Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 29 - Azione di annullamentoAzione di annullamento
1. L'azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni. Note operative
InquadramentoIl Capo II del titolo III del Libro I è relativo alle azioni di cognizione. L'impostazione della disciplina delle azioni nel Codice del processo amministrativo è sensibilmente diversa da quella che era stata proposta dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, che aveva proposto l'inserimento di un Capo relativo alle «Azioni» che includeva, oltre alle espunte azioni di accertamento e di adempimento, anche due disposizioni sulla «Azione cautelare» e sulle «Azioni esecutive». Pur essendo stata mantenuta la scelta di inserire nel codice la disciplina delle azioni, il contenuto del Capo II è stato non solo limitato alle azioni di cognizione, ma sono state espunte le azioni di accertamento e di adempimento (v. sub artt. 30, 31 e 34). La Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato aveva proposto una disciplina che ricalcava la tipologia delle azioni esperibili nel processo civile, con le peculiarità necessarie a mantenere intatta la specificità del processo amministrativo. È noto come fino ad oggi il processo amministrativo sia stato incentrato sulla tradizionale azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, che costituisce una azione dal carattere costitutivo, pur avendo il legislatore – già prima della entrata in vigore del Codice — arricchito la tutela del cittadino nei confronti dell'amministrazione con nuovi strumenti. L'azione di annullamento resta centrale nel processo amministrativo, anche se è oggi accompagnata da una serie di altre azioni esperibili. La previsione di un termine di decadenza di sessanta giorni per proporre l'azione di annullamento è contenuta nell'art. 29, che riguarda tale azione e non nell'art. 41 che riguarda la notificazione del ricorso, con cui possono essere introdotte diverse azioni, assoggettate a termini diversi. La centralità dell'azione di annullamento nel processo amministrativo e la disciplina delle altre azioniIl processo amministrativo si è per lungo tempo identificato con la tradizionale azione di annullamento, anche se, già prima dell'entrata in vigore del Codice, erano stati introdotti accanto ad essa ulteriori strumenti di tutela: — il ricorso avverso il silenzio, con il conseguente dibattito circa l'oggetto del giudizio, se limitato all'obbligo di provvedere o se esteso alla fondatezza della pretesa (come previsto dall'attuale formulazione dell' art. 2, comma 8, della l. n. 241/1990 senza peraltro chiarire in quali casi il giudice può spingersi ad accertare la fondatezza dell'istanza restata priva di risposta); — la tutela risarcitoria, originariamente attribuita al giudice amministrativo nelle sole materie di giurisdizione esclusiva e poi estesa all'intero ambito della sua giurisdizione (anche di legittimità); — le altre azioni di condanna al pagamento di somme di denaro, esperibili nelle materie di giurisdizione esclusiva; — l'azione di accertamento, ritenuta esperibile solo in presenza di posizioni di diritto soggettivo e recentemente estesa anche agli interessi legittimi da alcune aperture della giurisprudenza, che però non possono ancora ritenersi consolidate. In presenza di tale quadro, già caratterizzato da una tutela ben più ampia della mera azione di annullamento, il legislatore in sede di delega per l'adozione del Codice aveva inteso chiaramente ampliare la tipologie di azioni esperibili, facendo riferimento al risultato che con le stesse può essere conseguito («prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa»). In attuazione di tale punto della delega, è stata effettuata la scelta di inserire nel codice del processo amministrativo anche la disciplina delle azioni, pur non essendo questa presente nel codice di procedura civile. Le norme proposte dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato erano state redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle azioni di cognizione (costitutive, di accertamento e di condanna) e senza trascurare le specificità dei giudizi amministrativi, dando autonomo rilievo ad azioni che pur rientrando in una delle tre tipologie presentano tratti peculiari (azione avverso il silenzio rispetto all'azione di accertamento; azione di adempimento rispetto alla azione di condanna). Non ci si era limitati a codificare il vigente quadro normativo, ma si era cercato di ampliare la tutela del cittadino nei confronti dell'esercizio o del mancato esercizio del potere, mettendogli a disposizione una più ampia gamma di strumenti idonei a soddisfare le pretese azionate. L'ampliamento delle azioni esperibili era stato accompagnato da precise disposizioni dirette a garantire il rispetto del principio di separazione dei poteri, in modo da evitare di rimettere al giudice scelte di merito, riservate all'autorità amministrativa, ma sindacabili in modo pieno ed effettivo dal giudice. Nel testo proposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato l'azione di annullamento restava centrale, ma era indicativo il fatto che il Capo non si aprisse con la disciplina dell'azione di annullamento, ma con quella della (ora eliminata) azione di accertamento. Il Governo ha, invece, inserito come prima norma del Capo l'azione di annullamento a conferma della sua centralità nel processo amministrativo. L'annullabilità dell'atto come ordinaria forma di invalidità nel diritto amministrativoLa invalidità di un atto è, in via generale, la difformità di tale atto dal diritto e determina la sanzione della inefficacia definitiva dello stesso; tale sanzione può essere automatica, come nel caso della nullità, che opera di diritto o necessita di una apposita applicazione giudiziale, come nel caso dell'annullabilità, che non si determina automaticamente ma deriva da una decisione del giudice amministrativo su sollecitazione del privato ricorrente. Le due forme di invalidità costituiscono entrambe una qualificazione negativa dell'atto, determinata dall'inosservanza delle norme giuridiche, con la differenza che l'atto nullo è, in quanto invalido, inefficace di diritto, e viene considerato tamquam non esset, mentre l'atto annullabile è comunque idoneo a produrre i suoi effetti che permangono nell'ordinamento giuridico fino a quando e solo se, su istanza di parte, non venga dichiarata, in via giudiziale, l'illegittimità dell'atto stesso (nel caso dell'attività amministrativa, l'atto non venga rimosso in via di autotutela dalla stessa amministrazione). Con riguardo al regime delle invalidità nel diritto amministrativo, il legislatore si era limitato a prevedere che il giudice amministrativo decidesse sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa ( art. 26, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato ed art. 2 l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tar). Con tali disposizioni di contenuto solo processuale era stato comunque codificato il principio, secondo cui la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale. Per la nullità del provvedimento amministrativo e l'azione di accertamento della nullità vedi il commento all'art. 31. Nel diritto civile, la regola per violazione a norme imperative è la nullità, mentre il rimedio dell'annullabilità è applicabile soltanto in presenza di una espressa previsione legislativa ovvero qualora la norma stessa è posta a presidio di interessi particolari e non generali, come in materia di delibere assembleari, di matrimonio, di testamento. La ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell'atto amministrativo e vizi del negozio è chiara: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento, come si evince chiaramente dal termine di decadenza, fissato per la contestazione dei provvedimenti amministrativi, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d'ufficio da parte del giudice. Se così non fosse, l'azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione. Esigenze di rilievo pubblicistico impongono invece che, decorso il termine di decadenza, il provvedimento amministrativo, giusto o sbagliato che sia, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salva naturalmente la possibilità per la Pubblica Amministrazione di esercitare l'autotutela nei limiti previsti anche per tale potere, che infatti sono stati temporalmente ristretti ad «un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20» (modifica introdotta dall'articolo 6, comma 1, lett. d), n. 1) della l. 7 agosto 2015, n. 124). Mentre l'atto nullo è inefficace di diritto, il provvedimento annullabile è provvisoriamente efficace, salvo a perdere la sua efficacia al momento dell'annullamento. Nel diritto amministrativo l'annullabilità costituisce, quindi, una figura generale, collegata ai tre tradizionali vizi di illegittimità dell'atto amministrativo che sono: a) violazione di legge; b) eccesso di potere; c) incompetenza. Il vizio di violazione di legge sussiste quando viene violata una norma di azione generale e astratta, indipendentemente dal fatto che essa sia contenuta in una legge in senso formale o in un regolamento, in uno statuto o in altra fonte. L’incompetenza è una particolare violazione di legge con specifico riferimento ai criteri legali che definiscono le competenze degli organi ammnistrativi (la distribuzione delle funzioni amministrative tra le diverse p.a.); si tratta di incompetenza relativa, perché come già detto in precedenza l’incompetenza assoluta integra una fattispecie di nullità. L’eccesso di potere è il profilo patologico del (cattivo) uso della discrezionalità, rinvenibile attraverso le c.d. figure sintomatiche, che costituiscono appunto il sintomo dell’uso non corretto del potere. È stato evidenziato che tale particolare annullabilità si differenzia da quella civilistica. perché non solo è previsto un breve termine di decadenza in luogo della prescrizione breve, ma il vizio non si può fare valere in via di eccezione, quando la prescrizione (o la decadenza) sia scaduta. Altra differenza con il diritto civile è costituita dai vizi che attengono al momento formativo dell'atto: nel diritto amministrativo tale fase è procedimentalizzata per legge e le figure sintomatiche dell'eccesso di potere attengono all'erronea rappresentazione della realtà fattuale ed anche i vizi formali o quelli procedimentali assumono maggiore rilievo perché privano il cittadino della possibilità di verificare se il contenuto precettivo del provvedimento si è formato correttamente. I tre vizi di legittimitàLa codificazione aveva così riguardato solo i tre tradizionali vizi di legittimità, che determinano l'annullabilità dell'atto amministrativo: violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza., L'atto illegittimo è idoneo a produrre effetti fino a che non intervenga una pronuncia giurisdizionale che ne determina la caducazione retroattiva o fino a che sono sia annullato d'ufficio dalla stessa amministrazione nell'ambito dei propri poteri di autotutela. Le norme che disciplinano l'azione amministrativa e, in particolare, il provvedimento amministrativo sono tutte norme imperative giacché trovano fondamento nei principi costituzionali di buon andamento e di efficienza dell'azione amministrativa di cui all' art. 97 Cost. e non sono disponibili per la Pubblica Amministrazione. Tuttavia, ogni violazione di legge (anche di disposizioni imperative) costituisce vizio di legittimità, e quindi causa di annullabilità, dell'atto amministrativo; pertanto, la violazione di norma imperativa che nel diritto civile provoca nullità, nel diritto amministrativo si qualifica come vizio di violazione di legge, che determina invece l'annullabilità dell'atto. È stato correttamente sottolineato come la ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell'atto amministrativo e vizi del negozio sia chiara: nel diritto amministrativo l'esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento amministrativo. Nel nostro ordinamento, come si evince chiaramente dal principio di decadenza, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d'ufficio da parte del giudice. Se così non fosse, l'azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione. Esigenze di rilievo pubblicistico impongono invece che, decorso il termine di decadenza, il provvedimento amministrativo, giusto o sbagliato che sia, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salva naturalmente la possibilità per la Pubblica Amministrazione di esercitare l'autotutela nei limiti previsti anche per tale potere. Nel 2005, in sede di riforma delle legge sul procedimento amministrativo, tale impostazione ha rischiato di essere in parte stravolta. L'art. 21-octies nella prima formulazione del disegno di riforma prevedeva al comma 1 che «è annullabile il provvedimento amministrativo contrario a norme imperative o viziato da eccesso di potere». La restrizione del tradizionale vizio della violazione di legge alla violazione di norme imperative da un lato confermava l'autonomia del diritto amministrativo rispetto al diritto civile, ma dall'altro lato comportava la necessità di distinguere tra norme imperative e norme dispositive, introducendo così un grave problema interpretativo. Fortunatamente, oggi tale problema non si pone, in quanto la definitiva versione della norma non fa che confermare il tradizionale e consolidato regime di annullabilità del provvedimento amministrativo, fondato sui tre vizi di legittimità: violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza. Le novità introdotte in sede di riforma del 2005 sono invece costituite dalla codificazione dell'istituto della nullità del provvedimento amministrativo (art. 21-septies; v. il commento all'art. 31, comma 4) e dall'introduzione dei c.d. vizi non invalidanti del provvedimento: alcune illegittimità formali o procedimentali, che possono non condurre all'annullamento dell'atto ai sensi dell' art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990. In definitiva, nel diritto amministrativo l ' annullabilità costituisce una figura generale, collegata ai tre tradizionali vizi di illegittimità dell ' atto amministrativo (violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza). È stato evidenziato che tale particolare annullabilità si differenzia da quella civilistica. perché non solo è previsto un breve termine di decadenza in luogo della prescrizione breve, ma il vizio non si può fare valere in via di eccezione, quando la prescrizione (o la decadenza) sia scaduta. Il regime di invalidità degli atti amministrativi si accosta, più significativamente, al particolare regime delle invalidità delle delibere assembleari (delle società di capitali e del condominio) che si evince dagli artt. 2377-2379 c.c., laddove la regola generale prevista è la annullabilità, la nullità è la eccezione (la nullità è limitata dall' art. 2379 c.c. ai casi di impossibilità o illiceità dell'oggetto). Tale accostamento deriva dal fatto che in entrambi i casi si è in presenza di esercizio del potere, privato per le delibere assembleari e pubblico per l'azione amministrativa e dalla esigenza di certezza delle situazioni giuridiche regolate dall'esercizio del potere, realizzata dal legislatore attraverso la previsione della sanzione dell'annullabilità e di un breve termine di decadenza per contestare tale esercizio (applicabile anche alle delibere assembleari, tanto che in dottrina si è fatto riferimento agli «interessi legittimi di diritto privato»). Il vizio dell'eccesso di potere con le sue figure sintomatiche è quello che ha consentito al giudice amministrativo di passare da un controllo meramente estrinseco sull'azione amministrativa ad un controllo intrinseco, esteso alla verifica della correttezza della modalità di esercizio della discrezionalità, anche tecnica (v. oltre). Segue. Il contrasto con la Costituzione: l'atto amministrativo emanato sulla base di una legge incostituzionaleCon riguardo al regime del provvedimento emanato sulla base di una legge incostituzionale è stato rilevato che l'invalidità dell'atto sarebbe originaria e non sopravvenuta, “se la si considera [...] in relazione all'ordinamento complessivo, ed in particolare rispetto alle norme della Costituzione. [...] Ciò risulterebbe chiarissimo se il giudice fosse dotato del potere di disapplicare autonomamente le leggi incostituzionali, secondo il modello oggi in uso per le leggi che violano la normativa europea. Poiché invece al giudice è precluso il far autonomamente valere la legalità costituzionale contro la legalità ordinaria mediante la diretta disapplicazione della legge, esso non può che spostare la sua decisione ad un momento successivo alla pronuncia della Corte che, in ipotesi, determini la caducazione della legge. Ma non è certo tale caducazione che rende invalido l'atto sin dal suo inizio contrario alle regole maggiori del sistema giuridico” (Falcon). Il carattere originario e non derivato del vizio derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge sulla cui base l'atto amministrativo è emanato, sembra trovare conferma anche nell'atteggiamento di particolare rigore mostrato dalla giurisprudenza formatasi in tema di incostituzionalità riflessa del provvedimento amministrativo (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 46). Secondo il Consiglio di Stato (Cons. St. IV, n. 1217/2007), la pronuncia di illegittimità costituzionale non determina la riapertura dei termini per impugnare, ma, al contrario, proprio la mancata tempestiva impugnazione impedisce al ricorrente di avvalersi della sentenza resa in relazione ad altro giudizio. Ciò sul presupposto secondo cui l'atto emanato in base a legge poi dichiarata incostituzionale sia soltanto annullabile — e non nullo — e come tale suscettibile di diventare inoppugnabile se non gravato nel termine di decadenza. Diversi gli argomenti addotti a sostegno di questa posizione (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 46). Anzitutto, muovendo dalla premessa teorica della temporanea efficacia della norma incostituzionale, si rileva che il provvedimento è stato emanato da un organo che esercitava le sue funzioni sulla base di una legge vigente al momento in cui ha l'atto è stato emesso, dal che discenderebbe la mera possibilità di eliminazione dell'atto medesimo per un'illegittimità divenuta ormai pienamente rilevabile. Inoltre, si evidenzia che tra la legge e l'atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile fra l'atto preparatorio e l'atto finale del procedimento amministrativo, in quanto l'atto amministrativo, come manifestazione autonoma del potere esecutivo, ha una vita ed una individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della norma. Si parla al riguardo di “autonomia del momento amministrativo” (Cons. St. Ad. plen. , n. 8/1963) e si fa riferimento all'identico fenomeno che si verifica nei rapporti tra atto e regolamento per cui l'annullamento di una norma regolamentare non travolge senz'altro l'atto amministrativo che ne costituisce applicazione. Si invoca, poi, per tutta l'attività svolta in esecuzione delle leggi incostituzionali col rispetto di quelle forme che sono connesse all'emanazione degli atti dei pubblici poteri, “l'esigenza di tutelare l'affidamento che tali atti sono in grado di determinare nei cittadini e che è tutelato fino a rendere perfettamente validi anche gli atti posti in essere da chi successivamente non risulti affatto essere stato organo dei pubblici poteri, purché sia stato nell'effettivo possesso di una potestà pubblica” (Cervati). Tale tesi, infine, è motivata anche da esigenze squisitamente pratiche, in particolare dalla necessità di concludere il giudizio, pur in presenza dell'intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale e del conseguente venir meno ex tunc della norma che in ipotesi fondava il potere, con una sentenza nel merito, satisfattiva dell'interesse del privato, piuttosto che con una pronuncia che dichiari il difetto di giurisdizione perché l'atto è stato emanato in carenza di potere. Come emerge dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, “altrimenti il giudice, rilevando fondatamente che l'atto impugnato si basa su una legge incostituzionale, recherebbe un danno al ricorrente, se si dovesse ritenere che il giudizio dovesse chiudersi con una formula diversa da quella di accoglimento, privandolo, cioè, del risultato positivo dell'azione di annullamento; oppure avrebbe soltanto sollevato una questione di costituzionalità irrilevante, poiché nessuna conseguenza se ne potrebbe trarre ai fini del giudizio” (Cons. St. Ad. plen. , n. 8/1963). Oltre ad escludere che la declaratoria di incostituzionalità della legge attributiva del potere alla P.A. riapra il termine per impugnare il provvedimento, il giudice amministrativo si è, inoltre, sempre ritenuto sfornito del potere di rilevare d'ufficio il vizio di incostituzionalità, richiedendo che anch'esso dovesse trovare riscontro in apposito motivo di ricorso. In quest'ottica, le disposizioni dell' art. 1 della legge costituzionale 8 febbraio 1948, n. 1 e dell' art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, che consentono la proposizione dell'incidente di costituzionalità nel corso del giudizio anche d'ufficio, ricevono un'interpretazione assai riduttiva da parte della giurisprudenza, in quanto la loro portata viene coordinata con la piena vigenza nel processo amministrativo del principio dispositivo (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 46). In particolare, partendo dalla previsione dell' art. 23, comma secondo, l. n. 87 del 1953, che richiede, ai fini della rimessione degli atti alla Corte costituzionale, oltre che la non manifesta infondatezza della questione, che “il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale”, la giurisprudenza afferma che se la violazione di una norma di legge non è specificamente dedotta tra i motivi di ricorso, l'eventuale dubbio di legittimità costituzionale che sorgesse in relazione a tale norma non potrebbe considerarsi rilevante. In altre parole, secondo la tesi in esame, affinché il giudice possa esaminare la questione ed eventualmente rimetterla alla Corte, pur non essendo necessario che la paventata questione di illegittimità costituzionale venga necessariamente proposta dal ricorrente, occorre che l'applicazione della disposizione (e, quindi il suo esame da parte del giudice) costituisca comunque oggetto di censura attraverso un motivo di ricorso. In questo senso, quindi, non sarebbe sufficiente invocare il pacifico principio secondo il quale il giudice ha il potere di sollevare di ufficio la questione di legittimità costituzionale. Il giudice, infatti, ha tale potere sempre che debba fare applicazione, ai fini del decidere, della norma in sospetto di incostituzionalità: nel giudizio impugnatorio di atti, quando la norma sia stata posta a fondamento dell'atto amministrativo impugnato, ciò può configurarsi solo se essa abbia costituito oggetto di un dedotto vizio di legittimità attraverso apposito motivo di ricorso. In definitiva, quindi, secondo la tesi accolta dalla giurisprudenza amministrativa, solo se la norma di legge costituisce parametro per l'esame della legittimità (o meno) dell'atto (e questo può avvenire solo attraverso un motivo di ricorso), la norma stessa si pone come indispensabile ai fini della definizione della controversia. Al contrario, se tale norma non viene all'esame del giudice, in quanto essa non è in alcun modo invocata nei motivi di ricorso (indipendentemente da ogni deduzione di parte circa la sua incostituzionalità), la controversia può essere risolta a prescindere dalla norma stessa e la questione di legittimità non potrà essere rimessa alla Corte. Né in senso contrario — si precisa ancora — potrebbe rilevarsi che in tal modo, nel giudizio amministrativo verrebbe meno il potere del giudice di rilevare d'ufficio la questione di incostituzionalità. A questa obiezione si replica, infatti, sottolineando la distinzione che intercorre tra il motivo di ricorso che chiama in causa la norma di legge in sospetto di incostituzionalità e la specifica proposizione, con istanza di parte, della questione di illegittimità costituzionale. Mentre quest'ultima non è indispensabile (sussistendo la rilevabilità di ufficio della questione), viceversa è necessario il primo, in quanto esso determina la rilevanza della questione per il giudizio in corso, e, quindi, consente al potere attribuito al giudice di rilevare ex officio la questione di dispiegarsi. Le suesposte considerazioni svolte da Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 46, i quali evidenziano, tuttavia, che il rigore mostrato dalla giurisprudenza con riferimento alla possibilità di rilevare d'ufficio la c.d. incostituzionalità riflessa dell'atto amministrativo si attenua, tuttavia, quando si passa ad esaminare le pronunce che si occupano degli effetti della sentenza di incostituzionalità, resa in relazione ad un diverso processo, nei giudizi in corso. In tal caso, infatti, secondo l'orientamento prevalente, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa dell'incostituzionalità della legge alla cui stregua fu assunto il provvedimento, il giudice amministrativo ha il dovere di rimuovere quest'ultimo anche se il vizio di legittimità riflesso non era stato dedotto come motivo di ricorso. A sostegno di tale conclusione si rileva che l'interesse generale impedisce che le norme dichiarate incostituzionali trovino ancora applicazione da parte del giudice in modo da consentire la consolidazione dell'atto assunto sulla loro base. Il sistema così ricostruito tollera che i provvedimenti amministrativi rimangano in vita anche quando il giudice possa essere convinto della loro incostituzionalità riflessa, per motivi, però, non dedotti dalle parti, ma non quando sia venuta meno, perché dichiarata incostituzionale, la norma sulla cui base l'atto è stato emanato (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 49). Il vizio di incostituzionalità viene in rilievo, quindi, da un lato come doveroso motivo di ricorso, la cui mancata deduzione determina inoppugnabilità e, dall'altro, come ragione idonea a giustificare la rimozione processuale dell'atto amministrativo. Il riconoscimento al giudice, una volta intervenuta la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale resa in altro giudizio, del potere di annullare il provvedimento amministrativo anche d'ufficio — a prescindere da una specifica deduzione sul punto del ricorrente — consente di affermare che la pronuncia di incostituzionalità della legge istitutiva o regolativa del potere amministrativo non sia di per sé fattispecie che giustifica la proposizione di motivi aggiunti. La descritta soluzione, sia pure prevalente nell'ambito della giurisprudenza amministrativa, non è tuttavia univoca. Secondo un indirizzo più rigoroso, invero, il giudice amministrativo, d'ufficio, deve applicare la nuova norma di legge risultante da una sopravvenuta sentenza di incostituzionalità, solo qualora essa sarebbe stata comunque — alla stregua dei motivi di ricorso — parametro della legittimità dell'atto impugnato; e non già se essa, invece, a tale stregua non era mai stata invocata dal ricorrente in primo grado (Cons. St. IV, n. 1217/2007). In base a tale tesi, quindi, la sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità non solo non è rilevabile d'ufficio, ma non può essere fatta valere dal ricorrente neanche con motivi aggiunti, se la relativa norma non era stata invocata, come parametro di legittimità dell'azione amministrativa, già nei motivi originari. Per tutti gli aspetti non toccati dai motivi di ricorso, infatti, l'atto amministrativo diviene inoppugnabile ed il rapporto deve essere ritenuto “esaurito”. Vedi anche il commento all'art. 55. Segue. Il contrasto con il diritto comunitario come vizio di annullabilitàNegli ultimi tempi si è registrato un tentativo di porre in discussione nel diritto amministrativo alcuni vizi, tradizionalmente fatti rientrare nell'ambito dell'annullabilità, che invece parte della dottrina e della giurisprudenza hanno configurato come vizi di nullità con la conseguente inapplicabilità del termine di decadenza. In particolare, è stata sostenuta l'incompatibilità del termine decadenziale per contestare gli atti amministrativi in ipotesi di provvedimento viziato perché contrastante con le regole del diritto dell'Unione Europea; muovendo dall'assunto che la legge italiana «anticomunitaria» debba considerarsi nulla, la tesi perviene alla conclusione che l'atto amministrativo confliggente con il diritto comunitario vada ritenuto a sua volta nullo per carenza di potere. In questo modo, per un verso, l'atto «anticomunitario» non sarebbe più suscettibile di divenire inoppugnabile e, per un altro, renderebbe problematica la giurisdizione del g.a., in quanto, mancando l'effetto degradatorio ricollegabile al provvedimento, la controversia, secondo i principi del sistema di giustizia amministrativa, dovrebbe essere devoluta al g.o., almeno laddove incida su diritti soggettivi preesistenti (per un completo esame della questione, Giovagnoli, 1635). La Corte di Giustizia, investita del problema, ha ritenuto la compatibilità di un regime di impugnazione con termini di decadenza con la disciplina dell'Unione europea, affermando che la Direttiva 89/665 non osta ad una normativa nazionale la quale preveda che qualsiasi ricorso avverso una decisione dell'amministrazione aggiudicatrice vada proposto nel termine all'uopo previsto e che qualsiasi irregolarità del procedimento di aggiudicazione invocata a sostegno di tale ricorso debba essere sollevata nel medesimo termine, a pena di decadenza, di modo che, scaduto tale termine, non è più possibile impugnare tale decisione o eccepire la suddetta irregolarità, a condizione che il termine in parola sia ragionevole. La fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza risponde, in linea di principio, all'esigenza di effettività derivante dalla Direttiva 89/665, in quanto costituisce l'applicazione del principio della certezza del diritto (Corte giustizia UE, 12 dicembre 2002, C-470/99, Universal-Bau, punti 76 e 79 e Corte giustizia UE, 27 febbraio 2003, C-327/00, Santex, proprio in relazione ad un caso italiano). Anche il Consiglio di Stato ha precisato che l'entrata in vigore dell' art. 21-septies della l. n. 241/1990, ha codificato le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso e all'interno delle quali non rientra il vizio consistente nella violazione del diritto dell'Unione Europea (Cons. St. VI, n. 1023/2006; Cons. St. VI, n. 2623/2008; in precedenza Cons. St. V, n. 35/2003, aveva già affermato che di norma la violazione di una disposizione comunitaria da parte di un atto amministrativo implica un vizio di illegittimità-annullabilità, e non di nullità, dell'atto stesso contrastante). È stato aggiunto che la violazione del diritto dell'Unione Europea implica un vizio di illegittimità — annullabilità dell'atto amministrativo con esso contrastante, mentre la nullità è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva del potere) incompatibile con il diritto comunitario, e quindi disapplicabile (Cons. St. V, n. 3072/2009). Corollari di tale ricostruzione sono: a) sul piano processuale, l'onere dell'impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario dinanzi al giudice amministrativo entro il prescritto termine di decadenza, pena la sua inoppugnabilità; b) l'obbligo per l'amministrazione di applicare l'atto illegittimo salvo il ricorso ai poteri di autotutela. Si tratta di principi che devono ritenersi consolidati, avendo la giurisprudenza ormai definitivamente affermato che il vizio che colpisce l'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario costituisce un vizio di legittimità con conseguente annullabilità dell'atto amministrativo, non rientrando la violazione del diritto dell'U.E. tra le ipotesi di nullità, codificate come appunto numero chiuso dal citato art. 21-septies; l'ipotesi della nullità è stata ritenuta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere che sia incompatibile con il diritto comunitario (Cons. St. III, n. 4538/2014). Anche la dottrina maggioritaria tende a negare che il vizio del contrasto con il diritto dell'Unione Europea costituisca una ipotesi di nullità del provvedimento, anziché di annullabilità (Villata-Ramajoli, 399; Valaguzza), anche se è stato ipotizzato che si possa trattare di una invalidità suscettibile di un trattamento differenziato, tendente a prevalere sul principio di conservazione degli atti e a comportare la doverosità dell'annullamento d'ufficio con mantenimento di un minimo spazio discrezionale alla P.A. (Massari; richiamato da Sandulli M.A., che evidenzia la necessità di approfondire i riflessi che i nuovi limiti al potere di annullamento potrebbero esplicare sulla questione del contrasto dei provvedimenti amministrativi con il diritto dell'U.E.). Segue. Le figure sintomatiche dell'eccesso di potere e il controllo sulla discrezionalità della P.A.L'evoluzione del sindacato del giudice amministrativo sull'esercizio del potere discrezionale della P.A. ha da sempre coinciso con l'evoluzione stessa del processo amministrativo. Il processo amministrativo è stato in passato ancorato ad un modello impugnatorio, in cui il giudice valuta la legittimità dell'atto impugnato; tuttavia, è innegabile che il processo si sia evoluto tanto che l'oggetto dello stesso viene oggi individuato non tanto nel formale atto impugnato, quanto nella pretesa sostanziale fatta valere in giudizio e tale evoluzione trova una conferma con l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo. Ciò è stato possibile proprio grazie all'affinamento delle tecniche del sindacato sulla discrezionalità amministrativa. In origine, il giudice amministrativo annullava l'atto solo se adottato in palese violazione di legge o da organo incompetente, utilizzando con estrema parsimonia il vizio dell'eccesso di potere. La giurisprudenza creò le c.d. figure sintomatiche dell'eccesso di potere, prendendo spunto dall'esperienza del detournement de pouvoir del Conseil d'Etat francese. Attraverso il vizio dell'eccesso di potere potevano così emergere tutte le violazioni dei limiti interni della discrezionalità amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato. Il vizio dell'eccesso di potere è quindi il tipico vizio dell'atto discrezionale, mentre in ipotesi di attività vincolata, non vi è alcun apprezzamento che può essere compiuto dall'Autorità, che deve limitarsi ad applicare la legge. Non essendo facile comprendere se, nei casi concreti, l'amministrazione abbia deviato dalla causa del potere esercitato e dal perseguimento dell'interesse pubblico, la giurisprudenza ha individuato una serie di figure sintomatiche dell'eccesso di potere, che costituiscono gli indici della deviazione. Anche in questo caso il processo è stato graduale. All'inizio i giudici amministrativi prendevano in considerazione il solo atto impugnato, senza estendere l'indagine a come l'amministrazione era arrivata ad adottarlo e, di conseguenza, i margini del sindacato erano piuttosto ristretti e si incentravano sulla motivazione del provvedimento. Tra le prime figure sintomatiche dell'eccesso di potere compare così il difetto assoluto di motivazione, che poi via via si affina e in risposta a motivazioni standard utilizzate dalla P.A. si trasforma nell'insufficienza della motivazione e ancora più avanti nelle illogicità o contraddittorietà della motivazione. Il passaggio da un controllo meramente formale sulla sola esistenza di una motivazione alla verifica della correttezza in fatto e, soprattutto, della logicità della motivazione costituisce già un primo passo, attraverso il quale la discrezionalità amministrativa viene sindacata in modo più penetrante. A questo punto dottrina e giurisprudenza spostano l'attenzione sul processo decisionale seguito dalla Pubblica amministrazione, sul procedimento e indicano una serie di regole cui la P.A. deve attenersi; regole poi codificate dalla legge n. 241/1990. È un ulteriore passo avanti che consente al giudice di non limitare il proprio controllo al mero atto impugnato ma di valutare l'istruttoria svolta dalla P.A. e quindi i fatti. L'accertamento dei fatti entra così a far parte del processo amministrativo e consente al giudice di verificare se il potere sia stato esercitato sulla base di presupposti corretti o di un travisamento dei fatti (altra figura sintomatica). figura sintomatica). Tra i fatti che possono assumere rilievo come indice dell'eccesso di potere sono oggi inclusi anche i messaggi sui c.d. social, come le dichiarazioni via tweetdi un Ministro, che benché non integrino un atto amministrativo annullabile per incompetenza (posto che al Ministro compete soltanto l'adozione degli atti di indirizzo, non già dei concreti atti di gestione), costituiscono sicura spia dell'eccesso di potere per sviamento, specie quando gli organi di gestione della p.a. sembrano essersi determinati non già sulla base di una meditata valutazione degli elementi istruttori, ma al fine di assecondare gli impegni ormai pubblicamente assunti dal Ministro con il tweet (TAR Liguria, n. 787/2014, confermata da Cons. St. VI, n. 769/2015 e a cui ha fatto seguito TAR Liguria n. 11/2019, che ha condannato il Ministero al risarcimento del danno). Inoltre, una nuova tematica è emersa con riferimento alle decisioni amministrative robotizzate che sono espressione di un algoritmo; tali forme di decisione sono conformi ai canoni di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa in quanto comportano indiscutibili vantaggi derivanti dalla automazione del processo decisionale dell'amministrazione mediante l'utilizzo di una procedura digitale ed attraverso un “algoritmo” – ovvero di una sequenza ordinata di operazioni di calcolo–che in via informatica sia in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande. L'utilizzo di procedure “robotizzate” non può, tuttavia, essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell'attività amministrativa e l'algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico” (Cons. St. VI, n. 2270/2019, che ha affermato che la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall'uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest'ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva. Questa regola algoritmica, quindi: - possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell'attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1 l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.; - non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l'elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz'altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell'elaborazione dello strumento digitale; - vede sempre la necessità che sia l'amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell'algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning); - deve contemplare la possibilità che sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano', valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”. Il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l'algoritmo) deve, quindi, essere “conoscibile” (e quindi sindacabile), secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Nel caso esaminato da Cons. St. VI, n. 2270/2019 la decisione robotizzata è stata annullata perché la regola contenuto nell'algoritmo non è risultata comprensibile con conseguente impossibilità di capire le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, erano stati assegnati i posti disponibili per le docenze nella scuola (peraltro, gli esiti della procedura automatizzata avevano determinato situazioni paradossali per cui docenti con svariati anni di servizio si sono visti assegnare degli ambiti territoriali mai richiesti e situati a centinaia di chilometri di distanza dalla propria città di residenza, mentre altri docenti, con minori titoli e minor anzianità di servizio, hanno ottenuto proprio le sedi dagli stessi richieste).
L'utilizzo del parametro della ragionevolezza e della proporzionalità consente infine al giudice di trasformare il proprio controllo, una volta meramente estrinseco, in un controllo intrinseco sulla discrezionalità, attraverso il quale viene proprio verificato se la comparazione degli interessi in gioco è avvenuta in modo corretto, con un esatto accertamento dei fatti e se la scelta finale non solo sia rispondente all'interesse primario perseguito, ma sia anche ragionevole e proporzionata (con il minor sacrificio possibile degli altri soggetti coinvolti). Resta confermato che il vizio di eccesso di potere resta un vizio di legittimità ed implica un confronto tra l'atto (e l'attività) e il precetto non scritto che presiede alla discrezionalità; i vizi di merito non sindacabili sono quindi ristretti ai profili dell'opportunità e della convenienza (sulla distinzione tra merito e discrezionalità si rinvia al commento all'art. 134). La Pubblica Amministrazione, nel compimento dell'attività procedimentale diretta all'adozione di provvedimenti amministrativi, è spesso chiamata all'applicazione di regole che non appartengono al diritto, ma che sono proprie di scienze tecniche, quali ad esempio la medicina, la biologia, la fisica, l'ingegneria. Il rapporto tra la norma giuridica e la disciplina scientifica si instaura, normalmente, mediante un rinvio formale (il cosiddetto rinvio recettizio) che la disposizione di legge compie alla norma tecnica, molto spesso a concetti giuridici indeterminati. Dall'applicazione della norma scientifica al caso dipende l'adozione di un provvedimento amministrativo che può essere vincolato o discrezionale. Quest'autonomia di giudizio, consentita alle amministrazioni, viene tradizionalmente denominata “discrezionalità tecnica”. Con il concetto di discrezionalità tecnica si intende quindi fare riferimento al tipo di valutazione che viene posta in essere dall'amministrazione quando l'esame di fatti o situazioni deve essere effettuato mediante il ricorso a cognizioni tecniche e scientifiche di carattere specialistico. In alcuni casi la valutazione tecnica è suscettibile di un controllo mediante regole scientifiche esatte e non opinabili (la gradazione alcolica della bibita o il carattere stupefacente di una sostanza, secondo i classici esempi dei manuali); altre volte le regole tecniche sono il frutto di scienze (non giuridiche) inesatte e dunque in essa emergono valutazioni opinabili (ad es. la valutazione di un bene come bellezza paesistica). Mentre la prima categoria non ha mai costituito un limite al controllo giudiziale, durante il quale poteva anche essere ripetuto l'accertamento tecnico, per la seconda invece un orientamento, superato solo di recente, includeva tali valutazioni nel merito dell'azione amministrativa; merito insindacabile ed equiparabile in tutto a valutazioni di opportunità. Va anche segnalato che l'esistenza di una autonoma categoria denominata “discrezionalità tecnica” è stata contestata da parte della dottrina, che ha ritenuto l'espressione scorretta benché ormai entrata nell'uso quotidiano. Viene evidenziato che l'applicazione di regole della scienza e della tecnica non potrebbe che portare a risultare certi e, dunque, all'adozione di atti altrettanto conseguenti e vincolati. Sarebbe quindi contraddittorio accostare il termine discrezionalità con l'aggettivo tecnico: il potere discrezionale postula una scelta libera nel fine e mal si attaglia all'applicazione di principi e criteri che danno al contrario risultati sempre uguali, scientificamente vincolati e dunque giuridicamente non discrezionali. Di conseguenza, la c.d. discrezionalità tecnica non è mai discrezionalità amministrativa: è giudizio e manca la scelta. O meglio concluso l'accertamento tecnico, la scelta non può che essere vincolata (Giannini). Altra parte della dottrina riconosce invece che la discrezionalità tecnica è caratterizzata dal fatto che, nella scelta fra le varie alternative, va compiuta una valutazione di carattere tecnico da effettuarsi in base alle regole, cognizioni e mezzi forniti dalle scienze e dalle arti (Virga). Deve anche essere rilevato che, nell'ambito della tradizionale distinzione delle fasi del procedimento amministrativo, l'esercizio della discrezionalità tecnica afferisce al momento della istruttoria procedimentale, in cui la P.A. mediante le conoscenze tecniche in proprio possesso — ovvero mediante l'acquisizione di pareri ad opera di specifici organi consultivi tecnici —, comprende ed accerta i presupposti oggetto del procedimento amministrativo al fine di procedere alla successiva fase decisoria. L' art. 17 della legge n. 241 del 1990 disciplina espressamente le valutazioni tecniche da acquisire nel corso dell'istruttoria, prevedendo che “ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l'adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell'amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell'amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari”. La disposizione, quindi, non consente di prescindere dalla valutazione tecnica richiesta dalle norme, come invece avviene per l'acquisizione dei pareri degli organi consultivi ex art. 16 della stessa legge, ma legittima la P.A. ad acquisire altrove gli elementi tecnici necessari per la decisione, ad eccezione dell'ipotesi di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini, che in base all'art. 17, comma 2 non possono essere richieste ad altri organi. Va a questo punto evidenziato che a differenza della discrezionalità amministrativa, l'esercizio della discrezionalità tecnica non mira a comparare l'interesse da curare con altri interessi presenti nella fattispecie, quanto invece tende alla formulazione di un giudizio che si risolve in un'operazione d'individuazione della materialità di un fatto. Ad eccezione dei casi più limitati relativi ad accertamenti tecnici che conducono a risultati certi e non opinabili, nella maggior parte delle ipotesi la valutazione (tecnica) non avviene invece sulla base delle scienze esatte e seppur la norma giuridica richiami l'applicazione di una regola tecnica, quest'ultima non conduce ad un risultato certo, ripetibile ed oggettivo poiché accanto all'applicazione della norma tecnica (anzi, più esattamente, nell'applicazione di essa) la valutazione compiuta della autorità amministrativa riveste autonoma rilevanza. Inoltre solo in alcune fattispecie, l'amministrazione, dopo la valutazione tecnica, non conserva alcun potere decisionale, mentre altre volte l'amministrazione deve comunque effettuare la scelta della misura più idonea ai fini del soddisfacimento dell'interesse posto in rilievo dalla valutazione tecnica; in questo caso si tratta della c.d. “discrezionalità mista”. Fino a pochi anni fa l'equazione discrezionalità tecnica — merito insindacabile rendeva particolarmente ardua la tutela giurisdizionale in tutti quei casi in cui la scelta amministrativa era preceduta da valutazioni tecniche fondate su scienze non esatte. Ancorando la discrezionalità tecnica al merito dell'atto amministrativo, veniva affermata l'impossibilità per il giudice amministrativo di sostituire il proprio giudizio alla valutazione discrezionale con il già descritto effetto di comprimere le esigenze di tutela del privato, al quale non residuavano così margini di contestazione di provvedimenti amministrativi illegittimi, espressione di discrezionalità tecnica. Il definitivo superamento dell'equazione discrezionalità tecnica — merito amministrativo si ha con Cons. St. IV, n. 601/1999, con cui è stata riformata una sentenza del Tar, con cui era stato respinto il ricorso contro il diniego di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una determinata infermità sulla base della considerazione secondo cui il procedimento valutativo di contenuto specialistico sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, che può solo controllare l'adeguatezza e la logicità della motivazione dell'impugnato provvedimento di diniego. Il Consiglio di Stato mette in evidenza che ciò che è precluso al giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità non è la verifica della valutazione tecnica operata dall'amministrazione, ma la diretta valutazione dell'interesse pubblico concreto che costituisce il merito dell'atto amministrativo. La c.d. “discrezionalità tecnica”, invece, è altra cosa dal merito amministrativo: essa ricorre quando l'amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare una norma tecnica cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta. L'applicazione di una norma tecnica può comportare valutazione di fatti suscettibili di vario apprezzamento, quando la norma tecnica contenga dei concetti indeterminati o comunque richieda apprezzamenti opinabili. Ma una cosa è l'opinabilità, altra cosa è l'opportunità. Nella sentenza n. 601/1999 viene in modo molto efficace sottolineato che la questione di fatto, che attiene ad un presupposto di legittimità del provvedimento amministrativo, non si trasforma — soltanto perché opinabile — in una questione di opportunità, anche se è antecedente o successiva ad una scelta di merito. Il Consiglio di Stato, a supporto della svolta, utilizza anche un ulteriore argomento di carattere processuale: in materia di processo del lavoro pubblico, che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la sentenza additiva della Corte costituzionale n. 146 del 1987 ha integrato la fattispecie legale dell'art. 44 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054, nella parte in cui non consentiva, tra l'altro, l'esperimento della consulenza tecnica d'ufficio (C.T.U.) di cui all' art. 424 c.p.c. e l'esperibilità della consulenza tecnica è strumentale al più completo accertamento del fatto, comprese le valutazioni tecniche effettuate dall'amministrazione. Tale argomento (ammissibilità della CTU) costituisce oggi un profilo non più limitato ai giudizi di pubblico impiego, in quanto dapprima l' art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ha introdotto la consulenza tecnica d'ufficio tra i mezzi istruttori del processo amministrativo nelle nuove materie di giurisdizione esclusiva e, a distanza di pochi anni, l' art. 16 della l. 21 luglio 2000, n. 205, ha esteso questo strumento a tutta la giurisdizione di legittimità. Infine, gli artt. 66 e 67 del Codice del processo amministrativo hanno disciplinato i mezzi istruttori della verificazione e della consulenza tecnica, pur con qualche elemento di criticità, come la preferenza che sembra essere stata accordata dal Codice alla verificazione rispetto alla CTU, disposta “se indispensabile”. La messa a disposizione del giudice amministrativo del nuovo mezzo istruttorio (CTU) conferma inoltre il potere del giudice di accertare tutti i presupposti di fatto del rapporto controverso, anche quando l'applicazione della norma di legge richiede all'amministrazione apprezzamenti di natura tecnica. Altra conseguenza dell'introduzione della C.T.U. nel processo amministrativo è la caratterizzazione del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica in termini di sindacato intrinseco. Si ricorda che per sindacato estrinseco si intende un tipo di controllo sulle valutazioni tecniche attuato solo mediante massime di esperienza appartenenti al sapere comune, ossia di dominio dell'intera collettività, e che pertanto non si spinge fino alla verifica tecnico-specialistica della determinazione amministrativa; mentre con il sindacato intrinseco il giudice non si avvale solo delle massime di esperienza, ma di regole e conoscenze tecniche, appartenenti alla medesima scienza specialistica ed ai modelli professionali applicati dall'amministrazione, anche attraverso l'ausilio di un consulente. Si tratta di questioni approfondite da altra sentenza con cui la IV Sezione del Consiglio di Stato ha affrontato il tema del sindacato sulla discrezionalità tecnica, introducendo una distinzione tra sindacato c.d. forte, relativo alla fase di espressione del giudizio tecnico e sindacato debole inerente la fase di valutazione dell'opportunità amministrativa susseguente alle risultanze dell'indagine tecnica (Cons. St. IV, n. 5287/2001). La distinzione tra controllo debole e controllo forte sulla discrezionalità tecnica è stata richiamata anche nelle fattispecie in cui la legge fa rinvio ai c.d. concetti giuridici indeterminati applicati dall'amministrazione (ad es. il carattere ambientale del bene, la congruità economica delle giustificazioni dedotte a sostegno di un'offerta sospetta di anomalia o le nozioni di mercato rilevante, intesa restrittiva della concorrenza o abuso di posizione dominante, richiamate dalla legge antitrust n. 287/1990). Tuttavia, a volte il sindacato di tipo debole è stato affermato dal giudice amministrativo non tanto per identificare ambiti di valutazioni dell'Autorità amministrativa sottratti al suo controllo, ma più per significare che il sindacato intrinseco compiuto sulle valutazioni anche tecniche non può spingersi fino ad attribuire in capo allo stesso giudice l'esercizio di poteri rimessi a determinate autorità amministrative; il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell'esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sotto ogni profilo. Peraltro, proprio in materia antitrust, la preoccupazione che l'utilizzo della terminologia “sindacato forte o debole”, potesse essere mal interpretata come individuazione di ambiti di azione amministrativa sottratti al controllo del giudice, ha indotto il Consiglio di Stato a superare la distinzione sindacato debole — sindacato forte per porre l'attenzione unicamente sulla ricerca di “un sindacato, certamente non debole, tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere, ma di verificare — senza alcuna limitazione — se il potere a tal fine attribuito all'Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato” (Cons. St. VI, n. 926/2004). Fermo restando il limite per il g.a. di non esercitare direttamente un potere amministrativo, deve ormai ritenersi che il sindacato debba essere di tipo pieno e che non vi possano essere spazi di discrezionalità, tecnica o amministrativa, riservati all'amministrazione (per l'intensità del sindacato sulle valutazioni tecniche delle Autorità indipendenti e per il concetto di sindacato di piena giurisdizione espresso dalla CEDU, v. il commento all'art. 110). Con una successiva sentenza in materia diversa dall’antitrust (giudizio avente ad oggetto una valutazione di compatibilità di opere con un vincolo paesaggistico) il Consiglio di Stato ha evidenziato che, a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa») ‒ dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme ‒ le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della ‘attendibilità’ tecnico-scientifica. Mentre in alcune fattispecie, come quelle antitrust, il fatto complesso viene preso in considerazione nella dimensione oggettiva di fatto ‘storico’ e gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in altre ipotesi (ad es., valutazioni delle Soprintendenze), invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto ‘storico’, bensì come fatto ‘mediato’ dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, non vi è comunque un ambito di valutazioni ‘riservate’ alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale e, ferma restando l’effettività della tutela giurisdizionale, il giudice ‘valuta’ se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto, ben potendo il ricorrente contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso assolvendo l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato (Cons. St. VI, n. 10624/2022, che quindi attenua la tesi del sindacato di maggiore attendibilità per una tipologia di contenzioso leggermente differente come quello relativo alle contestazioni delle valutazioni paesaggistiche).
La giurisprudenza tende, quindi, sempre più ad esercitare un sindacato pieno ed effettivo anche sulla discrezionalità tecnica, considerando ormai definitivamente tramontata l'equazione discrezionalità tecnica — merito insindacabile; il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della P.A. si svolge in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito dall'autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo. A tal fine il giudice amministrativo utilizza sia la CTU, che il tradizionale strumento della verificazione con conferimento dell'incarico ad una amministrazione terza (v., ad esempio, Cons. St. VI, n. 2001/2006, con cui sulla base di un penetrante sindacato sulla discrezionalità tecnica — o meglio mista — esercitata dalla P.A., è stata annullata una autorizzazione rilasciata per una attività estrattiva, che avrebbe eliminato o, comunque, reso inutilizzabili due fonti idriche sotterranee, che servivano gli acquedotti di due piccoli comuni). In tale direzione va una sentenza del Consiglio di Stato, con cui è stato affermato che il giudice amministrativo non deve limitarsi a verificare se l'opzione prescelta dalla autorità indipendente rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto, bensì deve procedere ad un controllo penetrante attraverso la piena e diretta verifica della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità, che è cosa diverso dal concetto di mera attendibilità (Cons. Stato, VI, n. 4990/2019, caso Roche-Novartis).Con tale sentenza si completa il passaggio da un sindacato di “mera attendibilità” ad un sindacato pieno di “maggiore attendibilità”, anche se sarà necessario attendere il consolidamento e la corretta applicazione dei sopra enunciati principi, anche con riferimento al sindacato della Cassazione sui limiti esterni). Va evidenziato, infatti, come la tendenza verso un sindacato effettivo del g.a. rischi di essere frenata da una giurisprudenza della Cassazione, che, nell'interpretare in maniera estensiva il proprio controllo sui limiti esterni della giurisdizione, ha annullato alcune decisioni del Consiglio di Stato per il superamento di detti limiti, affermando che il sindacato che il g.a. è chiamato a compiere sulle valutazioni anche tecniche della p.a. deve essere mantenuto sul piano della “non pretestuosità” della valutazione degli elementi di fatto compiuta e non può pervenire ad evidenziare una mera “non condivisibilità” della valutazione stessa; l'adozione del criterio della “non condivisione” si traduce in uno sconfinamento nell'area della discrezionalità amministrativa, ossia in un superamento dei limiti esterni della giurisdizione tale da giustificare l'annullamento della pronuncia del g.a., e non in un semplice errore di giudizio, che sarebbe insindacabile davanti alla Cassazione (Cass. S.U., n. 2312/2012, che ha annullato una sentenza del Consiglio di Stato, con cui era stata annullata l'esclusione da una gara di una impresa per gravi pregresse inadempienze nei confronti della p.a., ritenute insussistenti dal g.a. anche all'esito di una CTU). Al riguardo vedi anche il commento agli artt. 110 e 112, specie con riferimento alla giurisprudenza costituzionale che ha frenato tale tendenza. La più recente giurisprudenza della Cassazione sembra infatti aver frenato la tendenza espansiva dell'ambito del sindacato esercitabile sulle sentenze del giudice amministrativo (v. art. 110) e si auspica quindi che non sussista il rischio che i limiti esterni alla giurisdizione possano frenare la descritta evoluzione del sindacato del g.a. sugli atti delle Autorità indipendenti (auspicio che sembra essere stato raccolto da Cass. S.U., n. 4610/2020.che proprio in materia antitrust ha applicato l'orientamento più restrittivo sul sindacato della Cassazione sulle sentenze del g.a.). Altra evoluzione del sindacato sulla c.d. discrezionalità tecnica si è avuta in materia di controllo sulla motivazione inerente il punteggio attribuito ai candidati nei pubblici concorsi o ai concorrenti nelle pubbliche gare. La giurisprudenza maggioritaria del Consiglio di Stato aveva sempre ribadito il principio della sufficienza, sotto il profilo della motivazione, dell'attribuzione di un punteggio alfanumerico in sede di giudizio inerente le prove scritte dei pubblici concorsi, chiarendo che anche dopo l'entrata in vigore della l. 7 agosto 1990, n. 241, l'onere di motivazione delle prove scritte ed orali di un concorso a posti di pubblico impiego è sufficientemente adempiuto con l'attribuzione di un punteggio numerico, configurandosi quest'ultimo come una formula sintetica, ma eloquente, che esterna compiutamente la valutazione tecnica della commissione d'esame e che, pertanto, una più specifica motivazione è da ritenersi richiesta nel solo caso in cui vi sia contrasto talmente rilevante tra i punteggi attribuiti da componenti della commissione da configurare un'apparente contraddittorietà intrinseca del giudizio complessivo. L'onere di una motivazione non meramente numerica è stato successivamente ritenuto sussistere, in considerazione del fatto che la commissione giudicatrice aveva omesso di predeterminare appositi criteri valutativi. Successivamente, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha affermato che in linea con l'ineludibile principio di trasparenza, è imposto alle commissioni esaminatrici di rendere percepibile l'iter logico seguito nell'attribuzione del punteggio, se non attraverso diffuse esternazioni verbali relative al contenuto delle prove, quantomeno mediante taluni elementi, che concorrano a integrare e chiarire la valenza del punteggio, esternando le ragioni dell'apprezzamento sinteticamente espresso con l'indicazione numerica. Su altro versante, l'obbligo di far luogo alla motivazione delle valutazioni concorsuali è imposto dalla necessità di tener fede al principio, presidiato sul piano costituzionale, che vuole sempre garantita la possibilità di un sindacato della ragionevolezza, della coerenza e della logicità delle stesse valutazioni concorsuali, controllo difficile da assicurare, in presenza del solo punteggio numerico in assenza, quindi, di una pur sin tetica o esplicita esternazione delle ragioni, che hanno indotto la commissione alla formulazione di un giudizio di segno negativo. Il rispetto dei principi suddetti impone che al punteggio numerico si accompagnino, quanto meno, ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo la motivazione del giudizio valutativo; tra questi, in specie, in uno alla formulazione dettagliata e puntuale dei criteri di valutazione fissati preliminarmente dalla Commissione, l'apposizione di note a margine dell'elaborato, o, comunque, l'uso di segni grafici, che consentano d'individuare gli aspetti della prova non valutati positivamente dalla Commissione (Cons. St. VI, n. 2331/2003). È evidente l'ulteriore passo avanti della tutela giurisdizionale in relazione ad un esercizio di discrezionalità, in precedenza ritenuto sottratto al sindacato del giudice; tuttavia, il nuovo indirizzo non può ritenersi consolidato nella giurisprudenza amministrativa ed anzi la Corte costituzionale ha qualificato come diritto vivente il contrario e consolidato indirizzo, che ritiene sufficiente l'attribuzione del punteggio numerico. Con riferimento all'esame di abilitazione forense, la Corte ha esaminato una questione sottoposta in relazione al parametro dell'effettività della tutela giurisdizionale (limitata dall'assenza di una vera e propria motivazione della valutazione delle prove) e la ha ritenuta infondata, escludendo che vi sia un vulnus al principio dell'effettività della tutela giurisdizionale, in quanto il menzionato diritto vivente, che non impone alla commissione una specifica modalità di motivazione delle determinazioni da essa assunte in merito alle prove scritte ed orali, concerne un momento del procedimento amministrativo che disciplina lo svolgimento degli esami per l'abilitazione alla professione forense e riguarda, quindi, il profilo sostanziale dei requisiti di validità del provvedimento di esclusione del candidato, conclusivo di detto procedimento, peraltro rispondendo al criterio di cui all' art. 97 cost. secondo cui l'attività amministrativa è retta anche da criteri di economicità ed efficacia. L'aspetto processuale degli strumenti predisposti dall'ordinamento per l'attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla norma, che non preclude il ricorso al giudice amministrativo e non limita, quindi, la tutela giurisdizionale, né lede il principio di trasparenza (Corte cost. n. 20/2009 e Corte cost. n. 175/2011). Anche successivamente il Consiglio di Stato ha confermato l'adesione alla tesi che ritiene sufficiente l'attribuzione di un punteggio numerico per mostrare la valutazione delle prove di un concorso (Cons. St. IV, n. 2110/2016), pur ribadendo la necessità di un maggiore onere motivazionale qualora la p.a. non abbia fissato in modo adeguato i criteri di valutazione (Cons. St. IV, n. 5801/2015); con riferimento all'esame di abilitazione alla professione di avvocato l'art. 46, comma 5, della legge n. 247/2012 prevede che “La commissione annota le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti”, ma è stato ritenuto che nella vigenza dell'art. 49, della stessa legge, che rinvia l'entrata in vigore della riforma dell'esame di abilitazione (compreso il citato art. 46, comma 5) i provvedimenti della commissione esaminatrice degli aspiranti avvocati, che rilevano l'inidoneità delle prove scritte e non li ammettono all'esame orale, vanno di per sé considerati adeguatamente motivati anche quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione (Cons. St. Ad. plen., n. 7/2017). Inoltre, anche la Cassazione ha affermato che le valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici dei pubblici concorsi, che sono inserite in un procedimento amministrativo complesso e che sono dipendenti dalla valorizzazione dei criteri predisposti preventivamente dalle suddette commissioni, sono assoggettabili al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo — senza comportare un'invasione della sfera del merito amministrativo — qualora risultino affette da almeno uno dei vizi riconducibili all'illogicità manifesta o travisamento del fatto od irragionevolezza evidente o grave, l'ultimo dei quali si configura anche quando la valutazione negativa sia stata conseguenza dell'attribuzione alla traccia di una prova di una portata delimitante i risultati “accettabili” (sul piano della condivisibilità tecnica della soluzione prospettata rispetto alla gamma di quelle in ipotesi attendibili) in termini indebitamente restrittivi (Cass. S.U., n. 14893/2010, con cui è stato respinto un ricorso per Cassazione dell'amministrazione, che lamentava un eccesso di potere giurisdizionale da parte del G.A., che aveva sindacato il giudizio espresso da una commissione di concorse sulle prove scritte). Con riferimento alle gare di appalto, la giurisprudenza ha chiarito che nella fase di valutazione delle offerte da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro le quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia talmente analitica da delimitare il giudizio delle commissione nell'ambito di un minimo ed un massimo di portata tale da rendere di per sé evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (Cons. St. V, n. 6759/2005; Cons. St. V, n. 1889/2016). La conferma dell'assenza di limiti al sindacato del g.a. sull'attività discrezionale della p.a. si trova anche nel Codice del processo amministrativo: oltre alla già ricordata codificazione della disciplina dei mezzi istruttori nel processo amministrativo, si osserva come sia oggi espressamente previsto un sindacato del G.A. diretto a pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio non solo in caso di attività vincolata, ma in presenza di attività discrezionale, quando all'esito del giudizio “risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione” (art. 31, comma 3; principio originariamente riferito all'azione avverso il silenzio, ma poi esteso in generale all'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto; v. il commento agli artt. 30 e 34). Ciò significa che l'esercizio della discrezionalità può essere pienamente sindacato dal giudice, che può anche pervenire ad esiti opposti rispetto a quelli raggiunti in sede amministrativa, accertando la fondatezza sostanziale della pretesa del privato, senza la necessità di un riesercizio del potere da parte della stessa amministrazione (la cui discrezionalità viene così “consumata” in giudizio). Una sentenza che non eserciti alcun sindacato giurisdizionale sull'attività valutativa della p.a., affermando sic et simpliciter che il ricorso a tal fine proposto solleciterebbe un sindacato sostitutivo del giudice amministrativo, senza però in alcun modo supportare tale affermazione con una almeno sintetica disamina circa il contenuto delle censure tecniche, e trincerandosi apoditticamente dietro la natura non anomala o non manifestamente irragionevole della valutazione espressa, reca una motivazione apodittica e tautologica e, in quanto tale, meritevole di annullamento con rinvio al primo giudice, ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.a., per nullità della stessa in difetto assoluto di motivazione (Cons. St. III, n. 6058/2019, che non ha annullato la sentenza del Tar, perché, sebbene non avesse proceduto in nessun modo ad una minima analisi delle singole censure, proposte nel ricorso, aveva però succintamente motivato circa la loro inammissibilità ritenendo, a torto, che la pretesa inammissibilità delle censure emergesse dalla complessità dell'iter argomentativo e dalla invocata necessità di esperire una consulenza tecnica d'ufficio, sicché tale motivazione, ancorché erronea e carente, non è stata ritenuta apparente ed è stata corretta e integrata in sede di appello mediante la doverosa analisi delle singole censure). Nell'esercitare il proprio sindacato il giudice amministrativo ha il limite di non poter sconfinare in valutazioni di merito, riservate alla P.A. e precluse al giudice nell'ordinario giudizio di cognizione (ad eccezione delle ipotesi eccezionali di giurisdizione estesa al merito di cui all'art. 134). Per il sindacato di giurisdizione piena sugli atti sanzionatori irrogati dalle Autorità indipendenti v. il commento all’art. 1 e per il rapporto tra discrezionalità e giudicato v. il commento all'art. 112. Segue. I vizi non invalidanti del provvedimento amministrativoCon l'entrata in vigore dell' art. 21-octies della legge n. 241/1990 sono stati introdotti i c.d. vizi non invalidanti del provvedimento amministrativo, stabilendo che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e che il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Segue. L' art. 21-octies, l. n. 241/1990L' art. 21-octies della l. n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005, detta la disciplina generale dell'annullabilità degli atti amministrativi, confermando, al comma 1, il tradizionale regime dei vizi di legittimità: « È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza ». Il comma 2 della disposizione da un lato recupera un ruolo primario del provvedimento amministrativo rispetto al procedimento e dall'altro contiene il rischio di svalutare alcune norme fondamentali per la partecipazione del privato, quale quella relativa all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, prevedendo che la loro violazione possa non condurre ad annullare il provvedimento finale (c.d. vizio non invalidante), qualora sia accertato in giudizio che comunque il provvedimento non poteva essere diverso. La disposizione si divide in 2 parti. La prima parte dell' art. 21- octies, secondo comma, della l. 7 agosto 1990 n. 241 prevede che il provvedimento non sia annullabile quando ricorrano necessariamente tutti questi elementi: a ) violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti; b ) natura vincolata del provvedimento; c ) essere «palese» che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Cons. St. La norma è stata ritenuta applicabile anche al vizio di incompetenza relativa (Cons. St. III, n. 3791/2015), ma non al difetto di motivazione, in quanto si tratta di un vizio che non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile (Cons. St. III, n. 2247/2014). La seconda parte è relativa ad un tipico vizio procedimentale ( art. 7 della l. n. 241/1990: violazione dell'obbligo di avvio del procedimento) e prevede che il provvedimento non sia annullabile «qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Non c'è il limite per l'attività vincolata e la norma opera, quindi, anche in caso di attività discrezionale. L'onere della prova è addossato espressamente a carico della P.A.; inoltre, tale seconda parte della norma è riferita esclusivamente alla violazione dell'art. 7 e non anche del nuovo art. 10-bis (comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza; v. in questa parte) che rientra invece tra i possibili vizi non invalidanti disciplinati dalla prima parte del comma 2 (Cons. St. VI, n. 552/2009; tesi confermata espressamente dal legislatore con l'aggiunta al comma 2 dell'art. 21-octies del periodo: "La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis.", apportata dall'art. 12 del d.l. n. 76/2020). Segue. Le varie tesi sull'inquadramento dell'art. 21-octiesDescritte le due norme, più arduo è il loro inquadramento sistematico. Una prima tesi ritiene l'atto, pur difforme dal paradigma normativo, legittimo fin dall'origine. Questa è l'impostazione che conduce immediatamente alla tematica della irregolarità. La nozione di atto irregolare è stata da tempo elaborata dalla dottrina: così come per ogni atto giuridico, anche per il provvedimento amministrativo possono presentarsi fattispecie anormali, cioè aventi dei tratti difformi dallo schema (o fattispecie) normativo astratto e possono esservi delle anormalità minori che di regola non comportano vizio. L'irregolarità può attenere al procedimento o al provvedimento e costituisce una sorta di inosservanza di legge, ma di minor conto e perciò innocua, per cui non porterebbe ad invalidità dell'atto. L'utilizzo della categoria della irregolarità è stato giustificato con il fine di evitare che vizi meramente formali potessero condurre all'annullamento di atti amministrativi in un'ottica eccessivamente formale della giustizia amministrativa. Tuttavia, è stato evidenziato come la stessa irregolarità sia un istituto di natura formale, in quanto l'irregolarità è collegata ad una classificazione, condotta a priori, dei requisiti di validità e di quelli di regolarità dell'atto giuridico. La qualificazione di un atto amministrativo alla stregua di irregolare è dunque scevra da qualsiasi componente sostanzialista. Ad esempio, la mancata indicazione nell'atto impugnato del termine e dell'Autorità cui è possibile ricorrere ( art. 3 della l. n. 241/1990) costituisce irregolarità che non rende l'atto illegittimo, ma che consente al limite il ricorso del privato oltre i termini di decadenza avvalendosi dell'errore scusabile, determinato dall'omissione compiuta dall'amministrazione. Mentre l'irregolarità opera ex ante e in astratto (il provvedimento amministrativo affetto da vizio formale minore è un atto ab origine meramente irregolare) l'idoneità del provvedimento, pur adottato in violazione di una norma sul procedimento o sulla forma, a conseguire un certo risultato, verrà evidenziata di volta in volta dal giudice nel processo. La previsione dell'art. 21- octies , comma 2, non si può ricondurre alla nozione di irregolarità, in quanto alla luce della classificazione del vizio svolta ex ante non si è in presenza di una «anormalità minore», ma di un vizio di legittimità, che solo a seguito di valutazioni richieste dalla norma ed effettuate ex post dal giudice (il provvedimento non poteva essere diverso) non comporta l'annullabilità. Il provvedimento è e resta affetto da un vizio di legittimità. Il legislatore non ha inteso intervenire sulla qualificazione dei vizi procedimentali o formali e del vizio della violazione dell' art. 7 della legge n. 241/1990, che restano tutti vizi di legittimità, ma ha voluto incidere sulle conseguenze connesse all'invalidità del provvedimento viziato nella forma o nel procedimento. L'esclusione della configurabilità in termini di irregolarità dell'atto non annullabile ex art. 21-octies ha condotto parte della dottrina ad aderire alla tesi del raggiungimento dello scopo. La c.d. «regola del raggiungimento dello scopo» è mutuata dalla previsione ex art. 156, comma 3, c.p.c., che stabilisce che «La nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato». La regola del raggiungimento dello scopo presuppone, diversamente dall'irregolarità, che l'invalidità dell'atto sussista in astratto, ma che essa venga reputata in concreto irrilevante, in ragione del fatto che, da un'indagine operata ex post da parte del giudice, rispetto a quel singolo caso, emerge che lo scopo dell'atto è stato comunque raggiunto, nonostante il vizio riscontrato. Il principio del raggiungimento dello scopo è da tempo applicato dal G.A., il quale difficilmente ha annullato gli atti amministrativi per il solo fatto che vi fosse stato il mancato rispetto di tali prescrizioni ma, individuandone la ratio, ha ritenuto rilevante il vizio quando la norma non sortisca l'effetto per il quale è stata posta. Proprio, in tema di violazione dell' art. 7 della legge n. 241/1990, più volte la giurisprudenza ha ritenuto che tale disposizione non può essere applicata meccanicamente e formalisticamente, dovendosi escludere il vizio nei casi in cui lo scopo della partecipazione del privato sia stato comunque raggiunto o vi sia comunque un atto equipollente alla formale comunicazione. Tuttavia, parte della dottrina e della giurisprudenza hanno replicato a tale tesi, evidenziando che in caso di omessa comunicazione di avvio, lo scopo è raggiunto, non quando l'atto non poteva essere diverso, ma quando il privato ha ricevuto un atto equipollente, ha comunque partecipato o ha avuto la possibilità di partecipare al procedimento. In tali casi, i vizi procedimentali e formali non hanno determinato alcuna concreta lesione, in quanto la ratio sottesa alle regole formali o procedimentali è stata comunque conseguita e l'annullamento appare un rimedio non proporzionato. L'art. 21-octies, invece, rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell'atto, per una ragione diversa che non attiene al (sostanziale) rispetto della specifica disposizione sulla forma o sul procedimento, bensì al fatto che il contenuto dispositivo dell'atto «non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Tenuto conto, quindi, che neanche il richiamo alla regola processualcivilistica del raggiungimento dello scopo è utile per inquadrare l'art. 21-octies, comma 2, in dottrina è stata proposta altra tesi secondo cui, l'atto è originariamente illegittimo, ma non più annullabile, perché sanato, dovendosi ricercare la chiave e la ratio della sua possibile convalida nel fatto che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (tesi del provvedimento sanante). L'illegittimità viene « sanata » dal provvedimento finale che raggiunge lo scopo voluto dalla norma e, cioè, esibisce il contenuto che la norma aveva indicato. La tesi è idonea a spiegare solo la portata non invalidante dei vizi procedimentali e quelli di forma non relativi al provvedimento finale, ma non spiega perché non sono annullabili i vizi di forma propri del provvedimento stesso, che per i motivi indicati in precedenza non costituiscono neanche mere irregolarità. La nuova norma è stata anche giustificata attraverso l'affermazione che analoga disposizione è vigente in altri ordinamenti; il riferimento non è tanto all'ordinamento spagnolo, dove esiste una disposizione in parte diversa, ma all'ordinamento tedesco. Innanzitutto, dopo l'introduzione nel 1976 dell'art. 46 della legge tedesca sull'azione amministrativa (ad eccetto delle ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, è escluso l'annullamento per violazioni relative alla forma, al procedimento e alla competenza territoriale, nei casi in cui non sarebbe stato possibile adottare nessuna altra decisione), nel 1996 il legislatore tedesco ha sentito la necessità di restringere la portata applicativa della norma, introducendo quel «palese», presente anche nella disposizione introdotta in Italia. Inoltre, nell'ordinamento tedesco esistono soluzioni alternative per tutelare le violazioni procedimentali in modo diverso dall'annullamento del provvedimento finale. Non ci si riferisce tanto ai maggiori poteri sostitutivi del giudice amministrativo tedesco, quanto alla possibilità che le violazioni procedimentali siano sanate in sede di ricorso amministrativo (presupposto necessario per l'azione giurisdizionale) o dalla stessa amministrazione, anche su sollecitazione del giudice, il quale ha gli strumenti per disporre sanzioni di carattere specifico, finalizzate a rimuovere il vizio, anche ove sia soltanto formale, e a reintegrare ex post la violazione della regola sul procedimento, sulla forma e sulla competenza. Si può quindi affermare che le violazioni procedimentali, soprattutto quelle relative alla partecipazione del privato al procedimento, non sono svalutate in altri ordinamenti e comunque, anche dove esistano disposizioni simili a quella di cui al citato art. 21-octies, le stesse sono accompagnate dall'introduzione di altre forme di tutela per i vizi procedimentali. Segue. I dubbi di costituzionalità e la tesi prevalsa in giurisprudenzaNel nostro ordinamento, l'entrata in vigore dell'art. 21-octies e la mancanza di altre forme di tutela ha condotto la dottrina a porsi dei dubbi di costituzionalità. Ci si è chiesti se possano esistere nel nostro ordinamento norme rispetto alla violazione delle quali la posizione giuridica vantata dal cittadino risulti priva di tutela o se questo costituisca invece un'inaccettabile limitazione del diritto d'azione, che pone seri problemi di contrasto con le previsioni contenute negli articoli 24 e 113 della nostra Costituzione. Soprattutto perché la rinuncia alla sanzione dell'annullabilità non è stata sostituita da altre sanzioni, parimenti idonee a riparare in modo specifico la lesione dell'interesse del ricorrente che derivi da una violazione procedimentale o formale. Una forma di tutela non può peraltro essere costituita dal risarcimento del danno. Infatti, il danno per la mancata attribuzione del bene della vita (quello che nella maggior parte dei casi viene chiesto al giudice amministrativo) non spetterà perché il provvedimento non poteva essere diverso e quindi il bene non spettava (o poteva essere tolto dalla P.A. in presenza di interessi legittimi oppositivi). Il risarcimento del danno sarà possibile solo in alcune limitate e residuali ipotesi: ad esempio, in caso di procedura espropriativa senza comunicazione di avvio, il soggetto espropriato potrà chiedere i danni derivanti dalle spese sostenute sul proprio fondo e che non avrebbe sostenuto se avesse saputo per tempo dell'avvio della procedura di esproprio. Altri ancora, nell'esporre i dubbi di costituzionalità, hanno rappresentato i rischi che la riforma possa essere intesa dalla P.A., o possa comunque incentivare la P.A. a non rispettare le regole procedimentali, scalfendo la stessa valenza precettiva delle disposizioni di cui alla legge n. 241/1990. L'amministrazione potrebbe ritenere di essere assolta dal rispetto del principio di legalità nelle ipotesi previste dal secondo comma dell' art. 21-octies della l. n. 241/1990. Tali considerazioni hanno indotto parte della dottrina ad affermare che il legislatore dovrebbe introdurre forme di tutela alternative per le pretese partecipative esercitabili immediatamente, durante e non dopo il procedimento e che assicurino la soddisfazione dell'interesse specifico protetto dalla norma procedimentale (a prendere parte alla procedura amministrativa, a presentare contributi partecipativi, ad accedere agli atti procedurali, ecc.). Forme di tutela sommaria, simili a quelle previste per il ricorso avverso il silenzio o in materia di accesso, sembrano maggiormente utili per consentire già nel corso del procedimento di porre rimedio alla regola procedimentale violata. Restando fermo che l'interprete deve tendere ad una interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice amministrativo sembra, seppur con qualche incertezza, allo stato intenzionato a dare una interpretazione restrittiva della norma: in base all'art. 21-octies il provvedimento non è annullabile, quando è certo e provato che il ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, conseguente all'annullamento, una decisione diversa da quella già adottata (carenza di interesse). La valenza processuale della norma determina che il provvedimento non sia annullabile non perché assoggettato ad un diverso regime di invalidità o irregolarità, ma perché la circostanza che il contenuto non possa essere diverso, oggi accertabile dal giudice, priva il ricorrente dell'interesse a coltivare un giudizio, da cui non potrebbe ricavare alcuna concreta utilità ( Cons.St. VI, n. 4218/2014; Cons. St. VI, n. 4614/2007; Cons. St. VI, n. 2763/2006). In senso difforme, in favore della natura sostanziale, e non processuale, della norma, Cons. St. V, n. 1307/2007. Va evidenziato che la modifica dell' art. 21-nonies della legge n. 241/1990 ad opera del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 ha esteso il divieto di annullamento in presenza di vizi non invalidanti al potere di autotutela della P.A., che può quindi annullare, in presenza di tutti i presupposti, il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, «esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2»; la novella non sembra fornire un elemento a favore della tesi sostanzialista in quando proprio la necessità di escludere dai provvedimenti illegittimi, quelli di cui all'art. 21-octies, comma 2, sembra confermare che tale ultima disposizione non abbia introdotto uno speciale regime di invalidità, ma che il legislatore abbia precluso in questi casi dapprima la possibilità che il provvedimento sia annullato dal giudice e poi dalla stessa amministrazione in autotutela. Sulla base della tesi processuale, oltre a dover ritenere la norma di immediata applicabilità a tutti i giudizi pendenti, può essere data una risposta al quesito della forma della decisione del giudice conseguente all'applicazione dell'art. 21-octies. Sembra in ogni caso preferibile la tesi del rigetto del ricorso (essendo infondata la pretesa sostanziale in ordine ad un risultato cui il privato aspira e che l'amministrazione gli ha negato), rispetto alla strada di una pronuncia di inammissibilità per carenza di interesse (poiché l'interesse del privato è di ottenere un determinato risultato, se il vizio dedotto è tale da non consentire, pur se accolto, quel determinato risultato, non resta che la declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità, a seconda dei casi, per difetto originario o sopravvenuto dell'interesse). Segue. L'art. 21-octies e l'espansione del ruolo del giudice amministrativoÈ innegabile che la novella legislativa determina l'espansione del ruolo del giudice amministrativo, chiamato a calarsi nel rapporto amministrativo ed a verificare nel merito l'inutilità sotto il profilo sostanziale di una misura d'annullamento che costituirebbe per il ricorrente una vittoria meramente processuale. Al momento, il giudice amministrativo sembra utilizzare con estrema accortezza gli ampi spazi che la legge gli ha consegnato: — per la prima parte dell'art. 21-octies, comma 2, premesso che la distinzione tra atti vincolati e discrezionali può essere a volte molto labile, vi è una tendenza a limitare il riscontro dell'evidenza («palese») che il contenuto dei provvedimenti vincolati non poteva essere diverso a quelle ipotesi in cui non siano contestati i presupposti di fatto e in cui il raffronto tra la fattispecie concreta ed il precetto non sia particolarmente complesso (sola valutazione in punto di diritto); — per la seconda parte della norma, in caso di violazione dell' art. 7 della legge n. 241/1990, si richiede una prova particolarmente rigorosa che il provvedimento non poteva essere diverso, escludendo la sussistenza di tale prova quando gli elementi che il privato intendeva introdurre nel procedimento (e che ha indicato in giudizio) non siano facilmente risolvibili se non con valutazioni di merito che appaiono precluse al G.A. (che peraltro si fonderebbero su una risposta alle osservazioni del privato resa in giudizio dalla P.A., o meglio dal suo difensore, sulla base di ulteriori elementi rispetto a quelli emersi in sede procedimentale, con l'effetto di squilibrare ancor più la posizione del cittadino rispetto all'amministrazione). L'onere della prova ricade sulla p.a., pur non potendo diventare un prova diabolica, dovendo il privato indicare quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l'amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta (Cons. St. VI, n. 2127/2015). Ad esempio, se il privato espropriato lamenta la sua mancata partecipazione alla procedura espropriativa, nel corso della quale intendeva sostenere che sarebbe stato meglio che il tracciato della strada da realizzare passasse sul fondo del vicino o che comunque attraversasse il suo fondo in maniera diversa in modo da arrecare minor pregiudizio, sorgono seri problemi per valutare in giudizio che il provvedimento non poteva essere diverso, a meno di non voler attribuire al giudice amministrativo valutazioni di merito sostitutive dell'operato della P.A. Ci si deve chiedere se sia meglio che sia il G.A. a valutare se la strada poteva avere un percorso diverso o che tale elemento emerga nel corso del procedimento e venga valutato dall'amministrazione con una decisione sindacabile in giudizio? Nell'attuale sistema appare preferibile la seconda soluzione; altrimenti, rispondendo di sì (è meglio che ogni valutazione la faccia il giudice) si dovrebbe riformare tutto il sistema, spostando definitivamente il giudizio amministrativo sul rapporto (dopo la presentazione del ricorso, è il G.A. che decide sostituendosi alla P.A. anche per la parte di attività non ancora svolta). Il Consiglio di Stato, proprio in un caso simile a quello descritto nell'esempio, ha ritenuto inapplicabile l'art. 21-octies, quando gli elementi che il privato intendeva introdurre nel procedimento (e che ha indicato in giudizio) non siano facilmente risolvibili se non con valutazioni di merito che appaiono precluse al giudice amministrativo, che peraltro si fonderebbero su una risposta alle osservazioni del privato resa in giudizio dalla P.A., o meglio dal suo difensore, sulla base di ulteriori elementi rispetto a quelli emersi in sede procedimentale, col l'effetto di squilibrare ancor più la posizione del cittadino rispetto all'amministrazione (Cons. St. VI, n. 4307/2006, in cui viene accolta una interpretazione restrittiva dell'art. 21-octies, in una fattispecie in cui i ricorrenti lamentavano la loro mancata partecipazione ad una procedura espropriativa, nel corso della quale intendevano proporre osservazioni sul tracciato dell'elettrodotto da realizzare). Secondo il Consiglio di Stato, in tale ipotesi risulta difficile valutare in giudizio che il provvedimento non poteva essere diverso, a meno di non voler attribuire al giudice amministrativo valutazioni di merito sostitutive dell'operato della P.A.; nello stesso senso Cons. St. IV, n. 2873/2015, secondo cui dinanzi a provvedimenti latamente discrezionali, quali sono quelli localizzativi di un vincolo preordinato all'esproprio, non può pretendersi lo svolgimento di una dialettica processuale sostitutiva di quella procedimentale negata — secondo lo schema: il privato osserva, l'amministrazione replica, il giudice decide — non foss'altro perché l'espressione dell' art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990 «l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» lascia pensare a situazioni che, pur in un'area di discrezionalità, si prestino, con riguardo al caso concreto ed all'istruttoria compiuta, ad una soluzione sostanzialmente obbligata e, diversamente ragionando, verrebbe violato il divieto per il giudice di sostituirsi all'Amministrazione nell'esercizio dell'attività discrezionale). In altra fattispecie, invece, è stato negato che la mancata partecipazione al procedimento di proroga di una procedura espropriativa potesse avere avuto conseguenze sul contenuto del provvedimento finale, in quanto una volta autorizzata la realizzazione dell'opera, dichiarata la pubblica utilità e definito il tracciato (di un elettrodotto) con provvedimenti legittimi, prima dell'adozione dei quali era stata consentita la partecipazione, non poteva essere fornito dal privato in sede procedimentale alcun concreto apporto, idoneo a mutare il contenuto del provvedimento di proroga (Cons. St. VI, n. 6194/2006, sempre relativa alla realizzazione di un elettrodotto, in cui viene evidenziata la differenza rispetto alla fattispecie descritta nella nota precedente e viene, quindi, fatta applicazione dell'art. 21-octies). È stato sottolineato che una diversa interpretazione rischierebbe di creare una asimmetria, qualora intesa in modo tale da consentire la sostituzione del giudice alla P.A.: tale sostituzione sarebbe possibile solo per accertare, a vantaggio della P.A., che il provvedimento non poteva essere diverso, mentre il privato continuerebbe ad avere ostacoli nell'accertamento che senza l'illegittimità procedimentale il bene della vita gli sarebbe stato attribuito o non gli sarebbe stato tolto. In conclusione, si può affermare che l' art. 21-octies della legge n. 241/1990 può contribuire a rendere meno formale il processo amministrativo, ma nello stesso tempo non deve essere inteso come un depotenziamento della funzione partecipativa del cittadino al procedimento amministrativo. Peraltro, la partecipazione del privato al procedimento, lungi dal costituire un appesantimento dell'azione amministrativa, consente alla stessa P.A. di assumere con minori costi tutti i dati per arrivare alla migliore decisione nel pubblico interesse e rappresenta quindi uno strumento utile proprio nell'ottica dell'efficienza dell'amministrazione. Effetti dell'annullamento in sede giurisdizionaleDi regola, in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa, l'accoglimento della azione di annullamento comporta l'annullamento con effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa, che può anche retroattivamente disporre con un atto avente effetti ‘ora per allora'. L'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento amministrativo produce effetti diversi a seconda del vizio per il quale il provvedimento viene annullato: in presenza di un vizio procedimentale (assenza di una fase del procedimento, mancata partecipazione degli aventi titolo, ecc.) l'esito della pronuncia del giudice di annullamento sarà costituito dalla necessità di rinnovare in modo corretto il procedimento; il riscontro del vizio del difetto o dell'insufficienza della motivazione, determinerà l'esigenza che l'amministrazione motivi in modo adeguato il proprio atto; invece, quando, il provvedimento viene annullato per ragioni di ordine sostanziale (ad es., fondatezza della pretesa del privato negata con l'atto impugnato o insussistenza dei presupposti per l'adozione di un atto destinato ad incidere negativamente sul privato), l'esito dell'annullamento sarà maggiormente satisfattivo per il ricorrente, determinando nel primo caso l'obbligo di riesercitare il potere in senso a lui favorevole, salvo sopravvenienze e, nel secondo caso, l'eliminazione del provvedimento sfavorevole e la riespansione della sua posizione giuridica. L'annullamento dell'atto da parte del giudice amministrativo non preclude in via di principio la riedizione del potere amministrativo, ma la nuova valutazione non può porre in discussione l'accertamento del giudice circa la sussistenza dei presupposti relativi alla pretesa del ricorrente e comunque deve dimostrarsi il frutto della constatazione della erroneità del giudizio precedente ( Cons. St. Ad. plen. , n. 2/2013). Sul rapporto tra riesercizio del potere discrezionale e giudicato, v. il commento all'art. 112 in relazione all'obbligo per la p.a., dopo un giudicato di annullamento, di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (Cons. St. IV, n. 1018/2014, che richiama Cons. St. V, n. 134/1999). A seguito delle modifiche dell'art. 10-bis della legge n. 241/90, apportate dal d.l. 16 luglio 2020 n. 76 - d.l. semplificazioni - è oggi più difficile per le p.a. riesercitare il potere in senso negativo al privato nei procedimenti ad iniziativa di parte, in quanto ogni possibile ragione ostativa all'accoglimento della istanza del privato deve essere rappresentata dall'amministrazione nel corso del procedimento e non può essere addotta per la prima volta dopo l'annullamento in giudizio dell'atto. In materia di concorsi universitari la Cassazione ha precisato che non integra eccesso di potere giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato l'ordine del giudice all'amministrazione di attribuire a un candidato l'abilitazione scientifica nazionale all'esercizio delle funzioni di professore universitario, anziché prevedere il riesercizio del potere da parte dell'amministrazione, nell'ipotesi in cui l'amministrazione abbia esaurito l'ambito di discrezionalità tecnica ad essa rimesso dopo due giudicati di merito sfavorevoli (Cass. , S.U., n. 18592/2020). Segue. Effetti della sentenza di annullamento e potere del giudice di limitare tali effettiCome appena detto gli effetti dell'annullamento di un atto in sede giurisdizionale sono ex tunc. Tuttavia, quando la sua applicazione risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, la regola dell'annullamento con effetti ex tunc dell'atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti (Cons. St. VI, n. 1488/2011; Cons. giust. amm. Reg. Sic., n. 1173/2020 e n. 994/2021; Cons. St., Ad. plen., n. 13/2017), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi. Gli effetti tipicamente e necessariamente ex tunc dell'annullamento disposto dal giudice sono stati posti in dubbio da una decisione del Consiglio di Stato, con cui si ipotizza una limitazione parziale della retroattività degli effetti dell'annullamento, ovvero la loro decorrenza «ex nunc», ovvero ancora l'esclusione di tali effetti con indicazione gli effetti conformativi (Cons. St. VI, n. 2755/2011, oggetto di critica di parte della dottrina). Nel caso esaminato da detta pronuncia, accertata l'illegittimità di una Piano faunistico venatorio, il Consiglio di Stato si è limitato a dettare misure idonee ad assicurare l'attuazione della sentenza e il relativo obbligo conformativo ai sensi dell' art. 34, comma 1, lett. e), prima frase, del c.p.a. (che consente di anticipare alla sede di cognizione le misure esecutive). È stato escluso non solo l'effetto demolitorio ex tunc, ma anche quello ex nunc, perché altrimenti «sarebbero state travolte tutte le prescrizioni del piano, e ciò sia in contrasto con la pretesa azionata col ricorso di primo grado, sia con la gravissima e paradossale conseguenza di privare il territorio pugliese di qualsiasi regolamentazione e di tutte le prescrizioni di tutela sostanziali contenute nel piano già approvato (retrospettivamente o a decorrere dalla pubblicazione della presente sentenza, nei casi rispettivamente di annullamento ex tunc o ex nunc)». Secondo il giudice di appello, l'annullamento ex tunc e anche quello ex nunc degli atti impugnati risulterebbero in palese contrasto sia con l'interesse posto a base dell'impugnazione, sia con le esigenze di tutela prese in considerazione dalla normativa di settore, e si ritorcerebbe a carico degli interessi pubblici di cui è portatrice ex lege l'associazione appellante. Viene, quindi, stabilito che l'illegittimità del piano determina unicamente la produzione di effetti conformativi, in assenza di effetti caducatori e d'annullamento, in quanto la Regione Puglia dovrà emanare ulteriori provvedimenti, sostitutivi ex nunc di quelli risultati illegittimi e che tengano conto dei medesimi effetti conformativi (In linea con il citato discusso precedente Tar Piemonte,9 agosto 2017 n. 960 che, nonostante l'illegittimità dell'atto, non ha proceduto all'annullamento, disponendo solo effetti conformativi per la p.a., consistenti nella specie nel riattivare un procedimento per valutare la posizione della ricorrente senza appunto annullare l'atto impugnato che era una diffida ad effettuare una bonifica). Un importante caso di limitazioni degli effetti di una sentenza di annullamento e di posticipazione degli stessi nel tempo è quello relativo alla proroga delle concessioni balneari: la Adunanza plenaria, dopo aver riconosciuto la necessità di disapplicare per contrasto con il diritto dell'U.E. le norme di proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, ha sostanzialmente posticipato gli effetti della decisione ammettendo che le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023 al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell'auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea (Cons. St., Ad. plen. n. 17/2021 e n. 18/2021). La possibilità di limitare gli effetti di una pronuncia di annullamento viene tratta anche dalla giurisprudenza comunitaria. Viene ricordato che la giurisprudenza comunitaria ha da tempo affermato che il principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata assoluta e che la Corte può dichiarare che l'annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia effetto ex nunc o che, addirittura, l'atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l'istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l'atto impugnato (Corte di Giustizia, 5 giugno 1973, Commissione c. Consiglio, in C-81/72; Corte di Giustizia, 25 febbraio 1999, Parlamento c. Consiglio, in C-164/97 e 165/97). Tale potere valutativo prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona era previsto espressamente nel caso di riscontrata invalidità di un regolamento comunitario (v. l'art. 231 del Trattato istitutivo della Comunità Europea), ma era esercitabile — ad avviso della Corte — anche nei casi di impugnazione delle decisioni (Corte giustizia CE, 12 maggio 1998, Regno Unito c Commissione, in C-106/96), delle direttive e di ogni altro atto generale (Corte giustizia CE, 7 luglio 1992, Parlamento c. Consiglio, in C-295/90; Corte giustizia CE, 5 luglio 1995, Parlamento c Consiglio, in C-21-94). La Corte di Giustizia è dunque titolare anche del potere di statuire la perduranza, in tutto o in parte, degli effetti dell'atto risultato illegittimo, per un periodo di tempo che può tenere conto non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare rilevante (Corte giustizia CE, 10 gennaio 2006, in C-178/03; Corte giustizia CE, 3 settembre 2008, in C-402/05 e 415/05; Corte giustizia CE, 22 dicembre 2008, in C-333/07). Tale giurisprudenza ha ormai trovato un fondamento testuale nel secondo comma dell'art. 264 (ex 231) del Trattato di Lisbona sul funzionamento della Unione Europea, che non contiene più il riferimento delimitativo alla categoria dei regolamenti («Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato. Tuttavia la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi»). La natura discrezionale del potere di annullamento di ufficio sarebbe sicuramente compatibile con una graduazione degli effetti dell'annullamento e consentirebbe di tutelare, almeno in parte, l'affidamento del privato, senza dover scegliere in modo rigido tra conservazione dell'atto e annullamento con effetti retroattivi. Del resto, se la pubblica amministrazione ha il potere di non annullare l'atto illegittimo, sulla base di una valutazione discrezionale o anche di annullare parzialmente un atto, non si vede perché tale potere non possa essere graduato anche con riferimento agli effetti dell'annullamento sulla base del principio che il più (non annullamento) comprende il meno (annullamento limitato ad effetti ex nunc). In attesa di un consolidamento del principio giurisprudenziale, ci si limita a osservare che la limitazione degli effetti dell'annullamento non può diventare uno strumento attraverso cui il giudice amministrativo compie valutazioni di merito e soprattutto limita la tutela giurisdizionale. L'efficacia dell'annullamento giudiziale di un atto a natura regolamentare si estende a tutti i possibili destinatari, sebbene non siano stati parti del giudizio, perché gli effetti della sentenza si estendono al di là delle parti che sono intervenute nel singolo giudizio, dato che l'annullamento di un atto amministrativo a contenuto normativo ha efficacia erga omnes per la sua ontologica indivisibilità (Cons. St. VI, n. 6212/2011). Segue. Assenza di interesse all'annullamento e accertamento dell'illegittimitàL'azione di annullamento davanti al g.a. è soggetta a due condizioni: 1) l'esistenza di una posizione giuridica di interesse legittimo, direttamente discendente da una situazione qualificata («legittimatio ad causam») che distingue il soggetto dal «quisque de populo»; 2) la sussistenza di un interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. a conseguire un risultato utile e concreto, collegato al perseguimento del cd. bene della vita («legitimatio ad processum»). Può accadere che l'interesse ad ottenere l'annullamento dell'atto venga meno nel corso del processo e che, ciò nonostante, permanga un interesse ad accertare l'illegittimità dell'atto impugnato. Non è necessaria una specifica istanza dell'interessato affinché il G.A. accerti la sola illegittimità dell'atto in presenza di una azione di annullamento. L'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato è contenuto nel petitum di annullamento come un presupposto necessario. Siccome il più contiene il meno, il giudice limita la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento in seguito ad una valutazione dell'interesse a ricorrere, quindi da compiere d'ufficio: in quanto manca l'interesse all'annullamento ma sussiste l'interesse all'accertamento ai fini risarcitori (Cons. St. V, n. 2817/2011). Con la sentenza segnalata, il Consiglio di Stato fa applicazione del combinato-disposto di cui all'art. 34, comma 3, e 30, comma 5 secondo cui, rispettivamente, «quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori « e «quando sia stata proposta azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata anche sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. La norma dispone che in presenza dei presupposti dalla stessa predefiniti (annullamento non più utile per il ricorrente) «il giudice accerta l'illegittimità dell'atto», impiegando una locuzione vincolante che esclude la necessità di una domanda di parte (v. il commento all’art. 30). Segue. Azione di annullamento e di risarcimento: poteri del giudice e domanda della parteIl giudice amministrativo non può emettere ex officio una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento valutando gli effetti particolarmente pregiudizievoli di quest'ultimo nei confronti delle altre parti interessate, anche in relazione al tempo trascorso dalla emanazione degli atti impugnati. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha escluso tale possibilità: a) sulla base del principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo; b) sulla base della natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva, pur con talune peculiarità — di stretta interpretazione — di tipo oggettivo; c) per la non mutabilità ex officio del giudizio di annullamento una volta azionato ( Cons. St. Ad. plen., n. 4/2015). L'art. 29 dispone che la sanzione per i vizi di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza sia l'annullamento ad opera del giudice, la cui azione deve proporsi nel termine di sessanta giorni. L'illegittimità determina l'annullabilità (in potenza); l'azione di annullamento determina, su pronuncia del giudice, l'annullamento (in atto) degli atti impugnati. In caso di accoglimento del ricorso di annullamento (art. 34, comma 1, lettera a) il giudice quindi annulla (necessariamente) in tutto o in parte il provvedimento impugnato. A sua volta l'art. 34 esprime il principio dispositivo del processo amministrativo in relazione all'ambito della domanda di parte; si tratta, nel caso della giurisdizione amministrativa di legittimità, come noto, di una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo (ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti come, per esempio, nella estensione della legittimazione ovvero nella valutazione sostitutiva dell'interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare, ovvero ancora nella esistenza di regole speciali, quali quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che, riguardo alle controversie in materia di contratti pubblici, consentono al giudice di modulare gli effetti della inefficacia del contratto). Proprio in virtù del principio della domanda. non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l'effetto distruttivo dell'atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. L'azione di annullamento si distingue, infatti, dalla domanda di risarcimento per gli elementi della domanda, in quanto nella prima la causa petendi è l'illegittimità, mentre nella seconda è l'illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l'annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica. Se poi la domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell'atto impugnato dal mondo giuridico non dovesse soddisfare l'interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo, la pronuncia del giudice non potrebbe che essere di accertamento, ma nell'altro senso, cioè della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto domanda di annullamento. Cosa diversa dall'accertamento del sopravvenuto difetto di interesse è che sia il giudice ex officio a preferire la forma di tutela, facendo recedere l'interesse, a suo dire, indebolito del ricorrente, sulla base di altre valutazioni di interessi (gli interessi dei controinteressati, l'interesse pubblico, il tempo, l'opportunità e così via). L'accertamento del difetto di interesse ad ottenere l'annullamento può condurre all'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato da far eventualmente valere in sede risarcitoria, che è cosa diversa dal riconoscere al giudice il potere di adottare d'ufficio una pronuncia di condanna al risarcimento del danno in luogo dell'annullamento dell'atto (v. Cons. St. V, n. 2817/2011, nel par.: Assenza di interesse all'annullamento e accertamento dell'illegittimità). Sulla base di tali considerazioni la citata sentenza dell'Adunanza Plenaria conclude che non è però consentito al giudice, in presenza della acclarata, obiettiva esistenza dell'interesse all'annullamento richiesto, derogare, sulla base di invocate ragioni di opportunità, giustizia, equità, proporzionalità, al principio della domanda (si tratterebbe di una omessa pronuncia, di una violazione della domanda previsto dall' art. 99 c.p.c. e del principio della corrispondenza previsto dall' art. 112 c.p.c. tra chiesto e pronunciato secondo cui «il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa», applicabili ai sensi del rinvio esterno di cui all'art. 39 anche al processo amministrativo) e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione ( Cons. St. Ad. plen. , n. 4/2015) Annullamento e disapplicazione dei regolamenti illegittimiIn presenza di un atto amministrativo adottato sulla base di un regolamento illegittimo per lungo tempo è stato escluso che il giudice amministrativo avesse il potere di disapplicare i regolamenti amministrativi illegittimi e, quindi, di verificare incidentalmente il vizio del regolamento non formalmente sottoposto alla sua cognizione. Si possono distinguere due ipotesi; a) il provvedimento contrasta con il regolamento illegittimo (c.d. rapporto di antipatia); b) il provvedimento è conforme al regolamento amministrativo illegittimo, mutuandone il vizio (c.d. rapporto di simpatia). In passato, in presenza di un provvedimento amministrativo fondato su una norma regolamentare contrastante con la legge, se il privato ometteva di impugnare il regolamento, il G.A. non poteva annullare l'atto per un vizio mutuato dal regolamento e, quindi, nonostante l'illegittimità dell'atto, doveva respingere il ricorso. Il disconoscimento del potere di disapplicazione comportava, quindi, la necessità della doppia impugnazione. Laddove, invece, il ricorrente avesse dedotto l'illegittimità di un provvedimento in quanto violativo di un regolamento a sua volta illegittimo, l'impossibilità di disapplicare il regolamento non gravato in via incidentale inibiva la verifica del vizio del regolamento e, quindi, della legittimità della scelta adottata con il provvedimento finale di disattendere la statuizione regolamentare. Da qui la soluzione dell'accoglimento del ricorso, stante, da un lato, il contrasto del provvedimento con il regolamento e, dall'altro, l'impossibilità di accertare la legittimità del regolamento e, con essa, della statuizione finale. Unica eccezione riconosciuta a questo rigoroso principio era costituito dal regime processuale in sede di giurisdizione esclusiva del g.a., relativamente alle sole controversie incidenti su diritti soggettivi e ciò sulla base dell'equiparazione di una giurisdizione concernente posizioni di diritti soggettivi alla tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario, sia sull'assunto della natura non impugnatoria del giudizio. L'indirizzo giurisprudenziale volto a negare la possibilità per il g.a. di verificare incidentalmente i vizi del regolamento, in mancanza di una specifica impugnativa del medesimo, prestava il fianco a diversi rilievi critici. In primo luogo, l'equiparazione ai fini processuali, del regolamento e provvedimento, finisce per negare al regolamento la dignità di fonte del diritto, mentre il regolamento è l'atto normativo per eccellenza emanato dalla P.A. e in ossequio a tale sua natura sostanzialmente normativa devono trovare applicazione i principi fondamentali in tema di fonti dell'ordinamento giuridico quali quelli iura novit curia e il principio di gerarchia delle fonti. Secondo questi principi, al giudice si impone la cognizione ufficiosa dell'intero quadro normativo indipendentemente dalla prospettazione fattane dalla parte nel ricorso, nonché, qualora la fattispecie sia regolata da fonti di diverso grado, l'applicazione della fonte gerarchicamente sovraordinata con consequenziale disapplicazione di quella sottordinata. Il regolamento violativo di una norma legislativa, quindi, indipendentemente dalla richiesta fattane dalla parte, non può trovare applicazione in sede processuale (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 90). La dinamica della prevalenza della legge rispetto al regolamento si articola poi diversamente a seconda delle relazioni che si instaurano tra legge, regolamento e provvedimento.
Secondo la combinazione c.d. di antipatia, il provvedimento amministrativo si pone in difformità rispetto al regolamento illegittimo di cui costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) applicazione, ma in conformità della legge. In base al principio di gerarchia delle fonti, il ricorso avverso il provvedimento che censura la violazione del regolamento non può che essere rigettato dal g.a. L'atto amministrativo è, infatti, contrario al regolamento, ma conforme alla legge e, quindi, in applicazione della fonte sovraordinata, si deve concludere per la legittimità dell'atto. La seconda relazione è, invece, come si è detto di simpatia. Il provvedimento amministrativo, ponendosi in assoluta conformità al regolamento di cui costituisce espressione, ne mutua il vizio e si pone, insieme ad esso, in contrasto con la legge. In applicazione del principio di gerarchia delle fonti, lo strumento della disapplicazione consente di valutare il contrasto tra provvedimento e legge, e di rilevarne quindi l'illegittimità, senza più l'intermediazione del regolamento. Il ricorso avverso l'atto amministrativo si concluderà in questo caso con l'accoglimento a prescindere dall'impugnazione congiunta del regolamento. Del resto, il principio di gerarchia delle fonti, che vige nei rapporti tra legge ordinaria e Costituzione, fra norma interna e norma comunitaria, non può non risolvere a fortiori anche i casi di contrasto fra una fonte secondaria, quale quella regolamentare, e la legge. È necessario, cioè, che vi sia uno strumento processuale nell'ambito dell'ordinamento giuridico che consenta di far prevalere, attraverso la combinazione dei principi di gerarchia delle fonti e dello iura novit curia, la norma gerarchicamente sopraordinata e, quindi, nel caso di specie, far prevalere la legge sul regolamento anche laddove manchi la sua rituale impugnazione. Sarebbe, infatti, paradossale che nel caso in cui gli interessati omettano di impugnare il regolamento secondo lo schema della doppia impugnazione, il regolamento diventi sostanzialmente inoppugnabile, regolando definitivamente la fattispecie, senza che vi sia la possibilità di risolvere il contrasto in favore della legge. Negata, infatti, la possibilità della disapplicazione del regolamento amministrativo in via incidentale, la fonte secondaria illegittima risulterebbe, a causa dell'inerzia degli interessati, definitivamente immessa nell'ambito dell'ordinamento giuridico senza che alcuno strumento processuale consenta di rilevare la sistematica violazione della legge e quindi ne permetta l'espunzione dall'ordinamento stesso. Si finirebbe, in altri termini, per applicare il criterio gerarchico alla rovescia: applicando il regolamento in contrasto con la legge, si disapplica necessariamente quest'ultima (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 90). La tesi contraria alla disapplicazione dei regolamenti amministrativi è stata superata dal Consiglio di Stato a partire dalla nota Cons. St. V, n. 154/1992. La svolta giurisprudenziale matura in relazione ad una fattispecie caratterizzata dal contrasto tra un provvedimento amministrativo e un regolamento a sua volta contrastante con la legge. In tale evenienza il Consiglio di Stato ha disapplicato il regolamento illegittimo invocando il principio di gerarchia delle fonti. Tesi poi estesa alle ipotesi di c.d. simpatia, ossia di invalidità derivata dell'atto in ragione di un vizio trasmesso dal regolamento presupposto (Cons. St. n. 799/1993). L'orientamento favorevole alla disapplicazione viene generalizzato ed ampliato. Si afferma espressamente l'ammissibilità di un sindacato incidentale (attivabile anche d'ufficio dal G.A.) sulla legittimità dei regolamenti (e più in generale di tutte le fonti secondarie) sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi, a prescindere dal rapporto di simpatia o antipatia tra provvedimento e regolamento. Si chiarisce, in altri termini, che la disapplicazione opera sia a favore che contro il ricorrente, imponendosi tanto nella fattispecie di impugnazione di un provvedimento che mutua il vizio dal regolamento illegittimo quanto in ipotesi di impugnazione di provvedimento per contrasto con regolamento illegittimo. Alla luce di questa evoluzione, ci si è chiesti sino a che punto sia ancora possibile, da parte del singolo ricorrente, ottenere l'annullamento di un regolamento illegittimo, ove quest'ultimo, come normalmente accade, non sia dotato di effetti immediatamente lesivi (si tratti cioè, come comunemente si dice, di un regolamento “volizione-preliminare” e non di un regolamento “volizione-azione”). Tale annullamento quindi diviene uno strumento non solo non necessario rispetto all'obiettivo di tutela, ma persino sproporzionato (nella misura in cui si elimina definitivamente un atto normativo con efficacia erga omnes che non è fonte immediata della lesione) e potenzialmente lesivo delle posizioni di eventuali terzi, che dal regolamento potrebbero trarre vantaggio o potrebbero comunque avere interesse alla loro conservazione. Diverso è ovviamente il discorso laddove il regolamento, a dispetto della sua veste formale, abbia un contenuto immediatamente lesivo (si tratti, cioè, di un “regolamento-provvedimento” o di un regolamento “volizione-azione”). In tal caso non può negarsi al singolo che ne sia leso la possibilità di chiederne l'annullamento, proponendo immediatamente ricorso (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 93). Diverso è, ancora, il caso in cui il regolamento, pur avendo un contenuto generale e astratto, venga impugnato non dal singolo, ma da un ente esponenziale degli interessi di una categoria, sul presupposto che la disciplina in esso introdotta possa ledere l'interesse collettivo del gruppo di cui l'ente è, appunto, esponenziale. In questo caso, visto che in giudizio è azionato a tutela non di un interesse individuale, ma di un interesse collettivo, l'obiettivo perseguito può essere raggiunto solo con l'annullamento con effetti erga omnes del regolamento. Sembra, quindi, che oggi il potere di annullamento dei regolamenti sia rimasto in questi due casi: regolamento volizione-azione (come tale lesivo direttamente) oppure regolamento impugnato da un ente esponenziale a tutela degli interessi della categoria. Negli altri casi, la disapplicazione dovrebbe esaurire le esigenze di tutela del privato (Chieppa – Giovagnoli, Manuale, 93). L'annullamento d'ufficioL'annullamento di un provvedimento amministrativo può avvenire anche d'ufficio da parte della stessa amministrazione che ha adottato l'atto, e non solo quindi da parte del giudice. Profili di diritto comparato Prima di esaminare i presupposti dell'annullamento d'ufficio nel nostro ordinamento, può essere utile affrontare alcuni profili di diritto comparato. A parte alcune differenza terminologiche, aspetto tendenzialmente comune nei vari ordinamenti è il carattere discrezionale, e non doveroso, del riesame, mentre il decorso del tempo incide in maniera puntuale in Spagna e in Francia, può avere un rilievo anche puntuale nell'ordinamento tedesco ed è solo elemento da valutare nell'ordinamento comunitario. L'illegittimità non sempre è elemento sufficiente per annullare d'ufficio un atto, essendo spesso richiesta una valutazione dell'interesse pubblico alla eliminazione del precedente provvedimento (come in Italia, così anche in Spagna e nel sistema comunitario; mentre nei sistemi di common law, in Francia ed in Germania, il solo elemento dell'illegittimità permette all'amministrazione di annullare il provvedimento viziato, pur essendo presenti dei limiti derivanti dall'affidamento del privato). Gli effetti giuridici dell'annullamento hanno sempre carattere retroattivo in Francia e in Spagna, mentre possono essere modulati in relazione alle peculiarità delle singole fattispecie e, in particolare, al grado di affidamento del privato in Germania, nell'ordinamento comunitario e nei paesi di common law. L'annullamento d'ufficio nell'ordinamento francese Nell'ordinamento francese, è applicato l'istituto del retrait, equipollente dell'annullamento d'ufficio, caratterizzato da un limite temporale all'esercizio del potere; tale limite è stato in origine individuato dalla giurisprudenza nello stesso termine per impugnare gli atti amministrativi con un evidente accostamento tra annullamento in via amministrativa ed annullamento giurisdizionale, entrambi diretti alla caducazione, con effetto retroattivo, di un provvedimento illegittimo. Successivamente, la giurisprudenza ha modificato tale orientamento, precisando che l'amministrazione può provvedere all'annullamento dei propri provvedimenti senza alcun rapporto con il termine di impugnazione, seppur entro il termine di quattro mesi dalla loro assunzione, scaduto il quale gli effetti del provvedimento devono ritenersi consolidati, benché l'atto sia illegittimo (arret Ternon). Il principio viene derogato per alcune tipologie di provvedimenti (autorizzazioni, atti meramente dichiarativi, provvedimenti sfavorevoli), che possono essere ritirati senza limiti di tempo. L'amministrazione non deve, quindi, dimostrare la sussistenza di un interesse pubblico all'eliminazione dell'atto, dovendo ritirare necessariamente il provvedimento una volta che abbia deciso di verificarne la legittimità (si tratta, quindi, dell'esercizio di un potere di controllo della legittimità dell'azione amministrativa, libero nell'an ma vincolato nel quomodo). L'annullamento d'ufficio nell'ordinamento tedesco In Germania, l'annullamento di ufficio (Rücknahme) è disciplinato dal § 48 della legge sul procedimento amministrativo del 1976, che al primo comma dispone in via generale che qualsiasi provvedimento amministrativo (favorevole o sfavorevole) può essere ritirato dall'amministrazione, qualora illegittimo. L'efficacia ex nunc o ex tunc dell'annullamento dipende da una valutazione rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione. Il secondo comma del § 48 pone dei limiti all'annullamento d'ufficio in considerazione della tutela dell'affidamento dei destinatari dell'atto; è previsto che un provvedimento che accordi una prestazione pecuniaria una tantum o continuativa, oppure una prestazione di natura divisibile che ne costituisca il presupposto, non possa essere mai ritirato ove il beneficiario abbia fatto affidamento sull'esistenza del provvedimento e l'affidamento risulti degno di tutela e viene anche precisato che non si può giungere alla Rücknahme del provvedimento qualora il beneficiario abbia già consumato le prestazioni accordate o abbia adottato una disposizione riguardante il suo patrimonio, che egli non può più annullare se non con svantaggi inaccettabili. L'affidamento non può mai essere degno di tutela nel caso in cui il destinatario abbia ottenuto il provvedimento mediante dolo, minaccia, corruzione; mediante dichiarazioni sostanzialmente erronee o incomplete; qualora sia a conoscenza dell'illegittimità o la ignori per colpa grave, salvo in quest'ultimo caso, il ritiro del provvedimento ex nunc con salvezza degli effetti medio tempore sopravvenuti. Se nonostante l'affidamento sia degno di tutela l'atto sia comunque ritirato, l'interessato ha diritto, ai sensi del terzo comma del § 48, ad un indennizzo, la cui determinazione è rimessa ad una valutazione discrezionale dei pubblici poteri e sulla base del principio che l'indennizzo non debba superare l'ammontare dell'interesse che il danneggiato abbia alla conservazione dell'atto amministrativo. Nell'ordinamento tedesco, i provvedimenti amministrativi sono quindi annullabili, anche dopo che sono divenuti inoppugnabili, anche se è fissato dal quarto comma del § 48 per i soli provvedimenti favorevoli il termine massimo di un anno decorrente dal momento in cui l'amministrazione stessa abbia avuto conoscenza del vizio, salvo il caso di provvedimenti emanati mediante dolo, minacce, corruzione del richiedente, ritirabili a prescindere dalla scadenza del termine. L'annullamento d'ufficio nell'ordinamento spagnolo. Nell'ordinamento spagnolo, vige una disciplina completamente diversa: l'anulaciòn de oficio può disporsi unicamente nel caso in cui il provvedimento sia nullo, secondo le ipotesi tassativamente previste dalla legge, mentre nelle ipotesi di annullabilità, l'amministrazione non può procedere in via amministrativa all'annullamento, ma deve seguire la via giurisdizionale: entro il termine di quattro anni dall'emanazione del provvedimento e previa audizione dei destinatari della determinazione iniziale e degli eventuali soggetti interessati, l'amministrazione può valutare che il provvedimento illegittimo è effettivamente lesivo di un interesse dell'amministrazione (c.d. declaraciòn de lesividad) e, in questo caso, deve adire il giudice, entro l'ulteriore termine perentorio di due mesi, mediante uno specifico ricorso, denominato recurso de lesividad, il cui accoglimento ha effetti retroattivi. Negli ordinamenti di common law, vengono privilegiate le istanze della legalità, come intese dall'amministrazione, che può quindi ritirare una decisione illegittima, senza significative limitazioni legate agli affidamenti. L'istituto, variamente denominato (revocation, rescission, redetermine, reopen), viene inquadrato nell'ambito del più generale esercizio dell'attività amministrativa discrezionale e solo in misura minima viene limitato dall'applicazione dei principi dell'Estoppel (impossibilità di una contestazione di fatti precedentemente ammessi da un soggetto, quando altri abbia fatto affidamento sulla falsa rappresentazione dei fatti medesimi) o della Res Judicata (una statuizione su una determinata materia non può essere oggetto di nuove dispute fra le parti una volta esauriti i mezzi di gravame). L'annullamento d'ufficio negli ordinamenti di common law In Gran Bretagna viene fatta una distinzione tra una revocation of lawful decisions ed una revocation of unlawful decisions, analoga a quella che intercorre, nell'ordinamento italiano, fra revoca ed annullamento d'ufficio. Solo per la revocation of lawful decisions è richiesto un bilanciamento fra interesse pubblico all'eliminazione del provvedimento ed interesse privato alla sua conservazione, mentre la revocation of unlawful decisions non incontra particolari limiti. Anche negli Stati Uniti, il potere discrezionale dell'amministrazione di riconsiderare le proprie scelte è piuttosto ampio e non è limitato dal principio dell'Estoppel, ritenuto non idoneo a legittimare provvedimenti invalidi. Per quanto concerne l'ordinamento comunitario, i principi in tema di provvedimenti di secondo grado sono stati individuati dalla giurisprudenza, che ha attinto dagli orientamenti emersi nei singoli ordinamenti degli Stati membri. L'annullamento d'ufficio nell'ordinamento dell'Unione europea Nella pronuncia individuata come leading case (Corte giustizia CE 12 luglio 1957, Algera Dineke), la Corte di Giustizia affermò, da un lato, il principio della tendenziale irrevocabilità di provvedimenti amministrativi legittimi e, dall'altro lato, la possibilità di revocare i provvedimenti risultanti illegittimi (va notato come il termine revoca sia utilizzato con riferimento ad atti illegittimi, in luogo del nostro annullamento d'ufficio). In relazione a questi ultimi, il potere di ritiro è stato temporalmente circoscritto entro un lasso di tempo ragionevole, anche se non definito con precisione e può essere esercitato a seconda dei casi con effetti ex nunc o ex tunc. La Corte ha precisato che una determinazione amministrativa illegittima può sempre essere revocata con effetti ex nunc, mentre una revoca con effetti ex tunc doveva sempre essere preceduta da un bilanciamento di interessi, relativo alle esigenze sottese alla caducazione dell'atto ed alle esigenze sottese alla sua conservazione. Nelle successive pronunce, la Corte di Giustizia ha progressivamente ristretto l'efficacia retroattiva della revoca di provvedimenti illegittimi: l'amministrazione può revocare con effetto retroattivo un atto amministrativo favorevole viziato da illegittimità, a condizione che non venga violato né il principio della certezza del diritto né quello della tutela del legittimo affidamento, nel rispetto del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa comunitaria (Corte giustizia CE 24 gennaio 2002, Conserve Italia). Si può, quindi, ritenere che nell'ordinamento comunitario, l'annullamento d'ufficio (benché denominato diversamente) è atto discrezionale, adottato sulla base della valutazione di una serie di circostanze: interesse dell'amministrazione all'annullamento, interesse del destinatario al mantenimento del provvedimento favorevole, il ragionevole decorso del tempo dall'adozione dell'atto che s'intende eliminare, l'affidamento del privato in ordine alla correttezza dell'azione amministrativa. Da tale panorama delle soluzioni date da altri ordinamenti al problema del riesame degli atti amministrativi, emerge come, a parte la peculiarità dell'ordinamento spagnolo, nella maggior parte dei casi il termine utilizzato per individuare il ritiro di atti illegittimi è diverso da quello di annullamento, che individua l'atto del giudice. Nozione di annullamento d'ufficio L'annullamento d'ufficio consiste nell'eliminazione del provvedimento amministrativo illegittimo. La definizione di annullamento d'ufficio è oggi scolpita nell' art. 21- noniesl. n. 241/1990 «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge» (la prima fase sottolineata è stata aggiunta con il d.l. n. 133/2014 e ha esteso il divieto di annullamento in presenza di vizi non invalidanti al potere di autotutela della p.a., come meglio indicato nel precedente capitolo; il secondo periodo sottolineato è stato aggiunto dall' art. 6 l. 7 agosto 2015, n. 124 e ha ristretto temporalmente il potere di annullamento d'ufficio, avvicinando il nostro ordinamento a quello di altri paesi europei, v. supra). Il Consiglio di Stato ha più volte sottolineato che il provvedimento di autoannullamento è la principale espressione dell'autonomo e discrezionale potere generale di autotutela spettante all'amministrazione e che se la necessità — inerente al principio di buon andamento — della continua rispondenza dell'assetto dei rapporti amministrativi all'interesse pubblico fa sì che alla P.A. (diversamente che ai privati) sia riconosciuta la potestà, quante volte l'interesse pubblico lo esiga, di tornare sulle proprie statuizioni anche se non invalide (revoca di atti difettosi nel merito), a maggior ragione l'autorità emanante deve poter annullare, a certe condizioni, gli atti da essa emanati i quali si rivelino ab initio viziati ( Cons. St. Ad. gen. 10 giugno 1999 n. 9). I presupposti dell'annullamento d'ufficio Nel nostro ordinamento, costituisce principio pacifico che l'annullamento del provvedimento illegittimo non possa essere disposto per la sola esigenza di ristabilire la legalità dell'azione amministrativa, posto che tale interesse, pur rilevante, deve essere comparato con altri interessi posti a tutela della stabilità delle relazioni giuridiche, anche se basate su provvedimenti illegittimi. L'annullamento d'ufficio è, dunque, un provvedimento discrezionale, che può essere disposto quando sussistono ragioni di pubblico interesse all'eliminazione del provvedimento. L' art. 21-nonies della l. n. 241/1990, oltre a codificare tale principio ha fissato altre condizioni per l'esercizio di tale potere; condizioni che, quindi, oggi sono: a) l'illegittimità dell'atto; b) la sussistenza di ragioni di interesse pubblico; c) l'esercizio del potere entro un termine ragionevole (oggi comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici); d) la valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere. Il potere di annullamento compete alla stessa autorità che ha posto in essere l'atto invalido (c.d. autoannullamento), salvo che disposizioni speciali non attribuiscano il potere anche ad altro organo; va comunque chiarito che l'esistenza di eventuali disposizioni speciali non privano del potere di autoannullamento l'autorità che ha posto in essere l'atto. L'illegittimità dell'atto In ordine al primo aspetto (illegittimità dell'atto), l'art. 21-nonies si limita a prevedere l'annullamento d'ufficio di provvedimenti illegittimi ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi dal 2014 i vizi c.d. non invalidanti in quanto inidonei a determinare un diverso contenuto del provvedimento (v. supra). A seguito di tale modifica, in presenza dei vizi formali e procedimentali di cui al secondo comma dell'art. 21-octies e del rilievo che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, il provvedimento, non annullabile dal giudice, non è oggi annullabile neanche dall'amministrazione in sede di autotutela. In questi casi resta a carico dell'amministrazione il rischio che la valutazione sulla portata non invalidante dell'atto non sia poi condivisa dal giudice. Le ragioni di interesse pubblico Con riguardo al secondo presupposto (sussistenza di ragioni di interesse pubblico), secondo il prevalente orientamento, l'interesse pubblico alla eliminazione dell'atto presuppone un concreto bilanciamento fra tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti; deve sussistere un interesse pubblico attuale e concreto, diverso ovviamente dal mero interesse al ripristino alla legalità violata, che, comparato anche con l'affidamento ingenerato nel privato e con gli altri interessi coinvolti, sia tale da giustificare la rimozione del provvedimento. Si tratta di un bilanciamento che deve essere fatto in concreto, tuttavia, la giurisprudenza ha frequentemente riconosciuto ipotesi di interesse pubblico in re ipsa all'annullamento d'ufficio, in cui sussisterebbe una sorta di presunzione dell'interesse pubblico all'eliminazione del provvedimento illegittimo (anche se l'interesse pubblico in re ipsa dovrebbe essere limitato a particolari figure di annullamento, quale quella descritta nel par. seguente, dirette a evitare oneri finanziari o a conseguire risparmi). Il termine per l'annullamento d'ufficio e la valutazione degli interessi Oltre all'illegittimità dell'atto e alle ragioni di pubblico interesse per eliminarlo, è necessario che il potere di annullamento sia esercitato entro un termine ragionevole e che tenga conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati rispetto all'atto da rimuovere. Prima della novella introdotta con la legge n. 124/2015, la giurisprudenza aveva più volte ritenuto che il decorso del tempo costituisce indice sintomatico di un legittimo affidamento in capo al privato, a fronte del quale grava sulla p.a un obbligo motivazionale «rafforzato» circa l'individuazione di un interesse pubblico specifico all'esercizio del potere di annullamento d'ufficio (Cons. St. VI, n. 1393/2016). Con la modifica introdotta dalla legge n. 124/2015 il legislatore per i provvedimenti maggiormente idonei a generare un affidamento del privato (autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici) ha fissato un termine massimo non superiore a diciotto mesi, (ora portato a dodici mesi, v. oltre) applicabile anche al silenzio assenso; la giurisprudenza ha immediatamente tratto dalla novella un elemento interpretativo e ricostruttivo del sistema degli interessi rilevanti da utilizzare anche nei casi anteriori alla sua entrata in vigore (Cons. St. VI, n. 5625/2015). Tale limite temporale non si applica per i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato. Durante l’emergenza COVID-19 e fino al 31 dicembre 2020 il termine di diciotto mesi è stato ridotto a tre mesi per i provvedimenti amministrativi illegittimi adottati in relazione all’emergenza (art. 264, comma 1, lett. b), del d.l. n. 34/2020, conv. in legge 17 luglio 2020 n. 77, che comunque ha fatto salva l’annullabilità d’ufficio anche dopo il termine di tre mesi qualora i provvedimenti amministrativi siano stati adottati sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, salva l’applicazione delle sanzioni penali). Con l’art. 62 del d.l. 31 maggio 2021 n. 77 il termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio è stato ridotto a dodici mesi. Con riferimento ad una fattispecie anteriore alla modifica del 2015, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha precisato che nella vigenza dell'articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 – per come introdotto dalla l. 15 del 2005 - l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi: i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (Cons. St. Ad. Plen. n. 8/2017). Contestualmente all'introduzione del suddetto limite temporale è stata abrogata una disposizione speciale, con cui da un lato era stato previsto che «al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche può sempre essere disposto l'annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l'esecuzione degli stessi sia ancora in corso» e sotto altro profilo che «L'annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante» ( art. 1, comma 136, l. n. 311/2004 — legge finanziaria per il 2005). Si trattava di una previsione, che sembrava aver recepito l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui vi è interesse pubblico in re ipsa, tale da giustificare ex se l'annullamento in via di autotutela, ogniqualvolta ci sia un atto amministrativo che provochi una illegittima fuoriuscita di denaro pubblico, senza limiti di tempo e a prescindere dall'esistenza di uno specifico e ulteriore interesse pubblico alla rimozione dell'atto. La secondo parte della disposizione prevedeva la possibilità che il privato fosse tenuto indenne dell'eventuale pregiudizio patrimoniale subito per effetto dell'autotutela incidente su rapporti contrattuali o convenzionali e la previsione di un termine massimo di tre anni (nulla veniva detto sulla giurisdizione sull'indennizzo). La modifica dell'art. 21-nonies ad opera della l. n. 124/2015 ha il pregio di ricondurre ad unità l'istituto dell'annullamento d'ufficio e anche di renderlo più coerente con i corrispondenti istituti di altri paesi europei. Il trascorrere del tempo, consolidando l'affidamento del privato, può impedire l'esercizio del potere di autotutela, ma ciò non elimina l'esigenza di valutare, anche nei casi in cui il termine di 12 mesi non è decorso, la consistenza dell'affidamento maturato in capo al privato, la gravità del vizio, le conseguenze che l'atto ha già prodotto. Le valutazione dell'elemento tempo, oggi vincolata nei sensi sopra descritti, dovrà essere effettuata dall'amministrazione unitamente a quella relativa all'affidamento del destinatario dell'atto e alla posizione di soggetti controinteressati. Soprattutto, quando vi sono posizioni di interesse e controinteresse, l'amministrazione dovrà attentamente valutare le conseguenze (anche patrimoniali), derivanti dal tenere fermo o dal rimuovere un precedente provvedimento illegittimo. Nel precisare che rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo, il legislatore ha voluto specificare che l'adozione dell'atto illegittimo e la successiva inerzia nell'esercitare l'autotutela possono essere fonti di responsabilità amministrativo contabile. L'annullamento d'ufficio di atti tributari L'esercizio dei poteri di autotutela (decisoria) è contraddistinto da norme e principi peculiari nell'ambito dell'ordinamento tributario. A differenza dell'autotutela amministrativa, posta a salvaguardia ed in attuazione del principio di cui all' art 97 Cost., l'autotutela tributaria, oltre a fondarsi sulla citata disposizione costituzionale, è anche finalizzata al rispetto dei principi di eguaglianza ed equità tributaria e di capacità contributiva, di cui all' art. 53 Cost. (un atto impositivo illegittimo determina il «concorso alla spesa pubblica» da parte del destinatario in maniera non proporzionata alla propria capacità contributiva). In realtà, fino a poco tempo fa, l'amministrazione finanziaria era solita esercitare il proprio potere di autotutela quasi esclusivamente a favore del fisco (v. ad es. la rinnovazione degli atti di imposizione su impulso delle commissioni tributarie ex art. 21 del d.P.R. n. 636/1972 o le ipotesi di accertamenti integrativi o modificativi, da adottare comunque entro i termini de decadenza previsti in via generale). L'esercizio dell'autotutela a favore del contribuente veniva inteso come «forma surrettizia ed elusiva del concordato», che la riforma tributaria degli anni 1971-73 aveva eliminato dal sistema tributario. Una generale riluttanza dei funzionari dell'amministrazione finanziaria ad adottare, in via di autotutela, atti favorevoli al contribuente si giustificava, sul piano pratico, dal timore di incorrere in contestazioni in sede di controllo, e, sotto il profilo giuridico, dal richiamo al principio dell'indisponibilità della obbligazione tributaria. In realtà, tramite l'esercizio del potere di autotutela l'amministrazione finanziaria non «rinuncia» all'imposizione, ma riconduce a legittimità un atto impositivo adottato in violazione di legge ed è, quindi evidente che l'autotutela tributaria non introduce alcuna deroga al principio dell'indisponibilità dell'obbligazione tributaria. Il legislatore ha contribuito a fornire un fondamento certo all'istituto dell'autotutela tributaria a favore del contribuente, prevedendo la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di procedere all'annullamento, totale o parziale, dei propri atti riconosciuti illegittimi o infondati ( art. 68, comma 1, del d.P.R. 27 marzo 1992 n. 287; art. 2-quater della legge 30 novembre 1994 n. 656, come integrato dall'art. 27 della legge 18 febbraio 1998 n. 28; d.m. 11 febbraio 1997 n. 37). Presupposto per l'esercizio dell'autotutela (o meglio, dell'annullamento d'ufficio) è quindi la presenza di un atto illegittimo o infondato (es. vizi formali o vizi della notificazione, erronea quantificazione dell'imponibile, errore di persona, errore sul presupposto dell'imposta, doppia imposizione). Limite all'esercizio dell'autotutela è la presenza di un giudicato. Al riguardo deve essere precisato che il termine giudicato non debba essere inteso come «cosa giudicata formale» ex art. 324 c.p.c. (sentenza non più soggetta ad appello, anche per ragioni processuali), ma come «giudicato sostanziale», concernente cioè la legittimità sostanziale dell'atto. In ipotesi, invece, di mancata impugnazione nei termini di un atto invalido, è possibile esercitare il potere di autotutela. Infatti, pur in assenza della tipica finalità di prevenire una lite tributaria (non più possibile), l'autotutela si giustifica con l'esigenza del ripristino di una situazione di legittimità, venuta meno in seguito all'esistenza di una pretesa impositiva illegittima e quindi non conforme al principio della capacità contributiva. Problematica è la tutela del contribuente interessato all'esercizio del potere di autotutela, soprattutto nelle ipotesi di definitività dell'atto illegittimo o infondato. Costituisce principio pacifico, applicabile anche all'ordinamento tributario, quello secondo cui l'esercizio del potere di autotutela non costituisca attività vincolata ma discrezionale dell'amministrazione. Parte della giurisprudenza ha escluso che in sede di contenzioso tributario sia possibile sindacare il mancato esercizio del potere di autotutela (Cass., sez. trib., n. 13412/2000), mentre in altri casi è stato ritenuto che il giudice (amministrativo) possa sia affermare l'obbligo dell'amministrazione finanziaria di pronunciarsi sull'istanza di autotutela, sia, in caso di provvedimento amministrativo di rigetto, valutarne la legittimità alla luce del d.m. n. 37/97 (T.A.R. Toscana I, 22 ottobre 1999, n. 767). Tale ultima tesi conduce ad affermare la doverosità solo procedimentale dell'autotutela tributaria in presenza di una istanza di parte, ferma restando la piena discrezionalità dell'amministrazione finanziaria di rivedere spontaneamente i propri atti illegittimi. Anche tale differenza, rispetto all'ordinario istituto dell'autotutela amministrativa, si giustifica in base al fatto che l'interesse pubblico prevalente non è quello di assicurare il maggior gettito fiscale possibile, bensì quello di distribuire equamente il carico fiscale nel rispetto delle leggi tributarie e dei principi costituzionali di cui agli artt. 3,23,53 e 97 della Costituzione. Il principio contenuto nella citata sentenza del Tar Toscana può essere condiviso, anche se, sotto il profilo del riparto di giurisdizione, la Cassazione ha poi statuito che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell'amministrazione a procedere ad autotutela. A seguito dell'entrata in vigore dell' art. 12, comma 2, l. n. 448/2001, la giurisdizione tributaria è divenuta, nell'ambito suo proprio, una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario o di sanzioni inflitte da uffici tributari, dal cui ambito restano così escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario, ma viene impugnato un atto di carattere generale o si chiede il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo, della quale l'amministrazione riconosce pacificamente la spettanza al contribuente ( Cass. S.U., n. 16776/2005). Nell'affermare la sussistenza della giurisdizione delle commissioni tributarie, la Cassazione ha avuto cura di precisare che questione altra e diversa da quella di giurisdizione, e di competenza appunto del giudice tributario, è stabilire se il rifiuto di autotutela sia o meno, ed eventualmente entro quali limiti, impugnabile. Successivamente, la Cassazione ha tuttavia precisato che l'autotutela tributaria ha natura eminentemente discrezionale ed è esercitatile esclusivamente nel perseguimento di interessi pubblici, con la conseguenza che la posizione del contribuente è di interesse legittimo, e non di diritto soggettivo e che l'esercizio del sindacato sull'attività di autotutela non è esteso a profili di merito e non costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali non esperiti (Cass. sez. trib., n. 26313/2010, in un caso in cui il contribuente, anziché opporre un atto di accertamento, aveva presentato istanza di riesame, allegando nuova documentazione; la Cassazione non si spinge però a valutare la legittimità dell'inerzia della P.A. sull'istanza di autotutela, che sembra essere giustificata dal mero richiamo alla successiva definitività dell'accertamento). Altre figure L'annullamento di ufficio presuppone un vizio originario dell'atto da rimuovere. È stato posto il problema se sia configurabile una illegittimità sopravvenuta del provvedimento amministrativo e quale sia in questo caso il rimedio. Un provvedimento amministrativo, legittimo alla data della sua adozione, può poi porsi in contrasto con sopravvenute disposizioni normative. Parte della dottrina ha escluso che si possa parlare in questi casi di illegittimità sopravvenuta, analizzando le varie ipotesi che si possono riscontrare. Tali ipotesi sono: a) l'annullamento o la dichiarazione di incostituzionalità delle legge, in base a cui è stato emesso il provvedimento; ma in tal caso, si tratta di una invalidità originaria (contrasto con la Costituzione), il cui solo accertamento emerge successivamente a causa del sindacato accentrato di costituzionalità, come dimostra il fatto che quel provvedimento è impugnabile nei termini di decadenza decorrenti dalla sua adozione, che non si riaprono a seguito della declaratoria di incostituzionalità; b) sopravvenienza di una legge retroattiva, con cui il provvedimento contrasta; se si tratta di una legge interpretativa, l'illegittimità è sempre originaria, mentre se la legge è effettivamente retroattiva, si potrebbe dubitare della costituzionalità di tale legge; c) atto ad efficacia prolungata, emanato sulla base di un presupposto non più esistente (requisizione sulla base di uno stato di necessità cessato); qui, il problema attiene alla efficacia e può essere risolto attraverso un nuovo atto della P.A., che valuti se sussistano i presupposti per determinare la cessazione di efficacia del precedente provvedimento; d) successione di leggi nel tempo e provvedimento che risulta in contrasto con la nuova legge; anche in questo caso il problema è di cessazione degli effetti. La dottrina conclude affermando che l'invalidità sopravvenuta del provvedimento amministrativo è fortemente problematica, anche volendo ammetterne l'esistenza. Altra dottrina utilizza il termine abrogazione per individuare l'eliminazione con effetti ex nunc del provvedimento, la cui permanenza è contra ius per circostanze sopravvenute. Appare preferibile ritenere che nelle ipotesi descritte si sia in presenza a volte di una illegittimità originaria (norma incostituzionale o norma interpretativa), mai di una illegittimità sopravvenuta, ma al massimo di un provvedimento legittimo, che si pone in contrasto con successive norme; tale contrasto non determina sempre il venir meno del provvedimento, il cui procedimento è retto dalla regola tempus regit actum, anche se l'amministrazione potrà valutare l'opportunità di consentire o precludere ulteriori effetti (concetto più vicino alla revoca). Differente è il caso della sopravvenuta assenza di presupposti necessari per il rilascio del provvedimento, trattato in precedenza con riferimento alle figure affini alla revoca e in cui non è configurabile una illegittimità sopravvenuta. È, inoltre, stato evidenziato come la sospensione dell'efficacia ovvero dell'esecuzione del provvedimento amministrativo, oggi disciplinata dall' art. 21-quater, comma 2, della l. n. 241/1990, possa fondarsi sull'illegittimità dell'atto ed essere quindi strumentale ad una successiva decisione di annullamento di un provvedimento, che si sospende per il tempo necessario a svolgere il procedimento di riesame per evitare un ulteriore consolidamento dell'affidamento del privato e la piena esplicazione degli effetti dell'atto, che potrebbe essere poi rimosso. BibliografiaBenvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Riv. dir. proc. 1950; Cervati, Gli effetti della pronuncia d'incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, in Giur. cost. 1963, 1214; Falcon, Questioni sulla validità e sull'efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm. 2003, 1; Giovagnoli, L'atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario: il regime giuridico e il problema dell'autotutela decisoria, in Dir. e form. 2002, 1635; Massari, L'atto amministrativo antieuropeo: verso una tutela possibile, in Rivista it. dir. pubbl. com. 2014; Sandulli, M.A., Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in federalismi.it., n. 17/2015; Valaguzza, Sulla impossibilità di disapplicare provvedimenti amministrativi per contrasto col diritto europeo: l'incompatibilità comunitaria tra violazione di legge ed eccesso di potere, in Dir. proc. amm. 2005, 1117; Villata-Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006. |