Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 155 - Patrimoni destinati ad uno specifico affare 1 .Patrimoni destinati ad uno specifico affare1.
Se è dichiarato il fallimento della società, l'amministrazione del patrimonio destinato previsto dall'articolo 2447-bis, primo comma, lettera a), del codice civile è attribuita al curatore che vi provvede con gestione separata. Il curatore provvede a norma dell'articolo 107 alla cessione a terzi del patrimonio, al fine di conservarne la funzione produttiva. Se la cessione non è possibile, il curatore provvede alla liquidazione del patrimonio secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili. Il corrispettivo della cessione al netto dei debiti del patrimonio o il residuo attivo della liquidazione sono acquisiti dal curatore nell'attivo fallimentare, detratto quanto spettante ai terzi che vi abbiano effettuato apporti, ai sensi dell'articolo 2447-ter, primo comma, lettera d), del codice civile. [1] Articolo modificato dall'articolo unico della legge 20 ottobre 1952, n. 1375 e successivamente sostituito dall'articolo 138 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoNella disciplina anteriore alla riforma del 2006 gli artt. 155 ss. l.fall. erano dedicati alla disciplina del procedimento sommario di fallimento, istituto oggi abrogato. I nuovi artt. 155 e 156 l.fall. costituiscono attuazione della delega contenuta nell'art. 1, comma 6, n. 7, l. 14 maggio 2005, n. 80, con la quale il legislatore della riforma del 2006 è stato espressamente chiamato a prevedere una disciplina fallimentare per i patrimoni destinati ad uno specifico affare. La legge fallimentare ha dovuto infatti adeguarsi all'importazione di tale istituto nel nostro ordinamento ad opera dell'art. 2447-bis c.c., introdotto dalla riforma del diritto societario attuata con d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Il patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dalla lettera a) del comma 1 dell'art. 2447-bis c.c. (c.d. patrimonio di destinazione operativo o industriale) deve essere tenuto distinto dal finanziamento destinato ad uno specifico affare (c.d. patrimonio di destinazione finanziario), contemplato dalla lettera b) del medesimo comma e regolato in ambito fallimentare dall'art. 72-ter l.fall.: con la costituzione del patrimonio destinato la società può unilateralmente separare da sé una parte del proprio patrimonio, riservandolo ad esclusiva garanzia dei debiti contratti per la realizzazione di un determinato affare, mentre il finanziamento destinato è un particolare contratto di finanziamento nel quale si stabilisce che al relativo rimborso totale o parziale siano destinati i proventi dell'affare stesso o parte di essi; il che spiega, tra l'altro, la diversa collocazione della disciplina fallimentare inerente ai finanziamenti destinati, che il legislatore si preoccupa di dettare per la sola ipotesi in cui tali contratti siano ancora pendenti alla data della dichiarazione di fallimento. L'autonomia patrimoniale che caratterizza il patrimonio destinato comporta che, una volta costituito tale patrimonio senza l'opposizione dei creditori sociali anteriori all'iscrizione della relativa deliberazione nel registro delle imprese (ovvero con il «via libera» del Tribunale a seguito delle opposizioni, condizionato alla prestazione di idonea garanzia, ai sensi dell' art. 2447-quater comma 2 c.c.) e attuata, per quanto attiene ai beni immobili e mobili registrati, la pubblicità nei relativi registri, su di esso possano soddisfarsi esclusivamente i «creditori particolari» dello specifico affare, i quali, a loro volta, non possono «aggredire» il patrimonio generale della società, sempre che l'atto compiuto in relazione allo specifico affare abbia recato espressa menzione del vincolo di destinazione, e salva, in ogni caso, la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito (art. 2447-quinquies c.c.). L'art. 155 l.fall. disciplina in via generale le sorti del patrimonio destinato in caso di fallimento della società, mentre il seguente art. 156 l.fall. regola specificamente l'ipotesi in cui, a seguito del fallimento della società, risulti che tale patrimonio è incapiente rispetto ai crediti alla cui soddisfazione è destinato. Quanto alla revocabilità degli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare, si vedano l'art. 67-bis l.fall. e il relativo commento. L'insolvenza della società e la sua dichiarazione di fallimento non comportano il venir meno dell'autonomia del patrimonio destinato e della separazione di quest'ultimo dal patrimonio generale della società (Cass. I, n. 1112/2010, la quale, sia pure in tema di fondo patrimoniale, ha affermato il principio della non confondibilità dei beni deputati al soddisfacimento di specifiche esigenze con gli altri beni dell'imprenditore fallito). La norma (applicabile solo al fallimento e non anche alle altre procedure concorsuali: Gatti, 245) presuppone che al momento della dichiarazione di fallimento della società (rectius: della pubblicazione nel registro delle imprese della sentenza dichiarativa del fallimento della società) il procedimento di separazione del patrimonio sia già stato portato ad integrale compimento, il che avviene, ai sensi degli artt. 2447-quater e 2447-quinquies comma 1 c.c., solo quando sia decorso il termine di sessanta giorni dall'iscrizione nel registro delle imprese dalla delibera costitutiva del patrimonio separato senza che i creditori sociali anteriori abbiano proposto opposizioni o quando, a fronte della proposizione di opposizioni, il Tribunale abbia disposto l'esecuzione della delibera previa prestazione di idonea garanzia da parte della società: se invece il fallimento della società interviene prima dell'esaurimento del suddetto procedimento (ossia in pendenza del suindicato termine di sessanta giorni ovvero, in caso di proposizione di opposizioni da parte dei creditori sociali anteriori, prima che il Tribunale abbia disposto l'esecuzione della deliberazione con prestazione di garanzia), la delibera costitutiva del patrimonio separato non ha effetto nei confronti della massa dei creditori, per cui, non trovando applicazione gli artt. 155 e 156 l.fall., il curatore può acquisire all'attivo fallimentare (che, in tal caso, assume l'ordinaria connotazione unitaria) i beni e rapporti giuridici facenti parte del patrimonio destinato per amministrarli e liquidarli secondo la disciplina fallimentare generale (Santosusso, 405; Scarafoni, 14, 1967-1968). La norma stabilisce che in caso di fallimento permane l'autonomia del patrimonio destinato (Ferro, 771; Penta, 20; Pescatore, 1046; Scarafoni, 14, 1964), nella cui amministrazione subentra il curatore, conformemente a quanto disposto dagli artt. 31 e 42 l.fall. (Comporti, 958; Scarafoni, 14, 1964). Ciò in quanto, da un lato, il patrimonio destinato costituisce un cespite della società, al pari della partecipazione totalitaria in una società controllata (Guglielmucci, 12, 302), e dall'altro, sebbene il fallimento della società determini, ai sensi dell'art. 2447-novies comma 4 c.c., la cessazione della destinazione del patrimonio (De Sensi, 34; Devitiis, 646; Vincre, 129; contra Pajardi, Paluchowski, 801, Fimmanò, 06, 157 ss., Castellano, 696, De Crescenzo, 1561, e Caiafa, Valerio, 1708, secondo i quali l'affare, ove possibile, deve essere portato a termine anche dopo la dichiarazione di fallimento della società; similmente Iorio, 1237, che sottolinea come la determinazione del curatore circa la prosecuzione o meno dell'affare non sia soggetta ad alcuna autorizzazione o approvazione da parte degli organi della procedura fallimentare; v. altresì Giannelli, 314, e Scarafoni, 14, 1967, ad avviso dei quali a favore della possibilità di prosecuzione dell'affare deporrebbe il riferimento del comma 2 dell'art. 155 l.fall. alla conservazione della funzione produttiva del patrimonio separato), permane l'obbligo della relativa gestione separata (indipendentemente dal fatto che il patrimonio sia o meno capiente: Macrì, 518; Blandino, Tomasso, 1812; Scarafoni, 14, 1966), a tutela delle distinte masse dei «creditori particolari» del patrimonio destinato e dei «creditori generali» della società (Ferro, 771; Scarafoni, 2004, 87; Vincre, 129; Giannelli, 312). In altri termini, la segregazione patrimoniale resiste all'insolvenza e al fallimento della società, a beneficio delle diverse categorie di creditori (Scarafoni, 14, 1965, il quale sottolinea che una confusione tra i patrimoni in caso di fallimento tradirebbe la ratio stessa della separazione patrimoniale, che deve permanere fin quando esistano le rispettive categorie dei creditori generali e particolari), e sul patrimonio separato non si apre il concorso dei creditori, con conseguente inapplicabilità delle norme relative agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori (ad eccezione dell'art. 67-bis l.fall.) e sui rapporti giuridici pendenti e di quelle che regolano l'accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi e la ripartizione dell'attivo (Pescatore, 1046; Scarafoni, 2014, 1965; Ferro, 771-772; Giannelli, 327-329; contra Pavone, La Rosa, 929, secondo i quali l'accertamento del passivo relativo al patrimonio destinato sarebbe comunque necessario, non potendosi prospettare il pagamento da parte del curatore dei crediti particolari in assenza di un provvedimento giudiziale che ne accerti l'esistenza e l'entità). Viene così risolto il conflitto tra creditori del patrimonio destinato e creditori della società (Rossi, 899; si veda anche Giannelli, 307 e 310, il quale rimarca che i creditori della società non sono indifferenti alla gestione del patrimonio destinato, il cui utile finale viene acquisito all'attivo del fallimento; sul punto, v. infra). Come chiarisce la relazione illustrativa del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, il curatore assume inizialmente l'amministrazione del patrimonio separato a prescindere dalla sua effettiva capienza (Ferro, 772), che può essere verificata solo in un secondo momento e non certo dal Tribunale già in sede di dichiarazione di fallimento (Pescatore, 1045; Apice, Mancinelli, 291; Blandino, Tomasso, 1812; Scarafoni, 14, 1966; sulla complessità di tale verifica, nell'ambito della quale l'attivo e il passivo devono essere determinati tenendo conto anche delle componenti «dinamiche» connesse all'avviamento e al mantenimento dell'operatività del patrimonio, v. Giannelli, 323-324). L'amministrazione del patrimonio non deve necessariamente svolgersi in un'ottica puramente conservativa, ben potendo ricorrersi alla gestione provvisoria (Fimmanò, 08, 295; v. altresì Pescatore, 1045, il quale fa notare che la norma non pone un termine entro il quale il curatore deve provvedere alla cessione o alla liquidazione del patrimonio, sicché, almeno in teoria, egli può proseguire la gestione anche per diverso tempo sino a quando non si realizzino le condizioni per la cessione o liquidazione del patrimonio al prezzo più vantaggioso), anche attraverso il ricorso agli strumenti di cui agli artt. 104 e 104-bis l.fall. per una «conservazione dinamica» (Ferro, 772; Pajardi, Paluchowski, 802; Pescatore, 1045; Caiafa, Valerio, 1708; Macrì, 519; Castellano, 697; Scarafoni, 14, 1966; v. altresì Giannelli, 314-319, secondo il quale la gestione separata costituirebbe in sé un'applicazione dell'art. 104 l.fall., con l'unica differenza della mancanza della previsione dell'autorizzazione del Giudice delegato e del parere favorevole del comitato dei creditori, il che si spiega con la mancata assunzione dei rischi della gestione da parte della massa dei creditori generali della società), fermo restando che tale gestione è necessariamente transitoria, essendo attuata al fine di preservare la funzione produttiva e il valore dei cespiti in vista della loro cessione o liquidazione (Fimmanò, 06, 163; Macrì, 519; De Crescenzo, 1561; Giannelli, 315; Scarafoni, 14, 1971; ma v. Comporti, 958-959, secondo il quale il patrimonio deve essere amministrato dal curatore in un'ottica immediatamente liquidatoria). Si è peraltro evidenziato che le peculiarità della gestione del patrimonio separato rispetto all'amministrazione del patrimonio fallimentare troverebbero conferma nelle differenze terminologiche tra l'art. 31 l.fall., che parla di «amministrazione» del patrimonio fallimentare sotto la vigilanza del giudice delegato, e l'art. 155 l.fall., che invece demanda al curatore la «gestione» del patrimonio separato e non fa menzione della vigilanza del giudice delegato (Scarafoni, 14, 1965, nonché Giannelli, 309 e 313-314, anche sul ruolo del comitato dei creditori rispetto alla gestione del patrimonio destinato da parte del curatore). Il curatore, nell'amministrare il patrimonio destinato, deve tenere una contabilità separata ai sensi dell'art. 2447-sexies c.c. e, nel caso in cui la realizzazione dell'affare sia divenuta impossibile, redigere il rendiconto finale di cui all'art. 2447-novies c.c. (Blandino, Tomasso, 1813; ma v. le diverse opinioni di Castellano, 695, secondo cui tale adempimento spetta ai precedenti amministratori al momento del passaggio dell'amministrazione del patrimonio destinato in capo al curatore fallimentare, e di Scarafoni, 14, 1971-1972, il quale afferma che, stante il carattere imperativo della liquidazione del patrimonio, la redazione del rendiconto non sia necessaria; in tal senso anche Caiafa, Valerio, 1709-1710, e Giannelli, 313 e 324). Si ritiene che in caso di confusione tra uno o più patrimoni destinati e il patrimonio della società fallita il curatore, oltre a doversi attivare per riportare in ordine la situazione di confusione patrimoniale imputabile ai precedenti amministratori, possa agire contro questi ultimi e contro i componenti degli organi di controllo della società ai sensi dell'art. 146 l.fall. (Ferro, 769; Guizzi, 397 ss.; Comporti, 965; Pescatore, 1046), e che gli stessi creditori particolari del patrimonio destinato possono far valere il credito risarcitorio ex art. 2049 c.c. nei confronti della società mediante domanda di ammissione al passivo del fallimento (Partisani, 1592; contra Ferro, 769, secondo cui, potendo prospettarsi esclusivamente un illecito extracontrattuale degli amministratori e dei componenti degli organi di controllo e non entrando le regole sulla separatezza dei patrimoni a far parte, neppure sotto forma di presupposizione, delle pattuizioni contrattuali che originano dall'esecuzione dello specifico affare, i creditori particolari non possono vantare alcuna pretesa risarcitoria nei confronti della società). Le informazioni sulle attività di gestione e liquidazione del patrimonio separato vengono rese dal curatore nei rapporti semestrali di cui all'art. 33 comma 5 l.fall. (Giannelli, 319; Scarafoni, 14, 1972), e il curatore risponde ai sensi dell'art. 38 l.fall. nel caso in cui non abbia adempiuto a tali attività con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico (Giannelli, 319). Poiché il patrimonio destinato non può essere considerato un soggetto autonomo rispetto alla società fallita e la relativa amministrazione è attribuita al curatore del fallimento di quest'ultima, sia pure con gestione separata, la dichiarazione di fallimento della società che ha costituito il patrimonio destinato determina l'interruzione del processo in cui si controverta di un rapporto obbligatorio riferibile a tale patrimonio (Trib. Torino, 6 aprile 2012, in ilfallimentarista.it). Vi è chi, riflettendo sulla possibilità riconosciuta al curatore di gestire patrimoni destinati, si domanda se non sia opportuno, de iure condendo, disciplinare i presupposti e le modalità di azioni collettive a tutela degli interessi di singole categorie di creditori (una sorta di “class action”), pur lasciando intatto il limite invalicabile per cui l'organo della procedura non potrebbe farsi portavoce dei danni subiti da un singolo creditore (Spiotta, 449). La cessione o liquidazione del patrimonio destinatoAi sensi del comma 2, il curatore deve dapprima cercare di realizzare la cessione a terzi del patrimonio in blocco, al fine di conservarne la funzione produttiva, potendo egli provvedere alla liquidazione «atomistica» del patrimonio solo nel caso in cui la cessione unitaria non sia possibile. La cessione a terzi avviene in base alla disciplina delle vendite fallimentari, stante l'espresso richiamo all'art. 107 l.fall., mentre la liquidazione del patrimonio viene attuata secondo le regole della liquidazione della società in bonis in quanto compatibili con la procedura fallimentare. A differenza della regola stabilita dal comma 1, la disciplina dettata dai commi 2 e 3 (essendo alternativa a quella prevista dall'art. 156 l.fall.) è applicabile solo nel caso in cui il patrimonio destinato non si sia rivelato incapiente all'esito dei necessari e preliminari approfondimenti sul punto da parte del curatore (Ferro, 772; Macrì, 518; Ianniello, 187-188; v. anche Scarafoni, 14, 1969-1970, il quale sottolinea che la valutazione del curatore circa la capienza del patrimonio destinato e la conseguente possibilità della sua cessione a terzi non può svolgersi in seno al programma di liquidazione, atteso che l'approvazione del programma è demandata al comitato dei creditori e dunque a creditori sociali che hanno interessi diversi rispetto a quelli dei creditori particolari alla cui soddisfazione è prioritariamente destinato il patrimonio separato; diversa l'opinione di Caiafa, Valerio, 1711, secondo i quali la determinazione del curatore sul punto deve essere esplicitata, come ogni altra sua scelta, nel programma di liquidazione, e di Giannelli, 320-321, il quale osserva che, se nell'ipotesi di patrimonio destinato incapiente non vi è spazio per una competenza del comitato dei creditori, a diversa conclusione deve giungersi con riferimento alla scelta tra cessione e liquidazione del patrimonio destinato capiente, poiché tale scelta incide proprio sui creditori generali della società e non invece sui creditori particolari, i quali vengono soddisfatti integralmente in entrambi i casi). In presenza di un patrimonio destinato capiente, dunque, il curatore è obbligato anzitutto a tentare la sua cessione in blocco (Rossi, 897) o, quantomeno, a verificare la possibilità della cessione, stante la preferenza espressa dal legislatore per tale soluzione (Giannelli, 320). La ratio della disposizione è dichiaratamente quella di privilegiare la conservazione della funzione produttiva del patrimonio, la quale viene inevitabilmente compromessa da un'attività di liquidazione «parcellizzata» dei singoli beni e rapporti giuridici che compongono il patrimonio medesimo (Niutta, 337, e Scarafoni, 14, 1970, nonché Pescatore, 1046, secondo cui la norma è espressione di un favor alla prosecuzione dello specifico affare). Il rinvio all'art. 107 l.fall., che risponde ad esigenze di trasparenza dell'operato del curatore fallimentare anche quando non investa beni acquisiti all'attivo della procedura (De Crescenzo, 1563; Scarafoni, 14, 1970), determina la necessità che il tentativo di alienazione unitaria del patrimonio a terzi avvenga mediante procedura competitiva, previa stima e con l'effettuazione di adeguate forme di pubblicità al fine di assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati (Giannelli, 321). Il mancato richiamo dell'art. 105 l.fall. non impedisce peraltro di ritenere che la vendita debba avvenire con le modalità stabilite da tale disposizione, atteso che con la cessione del patrimonio destinato si realizza pur sempre la vendita di un'azienda o di un ramo di essa o di beni e rapporto giuridici in blocco (Ferro, 772; Macrì, 519; v. altresì Caiafa, Valerio, 1704 ss. e 1709, i quali, tra l'altro, evidenziano la mancanza di una specifica disciplina per quanto concerne gli effetti della cessione del patrimonio destinato sui rapporti di lavoro e sui crediti dei lavoratori, sostenendo che a tale mancanza conseguirebbe l'applicabilità sul punto delle norme generali che riguardano il trasferimento dell'azienda e i relativi effetti). Non si applica invece alla cessione del patrimonio destinato l'art. 108 comma 2 l.fall., poiché la vendita competitiva di tale patrimonio non ha natura coattiva e, pertanto, la cancellazione dei vincoli pregiudizievoli gravanti sui beni immobili e mobili registrati facenti parte del patrimonio alienato è demandata, come in tutte le cessioni civilistiche, all'accordo tra alienante e acquirente (Ferro, 772; Giannelli, 321-322; Scarafoni, 14, 1970). Tra coloro i quali affermano che l'affare possa proseguire anche dopo la dichiarazione di fallimento (v. supra) vi è chi arriva a sostenere che in tal caso anche il terzo acquirente del patrimonio destinato sarebbe obbligato a portare avanti l'affare (Castellano, 697; contra Scarafoni, 14, 1967). In caso di acclarata impossibilità della cessione del patrimonio in forma aggregata, il curatore deve provvedere alla sua liquidazione secondo le regole generali di diritto societario dettate dal capo VIII del titolo V del libro V del codice civile (richiamate dall'art. 2447-novies commi 2 e 4 c.c. per tutti i casi di cessazione della destinazione del patrimonio allo specifico affare: Guglielmucci, 12, 302) in quanto compatibili con l'avvenuta instaurazione della procedura fallimentare. Poiché il legislatore non specifica in cosa consista l'impossibilità della cessione che giustifica l'avvio della liquidazione «atomistica» del patrimonio destinato, tale impossibilità deve ritenersi sussistente ogni qual volta la cessione a terzi si riveli di fatto non attuabile, sia in ragione della composizione del patrimonio (che ne renda già in astratto non appetibile l'acquisto in blocco), sia per la concreta e appurata mancanza di offerte di acquisto (Scarafoni, 14, 1971; Ferro, 772). Delle motivazioni dell'impossibilità originaria o sopravenuta della cessione in blocco a terzi del patrimonio destinato il curatore deve dare conto agli organi della procedura fallimentare, per giustificare la scelta di procedere alla liquidazione del patrimonio (Scarafoni, 2014, 1971). Alla liquidazione del patrimonio non si applicano le norme fallimentari sulla liquidazione dell'attivo. All'applicazione della disciplina codicistica sulla liquidazione delle società conseguono tra l'altro, coerentemente con la scelta di non assoggettare ad autonomo fallimento il patrimonio destinato, l'assenza del vincolo della par condicio creditorum (Scarafoni, 2014, 1965) e l'esperibilità di azioni esecutive individuali da parte dei «creditori particolari» del patrimonio destinato (Guglielmucci, 2005, 1178). Tra le disposizioni codicistiche sulla liquidazione delle società che sono incompatibili con la procedura fallimentare e con il carattere imperativo della liquidazione del patrimonio destinato da parte del curatore rientrano certamente gli artt. 2484, 2485, 2487 (nella parte relativa alla nomina e revoca dei liquidatori), 2487-bis e 2487-ter c.c. (Scarafoni, 2014, 1972; Ferro, 772; con particolare riguardo all'inammissibilità di una revoca della liquidazione del patrimonio destinato, se non come conseguenza della chiusura del fallimento, v. Macrì, 519), mentre nulla osta all'applicazione dell'art. 2487 c.c. nella parte inerente ai criteri di svolgimento della liquidazione (nei limiti di compatibilità con l'art. 107) e dell'art. 2492 c.c. per quanto attiene alla redazione del bilancio finale di liquidazione (che tuttavia in luogo della distribuzione dell'attivo ai soci deve prevedere, dopo il pagamento dei creditori particolari, le restituzioni ai terzi che abbiano effettuato apporti al patrimonio destinato e l'acquisizione del residuo all'attivo fallimentare: Ferro, 772; Apice, Mancinelli, 291; Scarafoni, 14, 1972), che secondo alcuni può essere contenuto in uno dei rapporti riepilogativi di cui all'art. 33, comma 5 (Caiafa, Valerio, 1701; Macrì, 519). L'acquisizione all'attivo del ricavato della cessione o del residuo attivo della liquidazioneIl comma 3 disciplina la destinazione del ricavato netto della cessione o della liquidazione, stabilendo che il corrispettivo della cessione, depurato dai debiti del patrimonio (che vanno pagati in prededuzione), o il residuo attivo della liquidazione vengono acquisiti dal curatore nell'attivo fallimentare per la successiva ripartizione ai creditori concorsuali della società, detratto eventualmente quanto spettante ai terzi che vi abbiano effettuato apporti ai sensi dell'art. 2447-ter, comma 1, lett. d), c.c. (poiché costoro, stante la capienza del patrimonio destinato, hanno diritto all'integrale restituzione dei conferimenti). La disposizione costituisce applicazione del principio generale secondo cui la curatela fallimentare può acquisire ogni elemento del patrimonio del fallito al netto dei pesi e gravami che su di esso insistono, ossia dopo aver fatto fronte a tutte le obbligazioni che su di esso si devono primariamente soddisfare. Con la cessione o liquidazione del patrimonio, il vincolo di destinazione si trasferisce sul ricavato (Ferro, 772; Giannelli, 325-326). Pertanto, una volta definita la cessione a terzi con l'incasso del corrispettivo o esaurita l'attività di liquidazione del patrimonio destinato, il curatore deve procedere anzitutto al pagamento dei creditori particolari (sempre che il patrimonio non sia stato ceduto in uno con le sue componenti passive, tenendo conto dell'esistenza delle posizioni debitorie nella determinazione del prezzo, nel qual caso il corrispettivo della cessione viene ab origine incamerato dalla curatela al netto dei debiti del patrimonio ceduto, alla cui soddisfazione sarà tenuto l'acquirente: Giannelli, 323), senza la necessità di presentare un piano di riparto ai sensi degli artt. 110 ss. l.fall. e di graduare le ragioni di prelazione, poiché le regole del concorso sono del tutto incompatibili con quelle della liquidazione della società e del resto non avrebbero senso, stante la capienza del patrimonio destinato (Macrì, 520; Scarafoni, 2014, 1973; Ferro, 772; Giannelli, 328). Ciò che residua dal pagamento dei creditori particolari (tra i quali rientrano i titolari di crediti prededucibili sorti durante la gestione del patrimonio destinato da parte del curatore: Giannelli, 319), nonché dalle successive restituzioni degli apporti effettuati dai terzi ai sensi dell'art. 2447-ter, comma 1, lett. d), c.c. (dovendo considerarsi tali solo gli «apporti di rischio» e non quelli effettuati a titolo di finanziamento: Giannelli, 331; v. altresì Comporti, 963, il quale osserva che, in realtà, poiché la norma prevede che venga «detratto quanto spettante ai terzi» e non reca alcun riferimento a restituzioni, il terzo che abbia apportato determinati beni mobili o immobili non ha diritto alla restituzione di tali beni, vantando egli esclusivamente un diritto di credito corrispondente al valore dell'apporto effettuato, il che garantisce, tra l'altro, il mantenimento dell'integrità del patrimonio destinato e della sua funzione produttiva), viene poi acquisito all'attivo fallimentare (Cuccuru, 445; Apice, Mancinelli, 291; Blandino, Tomasso, 1815; Macrì, 520; Ferro, 772;). Solo su tale residuo si soddisfano quindi i creditori generali della società, che sul patrimonio destinato sono postergati rispetto ai creditori particolari e ai terzi che vi abbiano effettuato apporti (Giannelli, 312). È dubbio se l'acquisizione all'attivo debba avvenire al netto del compenso spettante al curatore fallimentare per l'attività di amministrazione e cessione o liquidazione del patrimonio, da considerarsi ricompreso tra i debiti che fanno carico allo stesso, o invece al lordo di tale compenso, da liquidarsi da parte del Tribunale solo dopo l'approvazione del rendiconto di gestione di cui all'art. 116 l.fall., con specifica individuazione della parte di compenso che, essendo imputabile a tale attività, deve essere posta a carico del patrimonio destinato (in tal senso Macrì, 520, Scarafoni, 2014, 1973, 3 Giannelli, 331, i quali sottolineano che l'art. 39 comma 4 l.fall. non consente che al curatore possano essere riconosciuti compensi ulteriori rispetto a quello liquidato dal Tribunale dopo l'approvazione del rendiconto). 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