Responsabilità civile del minore e dell’incapace
07 Settembre 2022
Inquadramento
* Bussola aggiornata da M. Tudisco L'art. 2047 c.c. stabilisce le regole relative al risarcimento del danno – da intendersi a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c. – qualora tale danno sia stato cagionato da una persona incapace di intendere o di volere la quale, secondo quanto previsto dall'art. 2046 c.c., non può rispondere «delle conseguenze del fatto dannoso». La norma in commento prevede dunque che sia il sorvegliante a dover risarcire il danno prodotto dal soggetto sottoposto alla propria vigilanza, salvo che lo stesso non provi di non aver potuto impedire il fatto. Tuttavia, nel caso in cui il soggetto preposto alla sorveglianza non abbia potuto risarcire il danneggiato, il comma 2 della norma prevede che il giudice possa condannare l'incapace, autore del fatto, a corrispondere un'equa indennità, tenuto conto delle condizioni economiche delle parti. Infatti, anche se, in base all'art. 2046 c.c., la persona incapace non è chiamata a rispondere del danno che ha arrecato, l'esigenza di tutelare e risarcire il danneggiato sorge ugualmente, e proprio per questo la legge pone l'obbligo di risarcimento a carico di chi aveva l'obbligo di sorveglianza. Tale ipotesi, invero, va differenziata da quella prevista dal successivo art. 2048 c.c., che regola invece la responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d'arte nei casi in cui il danno sia stato cagionato, rispettivamente, dai loro figli minori o dai loro allievi. Appare quindi chiaro che le previsioni di cui all'art. 2048 c.c. si applichino ai minori che siano capaci di intendere e di volere; di essi, pertanto, non ci si occuperà in questo contributo (ma si rimanda alla Bussola “Responsabilità civile dei genitori, dei tutori e degli insegnanti”); al contrario, se il minore al momento della commissione del fatto era incapace di intendere e di volere (e, in ogni caso, qualora a commettere il fatto sia un incapace, anche maggiorenne), saranno applicabili le disposizioni qui in esame e normativamente previste dagli artt. 2046 e 2047 c.c.. Giova rammentare che la Corte di legittimità ha precisato che le due ipotesi di responsabilità citate «sono alternative – e non concorrenti – tra loro, in dipendenza dell'accertamento, in concreto, dell'esistenza della capacità di intendere e di volere» (Cass. civ., sez. III, 25 marzo 1997, n. 2606). Sia consentito, ai fini di una maggiore comprensione, soffermarsi ancora sul rapporto tra le due ipotesi alternative di cui si è detto. Il fatto che nelle previsioni di cui all'art. 2047 c.c. sia esclusa la capacità di intendere e di volere (e non vi sia, quindi, un “elemento soggettivo” valutabile), è testimoniato anche dalla diversa formulazione letterale delle due disposizioni. Nell'una (art. 2047 c.c.), si parla di «danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere»; nell'altra (art. 2048 c.c.), invece, la legge parla di «danno cagionato dal fatto illecito». Ne consegue, come hanno chiarito dottrina e giurisprudenza (si veda Cass. civ., S.U., 27 giugno 2002, n. 9346), che può sussistere solidarietà tra il minore ritenuto capace di intendere e di volere e «il padre e la madre, o il tutore»; al contrario, il risarcimento del danno cagionato da persona incapace di intendere e di volere è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace (salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto), anche in considerazione del fatto che, come chiarito dall'art. 2046 c.c., «non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di volere ala momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa».
Va a questo punto definito lo stato di incapacità di intendere o di volere quale elemento costitutivo della responsabilità oggetto di disamina. Esso deve essere inteso, ragionevolmente, come uno stato tale da escludere che il soggetto che compie le condotte sia nelle condizioni di valutare e di percepire le conseguenze dannose delle sue azioni. Tale accertamento va comunque svolto in concreto dal giudice chiamato a valutare l'eventuale stato di incapacità; la giurisprudenza ha chiarito che non è indispensabile il compimento di una indagine tecnica di tipo psicologico, quando le modalità del fatto e l'età del minore siano tali da autorizzare una conclusione in un senso o nell'altro (così Cass. civ., sez. III, 19 novembre 2010, n. 23464, caso in cui la Corte di legittimità ha ritenuto sussistente lo stato di incapacità – come d'altra parte aveva fatto il giudice di merito – in capo a un bambino di 10 anni che, lanciando una cartella nella schiena a un altro bambino, gli aveva provocato la frattura di quattro vertebre). Tuttavia, benché l'età possa costituire un indice significativo della capacità del minore, il giudice dovrà spingersi oltre e considerare anche lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l'assenza di eventuali malattie ritardanti, la forza del carattere, la capacità del minore di rendersi conto della illiceità della sua azione e la capacità del volere con riferimento all'attitudine di autodeterminarsi (Cass., sez. III, 26 giugno 2001, n. 8740; conforme Tribunale Oristano, sez. I, 04 novembre 2021, n. 551). Dal momento che l'analisi delle condizioni va fatta in concreto e, ai sensi dell'art. 2046 c.c., deve essere riferita al momento in cui il fatto dannoso è stato commesso, ben potrebbe escludersi l'applicabilità dell'art. 2047 c.c. qualora il giudice verifichi che una persona, dichiarata legalmente incapace, al momento della commissione del fatto era in sé e in grado di intendere o di volere; traendo un'ulteriore conseguenza da tale ragionamento, ugualmente ben potrebbe darsi il caso di un soggetto capace che, al momento della commissione di un fatto che cagioni danni a terzi, sia invece incapace, transitoriamente, a causa di circostanze contingenti (da escludersi, comunque, l'ipotesi prevista dall'art. 2046 c.c., ossia l'ipotesi in cui lo stato di incapacità derivi da colpa del soggetto). Infine, va chiarito che v'è differenza tra il concetto di colpa e quello di imputabilità, inteso quest'ultimo come elemento che permette di escludere, a causa dell'incapacità di intendere e di volere, la responsabilità del soggetto agente (cfr. P.G. Monateri, La responsabilità civile, Torino, 2006): nei casi di cui all'art. 2047 c.c., vi è obbligo di risarcimento (in capo a chi è tenuto alla sorveglianza dell'incapace) solamente nel caso in cui il fatto sia anche colpevole, tanto che – qualora il soggetto fosse capace di intendere e di volere – si rientrerebbe nelle ipotesi di cui all'art. 2048 c.c. (in caso di soggetto minore) o di cui all'art. 2043 c.c. (nel caso di soggetto maggiorenne). A pensare il contrario, ossia a ritenere che i concetti di colpa e imputabilità siano coincidenti, si arriverebbe alla paradossale ipotesi per la quale il sorvegliante sarebbe responsabile del risarcimento del danno anche qualora il fatto dell'incapace non sia stato illecito/colpevole. Lo schema di responsabilità che delineano gli artt. 2046 e 2047 c.c. è astrattamente assimilabile a quello previsto dall'art. 2043 c.c. (devono sussistere «la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso», così Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972), con l'unico distinguo di cui si è detto in relazione alla «condotta illecita»: vi deve essere colpevolezza ma, in ragione dello stato di incapacità di intendere e di volere, non c'è imputabilità. In questi termini si è espressa anche la giurisprudenza, che ha ritenuto che ai fini del riconoscimento della responsabilità del sorvegliante, è necessario che il fatto commesso dall'incapace presenti tutte le caratteristiche oggettive dell'antigiuridicità e cioè che sia tale che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito (così Cass. civ., sez. III, 30 marzo 2011, n. 7247). Tale accertamento deve essere effettuato dal giudice, in applicazione dei generali principi di cui all'art. 2043 c.c.. È pacifico, quindi, che l'art. 2047 c.c. richieda la ricorrenza di un fatto illecito che obbligherebbe il relativo autore al risarcimento del danno, se non fosse considerato incapace di intendere e di volere. La Suprema Corte ha altresì evidenziato che la valutazione circa la sussistenza di un fatto illecito sia da operare a prescindere dalle diatribe in ordine alla sussistenza di un comportamento colpevole, dipendenti dall'accezione della colpa - se criterio di valutazione del comportamento o se comportamento riprovevole di chi non abbia fatto uso delle proprie capacità e facoltà per impedire il verificarsi dell'evento dannoso - e dalla non coincidenza di imputabilità e colpa (Cass. civ., sez. III, 08 luglio 2020, n. 14260). Il sorvegliante
Quella tratteggiata dall'articolo in commento riguarda quindi, prima facie, una responsabilità per fatto altrui posto che colui che è chiamato a risarcire il danno cagionato da persona incapace non è l'autore materiale del fatto bensì il sorvegliante. Tuttavia, la giurisprudenza, a più riprese, ha rilevato come la stessa vada inquadrata in una responsabilità soggettiva presunta per fatto proprio del sorvegliante che risponde per culpa in vigilando ovvero per non aver diligentemente sorvegliato l'incapace, salvo fornisca una prova liberatoria. Si identificano dunque in questa figura tutti coloro sui quali grava un obbligo di sorveglianza sui soggetti incapaci e quindi, conseguentemente, anche quello di evitare che questi rechino danno ai terzi. Può essere problematico circoscrivere l'obbligo di sorveglianza, per questo la giurisprudenza ha fornito indicazioni chiare in tal senso, dichiarando che l'ampiezza dell'obbligo in questione è da rapportare alle circostanze di tempo, luogo, ambiente, pericolo. Bisogna inoltre considerare la natura e il grado di incapacità del soggetto sorvegliato (Cass. civ., sez. III, 24 maggio 1997, n. 4633). Complessivamente, si prospetta una valutazione in concreto del giudice chiamato a decidere sul risarcimento, che deve essere basata sulla valutazione degli elementi indicati. Inoltre, quella prevista dall'art. 2047 c.c. è una responsabilità diretta e propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per inosservanza dell'obbligo di custodia, dal momento che nei loro confronti la legge stabilisce una presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata (così Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2005, n. 12965; il riferimento è a un paziente che, in una struttura di cura, era stato ucciso da un altro paziente incapace di intendere e di volere; va chiarito, per completezza, che sul punto la dottrina è divisa, essendovi chi aderisce all'uniforme indirizzo giurisprudenziale richiamato, ma anche chi ritiene che la responsabilità de quo sia una responsabilità per fatto altrui). Giova evidenziare che l'obbligo di sorveglianza può derivare da una fonte legale o contrattuale, ma può anche essere l'effetto di una scelta liberamente compiuta da un soggetto, il quale accogliendo l'incapace nella sua sfera personale e familiare, assuma spontaneamente il compito di prevenire od impedire che il comportamento di questo possa arrecare danno ad altri (Tribunale Rimini, sez. I, 30 giugno 2021, n. 654). Si faccia riferimento alla casistica in calce al presente contributo per una ricognizione dei casi in cui la giurisprudenza ha ritenuto sussistere o meno l'obbligo di sorveglianza di cui all'art. 2047 c.c.. La prova liberatoria
La colpa del sorvegliante è presunta perché spetta a quest'ultimo provare «di non aver potuto impedire il fatto» malgrado la diligente vigilanza sull'incapace(art. 2047 comma 1c.c.) Egli dovrà quindi dimostrare un fatto impeditivo assoluto (Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2005, n. 1148), oppure che il fatto dannoso si sarebbe comunque verificato anche se la sorveglianza fosse stata esercitata, e quindi che non vi è nesso di causalità tra l'omissione e il fatto dannoso (Cass. civ., sez. III, 19 giugno 1997, n. 5485) o ancora di non aver creato o lasciato permanere situazioni di pericolo, tali da permettere o da agevolare il compimento di atti lesivi. La prova può anche consistere nella dimostrazione che il minore o l'incapace era stato affidato ad altro soggetto: al riguardo, gli ermellini hanno evidenziato che il trasferimento del dovere di sorveglianza tra i genitori dell'incapace, maggiorenne e non interdetto, entrambi informati e consapevoli delle problematiche del figlio, esclude in radice la responsabilità della mamma che abbia validamente affidato il ragazzo al padre, reputato ragionevolmente idoneo, con giudizio ex ante, alla sorveglianza; sicché la donna non era tenuta a fornire la prova liberatoria di cui all'art. 2047 c.c., in quanto questa presuppone la titolarità attuale in capo all'onerato del dovere di sorveglianza (Cass. civ., sez. III, 26/01/2016, n.1321). Per il danneggiato, è sufficiente dimostrare che l'incapace di intendere o di volere ha cagionato il fatto dannoso al di fuori della sfera di sorveglianza del soggetto ad essa obbligato (ancora Cass. civ., sez. III, 19 giugno 1997, n. 5485). Inoltre, sempre in questa materia, il fatto che nel procedimento penale non sia stata accertata la prova della colpa dei soggetti tenuti alla sorveglianza dell'incapace, non comporta il superamento della presunzione di colpa su di essi gravante ai sensi dell'articolo in esame, né costituisce prova del caso fortuito (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2003, n. 19060). La presunzione di responsabilità, in ogni caso, non è applicabile qualora l'incapace abbia causato danni a se stesso (Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2003, n. 11245). Residua da analizzare il secondo comma dell'art. 2047 c.c., il quale prevede che, nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da colui che, ai sensi del precedente primo comma, è tenuto alla sorveglianza, il giudice possa condannare l'autore del danno, ossia l'incapace di intendere o di volere, a un'equa indennità, tenuto conto delle condizioni economiche delle parti e ricorrendo ai criteri equitativi. La formulazione letterale della norma induce a ritenere che si sia in presenza di una previsione che affida al giudice un ampio potere discrezionale, da esercitarsi con l'unico limite delle «condizioni economiche delle parti». La ratio della disposizione va ricercata nella tutela dei terzi nei confronti dei quali, in caso di impossibilità (derivante da qualsiasi motivo) dell'obbligato alla sorveglianza di corrispondere il risarcimento, e in mancanza della previsione in esame, non vi sarebbe alcun tipo di rimedio per il danno subito. Tuttavia, prima facie, sembrerebbe che la responsabilità dell'incapace sia sussidiaria, e ovviamente subordinata alla previa verifica che il sorvegliante non abbia potuto corrispondere il risarcimento; tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente adottato un diverso orientamento. Con la recente sentenza n. 11718/2021, infatti, la Cassazione ha reputato illogico, se non contrario al principio di parità di trattamento di situazioni uguali di matrice costituzionale (articolo 3 della Costituzione), limitare l'obbligo residuale dell'incapace, di natura solidaristica, al caso in cui il sorvegliante abbia previamente dimostrato l'assenza di una propria responsabilità di cui all'articolo 2047, comma 1, del codice civile, per negarlo invece nel caso in cui l'incapace non sia stato sottoposto ad alcun tipo di sorveglianza, o comunque non sia rinvenibile alcun altro soggetto civilmente responsabile per il fatto dell'incapace (Cass. civ., sez. III, 05 maggio 2021, n. 11718). È opinione comune che l'art. 2047 c.c. sia una norma destinata a tutelare solamente i terzi che subiscano un danno a causa del fatto di una persona incapace di intendere o di volere, e non già una norma che vincola il sorvegliante a rispondere – per omessa vigilanza – anche quando il soggetto incapace si autolesioni o subisca lesioni ad opera di terzi. In quest'ultimo caso, soltanto se la condotta dell'incapace ha contribuito a cagionare il danno da lui subito il responsabile che deve risarcirlo può eccepire il concorso di colpa del soggetto obbligato alla sorveglianza, ai sensi dell'art. 2047 c.c.; tuttavia, tale eccezione non può essere sollevata qualora il genitore dell'incapace agisca in rappresentanza di questi e non in proprio, perché comunque il danneggiato ha diritto all'intero risarcimento da ciascuno dei corresponsabili in solido (così Cass. civ., sez. III, 24 maggio 1997, n. 4633). In tal senso, e più recentemente, anche Cass. civ., sez. III, 10 febbraio 2005, n. 2704, per la quale il principio di cui all'art. 1227 c.c. della riduzione proporzionale del danno in ragione dell'entità percentuale dell'efficienza causale del soggetto danneggiato, si applica anche quando questi sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, e tale riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l'evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando peraltro esclusa – ove essi avessero avuto sull'incapace un potere di vigilanza – la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro concorso nella causazione per culpa in educando o in vigilando. Ciononostante, per lungo tempo, il sorvegliante è stato chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2043 c.c. degli atti di autolesionismo posti in essere dall'incapace; solo più tardi la giurisprudenza di legittimità è giunta ad affermare che: «nel caso di danno arrecato dall'incapace a se stesso, la responsabilità del sorvegliante [...] va ricondotta non già nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì nell'ambito della responsabilità contrattuale, ai sensi dell'art. 1218 c.c.» (Cass., 18 luglio 2003, n. 11245). Ne consegue che il sorvegliante, limitatamente a questo caso, può essere chiamato a rispondere non già a titolo di illecito aquiliano, bensì per contatto sociale, ossia per un'obbligazione nata da quel fatto fonte di obbligazione ai sensi dell'art. 1173 c.c. Casistica
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