348).

Pertanto, secondo alcuni, il cessionario dovrebbe accollarsi anche l'eventuale debito nei confronti del convenuto corrispondente all'insinuazione, nei limiti di quanto esso verrebbe soddisfatto in sede di riparto (Miraglia, 378; Sandulli, 637) – di fatto legittimando il convenuto soccombente a trattenere l'importo equivalente alla percentuale di credito insinuato ex art. 70 che sarebbe stato effettivamente soddisfatto in riparto (Masturzi, 996), ma non mancano dubbi connessi alla difficile determinabilità del debito accollato (Saracino, 2176) — oppure, in alternativa, a non eseguire la sentenza nei limiti del credito del ceduto che sarebbe stato soddisfatto in sede di insinuazione. La giustificazione di una simile soluzione andrebbe trovata nel fatto che con la revocatoria verrebbe ad essere ceduta, inscindibilmente, anche la situazione passiva derivante dalla pretesa restitutoria del soccombente a seguito dell'accoglimento della revocatoria medesima.

Si è osservato in contrario che sino al momento in cui la procedura è aperta potrà sempre tentare la strada della insinuazione «ultratardiva» – non apparendo il ritardo imputabile al soggetto soccombente (neppure per l'aver resistito alla revocatoria, atteso che si tratta di legittimo esercizio del diritto di difesa: Tarzia, 871) – salva l'operatività – per le somme già oggetto di ripartizione — dell'art. 112.

Inoltre ove il cessionario dovesse accollarsi il credito ammesso in insinuazione, la cessione potrebbe di fatto risultare antieconomica e comunque costringerebbe lo stesso soggetto interessato alla cessione ad affrontare un'alea difficilmente calcolabile ex ante.

Altre voci hanno sostenuto la tesi della possibilità per il ceduto soccombente di compensare parzialmente l'importo dovuto al cessionario con il controcredito che esso avrebbe vantato nei confronti della procedura a titolo di insinuazione al passivo, anche se solo nei limiti in cui questo credito sarebbe stato effettivamente soddisfatto, ma tale tesi trova un limite nel fatto che il diritto all'insinuazione sorge solo dopo l'effettiva restituzione di quanto oggetto della revocatoria.

Soluzione alternativa sarebbe quella di ritenere possibile l'insinuazione immediata (post cessione) del ceduto in via condizionata, subordinatamente all'accoglimento della revocatoria, con accantonamento ex art. 117 l.fall., anche se persino i sostenitori di tale soluzione sono costretti ad ammettere che essa crea la disfunzione di rendere necessari accantonamenti anche ingenti, compromettendo la distribuzione immediata di tutto l'attivo agli altri creditori (come rileva in senso critico Paluchowski, 1345). Resterebbe poi aperto il problema se il soggetto soccombente in revocatoria possa insinuarsi per l'ammontare effettivamente oggetto della statuizione di inefficacia e per il minor valore corrispondente al corrispettivo del prezzo della cessione (e che costituisce l'effettivo incasso attivo della Procedura).

Il dibattito sull'oggetto della cessione delle revocatoria scaturisce da precedenti che hano effettivamente affermato – in tema di concordato fallimentare – che cessione dell'azione revocatoria all'assuntore del concordato fallimentare comporta, insieme con il trasferimento dell'azione, anche l'alienazione anticipata, da parte della massa fallimentare, del bene oggetto dell'atto revocando, subordinatamente all'esito positivo dell'azione medesima (Cass. I, n. 6230/1981). Più di recente, tuttavia, è stato affermato il contrario principio per cui l'accoglimento della revocatoria non determina alcun effetto restitutorio rispetto al patrimonio del poi fallito, e neppure un effetto traslativo, ma solo l'assoggettamento del bene all'azione esecutiva (Cass. I, n. 8962/1997; Cass. I, n. 8419/2000).

Circa l'incidenza della chiusura del fallimento sulla revocatoria già oggetto di cessione merita rammentare che, in tema di concordato fallimentare con cessione delle azioni revocatorie, la Suprema Corte ha affermato che la chiusura del fallimento (per effetto dell'omologazione del concordato medesimo), non determina l'improcedibilità delle revocatorie medesime, in quanto si verifica una successione a titolo particolare dell'assuntore nel diritto controverso. Contestualmente, la Suprema Corte ha escluso la possibilità della prosecuzione del processo tra le parti originarie, ai sensi dell'art. 111, in quanto la chiusura della procedura, comporta il venir meno della legittimazione processuale del curatore, ed impone di far luogo all'interruzione del processo (Cass. I, n. 4766/2007).

Bibliografia

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