A) I soggetti legittimati
Nella nuova formulazione della norma permangono delle differenze rispetto alla disciplina del disconoscimento di paternità che potrebbero indurre taluno a scorgervi i segni del permanere, sebbene in modo molto limitato, di un favor per la famiglia fondata sul matrimonio.
Il nuovo art. 243-bis c.c. prevede, infatti, che l'azione di disconoscimento di paternità possa essere esercitata solo dal figlio, dal marito e dalla madre; la legittimazione ad impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità permane, invece, in capo a chiunque vi abbia interesse, nel termine di decadenza di 5 anni dall'annotazione del riconoscimento nell'atto di nascita (un termine più lungo rispetto a quello concesso alla madre ed all'autore del riconoscimento).
Nelle due diverse ipotesi il rapporto di filiazione trae origine da situazioni diverse, e cioè, nel primo caso, dalla presunzione di paternità del marito e, nel secondo, da una dichiarazione del soggetto che ha effettuato il riconoscimento, che l'ordinamento impone che sia veridica.
Sulla base di tale presupposto, nel vigore della precedente normativa, la giurisprudenza, sia della Corte Costituzionale che della Corte di Cassazione, aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263, commi 2 e 3, c.c., in relazione agli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., nella parte in cui la norma del codice prevedeva che l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità potesse essere proposta da chiunque vi avesse interesse, nonché nella parte in cui prevedeva che l'azione di cui all'art. 263 c.c. fosse imprescrittibile.
La questione della disparità di trattamento potrebbe in concreto venire posta sia dal punto di vista della limitazione dei soggetti legittimati a proporre l'azione di disconoscimento di paternità che dal punto di vista dell'estensione eccessiva dei soggetti legittimati all'impugnazione del riconoscimento.
Esempi:
Potrebbe essere, ad esempio sollevata, in relazione all'art. 3 Cost., dal padre biologico del figlio nato dalla relazione con una donna coniugata, che non avrebbe in questo caso nessuno strumento per rivendicare la propria paternità, non essendo legittimato ad esercitare l'azione di disconoscimento, tenuto conto che se la donna non fosse stata coniugata ed il figlio fosse stato riconosciuto dal convivente di questa (magari ignaro), il padre biologico sarebbe stato comunque legittimato ad impugnare il riconoscimento.
La giurisprudenza, nel vigore della disciplina previgente ha sempre negato al presunto padre naturale sia la possibilità di intervenire nel giudizio di disconoscimento che di proporre opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza emessa nel giudizio di disconoscimento, asserendo che lo stesso era «portatore di un interesse di mero fatto».
La Suprema Corte e la Corte Costituzionale hanno affermato, nel vigore della vecchia disciplina, che «La determinazione dei soggetti legittimati a proporre l'azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore».
La diversa disciplina, anche nel vigore della nuova normativa che ha unificato lo stato di figlio, viene spiegata con la diversità delle situazioni sulle quali le norme vanno ad incidere.
La famiglia fondata sul matrimonio viene costituita sulla libera scelta di due soggetti di impegnarsi in una relazione che viene disciplinata dall'ordinamento attraverso la previsione di diritti e doveri codificati, ed anche resa pubblica attraverso le pubblicazioni; è proprio sulla base di ciò, infatti, che può operare la presunzione di paternità.
I soggetti che si sposano decidono consapevolmente di fondare una famiglia, che potrà avere diverse vicissitudini, ma tutte tendenzialmente regolate dalla legge, anche in relazione al suo dissolvimento attraverso la separazione ed il divorzio.
La filiazione fuori dal matrimonio può avvenire, invece, nelle più disparate situazioni, anche non caratterizzate dalla stabilità e dal reciproco impegno, del tutto al di fuori dalla volontà di “fondare una famiglia” della quale faccia parte anche la coppia genitoriale. La coppia di fatto, e la regolamentazione dei rapporti dei suoi protagonisti, è una realtà che è rimessa alla volontà della coppia e non alla legge.
È chiaro che, in una vicenda che può assumere le più svariate connotazioni, la presunzione di paternità non potrebbe operare, non essendovi dei presupposti giuridici e sicuri sul piano fattuale alla quale ancorarla.
Chi entrasse in relazione con una donna che avesse anche un'altra relazione potrebbe tranquillamente non saperlo, mentre è molto difficile che ciò possa accadere a chi entra in relazione con una donna sposata. In questo modo si spiega la più intensa tutela per il padre biologico, che può esercitare l'azione di impugnazione del riconoscimento.
Da altro punto di vista, il figlio nato fuori dal matrimonio potrebbe essere danneggiato ad esempio dall'impugnazione del riconoscimento effettuata da un parente alla morte del presunto padre, intervenuta nel termine di cinque anni dall'annotazione del riconoscimento, sulla base di aspettative ereditarie, al contrario del figlio nato in costanza di matrimonio che non si troverebbe esposto a questo genere di azioni.
Il legislatore delegato ha ritenuto che nel bilanciamento fra gli opposti interessi, il diritto del figlio alla stabilità dei rapporti familiari fosse sufficientemente tutelato dalla previsione del termine di 5 anni per proporre l'impugnazione, sul presupposto che il bambino entro tale termine potrebbe avere sì creato dei legami familiari significativi, ma non ancora compiutamente costruito la propria identità sulla base di questi.
Il giudice del caso concreto dovrà però effettuare un bilanciamento degli interessi che vengono in conflitto nelle singole fattispecie.
Nel conflitto tra diritto della personalità del figlio, di rango costituzionale, ed il diritto patrimoniale dei parenti relativo all'eredità, dovrebbe prevalere comunque l'interesse al mantenimento dei legami familiari ed il giudice potrebbe ritenere giustificato il rifiuto a sottoporsi agli esami ematologici, rigettando, pertanto, la domanda perché non provata.
B) Termini per proporre l'azione
L'azione di impugnazione può essere proposta entro un anno dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita da parte degli autori del riconoscimento ed entro cinque anni da parte di tutti gli altri legittimati. È imprescrittibile solo riguardo al figlio (così come ora l'azione di disconoscimento di paternità).
Il termine resta sospeso per i genitori qualora abbiano ignorato l'impotenza del presunto padre, ma non può comunque più essere proposta decorso il termine di 5 anni dall'annotazione del riconoscimento.
La mancata previsione, nel caso di impugnazione del riconoscimento, della sospensione del termine per il presunto padre che fosse lontano al momento della nascita o la ignorasse (prevista per il disconoscimento di paternità) è conseguenza dell'operatività della presunzione di paternità in costanza di matrimonio, mentre per il riconoscimento è necessario un atto di volontà.
La previsione della sospensione in caso di ignoranza dell'adulterio della moglie, prevista per il disconoscimento e non per l'impugnazione del riconoscimento, è conseguenza della presunzione di paternità e del dovere giuridico di fedeltà nascente dal matrimonio.
L'interesse del figlio alla stabilità dei rapporti familiari e dello status viene garantita dalla previsione del termine massimo di 5 anni, che opera anche in tali casi di sospensione.
Un'altra ipotesi di sospensione del termine per la parte interessata a promuovere l'azione deriva dall'applicabilità all'impugnazione del riconoscimento dell'art. 245 c.c. (richiamato dall'art. 263 c.c.), in base al quale «il termine previsto dall'art. 244 c.c.» rimane sospeso per chi si trovi in stato di interdizione o di grave infermità di mente.
Il legislatore delegato ha esteso la sospensione del termine anche a chi, sebbene non interdetto, si trovi in stato di grave infermità di mente che lo renda incapace di attendere ai propri interessi, nel solco già tracciato dalla sentenza della C. cost. n. 322/2011 che aveva dichiarato incostituzionale l'art. 244 c.c..
Tale richiamo pone alcuni problemi interpretativi.
La sentenza della Corte Costituzionale sopra richiamata aveva suscitato qualche critica da parte della dottrina perché lasciava sostanzialmente aperta, in situazioni comunque tutto sommato residuali, senza limiti di tempo, la possibilità di proporre l'azione di disconoscimento, comprimendo oltre misura l'interesse alla certezza degli status ed il diritto del figlio alla propria identità personale.
Se l'intento del legislatore è stato quello di considerare in ogni caso prevalente, oltre il termine dei 5 anni, l'interesse del figlio alla certezza dello status, la norma deve interpretarsi nel senso che oltre tale termine l'azione non può più essere proposta nemmeno dall'incapace, il quale troverebbe comunque adeguata tutela nella possibilità di proporre l'azione attraverso un tutore od un curatore speciale previa autorizzazione del giudice.
Del resto la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 322 del 2011 aveva individuato la ratio dell'allargamento della sospensione ai soggetti in concreto incapaci di intendere e di volere, nella compromissione del diritto di azione cui sarebbe sottoposto il soggetto di fatto incapace che si trovasse nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell'azione e quindi nella possibilità di esperirla validamente e tempestivamente.
Situazione che a ben guardare non differisce dalla ratio sottesa alla sospensione del termine in caso di successiva conoscenza dell'impotenza a generare o dell'adulterio della moglie. Si tratta appunto di ipotesi di mancata conoscenza di uno degli elementi costitutivi dell'azione che sottendono alle ipotesi di sospensione breve, ma non hanno però impedito la previsione legislativa dell'operatività in ogni caso del termine di 5 anni dalla nascita o dall'annotazione del riconoscimento. Oltre tale termine, sul diritto di azione dei soggetti legittimati il legislatore ha ritenuto prevalente l'interesse del figlio.
Circostanza che induce a ritenere che il termine massimo dei 5 anni previsto dal legislatore valga in ogni caso per tutti i legittimati ed in tutti i casi di sospensione previsti dalla legge nei casi in cui il termine sia più breve.