Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 124 - Proposta di concordato (1).Proposta di concordato (1). Art. 124 La proposta di concordato puo' essere presentata da uno o piu' creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, purche' sia stata tenuta la contabilita' ed i dati risultanti da essa e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all'approvazione del giudice delegato. Essa non puo' essere presentata dal fallito, da societa' cui egli partecipi o da societa' sottoposte a comune controllo se non dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e purche' non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo (2). La proposta può prevedere: a) la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; b) trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei medesimi; c) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito. La proposta puo' prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purche' il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d) designato dal tribunale. Il trattamento stabilito per ciascuna classe non puo' avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione (2). La proposta presentata da uno o piu' creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell'attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa. Il proponente può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta. In tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli articoli 142 e seguenti in caso di esdebitazione (3). (1) Articolo sostituito dall'articolo 114 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. (2) Comma sostituito dall'articolo 9, comma 5, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. (3) Comma modificato dall'articolo 9, comma 5, del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. InquadramentoÈ stato più volte evidenziato come il concordato fallimentare negli ultimi anni è stato oggetto di minori interventi riformatori rispetto alle incisive modifiche che hanno interessato il concordato preventivo (in permanente evoluzione normativa ed ampiamente analizzato da dottrina e giurisprudenza) e, quindi, sottoposto ad un meno intenso dibattito dottrinale ed a scarsa applicazione nella prassi operativa, con conseguente marginale attenzione da parte della giurisprudenza. E pur tuttavia, non può negarsi che, a seguito del d.lgs. n. 5/2006, esso ha ricevuto — almeno in astratto — nuova linfa, laddove nelle proposte di riforma della legge fallimentare elaborate nel corso degli anni 2000 sembrava destinato a scomparire, posto che erano emersi dubbi sull'opportunità di mantenerlo in vita, ed anzi di rafforzarlo, trattandosi di istituto la cui sopravvivenza pareva smentire la proclamata volontà di anticipare l'emersione della crisi dell'impresa (per un'efficace sintesi dell'inquadramento storico dell'istituto, v. Fabiani, 853-856). Negli ultimi tempi l'istituto sembra avere ritrovato l'obiettivo dei riflettori, riscoprendosi le sue effettive potenzialità, troppo a lungo sottovalutate. Ed in effetti, anche al di là di altri aspetti che verranno via via analizzati, poiché — come è stato notato — la prima novità di rilievo della riforma è, come si vedrà, quella dell'ampliamento dei soggetti legittimati alla proposta di concordato, il solo fatto che un terzo possa entrare «a gamba tesa» nella gestione della crisi dell'impresa di un soggetto diverso (e che lo possa fare in una finestra temporale preclusa al fallito), incuneandosi nel rapporto tra imprenditore e creditori, amplia di molto l'utilità di questo strumento negoziale (si rinvia a Frascaroli, 1253 ss. e 1259 ss., per una visione comparativistica, anche alla luce dei regolamenti comunitari, nell'ottica della tendenza a favorire la conservazione dell'attività di impresa e de valorizzare la composizione negoziata della crisi). Premesso che la legge fall. non definisce il concordato fallimentare, limitandosi a disciplinarlo agli artt. 124 ss. nel capo VII (inerente le cause di cessazione della procedura fallimentare), unitamente alle altre ipotesi di chiusura previste dall'art. 118, è noto che esso nell'originario sistema del r.d. n. 267/1942 era concepito come un istituto a disposizione del solo fallito, l'unico legittimato a presentare la relativa proposta. Questa poteva essere depositata solo dopo che lo stato passivo era divenuto esecutivo, ai sensi dell'art. 97, ed aveva un contenuto minimo e rigido, costituito dall'indicazione della percentuale offerta ai chirografari (laddove i creditori di massa e quelli privilegiati dovevano essere pagati per intero) e del tempo del pagamento nonché dalla descrizione delle garanzie offerte, con scarso spazio per l'autonomia privata (cfr. Blatti- Minutoli, 1716). La norma prevedeva, in sostanza, due soli tipi di concordato fallimentare: quello con garanzia e quello con assunzione (con o senza liberazione del fallito). Il sistema prevedeva, poi, un ruolo centrale del giudice delegato, in quanto la proposta era sottoposta — prima ancora che alla votazione dei creditori — al sindacato di convenienza del giudice delegato, il quale operava una sorta di filtro preventivo; il concordato, poi, doveva essere approvato con una doppia maggioranza, quella numerica dei creditori ammessi al voto che rappresentavano almeno i due terzi dei crediti complessivi. Infine, la procedura si chiudeva con una sentenza, di omologazione o di rigetto (per un'ampia disamina della disciplina del «vecchio» concordato fallimentare, si rinvia, ex multis, Bran, 27 ss.). La profonda modifica attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006 di cui si dirà ha fatto emergere le reali potenzialità del concordato fallimentare (con l'ammissibilità — preveduta con la riforma — di proposte di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti «attraverso qualsiasi forma»: Blatti-Minutoli, 1717): infatti, è stato efficacemente evidenziato come l'istituto, lungi dal costituire più una mera ipotesi di chiusura della procedura fallimentare, per esdebitare il fallito per economizzare le risorse della «giustizia» e conservare un trattamento paritario tra i creditori, oggi risponde (anche e soprattutto, almeno in astratto) a logiche diverse, potendo essere realmente idoneo a rendere più moderne le procedure concorsuali liquidatorie, dando ai creditori qualcosa di più e di meglio e non distruggendo i valori economico-imprenditoriali che la dichiarazione di fallimento sembrava aver compromesso (così acutamente Fabiani, 698-704, secondo cui — nel contesto di una interpretazione sistematica e non parcellizzata delle nuove norme — l'istituto, strumento votato ad attenuare le conseguenze del dissesto per il debitore, si è trasformato in un'occasione per rimettere in circolazione le risorse economiche legale all'impresa in crisi; più di recente, cfr. Fabiani, 858 e 865 ss., che parla di concordato fallimentare come ultima opportunità per la regolazione della crisi, con nuove potenzialità; Filocamo, 2440). Anche in esso, infatti, al pari del parallelo istituto del concordato preventivo, si è dato ampio risalto alla volontà negoziale delle parti coinvolte nel dissesto, e cioè fallito e creditori (pur essendo consentito anche al terzo di presentare una proposta: v. infra), per la considerazione dell'insoddisfazione del ceto creditorio di fronte alla fallimentarizzazione della crisi (Fabiani, 857, che evidenzia come il ruolo delle parti, protagoniste della crisi, si è accresciuto se solo si guarda ai più ristretti limiti del sindacato giudiziale sulla convenienza ex art. 129 l.fall.); si connota, altresì, per conseguente superamento del rigido schematismo del pregresso sistema e per la possibilità di un più ampio ventaglio di soluzioni, anche di carattere conservativo del complesso produttivo, nonché per un ridotto potere di intervento e controllo degli organi giurisdizionali: è stato così affermato che la nuova disciplina da un lato delinea, sotto il profilo funzionale, un istituto che rientra tra i vari strumenti alternativi di liquidazione del patrimonio fallimentare, dall'altro disegna un modello «aperto», suscettibile di essere riempito del più vario contenuto dall'autonomia dei privati interessati, pur con alcuni requisiti minimi indispensabili, allo scopo di evitare che l'istituto possa essere santuario e piegato ad abusi e finalità speculative (cfr. Blatti- Minutoli, 1724-1727 e dottr. ivi citata). Parallelamente, la possibilità, accanto alle forme tradizionali del concordato con garanzia e del concordato con assunzione, di prospettare molteplici altre forme di concordato rimesse in larga parte alla fantasia degli operatori ed insuscettibili di una elencazione tassativa (Blatti- Minutoli, 1724 ss.) fa nascere il rischio di possibili abusi dello strumento concordatario: non a caso la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass. n. 3274/2011) ha evidenziato l'ipotesi in cui non si ha alcun vantaggio dalla soluzione concordataria quando manca un'ulteriore utilità ovvero vi sia un danno in capo ai creditori o al fallito maggiore di quelli strettamente necessari al realizzo del diritto dell'agente: sicché non vi sarebbe alcuna situazione patologica se viene comunque assicurata la soluzione anticipata della crisi d'impresa, con tutela dei diritti dei creditori, attuata secondo le regole della maggioranza; sul tema dell'abuso del concordato si veda anche Bottai, 59-67 nonché Azzaro, 1382-1388 e, con ampia analisi delle varie questioni, Ferro, 185-200. E di tutta evidenza che siffatto ribaltamento di prospettiva ha messo in crisi la tradizionale tesi della natura giuridica dell'istituto (sulla quale, v. ampiamente Fabiani, 119 s. e, di recente, Frascaroli 1262 ss.) che, a fronte di un'opinione minoritaria che faceva leva sulla nozione di contratto (sia pure di diritto pubblico, sicché l'atto negoziale avrebbe carattere costitutivo e la sentenza di omologazione è sua mera condicio iuris di efficacia) propugnava la teoria pubblicistica o processualistica: in base alla stessa, il concordato fallimentare rappresenta una sorta di elargizione dello Stato, i cui effetti derivano non già dalla volontà delle parti, ma direttamente dalla legge, posto che la sentenza di omologazione si sovrappone all'accordo delle parti, costituendo la fonte degli obblighi concordatari (sul punto si rinvia ampiamente a Bran, 27-30 e soprattutto, anche in una prospettiva critica, a Fabiani, 119-160). Vale osservare che la superiore disputa, al di là di sterili esigenze classificatorie, rivela la sua attualità con la riforma, non essendo neutrale dare rilevanza all'uno o all'altro profilo (Fabiani, 855), pur nel contesto di un approccio più pragmatico. In effetti, con la riforma del 2006 il legislatore delegato sembrerebbe avere optato per una forte valorizzazione dei profili negoziali, difficilmente potendosi negare che come venga rimessa alla libera autonomia delle parti non solo di strutturare con ampia elasticità la proposta, ma anche di verificarne la convenienza, fatto salvo l'intervento degli organi della procedura (cfr. Blatti-Minutoli 1732 ss.; nel senso della accentuazione del carattere contrattale dell'istituto, v. Cass. n. 24359/2013). Tuttavia, è stato opportunamente notato come la conclusione della natura privatistica del concordato vada accolta con cautela, anche in relazione all'ampliamento dei soggetti legittimati alla proposta (sulle criticità della tesi privatistica, si rinvia ancora a Fabiani, 161 ss., nonché 857). Non a caso, anche di recente la giurisprudenza ha evidenziato che il concordato fallimentare comunque conserva natura pubblicistica, sia perché risponde all'interesse generale alla composizione del dissesto, sia perché gli effetti del concordato non derivano dalla convenzione fra le parti a contenuto remissorio o liberatorio, ma dalla legge, che attribuisce alla omologazione effetti vincolanti anche per le minoranze: ne consegue che la proposta di concordato fallimentare non è assimilabile a quella contrattuale, non potendosi ad essa applicarsi le norme del codice civile (App. Palermo 18 gennaio 2016). In effetti, se è vero che la proposta di concordato consiste in una manifestazione di volontà a carattere negoziale, è altresì vero che essa deve assumere la forma del ricorso, rivolta all'ufficio fallimentare, sì da essere sottoposta al regime degli atti processuali e non a quello degli atti negoziali sostanziali (così condivisibilmente Filocamo, 2441), mantenendo il Pur ridotto controllo giudiziari un ruolo strategico, funzionale all'omologazione, per estendere l'efficacia dell'accordo anche a coloro che non hanno preso parte all'accordo, ex art. 135 l.fall. (Perrino, 2524). La riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14)
Il Concordato nella liquidazione giudiziale. Riforma. Introduzione Il concordato liquidatorio giudiziale è di fatto il vecchio il concordato fallimentare, nel quale si introducono alcune novità ma si mantiene sostanzialmente invariata la disciplina generale e la finalità della procedura. Possono dunque proporre il concordato un creditore o un terzo e, al fine di accelerare i tempi di chiusura, la proposta può essere formulata anche prima che lo stato passivo sia stato reso esecutivo, a condizione che sia stata dal debitore tenuta una contabilità che, unitamente alle informazioni che può assumere, consenta al curatore di predisporre un elenco provvisorio di creditori dotato di un grado di affidabilità idoneo a farlo approvare dal Giudice delegato. Viene ribadito, rispetto alla disciplina vigente, che può proporre il concordato anche il debitore o una società alla quale egli partecipi o una società sottoposta a comune controllo, ma non prima che sia trascorso un anno dall’apertura della procedura di liquidazione al fine di indurlo a ricercare, avendone la possibilità, soluzioni concordate anticipando quella della liquidazione giudiziale la cui pendenza può indurre i creditori ad accettare proposte deteriori; la proposta del debitore non può neppure essere presentata una volta che siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo e ciò al fine di non consentirgli di posticipare la soluzione proponendo soluzioni deteriori approfittando dell’aspirazione dei creditori ad una sollecita chiusura della procedura. Rispetto all’attuale concordato fallimentare, la disciplina del nuovo concordato liquidatorio giudiziale presenta dunque alcune novità. La prima novità è di carattere terminologico, infatti il legislatore ha sostituito il termine “concordato fallimentare” con “concordato liquidatorio giudiziale”, in linea con il principio stabilito nell’art. 2, comma 1, lett. a) della Legge delega, che prevede di sostituire il termine “fallimento” e i suoi derivati con l’espressione “liquidazione giudiziale”. La procedura La seconda novità riguarda le condizioni per la presentazione della domanda di concordato liquidatorio giudiziale da parte del debitore. Resta la legittimazione ad agire del debitore, delle società a cui egli partecipi o sottoposte a comune controllo, ma lo stesso nel caso in cui voglia proporre il concordato liquidatorio giudiziale ai propri creditori è tenuto ad apportare risorse che incrementino di almeno il 10% il valore dell'attivo (art. 240 c.c.i.), ricalcando eventualmente quanto previsto per il nuovo concordato preventivo con finalità liquidatorie. Cosi come previsto oggi nell'ambito dell'art. 124 della Legge fallimentare, rimangono invariati i limiti temporali per la presentazione della domanda da parte del debitore (art. 240 c.c.i.) e cioè: - dopo il decorso di un anno dalla sentenza che ha dichiarato l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale; - entro il termine di due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo. Il vincolo che richiede di apportare delle risorse che incrementino di almeno il 10% il valore dell'attivo non si applica ai creditori ed ai terzi che, proprio come nella Legge fallimentare (art. 124l. fall.), sono legittimati alla presentazione della domanda di concordato liquidatorio giudiziale e questa può essere effettuata in qualunque momento. La proposta di concordato può prevedere la suddivisione dei creditori in classi, la cui formazione e il relativo trattamento è disciplinato nell'art. 124, comma 2, l. fall. Nel nuovo codice della crisi e dell'insolvenza (art. 240, comma 3) viene introdotto il nuovo principio secondo cui se la società in liquidazione giudiziale ha emesso obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta di concordato, i portatori di tali titoli sono suddivisi in classi, al fine di aumentare le loro garanzie. L'art. 240, comma 4, c.c.i., così come previsto oggi nell'ambito dell'art. 124 l. fall., la proposta di concordato può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti dalla norma e designato dal tribunale. Ma l'art. 240, comma 4, c.c.i. aggiunge che il valore di mercato sia al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali. Si conferma infine la possibilità che la proposta possa prevedere anche la cessione delle azioni di pertinenza della massa purché già autorizzate dal giudice delegato e che il proponente può limitare il suo impegno ai soli crediti ammessi al passivo anche provvisoriamente ed a quelli che hanno proposto opposizione al passivo o presentato domanda tardiva al tempo della proposta. In presenza di tale limitazione di responsabilità, verso gli altri creditori continua a rispondere il debitore salvi gli effetti dell'esdebitazione. Un'ulteriore novità riguarda la disciplina del voto nel concordato liquidatorio giudiziale. Come nella Legge fallimentare sono esclusi dal voto e dal calcolo delle maggioranze: - il coniuge, i parenti e affini fino al quarto grado del debitore; - la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e quelle sottoposte a comune controllo; - i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della domanda di concordato. Oltre ad i soggetti appena riportati, il nuovo codice della crisi e dell'insolvenza include nell'esclusione della partecipazione al voto anche la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso e il convivente di fatto del debitore (art. 243, comma 5, c.c.i.). Nel codice della crisi e dell'insolvenza viene specificato che sono inoltre esclusi dal voto e dal calcolo delle maggioranze i creditori in conflitto d'interessi (art. 243, comma 5, c.c.i.). Inoltre, a differenza della Legge fallimentare, il codice della crisi prevede che il creditore che propone il concordato può votare soltanto se nella proposta è previsto una sua propria classe. La medesima regola si applica per le società controllate, controllanti o sottoposte a comune controllo (art. 243, comma 6, c.c.i.). Sono rimaste nella sostanza invariate le disposizioni vigenti in materia di esecuzione, risoluzione e annullamento previste per il concordato fallimentare ed a cui si rimanda. Legittimazione e tempistica della proposta di concordatoLa prima novità di rilievo della riforma è contenuta nell'art. 124 sotto il profilo soggettivo, nel senso dell'ampliamento dei soggetti legittimati alla proposta di concordato, nel contesto dell'esigenza di aumentare il grado di efficienza e di razionalità della gestione dell'insolvenza (Filocamo, 2446, il quale evidenzia il passaggio dal dominio di una logica proprietaria, suscettibile di sacrificare a volte interessi dei creditori rispetto a quello del debitore proprietario a mantenere un residuo del proprio patrimonio, ad una logica di mercato, anche in vista della riallocazione dell'azienda come apparato produttivo): questa, infatti, può essere presentata non più solo dal fallito, ma anche da uno o più creditori (anche attraverso società da essi partecipate od anche all'uopo costituite) o da terzi. Anzi, la proposta di creditori e terzi viene ad assumere un rilievo preminente (così Fabiani, 872, che evidenzia, tuttavia, le criticità — con conseguente necessità di apposite cautele — della presenza dei creditori tra i proponenti, nell'ambito del tema del conflitto di interessi). Al fallito sono equiparate le società cui lo stesso partecipi e da società sottoposte a comune controllo. Si tratta di una previsione (non espressamente prevista nella legge delega ed «anticipata» nell'ambito dell'amministrazione straordinaria dall'art. 4-bis, d.l. n. 347/2003), e appare condivisibile, garantendo un più ampio margine di manovra agli stessi creditori a tutela dei loro interessi e permettendo, peraltro, la possibilità che pendano più proposte in concorrenza tra loro (Maffei Alberti, 835): in sostanza, si è detto (Fabiani, 899) che quando il debitore fallito non utilizza la straordinaria chance che il sistema gli ha attribuito, prima con il concordato preventivo e poi con quello fallimentare, è bene che si faccia da parte, lasciando il campo ad altri, nel contesto di quell'autonomia privata che può qui esplicarsi nella sua forma più compiuta. Al fallito sono equiparate le società cui lo stesso partecipi e da società sottoposte a comune controllo, cioè soggetti al primo legati da rapporti tali da determinare comunanza di interessi e una condivisione delle informazioni in ordine alla qualità ed entità dell'attivo e del passivo ed alle reali residue potenzialità aziendali (Filocamo, 2450, anche per un'analisi del concetto in esame). Quanto ai terzi (cioè quei soggetti, diversi dal fallito e — deve ritenersi — dai creditori, che possono avere un interesse alla soluzione concordataria) può farsi riferimento, a titolo esemplificativo, a chi intenda acquisire il compendio fallimentare assumendo gli obblighi concordatari, al socio occulto nei cui confronti venga prospettata l'estensione del fallimento, ecc. (sul concetto di terzo proponente, v. Blatti- Minutoli, 1720; sulla legittimazione del terzo, v. Fabiani, 706, con ampi riferim. dottr., nonché Fabiani, 902 ss., anche quanto alla problematica della successione dell'assuntore nei rapporti). Il decreto correttivo (d.lgs. n. 169/2007), nel modificare l'art. 129 l.fall., ha escluso la legittimazione del curatore introdotta dal d.lgs. n. 5/2006 e che costituiva una delle maggiori novità della riforma, oggetto di dissonanti opinioni. Anche se per certi aspetti criticata (cfr. Blatti- Minutoli, 1718), tale legittimazione (per nulla stravagante: Fabiani, 870), — sulla falsariga di quanto preveduto per il commissario straordinario dall'art. 4-bis, d.l. n. 347/2003, convertito nella l. n. 39/2004 relativo alla procedura di amministrazione straordinaria delle imprese o gruppi di imprese particolarmente rilevanti — poteva costituire utile strumento per una migliore organizzazione di un concordato con cessione delle attività ad una società le cui azioni fossero destinate ad essere attribuite ai creditori (come accaduto nella procedura di amministrazione straordinaria della Parmalat con la proposta che può leggersi in Dir. fall. 2004, 1346). Con il decreto correttivo, nel novellato art. 129, è sparito l'inciso sul quale veniva fondata la legittimazione del curatore che va pertanto esclusa, non potendo essere desunta dal riconoscimento della legittimazione ai terzi in senso contrario, si è sostenuto — peraltro movendo dall'ora soppresso inciso, già contenuto nell'art. 129, secondo comma — che il curatore rientra a pieno titolo tra i soggetti terzi ai quali il riformatore riconosceva l'iniziativa per la presentazione di una proposta di concordato (Bertacchini § 2) infatti, il curatore in quanto organo della procedura, non si può considerare legittimato quale «terzo», tale essendo, come si è osservato, chi ha un autonomo interesse alla soluzione concordataria. Nè la legittimazione del curatore può essere desunta dai suoi poteri in tema di liquidazione (così, invece, Pacchi, 1399). Tale abrogazione di legittimazione è stata interpretata come la riconduzione della gestione degli interessi in gioco nella crisi dell'impresa ai suoi attori principali, i creditori e i debitori (Fabiani, 705-706, con ampi rif. dott.; Stanghellini, 1950). Su varie tipologie di soggetti legittimati alla proposta, si rinvia a Blatti- Minutoli, 1718 ss. Al riguardo, Cass. n. 3274/2011 ha affermato che l'identificazione del reale soggetto proponente il concordato costituisce elemento essenziale della corretta valutazione della stessa e fa parte di quelle notizie che debbono essere veritiere e note ai creditori affinché possano esprimere un consenso informato, riguardando le informazioni attinenti alla sua capacità solutoria, in relazione alle obbligazioni assunte con il concordato stesso e, dunque, alla fattibilità dello stesso. La proposta «anticipata» dei creditori e dei terzi — Prima della riforma organica delle procedure concorsuali la proposta di concordato non poteva essere presentata prima del decreto di esecutorietà dello stato passivo perché solo allora era possibile conoscere — sia pure in via di approssimazione stante la facoltà di presentazione di dichiarazioni tardive di credito sino al compimento del riparto finale dell'attivo — le pretese dei creditori al soddisfacimento nel concorso e dei terzi all'esclusione dal patrimonio fallimentare di beni mobili rinvenuti in luoghi appartenenti al debitore, nonché le statuizioni su dette pretese del giudice delegato ancorché suscettibili di modifica in sede di opposizione od impugnazione dello stato passivo. La finalità di accelerare i tempi della procedura — costituente uno dei criteri fissati dalla l. delega n. 80/2005, all'art. 6, primo comma, lett. a), n. 12 — sta a fondamento della ora prevista possibilità di presentare la proposta di concordato anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo e, dunque, dalla dichiarazione di fallimento sino all'avvenuta ripartizione dell'attivo. La presentazione di una proposta «anticipata» è preveduta solo per i creditori ed i terzi (sui limiti temporali per il fallito, v. infra), essendo ragionevole ipotizzare che la verifica sia stata ultimata dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento, allorché anche il fallito può proporre un concordato; tuttavia ove si persista nella prassi, in precedenza seguita da non pochi tribunali, di trascinare a lungo la verifica, non vi è ragione di disconoscere al fallito la facoltà di presentare una proposta di concordato quando, decorso un anno della dichiarazione di fallimento, la verifica risulti non ancora ultimata (in questo senso, con riferimento alla disciplina ante decreto correttivo, che limitava a sei mesi dalla data del fallimento il termine per la presentazione della proposta da parte del fallito e dei soggetti a lui collegati, v. Stanghellini, § 2.7, nonché, ancora di recente, Fabiani, 964). Poiché la proposta può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, la sua presentazione non può prescindere da una conoscenza della situazione debitoria del fallito per quanto possibile completa e vagliata dagli organi della procedura. Perciò la norma, nel testo risultante dal decreto correttivo, nel confermare per tutti i possibili proponenti l'anticipazione del termine iniziale, ha previsto, quali requisiti indispensabili: a) che il fallito abbia tenuto la contabilità; b) che da questa e da altre notizie il curatore possa acquisire dati sufficienti per predisporre un elenco provvisorio dei creditori da sottoporre all'approvazione del giudice delegato. Quanto al requisito (necessario e non sufficiente) della tenuta della contabilità, non essendo stata ripresa espressamente la locuzione «regolare contabilità» prevista nel testo ante riforma dell'art. 160 in tema di concordato preventivo, è da chiedersi se sia sufficiente una contabilità anche in nero (e, quindi, che il fallito abbia comunque tenuto le scritture contabili) o se si richieda pure il rispetto dei requisiti e dei criteri previsti dagli artt. 2214 e s. c.c., anche se la prevista valorizzazione delle altre notizie disponibili (sulle quali v. Fabiani, 429-431) lascia aperta la possibilità di tener conto di crediti non risultanti dalle scritture contabili (cfr. Batti- Minutoli, § 20, secondo cui il collegamento tra quella tenuta e la possibilità di predisporre dalla stessa (e da altre notizie) un elenco provvisorio dei creditori consente di ritenere indefettibile un sia pur elastico, criterio sostanziale, dovendosi comunque tutelare l'esigenza che risulti assicurata, nell'interesse dei creditori, la possibilità di una sufficientemente chiara ricostruzione delle vicende economiche dell'impresa, sì da poter pervenire ad un quanto più affidabile quadro della situazione debitoria, per la formazione del citato elenco dei creditori; concorda anche Filocamo, 19-bis, 2461, che precisa come vada preferito un criterio di regolarità sostanziale, che dia prevalenza all'esistenza di documentazione, comunque formalmente tenuta, utile alla enucleazione di dati contabili dotati di un minimo di affidabilità). Va comunque salvaguardato — come si vedrà di qui a poco — il ruolo del giudice delegato nell'approvazione dell'elenco provvisorio dei creditori, sotto il profilo della verifica della (almeno tendenziale) attendibilità dei dati contabili disponibili (Cass. n. 16738/2011). Quanto al requisito sub b) (inerente la possibilità di predisporre dalla contabilità o da altre notizie un elenco provvisorio di creditori), sono state evidenziate le criticità di tale modifica normativa che, avendo eliminato — quale opportuno sbarramento temporale — il decreto di esecutività dello stato passivo (che consentiva di individuare esattamente sia l'ammontare del passivo rilevante ai fini delle percentuali concordatarie sia l'individuazione dei creditori ammessi, legittimati a deliberare sulla proposta), non è priva di rischi e di incertezze interpretative sul piano applicativo e, pur essendo ricollegabile ad un tempestivo intervento di recupero dell'impresa ed all'intendimento di evitare ritardi, risulta incompatibile con l'esigenza del proponente di conoscere l'entità dell'impegno economico che va ad assumere, sia pure con una certa approssimazione (Blatti- Minutoli, 1722). Curatore e giudice delegato, in presenza di manifestati intendimenti di proporre un concordato, sono quindi chiamati ad effettuare un vaglio per certi versi analogo a quello che saranno chiamati ad effettuare in sede di verifica dello stato passivo (sull'onere aggiuntivo richiesto al curatore, già oberato da molteplici adempimenti preliminari, v. Fabiani, 966). Non è dubbio che l'approvazione del giudice delegato implichi da parte sua un vaglio non sull'elenco provvisorio, ma su di ogni singola posizione creditoria (in questo senso v., sia pure dubitativamente, Stanghellini, § 2,7, nt. 17; v. anche Fabiani, 968). Il vaglio, tuttavia, si deve considerare contenuto nei limiti dei poteri che spettano al giudice delegato in sede di verifica: così, ad esempio se il curatore colloca nell'elenco un credito in via chirografaria sul presupposto della revocabilità del titolo della prelazione, il giudice delegato che ritenga infondato l'assunto della revocabilità (e, quindi, della eccezione relativa che il curatore ha manifestato l'intendimento di sollevare in sede di verifica) può modificare l'elenco riconoscendo la prelazione; se, viceversa, il curatore colloca nell'elenco un credito con una prelazione che appare manifestamente fondata su titolo revocabile, il giudice delegato non può modificare l'elenco collocando il credito in chirografo, atteso che in sede di verifica non potrebbe rilevare un fatto impeditivo in assenza di un'eccezione del curatore o di un creditore concorrente (sulla individuazione dei poteri del g.d. in sede di approvazione dell'elenco provvisorio, v. Blatti- Minutoli, § 21 e dott. ivi cit.). Per il suo carattere provvisorio l'elenco non è vincolante in sede di esecuzione del concordato che intervenga dopo il decreto di esecutività dello stato passivo. Per il suo carattere provvisorio l'elenco non è vincolante in sede di esecuzione del concordato che intervenga dopo il decreto di esecutività dello stato passivo. Il proponente del concordato non sarà perciò tenuto nei confronti dei creditori che, ricompresi nell'elenco provvisorio, siano stati esclusi in sede di verifica con provvedimento definitivo e sarà, invece, tenuto nei confronti dei creditori ammessi, ancorché non risultanti dall'elenco. Quanto all'impugnabilità del decreto di approvazione del giudice delegato dell'elenco provvisorio, potrebbe farsi riferimento all'istituto generale del reclamo ex art. 26 l.fall. (Fabiani, 970, anche per ulteriori profili problematici). Limiti cronologici della proposta del fallito — Il fallito e le società cui egli partecipi o sottoposte a comune controllo non possono proporre un concordato fallimentare se non dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo. Il primo termine, fissato in sei mesi dalla riforma organica delle procedure concorsuali è stato elevato ad un anno con il decreto correttivo al fine — come si legge sulla Relazione illustrativa — di rafforzare l'incentivo all'utilizzazione della procedura di concordato preventivo. Prima della riforma del concordato preventivo, attuata con il d.l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005, il debitore che non avesse particolari ragioni per temere l'assoggettamento a fallimento, poteva avere molteplici ragioni per preferire il concordato fallimentare, magari dopo aver messo in sicurezza l'attività produttiva con un affitto d'azienda. Da un lato la soluzione preventiva non era agevolmente percorribile anche a prescindere dalla previsione di una serie di requisiti soggettivi ed era comunque più onerosa, per l'esigenza di soddisfare integralmente i crediti assistiti da cause di prelazione e di garantire o prevedere il soddisfacimento dei crediti chirografari almeno nella misura del 40%, mentre nel concordato fallimentare si poteva giovare della degradazione a chirografo dei crediti assistiti da cause di prelazione fondate su titolo revocabile e della possibilità di verifica della capienza delle prelazioni su cespiti determinati attraverso una liquidazione parziale dell'attivo e poteva, altresì, offrire ai creditori chirografari una qualunque percentuale, purché conveniente. Dall'altro il debitore conservava il monopolio della legittimazione, rimanendo l'unico legittimato a proporre il concordato, con il quale doveva venire a — più o meno leciti — patti il terzo che intendesse acquisire il compendio fallimentare attraverso un concordato con assunzione. Dopo la riforma la formulazione di una proposta di concordato preventivo, non più condizionata alla ricorrenza di requisiti soggettivi, è anche sotto il profilo patrimoniale assai più agevole perché ai creditori chirografari non è più prevista l'attribuzione di una percentuale minima ed ai creditori assistiti da cause di prelazione può essere offerto un soddisfacimento non integrale e parametrato sulla capienza, residuando soltanto il problema della non degradabilità a chirografo dei crediti assistiti da prelazione fondata su titolo revocabile. Con la riforma organica delle procedure concorsuali il fallito non solo è stato privato del monopolio dell'iniziativa, attribuita anche ai creditori ed ai terzi; ma, come si è detto, si è visto limitare la legittimazione con il riconoscimento di una finestra di accesso limitata ora a poco più di un anno, con la conseguenza che non soltanto non può programmare sin dall'inizio un concordato fallimentare dovendo attendere un anno dalla data del fallimento, nell'arco del quale corre il rischio di essere preceduto da iniziative da altri assunte; ma non può nemmeno temporeggiare per attendere il momento più propizio perdendo la legittimazione a proporre il concordato dopo il decorso di due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo. I limiti cronologici riguardano: (a) il fallito, sia esso persona fisica o società; (b) la società cui partecipa, anche in caso di partecipazione fittizia o fiduciaria; (c) le società sottoposte a comune controllo: ci si è chiesto se il riferimento debba essere limitato al controllo nelle forme prevedute dall'art. 2359 c.c. o debba estendersi anche a quello di direzione e coordinamento ex artt. 2497 ss. c.c. (Bertacchini, § 2), che peraltro suppone ordinariamente il controllo. I limiti anzidetti non sono invece preveduti per le società controllanti, alle quali, secondo un orientamento, dovrebbero essere analogicamente estesi in considerazione della circostanza che la concorrenza sul patrimonio del debitore può essere falsata dalla presenza, anche in tal caso, di un soggetto avvantaggiato dalle informazioni a sua disposizione (Stanghellini, § 2.4). La limitazione del potere del fallito di presentare la proposta di concordato (ritenuta non manifestamente incostituzionale da Cass. n. 16738/2011) è stata sottoposta a critica, nella misura in cui la declamata tutela dello stesso ad opera del tribunale in sede di omologazione viene smentita laddove non vengano valorizzati i poteri di tale organo giurisdizionale [Penta, (28-bis), 791, che affronta il tema dell'abuso dello strumento concordatari in violazione del principio di buona fede]. Le limitazioni non sono poi previste per il socio e per l'amministratore della società fallita, che spesso sono l'imprenditore in senso economico, come risulta con particolare evidenza nelle società unipersonali. Non si può fare a meno di considerare, in proposito, che la previsione di limiti cronologici alla legittimazione del fallito e delle società cui partecipi o sottoposte a comune controllo ha scarso significato in un sistema nel quale il fallito è l'imprenditore in senso giuridico formale, non l'imprenditore in senso economico (il socio di riferimento, l'unico socio, ecc.) al quale detti limiti non sono applicabili. Era quindi forse preferibile la soluzione, prospettata nella prima bozza di decreto correttivo, di eliminare le limitazioni cronologiche all'iniziativa del fallito e di società a lui riferibili introdotte dal d.lgs. n. 5/2006. La conservazione — ed anzi l'ampliamento con il decreto correttivo — delle limitazioni cronologiche alla legittimazione del fallito e società a lui riferibili a presentare una proposta di concordato continua a porre problemi di diritto transitorio. Infatti le procedure di concordato fallimentare sono disciplinate dalla legge vigente al momento della presentazione della proposta (art. 150 d.lgs. n. 5/2006; art. 22, d.lgs. n. 169/2007), ancorché relative a fallimenti dichiarati in precedenza, soggetti alla disciplina vigente al momento della loro apertura. Dovendosi, infatti, rispettare i diritti quesiti, chi sia stato dichiarato fallito anteriormente al 16 luglio 2006, data di entrata in vigore della disciplina organica delle procedure concorsuali emanata con il d.lgs. n. 5/2006, avendo acquisito il diritto di proporre un concordato senza limiti di tempo, può proporre un concordato fallimentare sino a quando siano state ultimate le ripartizioni dell'attivo. Secondo un'interpretazione giurisprudenziale, per la verità, il termine finale del biennio dalla data del decreto di esecutività dello stato passivo sarebbe applicabile anche ai fallimenti dichiarati anteriormente al 16 luglio 2006, ma decorrerebbe dalla data di entrata in vigore della normativa che lo prevede, cioè dal 16 luglio 2006 (Trib. Salerno 12 gennaio 2007; Trib. Roma 30 novembre 2006), ma essendo la limitazione volta ad incentivare il ricorso alla procedura di concordato preventivo si deve ritenere piuttosto del tutto inapplicabile. Nei fallimenti dichiarati posteriormente, ma prima dell'entrata in vigore del decreto correttivo, fermo restando il termine finale del biennio dalla data del decreto di esecutività dello stato passivo, deve ritenersi quesito un diritto a presentare una proposta di concordato fallimentare dopo il decorso di sei mesi dalla data della dichiarazione di fallimento e la proposta si deve considerare ammissibile anche se presentata prima che sia decorso il termine di un anno preveduto dal decreto correttivo. La par condicio e la suddivisione dei creditori in classiA fronte della ordinaria impossibilità di soddisfare regolarmente ed integralmente tutti i creditori, le procedure concorsuali sono tradizionalmente caratterizzate dai principi di parità di trattamento dei crediti aventi la medesima posizione giuridica e di rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione, in conformità alla regola, impropriamente denominata della par condicio, fissata dall'art. 2740 c.c. («i creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione»). Il soddisfacimento dei creditori nel rigido rispetto della loro posizione giuridica non è tuttavia necessariamente rispondente ai loro interessi economici che nell'ambito della medesima posizione giuridica possono essere differenziati. Il soddisfacimento dei crediti assistiti da cause di prelazione, poi, è legato alla capienza, che non è razionale debba poter essere verificata soltanto attraverso la vendita coattiva nella liquidazione concorsuale. Perciò nelle composizioni stragiudiziali delle crisi vengono preveduti e concordati per i creditori aventi la stessa posizione giuridica trattamenti differenziati non solo e non tanto per l'esigenza di fronteggiare le pretese dei free riders, ma anche e soprattutto in considerazione delle differenti strategie di recupero di chi privilegia i tempi e chi la misura o in considerazione di un concomitante interesse a consentire, con la conservazione dell'attività produttiva, la prosecuzione dei rapporti sin'allora intrattenuti con l'impresa in crisi. Vengono inoltre preveduti e concordati trattamenti differenziati per i crediti assistiti da garanzie più o meno forti in relazione alla capienza dei cespiti oggetto della prelazione. Poiché, peraltro, le composizioni stragiudiziali sono interamente rimesse all'autonomia privata ed alle determinazioni dei creditori uti singuli e sono vincolanti soltanto per coloro che vi aderiscono, l'omogeneità di interessi economici dei creditori aventi la stessa posizione economica e la capienza o meno dei cespiti oggetto di prelazione costituiscono solo dei criteri di massima degli accordi; ma non sono esclusi trattamenti differenziati anche di crediti aventi la stessa posizione giuridica ed interessi economici omogenei, né sono esclusi trattamenti di crediti con prelazione che non tengano conto della capienza e dell'ordine delle cause legittime di prelazione ed è poi necessario il soddisfo integrale dei creditori non aderenti all'accordo. Le deviazioni dal principio di parità di trattamento dei crediti aventi la stessa posizione giuridica ed interessi economici omogenei e di soddisfazione dei crediti assistiti da prelazione nei limiti della capienza e con il rispetto dell'ordine delle cause legittime di prelazione non sono soggetti ad alcun controllo di ragionevolezza, essendo soltanto possibile un eventuale sindacato a posteriori, sotto il profilo della responsabilità per pagamenti preferenziali quando la crisi non venga superata e venga dichiarato il fallimento; né è soggetto ad alcun controllo di ragionevolezza il rifiuto di aderire all'accordo e la pretesa al soddisfo integrale. Prima della riforma nei concordati giudiziali era imposto un rigido rispetto della par condicio e la valutazione delle prelazioni si considerava svincolata dalle concrete prospettive di realizzo, sicché i crediti assistiti da cause legittime di prelazione dovevano essere integralmente soddisfatti e senza dilazione. Una deviazione da queste regole era possibile esclusivamente sulla base del principio di libera disponibilità individuale dei propri diritti: erano perciò prevedute — come sono tutt'ora prevedute dall'art. 127, secondo e terzo comma — rinunce, in tutto o in parte, a prelazioni; ed erano possibili — come sono tutt'ora possibili — rinunce individuali a quote di credito o all'intero credito, postergazioni, accettazioni di tempi e modalità di soddisfacimento differenziate rispetto a quelle previste, in conformità al principio della par condicio, per gli altri creditori. Con la riforma, mentre è rimasta ferma la regola del rigoroso rispetto della par condicio nella liquidazione concorsuale, è stata introdotta — sull'esempio dei principali ordinamenti moderni — la possibilità di suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei e di offrire trattamenti differenziati ai creditori collocati in differenti classi, sicché la deviazione dalle regole della par condicio dei creditori aventi la medesima posizione giuridica non è più subordinata all'assenso individuale dei singoli creditori ed è consentita, sulla base dell'omogeneità di interessi economici, in conformità al principio di maggioranza (si veda sul punto Filocamo, 2476 ss.); è stata altresì prevista la possibilità di offrire un soddisfacimento non integrale ai creditori muniti di diritto di prelazione, purché in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso di liquidazione (sul concetto di classi, v., tra gli altri, Ferro, 177-181, nonché Fabiani, 624-629 e Filocamo, 2492 ss.). La valorizzazione della omogeneità di interessi economici e l'esigenza di differenziare adeguatamente le eventuali alterità è alla base di quell'opinione (Trib. Milano 4 dicembre 2008, in Fall. 2009, 423; Fabiani, 215 ss.) che considera obbligatoria la suddivisione in classi quando fra creditori aventi la stessa posizione giuridica vi sia disomogeneità di interessi economici e che, anzi, in caso di mancato classamento dei creditori ritiene che si tratti non già di un concordato senza classi, ma con una sola classe e che, quindi, sia consentito un cram down ed il sindacato giudiziale ex art. 180 (Trib. Monza 7 aprile 2009); di contro, la mancata previsione legislativa dell'obbligatorietà della suddivisione in classi ha fatto ritenere non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale (Trib. Biella 27 aprile 2009, in Fall. 2010, 43). Tuttavia, la tesi della facoltatività (v., ad es., App. Torino 3 novembre 2009, in Fall. 2010, 248 e, in dottrina, ex multis, Bozza, 424; Minutoli, 57), che, comunque, fa salva l'obbligatorietà quando si intendono prevedere trattamenti differenziati (Trib. Modena 27 febbraio 2009, in Fall. 2009, 2003; Pacchi, 1411; Azzaro, 1382) ha avuto l'autorevole avallo della Suprema Corte (Cass. n. 3274/2011): quest'ultima ha tra l'altro affermato che non esiste un obbligo legale di costituire le classi, purché la proposta sia uniforme, cioè se non sono state prospettate modalità satisfattive diverse per creditori nella medesima posizione giuridica: e ciò discende non solo dal dato testuale degli artt. 124, secondo comma, e art. 125, terzo comma, nonché art. 128, primo comma e art. 129, quinto comma, l.fall., ma anche dall'impossibilità di censire tutti gli interessi di cui sono portatori i creditori. Sul controverso problema della obbligatorietà o meno del classamento dei creditori v., Minutoli, 48-58, anche per una sintesi ragionata dello stato della dottr. e della giur. in materia; Catallozzi, 777-783; Penta, 233 ss. In verità, è stata anche prospettata (sia pure quanto al concordato preventivo) la possibilità di suddividere i creditori in classi a prescindere dall'offerta di trattamenti differenziati, anche se in tal caso il classamento è collegato ai diversi interessi di cui sono portatori i creditori (Trib. Mantova 12 aprile 2012, secondo cui non si possono interpretare come congiunte le previsioni della lett. c) e d) dell'art. 160 l.fall., alla luce dell'ampia libertà di scelta lasciata dal legislatore al proponente il concordato nell'individuazione delle forme e modalità di soddisfacimento dei crediti). Al riguardo, è stato notato che se il controllo del tribunale è limitato al profilo della correttezza dei criteri utilizzati nella formazione delle classi, al debitore dovrebbe riconoscersi ampia libertà di individuare la migliore composizione degli interessi sottesi alla proposta (sul punto, v. anche Calandra Bonaura, 14-17). Secondo Cass. n. 16738/2011, nel caso di concordato proposto da un terzo, se i creditori non hanno proposto censure di carattere sostanziale sui criteri di formazione delle classi, i debitori opponenti non hanno interesse a far valere il vizio inerente alla mancata presentazione della relazione giurata del professionista, riguardante la valutazione dell'immobile del creditore ipotecario, per il quale la proposta preveda il soddisfacimento non integrale. Infatti, solo quel creditore vanta tale interesse e comunque la disposizione che prevede l'effettuazione della stima si inserisce nella problematica della valutazione, demandata al giudice, circa l'esistenza di alternative idonee ad assicurare una percentuale più elevata di soddisfazione dei crediti e sempre che sia stata approvata la proposta con il dissenso di una o più classi di creditori e risultino opposizioni dei creditori dissenzienti. È stata ritenuta anche l'irrilevanza della relazione del professionista nel caso in cui l'attivo fallimentare sia costituito solo da somme di denaro (Trib. Padova 16 aprile 2013). Il trattamento differenziato di classi di creditori aventi la medesima posizione giuridica ed il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione ancorato alla capienza attengono a differenti profili della disciplina della collocazione dei crediti. Il trattamento differenziato di creditori aventi la medesima posizione giuridica implica, infatti, una deviazione dalla regola della par condicio, giustificata da una difformità di interessi economici dei creditori delle differenti classi; la parità di trattamento, che deve essere riservata ai creditori collocati nella medesima classe, è fondata non più sull'identità di posizione giuridica, ma sull'omogeneità dell'interesse economico. Il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione non implica, in linea di massima e salvo quanto si dirà in appresso, una deviazione dalle regole sulla collocazione dei crediti ed implica, anzi, il loro rispetto, ma sulla base di una valutazione in concreto in relazione al presumibile realizzo, valutazione che appare maggiormente rispondente ad un'ottica economica. La suddivisione in classi di creditori con la medesima posizione giuridica sulla base di omogeneità di interessi economici riguarda essenzialmente quelli che hanno la posizione giuridica di creditori chirografari. Solo laddove non è preveduto un trattamento preferenziale in forza di norme di legge od atti di autonomia privata, laddove cioè non è preveduto un diritto di prelazione, quindi nell'indifferenziato magma dei creditori chirografari, è agevole individuare classi di creditori differenziate le une dalle altre sulla base di diversità di interessi economici: l'interesse dei risparmiatori che abbiano finanziato l'impresa sottoscrivendo un prestito obbligazionario è all'evidenza differenziato rispetto a quello delle imprese che erogano istituzionalmente credito (banche, società di factoring, ecc.); l'interesse dei piccoli creditori è differenziato rispetto a quello di coloro che vantano crediti cospicui e così via discorrendo. Come insegna l'esperienza delle composizioni stragiudiziali anche le strategie di recupero sono spesso diverse: privilegiandosi talora la tempestività del recupero, altre volte la sua misura anche con la partecipazione al rischio di impresa attraverso la conversione dei crediti in capitale o con il conseguimento dei vantaggi economici derivanti dalla prosecuzione con l'impresa di rapporti economici di fornitura o di altro tipo. A queste differenti strategie di recupero possono essere fatti corrispondere i proposti trattamenti differenziati, che possono attenere alla misura, ma anche alle modalità del soddisfacimento. Per i creditori con prelazione — per i quali la disciplina è incentrata essenzialmente sulla possibilità di soddisfacimento non integrale purché parametrato alla capienza — occorre verificare in che limiti sia ammissibile una loro suddivisione in classi. Posto che la suddivisione in classi secondo interessi economici omogenei è consentita soltanto nell'ambito di creditori aventi la stessa posizione giuridica — sicché, ad esempio, non sarebbe possibile costituire una classe di fornitori che comprenda chirografari e privilegiati — è evidente che è possibile, ma estremamente arduo ipotizzare una suddivisione in classi di creditori con prelazione aventi la stessa posizione giuridica, cioè la stessa collocazione, ma interessi economici differenziati. Si potrebbe forse pensare ai professionisti che, pur essendo accomunati dalla collocazione privilegiata ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., possono avere interessi economici differenziati in relazione alla misura del credito, al carattere occasionale o continuativo del rapporto, ecc. Tuttavia la dizione della norma, che prevede la suddivisione in classi «secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei» non esclude la possibilità di costituire una classe di creditori accomunati esclusivamente da identità di posizione giuridica, ad esempio una classe che comprenda tutti i creditori cui spetta il privilegio artigiano ex art. 2751-bis c.c. Nell'affrontare il problema dei limiti di ammissibilità della suddivisione in classi dei creditori con prelazione si devono considerare separatamente le prelazioni su cespiti determinati ed i privilegi generali. Per quanto attiene ai creditori con prelazione su cespiti determinati (ipoteca, pegno, privilegio speciale), la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei creditori privilegiati, per cui l'adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura fallimentare equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione del ritardo, rispetto ai tempi ordinari del fallimento, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme spettanti (Cass. n. 22045/2016). Tuttavia, la riforma, nell'ambito della ristrutturazione dei debiti di cui si dirà dopo, consente sia un pagamento dilazionato, sia un soddisfacimento non integrale purché «in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione». In tali casi, i creditori devono essere ammessi alle procedure di voto, per la parte residua di credito. Nella misura in cui il soddisfacimento è proposto in corrispondenza alla capienza teorica, esso è infatti compatibile con il soddisfacimento dei creditori aventi una collocazione teoricamente successiva, perché al di là della capienza il credito degrada a chirografo. Una volta che ci si collochi nell'ottica economica del riconoscimento della prelazione nei limiti del presumibile realizzo una deviazione dalle regole sulla collocazione dei crediti è ravvisabile quando si offra ai creditori con prelazione su cespiti determinati un soddisfacimento superiore a quello teoricamente conseguibile in caso di liquidazione: il che è espressamente consentito dalla norma, che contempla la possibilità di offrire un soddisfacimento non «corrispondente», ma «non inferiore» al presumibile realizzo. Poiché la scelta di proporre un soddisfacimento non integrale parametrato al presumibile realizzo significa collocarsi non in un'ottica giuridico-formale, ma in un'ottica economica, la proposta di soddisfacimento in misura superiore a quella del presumibile realizzo è sicuramente ammissibile per espressa disposizione di legge, ma deve ritenersi l'eccedenza rispetto al presumibile realizzo debba trovare copertura nel plusvalore da concordato, del quale si dirà più avanti. La proposta di soddisfacimento non integrale e parametrato al presumibile realizzo costituisce però soltanto una possibilità offerta al proponente, che può, in alternativa, prevedere il soddisfacimento integrale dei creditori con prelazione indipendentemente dalla capienza in conformità al criterio giuridico formale seguito prima della riforma. In tal caso i creditori aventi una collocazione teoricamente deteriore potrebbero essere pregiudicati rispetto all'alternativa della liquidazione concorsuale, nella quale i creditori con prelazione sono destinati a degradare a chirografi per la parte in cui il loro credito non trovi concretamente capienza in esito alla liquidazione. Si pone, allora, soltanto un problema di convenienza, sulla quale acquisteranno un rilievo decisivo le valutazioni dei creditori (v. infra, sub artt. 129-131). La proposta di soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione su cespiti determinati può essere indirizzata ad una pluralità di creditori aventi la medesima posizione giuridica che possano essere chiamati ad accettare o meno la proposta secondo il principio di maggioranza, più spesso deve essere necessariamente indirizzata ad un singolo creditore, che viene in tal caso chiamato a rendere individualmente la sua accettazione o meno della proposta. Salvo il caso di garanzie reali costituite a favore dei sottoscrittori di un prestito obbligazionario o di iscrizione di ipoteca su un immobile a favore di più creditori con parità di grado, la posizione di ciascun creditore è differenziata per il grado o per l'oggetto. Nel caso di prelazione dello stesso grado su differenti cespiti è forse prospettabile una identità di posizione giuridica, ma non è agevole raggruppare i creditori in classi per omogeneità di interessi economici. Un caso potrebbe essere quello del privilegio speciale immobiliare spettante ad una pluralità di promissari acquirenti in forza di preliminari trascritti ex art. 2645-bis c.c. aventi ad oggetto differenti unità immobiliari dello stesso edificio od anche di differenti edifici. Al di fuori di questa ipotesi, però, i creditori aventi prelazione dello stesso grado su differenti cespiti sono certamente chiamati tutti a scegliere fra l'accettazione della proposta di soddisfacimento non integrale parametrato al presumibile realizzo ed il suo rifiuto nella prospettiva della verifica in concreto attraverso la liquidazione concorsuale, ma l'interesse economico può essere influenzato e differenziato sulla base della misura della incapienza teorica e della concreta collocabilità dei cespiti sul mercato. Se in caso di prelazione dello stesso grado su differenti cespiti può essere talora individuata una pluralità di creditori raggruppabili in una classe, quando sullo stesso cespite insistano prelazioni di differente grado, come ipoteche di primo grado, secondo grado, ecc., la proposta di soddisfacimento non integrale può riguardare un solo creditore, dovendosi prevedere il soddisfacimento integrale di quello o quelli di grado poziore ed escluso del tutto il soddisfacimento dei creditori di grado successivo: deve, in altre parole, essere preveduta la degradazione parziale a chirografo di un creditore e la degradazione totale a chirografo dei creditori con prelazione di grado successivo. Poiché, peraltro, per espressa disposizione dell'articolo commentato, la proposta di soddisfacimento non integrale è ammissibile ed il soddisfacimento non integrale non può essere imposto dalla maggioranza di altri creditori aventi posizione giuridica ed interessi economici non omogenei a quello del creditore ipotecario; né può essere subordinato esclusivamente all'assenso individuale di quel creditore, dovendo l'eventuale dissenso poter rimanere neutralizzato dall'assenso della maggioranza delle classi e, in caso di opposizione ad omologa, dalla verifica dell'impossibilità di soddisfacimento in misura superiore nella liquidazione concorsuale, si deve considerare ammissibile la creazione di classi con un unico creditore. Quello che rileva per la creazione di classi non è l'esistenza di una pluralità di creditori aventi la stessa posizione giuridica ed interessi economici omogenei, ma la posizione giuridica e l'interesse economico del creditore cui si vuole attribuire un soddisfacimento non integrale, differenziato rispetto a quello degli altri creditori. Anche se non appare molto probabile vi sia un numero rilevante di singoli creditori con prelazione incapiente su cespiti determinati, è comunque prospettabile il rischio di eccessiva proliferazione di classi e la possibilità che non venga raggiunta la maggioranza di classi, indispensabile per l'approvazione del concordato, benché i crediti rappresentati dalle classi dissenzienti rappresentino una minoranza. Tuttavia se la proliferazione di classi non è frutto di scelte strumentali del proponente il concordato e rispecchia effettivamente posizioni giuridiche ed interessi economici differenziati rispetto a quelli degli altri creditori, non resta che prendere atto che mentre si è preveduto un correttivo al dissenso non razionale — od ostruzionistico secondo l'espressione adoperata dal legislatore tedesco che parla di Obstruktionverbot — non è stata preveduta la censurabilità del dissenso della maggioranza come previsto invece nell'ordinamento statunitense (v. sul punto, Sciutto, 566 ss., 588 ss.), ancorché computato non sulla totalità dei crediti, ma sulle classi. Segue: creditori con privilegio generale — La dizione del terzo comma dell'articolo commentato prima del decreto correttivo era riferita — salvo forse che per l'ultima proposizione — esclusivamente ai creditori con prelazione su cespiti determinati. Anche se non era mancato chi sosteneva l'ammissibilità di una proposta di soddisfacimento non integrale dei crediti assistiti da privilegio generale (Stanghellini, § 3.7), veniva spesso sostenuta la necessità di soddisfacimento integrale di questi creditori. Peraltro, secondo l'esperienza delle procedure di fallimento, non è raro il caso in cui la liquidazione concorsuale non consente il soddisfacimento di tutti i crediti assistiti da privilegio generale ed al soddisfacimento integrale dei creditori collocati in un determinato grado si accompagna il soddisfacimento parziale di quelli del grado successivo e l'esclusione di ogni soddisfacimento per quelli dei gradi ulteriori. La necessità di soddisfare in ogni caso integralmente i creditori assistiti da privilegio generale non poteva non apparire incoerente con il rispetto delle regole sulla collocazione dei crediti in un'ottica economica, che è quella in cui ci si colloca quando si propone una soddisfazione non integrale dei crediti con prelazione su cespiti determinati. Perciò con il decreto correttivo è stata preveduta la possibilità di offrire un soddisfacimento non integrale anche ai creditori con privilegio generale. La dizione della norma, per la verità, non è perspicua, ma la norma è stata riformulata in termini volti ad estendere anche ai privilegi generali la possibilità di proporre la degradazione: non si parla più di «creditori muniti di prelazione» da soddisfarsi in misura non inferiore al valore attribuibile «al cespite o al credito oggetto della garanzia», ma di «creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca» da soddisfarsi in misura non inferiore al valore attribuibile «ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione». La Relazione è, poi, esplicita scrivendosi che «al terzo comma, in accoglimento dell'osservazione della Camera, si precisa che il debitore ha la possibilità di offrire un pagamento in percentuale non solo ai creditori muniti di privilegio speciale, nella parte in cui il credito sia incapiente, ma anche a quelli muniti di privilegio generale, sempre nella misura in cui tale credito non risulti capiente». L'esigenza di rispetto delle regole sulla collocazione dei crediti quanto meno in un'ottica economica ha indotto a prevedere la possibilità di offrire al creditore assistito da privilegio generale un soddisfacimento parziale, purché — come per il creditore assistito da prelazione su cespiti determinati — nella misura della capienza. Risulta peraltro evidente che la valutazione della capienza su un cespite determinato, suscettibile di autonoma liquidazione, può anche essere agevole, mentre per i crediti assistiti da privilegio generale richiede una previsione sulla liquidazione dell'intero compendio mobiliare (e talora anche di quello immobiliare, art. 2776 c.c.), ivi compreso l'esito delle azioni recuperatorie e revocatorie e dei tempi di realizzo. Le incertezze sulla misura e sui tempi di realizzo dell'intero compendio fallimentare e le conseguenti incertezze sulla capienza lasceranno comunque spazio per valutazioni che privilegino la prospettiva di soddisfacimenti certi ed in tempi brevi a fronte di soddisfacimenti incerti e legati ai tempi della liquidazione concorsuale. L'attenzione all'esigenza di rispetto della par condicio ha, poi, indotto il legislatore a disporre, con l'ultima proposizione del terzo comma dell'articolo commentato, che «il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione»: statuizione questa che, già prima del decreto correttivo, sembrava doversi riferire ai creditori con privilegio generale, non ai creditori con prelazione su cespiti determinati laddove il parametro della capienza era già di per sé sufficiente ad impedire l'alterazione dell'ordine delle cause di prelazione. L'esatta portata di questa disposizione è, peraltro, controversa, sostenendosi talora che la parziale degradazione a chirografo dei creditori assistiti da prelazione di grado poziore vale ad escludere la possibilità di attribuire un soddisfacimento anche minimo ai creditori di grado successivo [cfr. Bozza, (8), 1208 ss.; Paluchowski, 576 ss., 595]; ritenendosi, altre volte, che la norma sia diretta soltanto ad escludere il riconoscimento ai creditori di grado successivo di un trattamento più favorevole di quello previsto per quelli di grado anteriore (Ferri, 695 ss. e 697; Stanghellini, § 3.8; Ambrosini, 50 ss.). La prima interpretazione, più restrittiva, ad avviso di chi scrive non è condivisibile per tutta una serie di considerazioni, a cominciare da quella, di carattere sistematico, desumibile dall'art. 182-ter sulla transazione fiscale nel concordato preventivo, laddove si statuisce che «se il credito tributario è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle agenzie fiscali». L'interpretazione secondo la quale è sufficiente che il trattamento dei creditori collocati in un certo grado non sia deteriore rispetto a quella dei creditori con grado successivo è, poi, coerente alla dizione della norma, che si limita a sottolineare l'esigenza di non alterazione dell'ordine delle cause di prelazione; ed è l'unica compatibile con la stessa percorribilità della soluzione concordataria. In proposito occorre muovere dalla premessa che la proposta di concordato deve prevedere un qualche soddisfacimento anche per i creditori chirografari. Si è, per la verità, talora sostenuta l'ammissibilità di un concordato che preveda soltanto il soddisfacimento dei creditori con prelazione o dei creditori privilegiati sino ad un determinato grado, rimanendo escluso, per incapienza teorica, il soddisfacimento dei restanti creditori. La circostanza che l'esdebitazione «per buona condotta» — quindi sostanzialmente gratuita — sia ammissibile solo ove nella liquidazione concorsuale abbiano conseguito un qualche soddisfacimento anche i creditori chirografari (l'art. 142, secondo comma, esclude l'esdebitazione quando «non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali», non quando «non sia stata soddisfatta neppure parte dei creditori concorsuali»; e l'esigenza di soddisfacimento anche dei creditori chirografari è confermata dai lavori preparatori, v., sul punto, Guglielmucci, 285) dovrebbe per coerenza indurre ad affermare l'esigenza di attribuzione di un qualche soddisfacimento anche ai creditori chirografari pure nell'esdebitazione «per concordato» e, quindi, per pagamento. Soprattutto, però, l'ammissibilità di un concordato che non preveda un qualche soddisfacimento per tutti i creditori concorsuali si deve considerare incompatibile con il fondamento dell'esdebitazione, che è costituito dall'accettazione di una proposta di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti da parte della maggioranza dei creditori; ed anche quando, per effetto della suddivisione in classi, è richiesta l'accettazione da parte della maggioranza delle classi, occorre che i creditori di ciascuna classe vengano chiamati a votare su una proposta, che non sembra possa essere quella di rinunciare sic et simpliciter a qualsivoglia soddisfacimento (nel senso dell'ammissibilità di classi «a costo zero», v. tuttavia De Cicco, 89 ss. Se è vera questa premessa e, quindi, un qualche soddisfacimento deve essere proposto anche ai creditori chirografari, è in ogni caso ammissibile un soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione su cespiti determinati in quanto degradati a chirografari nella misura dell'incapienza ed è invece ammissibile un soddisfacimento non integrale dei creditori con privilegio generale, specie se esteso anche agli immobili, solo se non si segue l'interpretazione più restrittiva della prescrizione di non alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione. Segue: creditori postergati — L'esigenza di prevedere un qualche soddisfacimento riguarda i creditori concorsuali, non i creditori postergati, ma — anche al fine di verificare se possano essere raggruppati in classi e chiamati a votare sulla proposta di concordato — si devono considerare separatamente le postergazioni volontarie e le postergazioni legali. Le postergazioni volontarie, com'è noto, erano state escogitate, nel sistema ante riforma, come escamotage per consentire concordati preventivi con cessione dei beni ai creditori quando l'attivo non risultava sufficiente a soddisfare i creditori nella misura minima allora preveduta, che era per i creditori chirografari quella del quaranta per cento. Le postergazioni erano atti di disposizione individuale di singoli creditori aventi interesse a favorire la soluzione concordataria, consistenti nella rinuncia al credito nella misura in cui, in esito alla liquidazione dei beni ceduti, fosse risultato necessario a consentire l'attribuzione del quaranta per cento ai creditori chirografari non postergati. A differenza della rinuncia, la postergazione consentiva la conservazione della titolarità del credito: i creditori postergati venivano perciò ammessi al voto assieme ai creditori chirografari ed il loro voto era spesso determinante per l'approvazione del concordato. Nel nuovo sistema residua uno spazio per postergazioni volontarie anche nel concordato fallimentare, quando la misura del soddisfacimento sia legata ad elementi aleatori: come nel caso della cessione dei beni ai creditori, ora consentita pure nel concordato fallimentare, laddove la misura del soddisfacimento costituisce oggetto di una previsione e dipende dall'esito della liquidazione; o come nel caso in cui venga proposto il soddisfacimento dei creditori con gli utili che si prevede l'impresa risanata possa realizzare in un determinato arco di tempo. I creditori che abbiano un particolare interesse all'esito positivo del concordato, al fine di indurre gli altri creditori ad aderire alla proposta possono, con atti di disposizione individuale dei loro diritti, postergare il soddisfacimento dei loro crediti alla previa attribuzione ai creditori non postergati della percentuale prevista, riducendo in tal modo per essi l'alea del suo mancato raggiungimento. Secondo la disciplina legale della collocazione dei crediti i creditori postergati avrebbero la stessa posizione giuridica dei creditori chirografari, anzi potrebbero avere anche quella di creditori privilegiati nulla ostando che anche alcuni di costoro si posterghino volontariamente ai creditori chirografari. Pertanto la proposta di concordato deve prevedere il loro soddisfacimento, che, per effetto della postergazione rimane però soggetto ad un'alea, quella del suo conseguimento in misura inferiore e, addirittura, quella del suo mancato conseguimento. In relazione a questa proposta di soddisfacimento, ancorché aleatorio anche nell'an, i creditori postergati costituiscono una classe che accetta un trattamento differenziato rispetto a quello degli altri creditori che avrebbero, per legge, la medesima posizione giuridica. Non è quindi dubbio che nel concordato con suddivisione dei creditori in classi una classe debba essere costituita dai creditori volontariamente postergatisi, mentre in assenza di suddivisione in classi, siano chiamati, come nel vecchio sistema, a votare assieme ai creditori chirografari. Del tutto diversa è la posizione dei creditori nei casi di postergazioni legali, che, dopo la riforma del diritto societario attuata con il d.lgs. n. 6/2003, sono prevedute dall'art. 2467 c.c. relativo ai finanziamenti soci sostitutivi di apporti di capitale nelle società a responsabilità limitata (norma della quale è controversa l'estensibilità alle società per azioni, cfr. Simeon, 691) e dall'art. 2497-quinquies c.c. relativo ai finanziamenti effettuati da chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essi sottoposti quando convengono in situazioni corrispondenti a quelle prevedute dall'art. 2467 c.c. Secondo la disciplina legale della collocazione dei crediti i creditori postergati ex lege hanno una posizione subordinata rispetto a quella dei creditori chirografari ed una proposta di concordato che preveda un soddisfacimento anche per essi di regola non è conciliabile con l'esigenza — che deve ritenersi sussistente secondo il criterio che verrà illustrato infra — di limitare la destinazione a creditori aventi una collocazione deteriore di risorse che dovrebbero prioritariamente servire al soddisfacimento dei creditori con collocazione antergata. Solo quando viene preveduto il soddisfacimento dei creditori chirografari in misura di non molto inferiore all'intero può aprirsi uno spazio per prevedere l'attribuzione di un qualche soddisfacimento anche ai creditori postergati ex lege. Se è preveduto il soddisfacimento, in qualche misura, anche di questi creditori, essi, in quanto destinatari di una proposta, devono essere chiamati a votare nell'ambito di una classe. Se però ai crediti postergati ex lege non viene proposto alcunché non vi è alcun ostacolo alla percorribilità della soluzione concordataria e deve ritenersi non debbano costituire una classe chiamata a votare assieme alle altre. L'affermazione che i creditori postergati ex lege, ancorché subordinati, sono pur sempre creditori e, pertanto, devono essere chiamati a votare nell'ambito di una classe anche se la proposta di concordato non preveda per essi alcun soddisfacimento (Stanghellini, § 3.10) è certamente suggestiva. Ma occorre considerare che la postergazione ex lege è frutto di una riqualificazione del finanziamento sostitutivo di apporti di capitale, che avvicina la posizione di questi creditori a quella dei portatori di capitale di rischio e si deve, quindi, ritenere che, al pari ad esempio degli azionisti di risparmio, non possano interloquire su una proposta di concordato che ne comporti il completo sacrificio. Si può quindi pervenire, in via interpretativa, alla soluzione espressamente adottata nell'ordinamento tedesco, che prevede la costituzione di classi di creditori postergati (§ 222, n. 3, InsO.) — anche in relazione al più ampio spettro di postergazioni che comprende pure, ma non soltanto, i crediti al rimborso di finanziamenti sostitutivi di apporti di capitale (§ 39 InsO.) — ma statuisce che se nel piano non è stabilito diversamente i crediti postergati si considerano rimessi (§ 225, primo comma, InsO.). Accanto alle postergazioni volontarie di tipo tradizionale accordate in occasione della presentazione della proposta di concordato ed alle postergazioni legali conseguenti ad una riqualificazione del credito con riferimento alla situazione alla data del finanziamento, sono prevedute postergazioni dei crediti risultanti da titoli obbligazionari o altri strumenti finanziari (art. 2411 c.c.). Trattasi di postergazioni su base volontaria, che caratterizzano però il credito sin dall'origine in quanto conseguenti all'accettazione delle condizioni del finanziamento. In considerazione della circostanza che il credito nasce postergato la sua posizione nel concordato si deve considerare equiparabile a quella dei crediti postergati ex lege. Segue: la distribuzione fra le classi dei creditori del plusvalore da concordato — Anche se la possibilità che i creditori di una classe possano essere soddisfatti nella liquidazione concorsuale in misura superiore a quella prevista dalla proposta di concordato comporta il diniego di omologa soltanto in caso di dissenso della classe pregiudicata e di opposizione ad omologa di creditori ad essa appartenenti (infra, sub, artt. 129-131), la proposta di concordato si deve uniformare a criteri che non possano essere censurati in caso di opposizione ad omologa. Pertanto le risorse che si ipotizzano conseguibili attraverso la liquidazione concorsuale devono essere attribuite alle classi dei creditori nel rispetto delle norme sulla collocazione dei crediti. Le risorse messe a disposizione dei creditori nel concordato sono però ordinariamente superiori a quelle conseguibili nella liquidazione concorsuale ed è proprio grazie a questo surplus da concordato che è possibile conciliare l'esigenza di prevedere per ciascuna classe un soddisfacimento non inferiore a quello conseguibile nella liquidazione concorsuale con l'esigenza di prevedere il soddisfacimento non integrale di una classe anteposta mediante attribuzione di un qualche soddisfacimento anche alla classe subordinata (v., in questo senso, Stanghellini, § 3.8). Il plusvalore da concordato non è peraltro agevole da quantificare, non potendo essere semplicisticamente individuato nella differenza fra l'importo prevedibilmente conseguibile dalla liquidazione concorsuale ed un importo corrispondente al fabbisogno concordatario. Si deve, infatti, tener conto delle numerose variabili delle possibili proposte di concordato ed identificare il valore di quelle in concreto sottoposte alle singole classi di creditori, essendo evidente che la proposta ad esempio di conversione di crediti in capitale e quindi di soddisfacimento dei creditori con i futuri utili dell'impresa o con la alienazione delle partecipazioni sociali, non consente un'agevole quantificazione in termini monetari. Anche nel caso più semplice della proposta di soddisfacimento dei creditori con somme di danaro occorre poi tener conto dei tempi ed anche della maggiore o minor certezza della loro corresponsione, ovvio essendo che il valore di un pagamento certo in tempi brevi è superiore a quello di un pagamento nei tempi necessari alla liquidazione concorsuale ed oltretutto legati all'alea della liquidazione medesima. Una volta stabilito il plusvalore da concordato esso non deve essere necessariamente ripartito fra le classi in modo che ciascuna di esse ne benefici proporzionalmente in pari misura (Stanghellini, 377 ss., 386; contra v., tuttavia, Ferri, 697). Proprio la possibilità di allocare anche l'intero plusvalore a favore delle classi subordinate consente di prevedere un qualche soddisfacimento per i creditori chirografari anche in caso di soddisfacimento non integrale di più classi di creditori con privilegio generale. Il piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti e l'autonomia delle pattuizioni concordatarieMentre nell'originaria formulazione dell'art. 124, il contenuto della proposta concordataria era incentrata sul concetto di «pagamento» (prevedendosi l'indicazione della percentuale offerta ai chirografari, il tempo del pagamento stesso, la descrizione delle garanzie offerte), la lett. c) della norma novellata, in sostanziale analogia con la disciplina dettata dall'art. 160, lett. a) in tema di concordato preventivo e nell'ottica della valorizzazione ed esaltazione dell'autonomia privata, stabilisce che la proposta di concordato fallimentare può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, sotto qualsiasi forma e con molteplici modalità, nel contesto di un margine di flessibilità ed elasticità (pur se limitatamente vincolata, ad esempio quanto al rispetto dell'ordine delle prelazioni) che non trova riscontro nel sistema previgente (sul punto, v. Fabiani, 876-879). In sostanza, è stato notato come il legislatore abbia dato ampio spazio alla «fantasia» delle parti, sicché le fattispecie indicate nella norma non costituiscono un numero chiuso, non potendosi escludere altri tipi di operazioni idonee a realizzare il medesimo risultato di una composizione concordata dell'insolvenza (cfr. Blatti- Minutoli, 1730 ss.), come, ad esempio, riassetti societari (Guerrera- Maltoni, 26 ss.; Fabiani, 885 ss.). La ristrutturazione dei debiti consiste ordinariamente in un riscadenziamento (anche dei crediti privilegiati) accompagnato per lo più da rinunce a quote di credito, ossia in una rideterminazione quantitativa delle obbligazioni del debitore fallito, cioè una riduzione della somma dovuta, anche mediante la suddivisione in classi e persino attraverso un pagamento non integrale dei creditori privilegiati, cui si accompagnano le concordate forme di soddisfazione (cfr. Blatti- Minutoli, 1730 ss.; v. anche Stanghellini, 1961 ss. e, sul tema parallelo del concordato preventivo, Lo Cascio, 143). La ristrutturazione — preveduta di regola non per tutti i debiti, ma soltanto per quelli verso qualche classe di creditori — è certamente finalizzata al soddisfacimento dei crediti, ma non lo attua; ed il mancato conseguimento del soddisfacimento, in particolare il mancato pagamento nel termine riscadenziato, non costituisce inadempimento all'accordo concordatario e non consente la risoluzione del concordato con reviviscenza del credito originario (cfr. Stanghellini § 3.1). La ristrutturazione dei debiti comporta quindi un'alea ulteriore rispetto a quella che caratterizza il concordato che prevede la regolazione dell'insolvenza attraverso il soddisfacimento dei crediti. Le forme di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti — Le forme possono essere le più varie, rimanendo così esaltata l'autonomia delle pattuizioni concordatarie. Vanno dall'assunzione dei debiti da parte di un terzo (ad esempio, una società del gruppo ancora in bonis) con liberazione della fallita, attraverso accollo (od espromissione — cfr. Perrino, 203 ss.), alla conversione di crediti in capitale, alla datio in solutum di singoli cespiti, alla cessione ad una newco costituita dai creditori dell'attivo aziendale od anche dalle attività e passività dell'azienda in conformità allo schema preveduto dall'art. 105, ottavo comma l.fall. La possibilità, espressamente preveduta, di operazioni straordinarie (sulle quali v., in particolare, Guerrera- Maltoni, 46 ss.) consente anche operazioni di fusione e di scissione, ammissibili pure per le società sottoposte a procedure concorsuali, rilevandosi tuttavia talora che può porsi un problema di compatibilità delle operazioni in concreto programmate con il procedimento di concordato (v. sul punto, con riferimento al concordato preventivo, Alessi, 1131 ss., 1139 ss.; ma, in senso critico v. Bertacchini, § 4). In effetti, il tema dei possibili riassetti societari è ormai cruciale nel concordato fallimentare, soprattutto quando la proposta è presentata da un terzo, dovendosi chiedere come questi possa acquisire le partecipazioni sociali in funzione del compimento di operazioni straordinarie (sul punto v. l'analisi approfondita di Fabiani, 555-560 e, più di recente, Lo Cascio, 146-148). Limiti all'autonomia delle pattuizioni concordatarie — L'ampio margine riconosciuto all'autonomia delle pattuizioni concordatarie costituisce un salto di qualità rispetto alla disciplina ante riforma. L'autonomia incontra tuttavia una serie di limiti, la cui osservanza è rimessa al vaglio preliminare degli organi giudiziari della procedura (sul tema, si veda Blatti- Minutoli, § 39-49; sul parallelo tema dei limiti all'autonomia privata nel concordato preventivo, v. Nisivoccia, 1294-1298). Se si muove dalla premessa che il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione su cespiti determinati implica la costituzione in classi (supra), nel concordato senza classi vanno soddisfatti integralmente e senza dilazione i creditori con prelazione, che sono esclusi dal voto e quindi estranei all'accordo concordatario, ferma restando ovviamente la facoltà di ciascuno di essi di acconsentire uti singuli a ricevere un pagamento dilazionato od anche non integrale, in ossequio al principio della libera disponibilità dei propri diritti. I creditori chirografari possono, invece, essere soddisfatti attraverso qualsiasi forma ed anzi la proposta ad essi indirizzata può prevedere anche soltanto la ristrutturazione dei debiti. Ma qualunque sia la proposta, opera il principio della par condicio e deve quindi essere previsto per tutti lo stesso trattamento, salvo ovviamente anche in tal caso un trattamento differenziato sulla base di un assenso individuale. L'osservanza di questi limiti è assicurata dall'attribuzione al giudice delegato del potere di valutare la «ritualità» della proposta (sul quale v. infra, sub artt. 125-126 l.fall.). Nel concordato con suddivisione dei creditori in classi il principio di parità di trattamento opera soltanto all'interno di ciascuna classe e la ritualità della proposta potrebbe essere censurata se fosse preveduto un trattamento differenziato per creditori raggruppati nella medesima classe. Poiché peraltro la suddivisione dei creditori in classi e la previsione di trattamenti differenziati per i creditori delle varie classi potrebbe implicare discriminazioni ingiustificate e trattamenti differenziati atti a pregiudicare i creditori di alcune classi, l'autonomia delle pattuizioni concordatarie è soggetta ad ulteriori limiti. In primo luogo la suddivisione in classi deve essere fondata su omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici e le ragioni del trattamento differenziato devono essere esplicitate. Poiché il «corretto utilizzo dei criteri di cui all'art. 124, secondo comma, lettera a) e b)» e quindi la razionalità dei criteri di formazione delle classi e dei trattamenti differenziati (v. sul punto infra, sub artt. 125-126 l.fall) è rimessa al vaglio preliminare del tribunale, l'autonomia della pattuizione concordataria si deve considerare corrispondentemente limitata. Secondo quanto dispone il terzo comma dell'art. 125, il tribunale, nel verificare il corretto utilizzo dei criteri di cui all'art. 124, secondo comma, lett. a) e b), ove sia previsto il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione deve altresì tener conto della relazione giurata del professionista sul valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione: il vaglio preliminare del tribunale si estende quindi alla rispondenza della proposta di soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione al criterio della capienza; ma rimane un vaglio meramente formale ancorato alle risultanze della relazione giurata (di inammissibilità della proposta priva della suddetta relazione parla Trib. Udine 18 maggio 2012, secondo cui, tuttavia, il tribunale, pur in presenza di tale vizio di ammissibilità della domanda concordataria dovrà procedere all'omologazione, in assenza di opposizioni da parte dei creditori dissenzienti o di terzi, che legittimerebbero una valutazione più penetrante ai sensi dell'art. 129). Per Cass. n. 22045/2016, la relazione giurata del professionista designato dal tribunale è funzionale alla verifica di un valore che consenta di determinare la misura di soddisfazione del credito presumibilmente realizzabile in caso di liquidazione dei beni e dei diritti, quale limite minimo suscettibile di essere previsto nella proposta di concordato. Essa non assume alcuna rilevanza quando il proponente abbia confezionato la proposta prevedendo il pagamento del credito in conformità del titolo ma con semplice dilazione. In tal caso, la misura del soddisfacimento non è legata al valore dei beni o dei diritti suscettibili di liquidazione, ma molto più semplicemente all'incidenza del decorso del tempo, per cui ogni valutazione al riguardo, in vista del successivo computo delle maggioranze, può essere effettuata dagli organi della procedura. Dopo il decreto correttivo si deve ritenere riconosciuta l'ammissibilità di una proposta di soddisfacimento non integrale anche per i creditori con privilegio generale, purché non inferiore a quello conseguibile nella liquidazione concorsuale. È stata perciò modificata la dizione della norma, la quale originariamente relativa ai solo creditori con prelazione su cespiti determinati, faceva riferimento «al valore di mercato attribuibile al cespite o al credito oggetto della garanzia» e fa ora riferimento «al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione». È peraltro dubbio che la mutata dizione della norma sia sufficiente — al di là dell'intenzione, malamente espressa, dal legislatore — a rimettere alla valutazione del professionista la verifica del presumibile ricavato della liquidazione concorsuale sul quale hanno titolo di soddisfarsi in via prioritaria i creditori con privilegio generale, ricavato che non è legato soltanto al «valore di mercato» attribuibile ai beni e diritti compresi nel fallimento, ma ricomprende realizzi anche altrimenti conseguiti, ad esempio attraverso la revoca di pagamenti. Il problema della sottoposizione o meno al vaglio del tribunale della rispondenza del trattamento proposto ai creditori con privilegio generale al presumibile esito della liquidazione concorsuale è conseguentemente legato alla necessità o meno di una relazione giurata sul presumibile esito della liquidazione concorsuale. Ove venga preveduto il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione è altresì preveduto che «il trattamento per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione». La previsione — che già prima del decreto correttivo sembrava riferibile all'ipotesi di proposta di soddisfacimento non integrale dei creditori con privilegio generale, ammissibile secondo un orientamento sulla base della disciplina introdotta con il d.lgs. n. 5/2006 (Bertacchini, § 5) — riteniamo debba essere intesa nel senso che ai creditori posposti non può essere offerto un trattamento più favorevole di quello preveduto per i creditori anteposti. L'osservanza di questo limite è agevole ove ai creditori delle differenti classi sia proposto un soddisfacimento nella stessa forma, ad esempio mediante corresponsione di un pagamento in una determinata percentuale; ed anche in tal caso, quando vengano proposti pagamenti con differenti dilazioni il rapporto fra trattamento proposto all'una e all'altra classe può non risultare con immediatezza. Quando poi siano proposte differenti forme (ad esempio pagamenti ad una classe, conversioni di crediti in capitale ad altra classe) sarebbero richieste complesse valutazioni, spesso ancorate ad incerte previsioni: che non sono rimesse al vaglio del tribunale, né possono essere ricondotte alla nozione di «ritualità» della proposta cui è limitato il vaglio preliminare del giudice delegato. È certamente vero che ai creditori — sia nel concordato con suddivisione dei creditori in classi, che nel concordato senza classi — deve essere proposto un soddisfacimento (o una prospettiva di soddisfacimento se oggetto della proposta è la ristrutturazione dei debiti) almeno pari a quella conseguibile nella liquidazione concorsuale e, ove venga proposto il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione, non deve essere alterato l'ordine delle cause di prelazione. Ma la valutazione è rimessa ai creditori in prima battuta attraverso il vaglio preliminare del comitato dei creditori, che può impedire che la proposta venga messa in votazione e, superato questo vaglio, alle scelte della maggioranza o delle maggioranze in seno alle singole classi. Le differenti tipologie di concordato fallimentareNel sistema ante riforma la proposta di concordato doveva prevedere per i creditori chirografari — essendo escluso il soddisfacimento non integrale dei creditori con prelazione — il soddisfacimento mediante pagamenti da parte del debitore assicurati da serie garanzie reali o personali (concordato con garanzia) o da parte di un terzo che assumeva l'obbligo di eseguire i pagamenti concordatari a fronte della cessione dei beni ed eventualmente delle azioni revocatorie (concordato con assunzione). Non era invece preveduto un concordato fallimentare con cessione dei beni ai creditori, la cui ammissibilità veniva spesso esclusa in considerazione del fatto che nel fallimento i beni erano già acquisiti alla procedura di liquidazione concorsuale. Come prima accennato, l'ammissibilità — preveduta con la riforma — di proposte di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti «attraverso qualsiasi forma» rende ora possibili — accanto alle forme tradizionali del concordato con garanzia e del concordato con assunzione — molteplici altre forme di concordato rimesse in larga parte alla fantasia degli operatori ed insuscettibili di una elencazione tassativa (si rinvia a quanto detto supra sullo stimolante tema dell'abuso del diritto del proponente). Trascurando l'ipotesi, che appare piuttosto improbabile, di un concordato fallimentare che preveda esclusivamente la ristrutturazione dei debiti, una breve rassegna delle principali tipologie di concordato sembra comunque opportuna per verificare le peculiarità di disciplina che le caratterizzano. Concordato con pagamento da parte del debitore — Mentre nella formulazione ante decreto correttivo era previsto che sulla proposta doveva essere reso il parere del comitato dei creditori «con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione» e, quindi, sulla convenienza della proposta, con il decreto correttivo è previsto che il parere (del curatore) debba essere reso anche «con riferimento alle garanzie offerte». Anche se non è più prescritto che la proposta di concordato debba essere necessariamente accompagnata dall'offerta di serie garanzie reali o personali, quando la proposta prevede l'esecuzione di pagamento da parte del fallito l'adempimento difficilmente può essere assicurato altrimenti che con la prestazione di garanzie (nel senso che le garanzie sono tuttora necessarie v. Nardecchia, 191, nonché Blatti-Minutoli, 1735; contra Pacchi, 1416). È certamente vero che quando l'impresa non ha una struttura patrimoniale che ne possa consentire una fruttuosa liquidazione, le prospettive di soddisfacimento dei creditori più che ad una attività liquidativa possono essere legate ad una prosecuzione dell'attività d'impresa che consenta l'esecuzione dei pagamenti concordatari con gli utili conseguibili dall'impresa sgravata dai debiti pregressi grazie al concordato. Ma il soddisfacimento dei creditori attraverso pagamenti da parte del debitore con gli utili dell'impresa è certamente ipotizzabile nel concordato preventivo, assai meno nel concordato fallimentare proposto dal fallito, atteso che la proposta non può essere da lui presentata prima di un anno dalla data del fallimento, quando l'attività d'impresa è cessata e raramente viene ripresa con l'esercizio provvisorio. Concordato con assunzione. La proposta di concordato può prevedere l'assolvimento da parte di un terzo degli obblighi concordatari contro cessione dei beni (e, in particolare, di tutti i beni: Filocamo, 2505; per Trib. Milano 5 maggio 2016, nel caso in cui la proposta omologata di un concordato fallimentare non comporti l'acquisizione da parte del proponente dell'intero patrimonio, la curatela può utilizzare il patrimonio «cassa» residuo per soddisfare i crediti fatti valere dopo il deposito della domanda di concordato: infatti, se la pretesa di questi creditori risulta fondata essi sono titolari di un diritto all'accantonamento). Mentre prima della riforma la proposta doveva pervenire dal fallito anche quando ad assumere gli obblighi era un terzo, spesso in via esclusiva in forza della clausola di liberazione immediata del fallito, il terzo può essere lui stesso il proponente. La figura dell'assuntore [sulla cui difficoltà concettuale riguardo i profili della sua responsabilità v. Fabiani, (16-bis), 905] è menzionata all'art. 124, comma 2, lett. c), ove si fa riferimento all'accollo e nell'art. 135, comma 5, che richiama espressamente l'assunzione degli obblighi concordatari. In assenza di una definizione legislativa, tradizionalmente, si afferma che assuntore è il terzo che, dietro il corrispettivo della cessione dei beni fallimentari, si obbliga direttamente, sostituendosi al fallito, ad assolvere gli adempimenti che scaturiscono dal concordato proposto (v. Cass. n. 11027/2013, secondo cui spetta al giudice del merito, la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, interpretarne i patti e la relativa sentenza di omologazione al fine di stabilire se il terzo ivi intervenuto rivesta la qualità di semplice fideiussore oppure quella di assuntore degli obblighi concordatari). Già prima della riforma, mentre la cessione dei beni rientrava fra i naturalia negotii, disputandosi soltanto se fosse ammissibile un'assunzione del concordato che prevedesse non l'acquisizione dell'attivo da parte dell'assuntore ma il ritorno in bonis del fallito (v., sul punto, Bran, 49), era consentita la cessione, con clausola espressa, delle azioni revocatorie già proposte dal curatore. Con la riforma è stata preveduta la possibilità di cessione delle azioni di pertinenza della massa (con previsione più generica: con ciò risolvendo positivamente i dubbi sorti in ordine alla trasferibilità all'assuntore delle azioni diverse dall'azione revocatoria), purché autorizzate dal giudice delegato con specifica indicazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa. Per azioni di pertinenza della massa devono intendersi quelle che derivano dal fallimento e quelle spettanti al curatore in sostituzione dei creditori comunemente denominate appunto azioni della massa, non quelle proponibili dal curatore in sostituzione del fallito, che sono in ogni caso comprese nella cessione dei beni all'assuntore (ma nel senso che la norma si deve considerare riferita anche a queste ultime, v. Bertacchini § 6, nt. 31, che fa l'esempio delle azioni finalizzate al recupero dei crediti vantati dall'impresa fallita). Fra le azioni di pertinenza della massa sono ricomprese innanzitutto (e tradizionalmente) le azioni revocatorie, fallimentare ed ordinaria, sia quando volte a recuperare beni o diritti, sia quando dirette ad escludere crediti o prelazioni, ma — per quanto attiene a queste ultime — la cessione è forse necessaria solo ove non sia già intervenuta l'esclusione del passivo del credito o della prelazione con statuizione divenuta definitiva (v. sul punto, infra, sub art. 135). Devono altresì ritenersi comprese le azioni volte a far accertare l'inefficacia ex artt. 64 e 65 e, dopo la riforma del diritto societario, quella prevista dagli artt. 2467, primo comma e 2497-quinquies c.c., non potendosi attribuire rilevanza al carattere dichiarativo e non costitutivo dell'azione per considerare automaticamente compreso nel patrimonio fallimentare ceduto all'assuntore, senza necessità di patto espresso, quanto uscito dal patrimonio del debitore in forza di atti o pagamenti compiuti nel periodo sospetto legale; dovendosi invece considerare automaticamente compreso nel patrimonio ceduto all'assuntore quanto uscito dal patrimonio del debitore in forza di atti inefficaci ex artt. 44 e 45 (cfr. Cass. n. 1779/1970). Poiché la cessione può avere ad oggetto non soltanto le azioni revocatorie, ma più genericamente le azioni di pertinenza della massa, oggetto di cessione può essere l'azione di responsabilità dei creditori sociali (mentre l'azione sociale di responsabilità, in quanto relativa ad una pretesa compresa nel patrimonio della società fallita, si deve considerare spettante all'assuntore in quanto cessionario dei beni) e l'azione di simulazione ex art. 1416, secondo comma, c.c. (ferma restando l'esperibilità in ogni caso dell'azione spettante al fallito, ma con le limitazioni probatorie prevedute richiamate dall'art. 1417 c.c.). A fronte della limitazione della cessione, preveduta nella disciplina previgente, alle sole azioni «già proposte dal curatore» era stata prospettata, ma esclusa dalla giurisprudenza, l'estensione della cessione alle azioni anche soltanto autorizzate dal giudice delegato; con la riforma è stata espressamente ed opportunamente preveduta la cedibilità delle azioni autorizzate dal giudice delegato, richiedendosi peraltro l'indicazione nell'autorizzazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa, in modo da assoggettare a controllo preventivo le iniziative dell'assuntore e, nel contempo, di consentire una valutazione di convenienza del concordato. La Cass. n. 17339/2015 ha specificato che qualora il concordato fallimentare con assunzione preveda la cessione delle azioni revocatorie, la chiusura del fallimento conseguente alla definitività del provvedimento di omologazione determina una successione a titolo particolare dell'assuntore nel diritto controverso, regolata dall'art. 111 c.p.c. Prima della riforma era frequente l'inserimento nella proposta di concordato di una clausola di limitazione della responsabilità dell'assuntore ai soli crediti insinuati, ma nell'assenza di una disciplina espressa era controverso il limite cronologico della limitabilità. Con la riforma è stata espressamente prevista la legittimità di clausole che limitino la responsabilità dell'assuntore ai crediti insinuati «al tempo della proposta», statuendosi altresì che «verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito»; poiché nel concordato con assunzione può essere prevista anche la liberazione immediata del debitore, la persistente responsabilità del debitore per i debiti dei quali l'assuntore non risponde evidenzia la correlazione fra accollo privativo e liberazione del debitore e l'ammissibilità della contemporanea presenza della clausola di limitazione della responsabilità dell'assuntore con la clausola di limitazione immediata del fallito (v. Cass. n. 4698/2011, secondo cui in tali casi la previsione della limitazione di responsabilità, una volta omologata con provvedimento passato in giudicato — non è più contestabile neppure dal terzo creditore che si dolga dell'esclusione del suo credito tra quelli accollati dall'assuntore). In tale contesto, all'assuntore del concordato può essere attribuita la qualifica di successore a titolo particolare del fallito nella sola ipotesi in cui vi sia stato il suo sub ingresso nelle singole posizioni debitorie, con contestuale liberazione del debitore originario; in mancanza, l'assuntore, quale terzo, non è legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., relativamente a procedura avente ad oggetto l'immobile di proprietà del debitore originario (Cass. n. 24263/2010). Per Trib. Milano 12 aprile 2016, se in una clausola di un accordo di concordato fallimentare non viene previsto, né esplicitamente né implicitamente, un obbligo di accantonamento in capo alla proponente, in riferimento ad ogni successiva controversia in cui sia coinvolto il fallimento chiuso con il concordato stesso, tale onere non deve essere ritenuto presente. Concordato con cessione dei beni ai creditori — Nella Relazione del Guardasigilli alla legge fallimentare del 1942, con riferimento alla cessione dei beni ai creditori preveduta per una delle due possibili forme di concordato preventivo, si scriveva che «la legge non ha voluto stabilire schemi rigidi di cessione, lasciando agli interessati di raggiungere l'accordo nel modo più conveniente sotto la guida prudente e vigilante del giudice. Così la cessione potrà assumere la forma del trasferimento dei beni ai creditori in proprietà o quella di una procura irrevocabile o quella di una liquidazione giudiziale vera e propria... Non è del resto da escludersi che i creditori possano anche mettersi d'accordo per rilevare l'impresa e gestirla nell'interesse comune». Già il legislatore del 1942 aveva, dunque, inteso riconoscere un'ampia autonomia nella formulazione delle proposte concordatarie, sia pure limitatamente alla cessio bonorum nel concordato preventivo. Il riconoscimento ora in qualunque tipo di concordato, sia preventivo che fallimentare, della proponibilità della ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma consente sia cessioni a fini liquidativi, sia cessioni per la prosecuzione dell'attività di impresa da parte dei creditori. Una cessio bonorum a fini liquidativi a favore della collettività dei creditori è certamente ammissibile, ma l'ampia libertà di forme della liquidazione dell'attivo fallimentare deve ritenersi renda scarsamente appetibile una liquidazione concordataria, che potrebbe offrire solo marginali prospettive di un migliore soddisfacimento ed un vantaggio piuttosto per il debitore, che rimarrebbe esdebitato. Semmai la cessio bonorum a fini liquidativi potrebbe costituire la forma di soddisfacimento di una classe di creditori, nel quadro di una proposta che preveda la dismissione dei cespiti non strategici per soddisfare i creditori che perseguono una finalità di soddisfacimento per quanto possibile immediato e la cessione dell'azienda in esercizio per la prosecuzione dell'attività d'impresa ai creditori che perseguono finalità di soddisfacimento non immediate. La cessio bonorum per la gestione dell'impresa nell'interesse comune dei creditori implica la costituzione di una società (o l'utilizzo di una preesistente società) le cui azioni o quote vengano attribuite ai creditori cessionari. È questo, com'è noto, lo schema seguito nell'amministrazione straordinaria della Parmalat, laddove è stato preveduto il pagamento dei creditori con prelazione ed il soddisfacimento dei creditori chirografari con l'attribuzione delle azioni di una newco — costituita ad iniziativa del commissario straordinario — cessionaria dei beni e delle azioni revocatorie. Nel fallimento, esclusa con il decreto correttivo la proponibilità del concordato da parte del curatore, l'iniziativa della costituzione della newco deve essere assunta da creditori che propongano un concordato con cessione dei beni non a loro favore, ma a favore di una società alla quale, con la proposta, vengano chiamati a partecipare i creditori, per lo più quelli che si intendono raggruppare in una classe. Il concordato così proposto non è un vero e proprio concordato con assunzione, atteso che il soddisfacimento dei creditori non interviene ad opera della società cessionaria, ma attraverso la partecipazione alla società cessionaria; o lo è limitatamente agli impegni che la società cessionaria assume nei confronti dei creditori delle altre classi o dei creditori con prelazione nel concordato senza classi se il loro soddisfacimento non è già intervenuto ad opera del curatore. In ogni caso, tuttavia, nella proposta può essere prevista la cessione delle azioni di pertinenza della massa; l'ultimo comma dell'articolo commentato statuisce infatti che la cessione delle azioni in questione può essere prevista nella proposta presentata «da uno o più creditori o da un terzo», dovendosi considerare essenziale la cessione dei beni più che l'assunzione da parte del cessionario degli obblighi concordatari (in tal senso va condivisa l'affermazione che la cessione delle azioni della massa è possibile quando la proposta, oltre ad essere presentata da un terzo e non dal fallito, contempli un «assuntore» che sia a sua volta terzo rispetto al fallito (Stanghellini, § 2.8). La clausola di limitazione della responsabilità ai crediti insinuati suppone l'assunzione dell'impegno a far fronte alle obbligazioni concordatarie (Stanghellini, § 2.8), quindi un concordato con assunzione. Pertanto nell'ipotesi in cui, soddisfatti i creditori con prelazione ad opera del curatore, venga proposta la cessione dei beni ad una newco alla quale vengano chiamati a partecipare tutti i creditori chirografari una esclusione pattizia della responsabilità nei confronti dei creditori non insinuati è, prima ancora che inammissibile, del tutto inutile, atteso che, ripartite le azioni o quote fra i creditori insinuati (sia pure per gli opponenti ed i tardivi e per l'ipotesi di definitiva esclusione, con riserva di attribuzione supplementare ai creditori ammessi), l'impossibilità di una moltiplicazione delle partecipazioni sociali a fronte dell'attivo ceduto preclude ai creditori non insinuati di ottenere il soddisfacimento conseguito dagli altri creditori con l'attribuzione delle azioni o quote. Il nuovo testo dell'art. 124, novellato dal d.lgs. n. 5/ 2006, ha innovato in tema di cessione delle azioni di pertinenza della massa, ammettendola in via generale e non limitandola alle azioni revocatorie, come nella formulazione originaria. Tuttavia, siffatta cessione è ammissibile solo nell'ambito di proposta proveniente sia da un terzo (come peraltro già previsto dal testo del 1942 e dalla novella ex d.lgs. n. 5/2006) sia dai creditori. Rimane escluso che quella cessione possa essere prevista nel ricorso proposto dal fallito (o di soggetti a lui collegati o interposti). Comunemente si ammette la modificabilità e revocabilità della proposta di concordato, pur discutendosi del momento in cui la stessa diviene irrevocabile. Coloro che propugnano la tesi contrattualistica, ritengono che quel momento è ravvisabile nell'intervenuta accettazione dei creditori, sicché la proposta è revocabile sino alla scadenza del termine per la votazione fissato dal g.d. ex art. 125 l.fall. I fautori della tesi pubblicistica, invece, fanno riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, mentre oggi deve parlarsi di decreto di omologa ex art. 129 l.fall. novellato. La revoca (alla quale è equiparabile la modifica in pejus) necessita della stessa forma prevista per la proposta e va effettuata personalmente dal proponente. Sono ammissibili modifiche migliorative sino all'omologazione. Quanto al mutamento dell'assuntore nel corso del giudizio di omologazione, è stato affermata la necessità di sottoporre nuovamente la proposta all'approvazione dei creditori, posto che la natura migliorativa o peggiorativa della modifica va valutata solo alla luce dell'affidabilità del nuovo assuntore: Trib. Roma 21 luglio 1992). 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