Divorzio giudiziale

05 Dicembre 2025

Il divorzio giudiziale risulta oggi disciplinato nei suoi presupposti e per alcuni limitati effetti ancora dalla legge speciale del 1970, introduttiva dell'istituto nel nostro ordinamento (l. n. 898/1970 e successive modifiche), ma è stato significativamente trasformato dalle nuove regole processuali che hanno introdotto nel sistema un modello unitario per tutti i procedimenti contenziosi relativi alla giustizia familiare e minorile, salve alcune specifiche eccezioni.

Inquadramento

Il divorzio giudiziale risulta oggi disciplinato nei suoi presupposti e per alcuni limitati effetti ancora dalla legge speciale del 1970, introduttiva dell'istituto nel nostro ordinamento (l. n. 898/1970 e successive modifiche), ma è stato significativamente trasformato dalle nuove regole processuali che hanno introdotto nel sistema un modello unitario per tutti i procedimenti contenziosi relativi alla giustizia familiare e minorile, salve alcune specifiche eccezioni. In questo senso va segnalato il d.lgs. n. 149/2022, emanato in attuazione della legge delega (l. n. 206/2021), che ha trasfuso ogni precedente disposizione processuale (anche) relativa al divorzio nel contenitore generale del nuovo Titolo IV-bis («Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie») del Libro II del codice di rito (artt. 473-bis ss. c.p.c.).

Con questa premessa, il riferimento in termini generali al divorzio deve sul piano giuridico tuttora considerarsi indirizzato alle due ipotesi di scioglimento del matrimonio civile (art. 1) e di cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso (art. 2). Ai fini della legge, peraltro, gli effetti dello scioglimento del matrimonio ovvero della cessazione degli effetti civili sono i medesimi (sopravvivendo nel secondo caso unicamente il vincolo religioso), e così pure nella dimensione processuale che qui interessa la disciplina resta la medesima in entrambi i casi.

In evidenza

Per divorzio giudiziale si intende lo scioglimento del matrimonio civile, ovvero la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso, pronunciati dal tribunale nell'ambito di un procedimento contenzioso, regolato dagli artt. 473-bis ss. c.p.c. , nonché, per quanto non abrogato dalla riforma Cartabia, dalle disposizioni della l. n. 898/1970.

Il giudizio di divorzio contenzioso, a seguito della riforma del 2022 - cd. «riforma Cartabia», è oggi disciplinato dalle disposizioni generali contenute negli artt. 473-bis ss. c.p.c., che costituiscono un nucleo comune a tutta l'area della giustizia familiare e minorile (con le sole eccezioni indicate nell'art. 473.bis c.p.c.), alle quali si aggiungono le specifiche disposizioni della sezione II del capo III, dedicata ai procedimenti di separazione, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento dell'unione civile, di regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale relativamente ai figli nati fuori dal matrimonio, nonché alle relative modifiche (artt. 473-bis.47 ss. c.p.c.). Così operando, il legislatore ha di fatto unificato i diversi procedimenti relativi alla giustizia familiare e minorile avanti al tribunale ordinario, al tribunale per i minorenni e al giudice tutelare, salvo che la legge disponga diversamente; così non soltanto rendendo la legge maggiormente intellegibile e chiara, ma altresì velocizzando le procedure, posto che il giudice designato ha il potere di condurre la trattazione e l'istruzione del procedimento individuando se necessario anche corsie preferenziali).

Questo procedimento unitario, benché profondamente rivisto rispetto alla disciplina precedente, ha mantenuto una struttura di tipo bifasico, che prevede una fase introduttiva imperniata su una prima udienza, all'esito della quale è prevista l'adozione di provvedimenti «temporanei e urgenti» e una seconda fase dedicata all'eventuale istruttoria e all'emanazione della sentenza definitiva. Su questa tipica scansione può poi innestarsi anche una terza eventuale e intermedia fase, finalizzata all'emanazione di una sentenza sul solo status (la c.d. sentenza non definitiva), per accelerare la formazione della nuova libertà di stato civile spettante agli ex-coniugi in conseguenza del divorzio.   

Quanto ai profili internazionali, sempre più numerosi nella prassi applicativa, gli stessi, salvo qualche cenno contenuto nella disciplina generale (v. ad es. l'art. 473-bis.11 c.p.c. per quanto riguarda l'eventuale illegittimo trasferimento del minore ai fini della competenza per territorio) sono regolati dalla l. n. 218/1995, dai Regolamenti europei e dalle convenzioni internazionali sul punto.

Elemento soggettivo

Il divorzio giudiziale può essere richiesto esclusivamente da uno dei coniugi e, anche a esito della riforma Cartabia, permane la necessità che il coniuge istante sia assistito da un legale (così come la parte che si costituisce).

Rimane anche l'esigenza di nomina di un curatore speciale quando il convenuto sia persona con disabilità psichica o legalmente incapace (art. 473-bis.14 c.p.c.). Peraltro, è da ammettersi l'iniziativa dell'amministratore di sostegno nella proposizione della domanda di divorzio, ma questa, in quanto espressione piena della volontà manifestata dal soggetto quando era in condizione di piena capacità, secondo un orientamento giurisprudenziale deve essere attentamente vagliata dal giudice tutelare mediante un accertamento positivo della corrispondenza alla volontà del titolare del diritto in tema di scelte fondamentali di vita attinenti all'essenza intima della persona (Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2018, n. 14669; Cass. civ., 14 marzo 2022 n. 8247; Trib. Catania, ord., 15 gennaio 2015).

Elemento oggettivo

L'art. 3 della l. n. 898/1970 elenca i presupposti oggettivi per richiedere il divorzio. Tra questi, fatte salve le cause di c.d. divorzio diretto, statisticamente più rare, i più comuni sono:

- il passaggio in giudicato della sentenza di separazione;

- l'omologazione della separazione consensuale;

- l'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato (art. 6 d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 162/2014);

- l'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile (art. 12 d.l. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 162/2014).

A seguito della riforma Cartabia sono rimasti invariati i tempi intercorrenti tra la separazione e il divorzio - ovvero sei mesi in caso di separazione consensuale e dodici mesi in caso di separazione giudiziale - ma vi è stata una significativa variazione, in quanto oggi tali termini non sono più tali da condizionare la proponibilità stessa della domanda di divorzio, ma unicamente la sua procedibilità. Ciò significa che è oggi possibile proporre la domanda di divorzio - come meglio si dirà appresso - anche già all'interno dello stesso giudizio di separazione, riservandone la trattazione e decisione a un momento successivo allo spirare del termine di legge.

E' poi stato modificato il richiamo al rito, non essendo nello specifico più prevista l'udienza presidenziale nel giudizio contenzioso e l'udienza ex art. 711 c.p.c. nel giudizio consensuale. L'art. 3 della l. n. 898/1970, quindi, così come modificato, prevede che per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni contenziose dovranno ininterrottamente essersi protratte da almeno dodici mesi dalla data dell'udienza di comparizione dei coniugi (oggi udienza ex art. 473-bis.21 c.p.c.); resta invariata la dicitura «sei mesi nel caso di separazione consensuale» con la precisazione che tale termine  decorre dall'udienza fissata ex art. 473-bis.51 c.p.c. avanti il giudice relatore.

Ancora, restano invariate le decorrenze dei sei mesi dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato per parte ovvero dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile (artt. 6 e 12 d.l. n. 132/2014).

È infine opportuno ricordare che la legge specifica che l'eventuale interruzione della separazione, situazione de facto non soggetta a riconoscimento formale, deve sempre essere eccepita nel giudizio di divorzio dalla parte convenuta. In questa prospettiva, peraltro, la mera coabitazione dei coniugi legalmente separati non integra il requisito dell'interruzione della separazione. In altre parole, «la riconciliazione si configura […] come ripristino effettivo e completo della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale, e deve manifestarsi attraverso comportamenti non equivoci incompatibili con lo stato di separazione, tali da dimostrare il superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza» Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2025 n. 1489; Trib. Cagliari, sent. 5 dicembre 2024 n. 2571). La riconciliazione fa cessare gli effetti della precedente separazione personale.

Il procedimento

A modifica della precedente disciplina, la riforma Cartabia ha inserito, fra l'altro, l'art. 473-bis.11 c.p.c. in forza del quale, come criterio generale e assorbente, tutti i procedimenti in cui devono essere assunti provvedimenti a tutela del minore sono devoluti alla competenza del tribunale nel cui circondario il minore ha la residenza abituale. Ciò in conformità ai principi ormai acquisiti in ambito internazionale ed europeo (da ultimo il Regolamento UE n. 1111/2019). Per evitare strumentalizzazioni legate ai fenomeni di forum shopping, la norma conferma la competenza del tribunale del luogo di residenza abituale anche in caso di trasferimento non autorizzato, se non è decorso più di un anno, e ciò sempre in aderenza alla normativa sovranazionale (art. 9 Regolamento UE 1111/2019 e art. 7 Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996, ratificata con l. 18 giugno 2015, n. 101). In assenza di figli minori, invece, si applicano tendenzialmente i criteri generali di cui agli artt. 18 ss. c.p.c.

Per quanto riguarda specificamente i procedimenti di divorzio giudiziale (nonché separazione personale, scioglimento dell'unione civile, modifica delle relative condizioni), l'art. 473-bis.47 c.p.c. prevede sempre come criterio principale, in caso di presenza di figli minori, quello della residenza abituale degli stessi rimandando all'art. 473-bis.11 c.p.c. In mancanza di figli minori, è competente il tribunale del luogo di residenza del convenuto (criterio che, prima della riforma, doveva invece considerarsi generale a seguito di un intervento del Giudice delle Leggi). Nel caso di irreperibilità o residenza all'estero del convenuto, è competente il tribunale di residenza dell'attore; se anche l'attore risiede all'estero è competente qualunque tribunale della Repubblica.

La riforma ha abrogato sia l'art. 708 c.p.c. che gli artt. 5 e 8 della l. n. 898/1970, disciplinando interamente (come già precisato in modo uniforme anche per altri procedimenti) il rito, e così, per quanto attiene alla fase introduttive, il contenuto del ricorso, lo svolgimento della prima udienza e i conseguenti provvedimenti del giudice.

Quanto al contenuto del ricorso, l'art. 473-bis.12 c.p.c. ha individuato il contenuto della domanda secondo i criteri generali, ma introducendo alcune peculiarità proprie per i procedimenti di famiglia:

1) l'indicazione dell'esistenza di altri procedimenti pendenti aventi a oggetto, in tutto o in parte, le medesime domande o domande connesse al giudizio che si sta avviando;

2) in casi di domande di contributo economico o comunque in presenza di figli minori, la produzione di documenti dettagliati e completi sulla situazione economico-patrimoniale delle parti (dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, la documentazione attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati, nonché di quote sociali, nonché gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni);

3) nei procedimenti relativi ai minori, l'allegazione di un c.d. «piano genitoriale» che consiste nella esposizione degli elementi principali che attengono la crescita e la cura del minore.

L'art. 473-bis.14 c.p.c. disciplina le attività successive al deposito del ricorso, per la corretta instaurazione del contraddittorio e la regolare fissazione della prima udienza. E' dunque previsto che il presidente con decreto nomini il giudice relatore al quale delegare la trattazione del procedimento e fissi l'udienza, avvisi e renda edotto il convenuto dei termini decadenziali per le sue difese, della necessità di munirsi di un difensore tecnico, potendo godere del patrocinio a spese dello Stato, e della necessità di costituirsi entro trenta giorni anteriori l'udienza. Tra il giorno del deposito del ricorso e l'udienza non debbono intercorrere più di novanta giorni. Il presidente informa, inoltre, le parti della possibilità di avvalersi della mediazione familiare.

L'art. 473-bis.16 c.p.c. regola poi le modalità di costituzione del convenuto, mediante il deposito della comparsa di costituzione entro il termine assegnato dal presidente, comparsa in cui, a pena di decadenza, devono essere formulate le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio e le domande riconvenzionali.

Le norme successive, e in particolare l'art. 473-bis.17 c.p.c., dettano la nuova procedura che diverge significativamente dalla precedente aderendo al principio della esplicitazione del thema decidendum e probandum interamente nella fase introduttiva, in atti tipizzati da depositarsi antecedentemente alla prima udienza che si terrà davanti al giudice delegato.

L'art. 473-bis.17 c.p.c. regola quindi le ulteriori difese delle parti ad esito degli atti introduttivi nell'ottica sempre della celerità del giudizio. E così specificatamente:

- entro 20 giorni dalla data dell'udienza, il ricorrente potrà depositare in atti memoria per proporre, a pena di decadenza, le domande ed eccezioni non rilevabili d'ufficio conseguenti alla domanda riconvenzionale o alle eccezioni del convenuto, modificare e precisare le domande e conclusioni e indicare mezzi di prova e produrre documenti;

- entro 10 giorni dalla data di udienza, il convenuto potrà depositare in atti memoria per precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni, a pena di decadenza, formulare eccezioni non rilevabili d'ufficio che siano conseguenze della domanda riconvenzionale o delle difese dell'attore contenute nella memoria, indicare mezzi di prova e produrre documenti anche a prova contraria;

- entro 5 giorni prima della data di udienza, il ricorrente potrà depositare in atti una ultima memoria di replica alle prove dedotte dal convenuto.

Il tutto nell'ottica di definire e concludere il contraddittorio tra le parti in ordine a domande ed eccezioni nonché alle prove dedotte prova prima dell'udienza (il principio direttivo avrebbe, in realtà, imposto la formulazione delle prove con gli atti introduttivi; tuttavia, in linea con quanto previsto per il rito ordinario, si è consentita una maggiore gradualità estesa agli atti difensivi prima della discussione avanti al giudice).

All'udienza, quindi, il giudice potrà trattare le difese delle parti, senza ulteriori rinvii.

Come espressamente previsto dall'art. 473-bis.19 c.p.c., le preclusioni in ordine a domande ed eccezioni riservate alla parte riguardano i diritti disponibili, mentre le parti possono sempre introdurre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all'affidamento e al manteniamo dei figli minori e, più in generale, domande nuove se si verificano mutamenti nelle circostanze o a seguito di nuovi accertamenti istruttori.

La prima udienza ricalca per diversi profili quella che era l'udienza presidenziale ante riforma Cartabia. Il giudice deve innanzi tutto compiere le verifiche preliminari circa la corretta instaurazione del contraddittorio; le parti (nel caso del divorzio i coniugi) devono comparire personalmente salvo gravi e comprovati motivi (e la mancata presenza ingiustificata è considerata comportamento valutabile come argomento di prova e ai fini della ripartizione delle spese di lite), e il giudice le sente per tentare la conciliazione. Se questa riesce, il giudice assume i provvedimenti temporanei e urgenti che si rendono necessari e rimette la causa in decisione per la ratifica dell'accordo; se invece la conciliazione non riesce, il giudice, sentite le parti e i rispettivi difensori e assunte  ove occorra sommarie informazioni, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene opportuni nell'interesse dei coniugi (nei limiti delle domande da queste proposte), nonché dei figli (così l'art. 473-bis.22 c.p.c., che ricalca nella sostanza la precedente disciplina).

L'art. 473-bis.28 c.p.c. disciplina la fase decisoria del giudizio. Il giudice delegato, esaurita l'istruzione, fissa avanti a sé l'udienza di remissione della causa in decisione, si riserva di riferire al collegio e la sentenza è depositata nei successivi 60 giorni. Prima di tale udienza – ed è questo un elemento di novità rispetto alla normativa precedente – sono assegnati i termini per la precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Infine, l'art. 473-bis.29 c.p.c. attribuisce alle parti in ogni tempo la facoltà di richiedere una modifica dei provvedimenti assunti a tutela dei minori e relativamente ai contributi economici, qualora sopravvengano giustificati motivi. In tal caso il procedimento di modifica non si svolgerà in camera di consiglio, come previsto precedentemente, ma secondo le forme sopra indicate.

Un cenno, infine, a due aspetti affrontati nella riforma Cartabia attinenti i provvedimenti indifferibili (art. 473-bis.15 c.p.c.) e l'ascolto del minore.

In caso di pregiudizio imminente e irreparabile o quando la convocazione delle parti potrebbe pregiudicare l'attuazione dei provvedimenti, il presidente o il giudice delegato può emettere provvedimenti provvisori, assunte quando occorre sommarie informazioni, prima della formulazione dei mezzi di prova. Ciò salvo poi fissare udienza, nei quindici giorni successivi, per riesaminare la situazione e confermare, modificare o revocare le misure adottate. Una misura di urgenza sicuramente proponibile nella fase iniziale del giudizio, ma che non vi sono preclusioni a che sia emessa anche nel prosieguo sempre con successiva udienza di conferma.

Quanto all'ascolto del minore, due brevi considerazioni sull'impostazione e le novità apportate dalla riforma Cartabia. L'istituto dell'ascolto è posto nell'ambito dei poteri officiosi del giudice (art. 473-bis.2 c.p.c.) esperibile in ogni momento del processo secondo criteri di opportunità. Inoltre, è stato riportato sul piano processuale il principio già delineato dall'art. 315-bis, comma 3, c.c. rendendo maggiormente cogente quanto già delineato dalla Suprema Corte di cassazione: la linea che emerge è quella di un doveroso ascolto diretto del minore da parte del giudice salve le previsioni di cui all'art. 473-bis.4, comma 2, c.p.c., che prevedono i casi in cui l'ascolto possa o debba essere omesso o, ancora, sia da svolgersi in via indiretta, per esempio, attraverso una consulenza tecnica.

Rapporto con la separazione giudiziale e consensuale

Come già accennato, ai sensi dell'art. 3 l. n. 898/1970, la previa separazione legale protrattasi per almeno sei mesi/un anno (a seconda dei casi, come sopra esposto) resta presupposto indefettibile per consentire la procedibilità del divorzio, ma non più per la sola ammissibilità della domanda.

Dal punto di vista processuale, invero, a seguito della riforma del 2022 è possibile proporre contestualmente la domanda di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso (art. 473-bis.49 c.p.c.), nonché di separazione consensuale e di divorzio congiunto (e ciò per via dell'interpretazione estensiva operata da Cass. civ., sez. I, sent., 16 ottobre 2023, n. 28727). Tale possibilità è concessa non soltanto al ricorrente, ma anche al coniuge convenuto, purché la domanda di divorzio sia formulata all'interno degli atti introduttivi.

In concreto, separazione e divorzio rimangono due istituti distinti e in vincolata successione temporale, ma la possibilità di proporre all'interno di un unico giudizio entrambe le domande ha decisamente semplificato la procedura e in potenza azzera (salvi i casi di coniugi che non hanno entrambi intenzione di procedere al divorzio in rapida sequenza) i casi di contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio tra le medesime parti, risolvendo alla radice i notevoli problemi precedentemente esistenti (si ricorda per esempio la discussione sul cosiddetto effetto sostitutivo dell'ordinanza presidenziale nel divorzio rispetto ai provvedimenti adottati dal giudice della separazione).

Importante: anche a prescindere dalla volontà delle parti, il secondo comma dell'art. 473-bis.49 c.p.c. stabilisce comunque che ove vi sia pendenza contemporanea di un giudizio di separazione e di un giudizio di divorzio, pendenti sia avanti lo stesso giudice sia avanti giudici diversi, i relativi procedimenti dovranno comunque essere riuniti.

Criteri di liquidazione dell'assegno divorzile

L'assegno divorzile è disciplinato dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 che elenca una serie di criteri che il tribunale deve prendere in considerazione al fine del suo riconoscimento e della sua quantificazione. Benché tali criteri siano rimasti formalmente immutati sin dall'approvazione della legge sul divorzio nel 1970, essi da sempre sono stato oggetto di riflessione e di (anche diverse) interpretazioni da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito.

Nel merito, la giurisprudenza prevalente ha sempre distinto i criteri rilevanti per la determinazione dell'assegno di divorzio rispetto a quelli inerenti la separazione, essendo per esempio irrilevante che, in sede di separazione consensuale, non sia stato attribuito alcun assegno o che una delle parti si sia dichiarata economicamente autosufficiente. Tale principio, peraltro è assolutamente coerente con la diversità esistente tra la natura, e quindi tra i presupposti dei due istituti, sensibilmente diversi quanto:

- alla funzione, che per l'assegno divorzile è quella di un contributo economico post-coniugale ispirato ai valori di solidarietà post matrimoniale;

- ai criteri di quantificazione, per il divorzio indicati dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 ma non applicabili all'assegno di separazione (cfr. infra);

- alla decorrenza, che coincide con il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, salvo deroga facoltativa da parte del giudice in caso di pregressa sentenza non definitiva.

In particolare, la Suprema Corte ha affermato che la determinazione dell'assegno divorzile, è indipendente da quanto statuito in sede di separazione per il mantenimento del coniuge economicamente più debole, essendo le rispettive pronunce giudiziali fondate su diverse situazioni sostanziali, ed essendo differenti per natura, struttura e finalità i rispettivi trattamenti (Cass. 5140/2011).

Importante: Occorre tenere presente che al coniuge cui sia stata addebitata la separazione non spetta comunque alcun assegno, né di separazione, né di divorzio. Allo stesso modo, in caso di corresponsione una tantum exart. 5, n. 8, l. div, l'ex coniuge che abbia beneficiato di tale corresponsione non potrà avanzare alcuna successiva domanda di contenuto economico.

In relazione all'assegno di divorzio, l'attività interpretativa si è intensificata negli ultimi anni, ovvero da quando anche la giurisprudenza di legittimità ha preso atto dei profondi mutamenti intervenuti nella realtà sociale italiana e, in particolare, del progressivo abbandono del modello tradizionale del «marito lavoratore» e della «moglie casalinga» che aveva evidentemente permeato la ratio della legge sul divorzio nel 1970 – in senso protettivo per il coniuge economicamente più debole – e che oggi non è più attuale. Come spesso accade, in assenza di una riforma legislativa, è la giurisprudenza a cercare di adeguare quantomeno l'interpretazione delle norme esistenti.

E così, solo per guardare agli anni più recenti, la Corte di cassazione, con la sent. n. 11504/2017, ha attribuito all'assegno divorzile una funzione esclusivamente assistenziale, ritenendo che il diritto a percepire tale assegno sia da escludere nel caso di «autosufficienza economica» del coniuge richiedente, indipendentemente da ogni valutazione relativa al tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio, in ciò differenziandosi dal consolidato orientamento precedente. Tale orientamento è stato anche aspramente criticato, e ha così condotto a una definitiva presa di posizione, da parte di Cass. civ., sez. un., n. 18287/2018, che ha interamente rivisitato e affinato l'orientamento «moderno» in relazione all'assegno di divorzio, cercando di coniugare e conciliare le molteplici funzioni che allo stesso competono.

In sintesi, si può oggi affermare che l'assegno di divorzio – che ha una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa – richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte dall'art. 5, comma 6, l. div. («tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio»), i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell'assegno (Cass. civ., sez. I, 24 giugno 2025, n. 16917).

Importante: è stato anche precisato che i criteri attributivi e determinativi dell'assegno divorzile non dipendono dal tenore di vita godibile durante il matrimonio, posto che lo squilibrio economico patrimoniale tra i coniugi opera unicamente come precondizione fattuale, il cui accertamento è necessario per l'applicazione dei parametri sopra ricordati. La rilevanza dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge richiedente va accertata considerando che l'assegno è finalizzato a garantire un livello reddituale parametrato alle pregresse dinamiche familiari ed è perciò necessariamente collegato, secondo la composita declinazione delle sue tre componenti (assistenziale, perequativa e compensativa), alla storia coniugale e familiare (Cass. civ., sez. I, ord., 24 febbraio 2021, n. 5055).

Ciò precisato, e quanto alla funzione perequativo-compensativa, l'assegno conduce al riconoscimento di un contributo, nella constatata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte durante il matrimonio, la cui prova in giudizio spetta al richiedente (Cass. civ., sez. I, ord., 31 marzo 2023, n. 9144; Cass. civ., sez. I, sent., 28 luglio 2022, n. 23583; Cass. civ., sez. I, ord., 3 dicembre 2021, n. 38362), avendo in proposito le Sezioni Unite precisato che «l'autoresponsabilità deve... percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all'inizio del matrimonio (o dell'unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno, alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l'autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l'autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un'importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole» (Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287); pertanto occorre effettuare un rigoroso accertamento per verificare se lo squilibrio, presente al momento del divorzio, fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti è l'effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari, il che giustifica il riconoscimento di un assegno «perequativo», cioè di un assegno tendente a colmare tale squilibrio reddituale e a dare ristoro, in funzione riequilibratrice, al contributo dato dall'ex coniuge all'organizzazione della vita familiare, senza utilizzare il parametro, ormai superato, del tenore di vita durante la convivenza matrimoniale. In assenza della prova di questo nesso causale, l'assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza strettamente assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell'assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un'esistenza dignitosa e non può procurarseli per ragioni oggettive (Cass. civ., sez. I, sent., 19 dicembre 2023, n.  35434).

Importante: L'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescinde ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale, facendo, dunque, venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno di mantenimento a carico dell'altro coniuge. A tal fine, non è necessario che vi sia coabitazione tra i due nuovi partner, come precisato da Cass. civ., sez. I, 19 aprile 2023 n. 10451: «L'evoluzione dei costumi e delle abitudini di vita comporta la necessità, sempre più di frequente, che le persone, pur legate da stabili legami affettivi, abbiano i loro centri di interesse esistenziali e lavorativi in luoghi tra loro non vicini, anche considerata la maggiore emancipazione economica e lavorativa raggiunta dalla donna. Sulla non indispensabilità della coabitazione ai fini della individuazione di una famiglia di fatto si è espressa la Corte EDU (sentenza 21 luglio 2015, Oliari contro Italia, nell'ambito di un ragionamento volto ad estendere alle coppie omosessuali la nozione di vita familiare, ove si legge “la Corte ha già accettato che l'esistenza di un'unione stabile è indipendente dalla convivenza”».

Garanzie

L'art. 473-bis.36 c.p.c. prevede che il tribunale possa imporre all'obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli si sottragga al pagamento (tra l'altro) dell'assegno di divorzio.

Tale pericolo va valutato tenendo conto del comportamento, familiare e non, del coniuge obbligato. La conseguenza nel caso di mancato adempimento dell'obbligo di prestare idonea garanzia sarà l'applicazione della pena prevista dall'art. 570 c.p. e l'attuazione di garanzie più afflittive sul patrimonio del debitore (art. 473-bis.39 c.p.c.). Lo scopo principale dei rimedi predisposti dall'ordinamento è quello di garantire all'avente diritto la disponibilità tempestiva delle somme necessarie al suo mantenimento, evitando così che l'inadempimento costituisca un grave pregiudizio per le esigenze di vita del coniuge.

L'art. 473-bis.36 c.p.c. prevede altresì che i provvedimenti, anche se temporanei, in materia di contributo economico in favore della prole o delle parti sono immediatamente esecutivi e costituiscono titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale ai sensi dell'art. 2818 c.c.: essa potrà essere iscritta sui beni di proprietà del coniuge obbligato pur se le proprietà siano state acquisite successivamente alla pronuncia. Qualora non vi sia più il pericolo dell'inadempimento, la parte interessata potrà chiedere al giudice la cancellazione dell'ipoteca.

A norma dell'ultimo comma dell'art. 473-bis.36 c.p.c., su richiesta dell'avente diritto, a garanzia dell'adempimento delle prestazioni economiche, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato al versamento dell'assegno di divorzio: oggetto del sequestro può essere qualsiasi bene di proprietà del debitore, tanto mobile (denaro, crediti, quote societarie) quanto immobile. Il sequestro divorzile è destinato a protrarsi a tempo indeterminato, fatta salva la revoca o la modifica dei provvedimenti assunti per giustificati motivi come previsto dal comma quarto del medesimo articolo. Tale tipologia di sequestro ha natura meramente coercitiva e non cautelare, in ragione del suo scopo ultimo, ovvero quello di provocare l'adempimento. 

L'art. 473-bis.37 c.p.c. prevede inoltre la possibilità di richiedere direttamente il pagamento da parte del terzo che sia tenuto a corrispondere periodicamente somme di denaro all'obbligato (es. datore di lavoro e enti pensionistici), ove questo sia inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni. La procedura prevede la messa in mora tramite raccomandata al debitore, la notifica del provvedimento al terzo, comunicazione al debitore.

Profili ereditari

La pronuncia di divorzio fa venir meno lo status di coniuge, cessano conseguentemente tutti i diritti che la legge riconnette allo stesso. L'art. 9 l. div. prevede che in caso di morte dell'ex coniuge, il coniuge divorziato, poiché è definitivamente venuto meno il vincolo matrimoniale, non avrà alcun diritto sull'eredità. Egli potrà solo riceverne una quota se è titolare dell'assegno divorzile ex art. 9-bis l. div.

Tale diritto si giustifica a seguito della cessazione della corresponsione dell'assegno di divorzio per morte dell'obbligato, anche se nasce sulla base di presupposti e condizioni diverse da quelle su cui si fonda l'assegno divorzile: l'assegno a carico dell'eredità va corrisposto in relazione alle sostanze ereditarie e la sua determinazione opera in relazione all'ammontare dell'assegno di divorzio, ma anche all'entità del bisogno e alla misura dell'eventuale attribuzione della pensione di reversibilità, nonché al numero, qualità, condizioni economiche degli eredi (Cass. civ., sez. I, 31 luglio 2023, n. 23136; Trib. Palermo, sent. 3 aprile 2025 n. 1481).

Pensione di reversibilità

In caso di morte dell'ex coniuge titolare di pensione, l'ex coniuge superstite ha diritto a percepire la pensione di reversibilità di questi a condizione che: a) non sia passato a nuove nozze; b) sia titolare di un assegno divorzile ex art. 5; c) il rapporto pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio (art. 9, comma 2, l. div.). Nel caso in cui il de cuius si sia risposato, la quota della pensione di reversibilità spettante agli aventi diritto sarà stabilita dal tribunale tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Tuttavia, la Corte costituzionale con sentenza n. 419/1999 ha stabilito che il criterio della durata temporale non può essere l'unico da seguire per la ripartizione tra il coniuge superstite e l'ex coniuge, ma vanno presi in considerazione altri elementi quali l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, le rispettive condizioni economiche e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (cfr. anche Cass. civ., sez. I, 15 aprile 2025, n. 9879).

Diritto ad una quota del TFR

A norma dell'art. 12 bis l. div. il coniuge divorziato, che non ha contratto un nuovo matrimonio e che sia titolare dell'assegno di divorzio, ha diritto a una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge alla cessazione del rapporto di lavoro. La percentuale è pari al 40% dell'indennità totale, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro ha coinciso con il matrimonio. Il diritto sorge anche se il trattamento spettante all'altro coniuge sia maturato successivamente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio. È possibile presentare domanda di liquidazione di quota del TFR contestualmente alla domanda di divorzio e relativo assegno. In questo caso si formerà un giudicato simultaneo su entrambe le domande (Cfr. Trib. Venezia, sent. 8 febbraio 2024 n. 414).

Qualora il diritto a percepire il TFR maturi per decesso dell'ex coniuge obbligato al versamento dell'assegno, l'obbligo di corrispondere la percentuale di TFR grava sugli eredi; graverà invece sul coniuge superstite se egli era passato a nuove nozze (Cfr. Cass. n. 4867/2006; Corte App. Bologna, sent. 17 ottobre 2024 n. 25; Trib. Bari, 8 febbraio 2024 n. 610).

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