Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 30 - Azione di condanna

Roberto Chieppa

Azione di condanna

 

1. L'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma.

2. Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall'articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti.

4. Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.

5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.

6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo.

Note operative

Tipologia di azione Termine Decorrenza
Azione di condanna al pagamento di somme di denaro e al risarcimento dei danni da lesione di diritti soggettivi. Termine di prescrizione
Azione di condanna al risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi. 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (o dal passaggio in giudicato della sentenza che accoglie l'azione di annullamento)
Azione di condanna al risarcimento del danno subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento 1 anno e 120 giorni dalla scadenza del termine per provvedere (se l'inadempimento cessa prima dell'anno i 120 giorni decorrono dalla cessazione dell'inadempimento, ovvero dalla data del provvedimento adottato con ritardo).

Inquadramento

L'art. 30 è uno degli articoli più importanti del Codice del processo amministrativo e contiene la disciplina dell'azione di condanna sia in termini generali (comma 1) che con specifico riferimento alla condanna al risarcimento del danno (commi 2-6).

Nel primo comma viene appunto disciplinata una azione atipica di condanna, da proporre, nei casi di giurisdizione di legittimità, contestualmente ad altra azione

L'azione di condanna può essere proposta anche in via autonoma nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nel caso di domanda di risarcimento del danno

L'atipicità dell'azione di condanna emerge dall'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice, che consente al giudice di condannare all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, compresa la condanna al rilascio di un provvedimento richiesto (v. il commento all'art. 34).

In questo modo si raggiunge un risultato analogo a quello a cui puntava l'inserimento (non avvenuto) di una espressa disposizione relativa all'azione di adempimento, che era stata proposta dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato.

I commi da 2 a 6 dell'art. 30 disciplinano il risarcimento del danno.

A rafforzamento dei criteri di riparto di giurisdizione, contenuti nell'art. 7, è ribadito che di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo.

La previsione con maggiore carattere innovativo è senza dubbio quella con cui è stato superato il principio della c.d. pregiudiziale amministrativa ed è stato introdotto un termine di decadenza per proporre la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi (centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo), che ha superato il vaglio di costituzionalità.

Nel nuovo sistema l'impugnazione dell'atto fonte del danno non è pregiudiziale, ma è rilevante ai fini dell'esame della domanda di risarcimento e il giudice esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti.

In caso di proposizione della domanda di annullamento il ricorrente può scegliere se proporre la domanda di risarcimento contestualmente al ricorso introduttivo, o nel corso del giudizio di annullamento con motivi aggiunti o entro il termine di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.

Per il danno derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (c.d. danno da ritardo), la domanda di risarcimento deve essere proposta entro 1 anno e 120 giorni dalla scadenza del termine per provvedere.

Viene precisato che nel processo amministrativo il risarcimento del danno in forma specifica è un rimedio di natura risarcitoria attivabile in presenza dei presupposti previsti dall' art. 2058 c.c.

L'azione di condanna

Prima dell'entrata in vigore del Codice, il processo amministrativo era già caratterizzato da una tutela ben più ampia della mera azione di annullamento e, con l' art. 44 della legge n. 69 del 2009, il legislatore delegante ha inteso chiaramente ampliare la tipologia delle azioni esperibili, facendo riferimento al risultato che con le stesse può essere conseguito («prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa»).

Nel testo predisposto dal Consiglio di Stato, caratterizzato dalla scelta (poi confermata) di inserire nel codice anche la disciplina delle azioni, le norme sono state redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle azioni di cognizione (costitutive, di accertamento e di condanna) e senza trascurare le specificità dei giudizi amministrativi, dando autonomo rilievo ad azioni che pur rientrando in una delle tre tipologie presentavano tratti peculiari: azione avverso il silenzio rispetto all'azione di accertamento; azione di adempimento rispetto all'azione di condanna.

In precedenza, sulle azioni nel processo amministrativo, v. Domenichelli.

Nell'ambito di tale sistema era stata disciplinata l'azione di condanna, come azione atipica esercitatile quando era necessaria una tutela in forma specifica mediante la modificazione della realtà materiale (condanna ad un facere) o per porre rimedio all'inadempimento ad un'obbligazione di pagamento o comunque per ottenere ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva. Il carattere residuale della condanna atipica («all'adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva») era esplicitato dalla previsione secondo cui doveva trattarsi di una misura «non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni».

Il comma 1 dell'art. 30, entrato in vigore, configura l'azione di condanna come azione complementare all'esercizio di altre azioni nella giurisdizione di legittimità; non vi è il limite della condanna al solo pagamento di somme di denaro, ed è quindi ammissibile la condanna della p.a. ad un facere, come chiarito anche nella relazione di accompagnamento, ma tale domanda deve essere collegata all'esercizio di altre azioni (ad es., di annullamento). L'azione autonoma di condanna è, invece, ammissibile nelle materie di giurisdizione esclusiva e per la condanna al risarcimento del danno nei limiti fissati dal comma 3, oggetto di approfondimento nei paragrafi seguenti. Non si tratta, pertanto, di una azione residuale per ottenere misure non conseguibili con il tempestivo esercizio delle altre azioni, ma di una azione complementare alle altre azioni.

La atipicità dell'azione di condanna trovava già conferma nell'originaria versione dell'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice, che (tuttora) prevede, tra i poteri del giudice, quello di condannare «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (Torchia; Lipari; in precedenza, v. Clarich, 2005, e Tarantino).

Il significato della lettera c) dell'art. 34, comma 1 è stato precisato con le modifiche introdotte con il secondo correttivo al Codice ( d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160), con cui è stato aggiunto alla citata lettera che «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio» (v. oltre e vedi il commento all'art. 30).

Tale previsione conferma la possibilità di chiedere la condanna al rilascio di un determinato provvedimento in modo simile alla azione di adempimento, prevista nell'ordinamento tedesco.

Segue. L'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco

È noto che il Consiglio di Stato aveva proposto l'introduzione dell'azione di adempimento, ispirandosi dichiaratamente al sistema processuale tedesco. Infatti, l'azione di adempimento trova nell'ordinamento processuale tedesco una disciplina legislativa compiuta. Il par. 42 del Verwaltungsgerichtsordnung la annovera tra le azioni ammissibili innanzi al giudice amministrativo accanto all'azione di annullamento e all'azione di accertamento.

Per il testo tradotto dell'ordinamento processuale amministrativo tedesco, v. Falcon – Fraenkl, Ordinamento.

Il legislatore tedesco ha previsto l'azione di condanna quale azione non costitutiva, ma di prestazione, diretta non all'annullamento di un atto amministrativo, ma all'emanazione di un atto rifiutato o di un atto omesso dalla amministrazione. Essa consente, quindi, al giudice di condannare l'amministrazione all'emanazione di un atto amministrativo sia nel caso di rifiuto espresso, sia in caso di silenzio, sempre che il ricorrente vanti una pretesa giuridicamente qualificata al provvedimento. Ove l'azione di adempimento risulti fondata, la decisione può avere, a seconda dei casi, i seguenti contenuti ai sensi dell'art. 113 del VwGo. Se il giudice considera la questione «matura per la decisione», può dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di porre in essere l'attività richiesta. Altrimenti si limita a dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di provvedere nei confronti dell'attore, attenendosi al principio giuridico enunciato dal giudice, senza dunque predeterminare in tutto e per tutto il contenuto del provvedimento.

L'espressione «questione matura per la decisione» va intesa in senso non già processuale, bensì sostanziale, cioè in relazione alla pretesa giuridica del soggetto fatta valere nell'istanza proposta all'amministrazione e rivolta all'emanazione del provvedimento. Se la causa «non è matura per la decisione» il giudice può pronunciare esclusivamente in ordine all'obbligo dell'amministrazione di provvedere in favore del ricorrente secondo il punto di vista espresso dal giudice; in sostanza in questo caso l'autorità viene condannata ad una decisione, ma non sono consumati gli spazi discrezionali estranei all'oggetto del giudizio (Masucci; Clarich, 1985).

In definitiva, l'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco non determina una sovrapposizione dei ruoli del giudice amministrativo e della pubblica amministrazione. Anzi, in modo duttile, cerca di conciliare la massima garanzia della situazione giuridica fatta valere in giudizio con l'esigenza di salvaguardare la sfera riservata del potere amministrativo. Solo in presenza di un potere il quale, anche in seguito agli accertamenti operati in giudizio, non presenti alcun margine di discrezionalità, l'azione di adempimento si conclude con una condanna puntuale ad emanare il provvedimento amministrativo richiesto (denegato o omesso).

Segue. Il mancato inserimento dell'azione di adempimento nel Codice

Nel testo del Codice elaborato dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, con effetti analoghi a quelli previsti nell'ordinamento germanico, era stata introdotta l'azione di adempimento, che si affiancava alle tradizionali azioni di annullamento e avverso il silenzio e completava il sistema processuale garantendo l'effettività della tutela. L'azione di adempimento, che costituiva una specificazione dell'azione di condanna, poteva essere proposta contestualmente all'azione di annullamento (nel termine per essa previsto), mentre, nel caso di inerzia, doveva essere proposta entro i termini dell'azione per il silenzio. La norma sull'azione di adempimento, predisposta dal Consiglio di Stato, andava letta unitamente alla disposizione sulle sentenze di merito, che, tra i poteri del giudice, precisava che era possibile pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio quando si trattava di attività vincolata o veniva accertato che non residuavano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non erano necessari adempimenti istruttori che dovevano essere compiuti dall'amministrazione. Era, inoltre, esplicitato che gravava sulle parti l'onere di allegare in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa, in attuazione del principio generale di parità delle parti, attuativo dell' art. 111 Cost.

Il Governo aveva espunto l'azione di adempimento, lasciandone però traccia in altre disposizioni.

In primo luogo, nella disciplina dell'azione avverso il silenzio (art. 31, comma 3), è stata confermata la (già vigente) possibilità per il g.a., di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in un giudizio avverso il silenzio ed è stato previsto che il giudice possa pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. L'accertamento della fondatezza della pretesa non è, quindi, limitato all'attività vincolata, ma si estende ai casi in cui non residuano margini di discrezionalità per la P.A. In realtà, la formula è stata ripresa dal Governo dalla (eliminata) norma sull'azione di adempimento, che riguardava sia i dinieghi che il silenzio.

Dall'art. 31, comma 3, non si poteva, tuttavia, trarre il principio secondo cui l'accertamento della pretesa è consentito solo nei ricorsi avverso il silenzio, e non in caso di domanda di annullamento, in quanto, già prima dell'entrata in vigore del Codice, la giurisprudenza era tesa ad accertare la fondatezza della pretesa anche in sede di annullamento, ove possibile in relazione ai motivi di ricorso proposti e ai margini di discrezionalità, che residuavano dopo la pronuncia in capo all'amministrazione (Chieppa, 2010).

Nella sostanza, il sistema previgente non era nelle sostanza molto dissimile da quello tedesco e se ne differenziava per il fatto che nel nostro ordinamento per i provvedimenti denegati l'accertamento della fondatezza della pretesa, si concludeva con una decisione di annullamento dell'atto, la cui parte dispositiva andava letta unitamente alla parte motiva, in cui era precisato quale era l'obbligo conformativo dell'amministrazione. E in alcuni casi, tale obbligo consisteva proprio nel rilascio del provvedimento richiesto e negato.

La differenza tra ordinamento tedesco e italiano non risiedeva, quindi, nei maggiori poteri sostitutivi (di merito) del giudice, ma nel fatto che l'accertamento della pretesa, possibile in entrambi i casi in presenza di attività vincolata o di esaurimento — anche per effetto del giudizio – dei margini di discrezionalità della p.a. conduceva, nel sistema germanico, alla condanna all'emanazione di un determinato provvedimento e, in Italia, all'annullamento del diniego, cui poteva seguire l'obbligo conformativo di rilasciare il provvedimento richiesto, che se non eseguito apriva la strada al giudizio di ottemperanza e, quindi, ad una piena sostituzione del giudice alla p.a. con poteri anche di merito (Lopilato – Quaranta, 274)

Il Codice non ha espressamente introdotto l'azione di adempimento, ma tale elemento non è sufficiente ad escludere che il giudice possa condannare l'amministrazione all'emanazione di un determinato provvedimento (Merusi, 2010; A. Travi, Osservazioni, 2010; lo stesso A. Travi, La disciplina delle azioni, ritiene che nel Codice siano restati «frammenti di norme» non idonei a fondare un istituto).

Del resto, ogni legge, una volta entrata in vigore, recide immediatamente il cordone ombelicale con i propri autori o correttori e la presenza di una norma nella bozza di testo e la sua eliminazione nel testo finale non può costituire argomento interpretativo per stabilire ciò che è ammissibile o inammissibile nel processo amministrativo (Chieppa, 2010).

Segue. L'azione di condanna «atipica» nel Codice

L'azione di adempimento era, peraltro, una specificazione dell'azione di condanna e la già descritta atipicità dell'azione di condanna consente che il giudice amministrativo possa condannare la p.a. «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (art. 34, comma 1, lett. c).

Era stato rilevato che il disallineamento formale tra le azioni disciplinate dal Codice e le categorie di pronunce di accoglimento di cui all'art. 34 non poteva condurre alla riduzione della tipologia delle misure adottabili dal giudice, in quanto non avrebbe senso prevedere poteri decisori del giudice molto estesi, ma non esercitabili per la assenza della facoltà di chiederne l'esercizio (Lipari).

L'atipicità di tali misure non esclude che tra esse possa rientrare anche la condanna all'adozione di un determinato provvedimento, come domanda aggiuntiva rispetto all'azione di annullamento (Chieppa, 2010; Gisondi).

In questo caso è rispettata la contestualità delle due azioni, richiesta dall'art. 30, comma 1 (e presente, del resto, anche nell'azione di adempimento ipotizzata dal Consiglio di Stato).

Inoltre, i limiti per tale richiesta di condanna si potevano già trarre dall'ordinamento e dallo stesso Codice, in particolare dalla disposizione sul silenzio sopra ricordata (art. 31, comma 3), che non ha fatto altro che codificare un principio già applicato dal g.a. per procedere all'accertamento della pretesa in caso di azione di annullamento.

Difficilmente si potrebbe spiegare l'ammissibilità di una sorta di azione di adempimento tipica, prevista nel rito del silenzio e la contraria soluzione in caso di diniego espresso, dove la condanna all'adozione di un determinato provvedimento potrebbe invece risultare più agevole per il giudice, potendo questi valutare l'istruttoria svolta dalla P.A. (Lipari).

Del resto, è stato ritenuto che la domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto di cui all'art. 124 costituisce una sorta di azione di adempimento (Lopilato, 2010), che sarebbe quindi già presente nello stesso Codice anche in una norma specifica, oltre che nella clausola generale dell'azione di condanna atipica.

A conferma delle precedenti considerazioni, la giurisprudenza ha condiviso la tesi dell'ammissibilità di una azione di condanna atipica, di contenuto simile a quello dell'azione di adempimento, propria dell'ordinamento tedesco. È stato affermato che è esercitatile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio ( Cons. St. Ad. plen. , n. 3/2011).

Orientamento confermato dalla Adunanza plenaria anche in materia di d.i.a. o s.c.i.a.: l'azione di annullamento proposta dal terzo può essere ritualmente accompagnata, ai fini del completamento della tutela, dall'esercizio di un'azione di condanna dell'amministrazione all'esercizio del potere inibitorio, alla stregua del combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza la tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (Cons. St. Ad. plen., n. 15/ 2011, anche se la tutela del terzo avverso la Scia deve oggi passare attraverso il ricorso avverso l'eventuale inerzia della p.a).

In sostanza, il codice del processo ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. L'art. 34 comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l'adozione «delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio»; in base alla successiva lett. e) il giudice dispone «le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato». Le due previsioni prefigurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio; ovvero, all'occorrenza, quale sbocco di una tutela restitutoria, ripristinatoria ovvero di adempimento pubblicistico coattivo. L'ammissibilità della condanna satisfattiva, sotto altro profilo, non è contraddetta dal divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati previsto dal comma 3 dell'art. 34, essendo quest'ultimo finalizzato ad evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa futura, in cui, cioè, l'amministrazione non abbia ancora provveduto (T.A.R. Lombardia III, 8 giugno 2011 n. 1428).

Va precisato che l'accertamento della spettanza del provvedimento sarà possibile solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

Tale ricostruzione risulta oggi consolidata a seguito della modifica all'art. 34, comma 1, lett. c), apportata dal d.lgs. n. 160/2012, con cui alla citata lett. c) è stato aggiunto il seguente ultimo periodo: «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio

Viene, quindi, confermata la possibilità di agire chiedendo la condanna al rilascio di un determinato provvedimento e i presupposti sono gli stessi di quelli previsti per l'accertamento della pretesa nel rito avverso il silenzio.

La condanna al risarcimento del danno

Nonostante l'art. 30 del Codice sia rubricato come «azione di condanna» in termini generali, la maggior parte delle disposizioni (commi da 2 a 6) riguardano la condanna al risarcimento del danno e costituiscono il tentativo di dare una disciplina compiuta alle modalità di esercizio dell'azione risarcitoria nel processo amministrativo.

L'azione risarcitoria nel processo amministrativo non rappresenta ovviamente una novità del Codice e, di conseguenza, prima di affrontare le questioni processuali è opportuno ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale che ha condotto a fare della giurisdizione amministrativa una giurisdizione «piena» comprendente anche la tutela risarcitoria.

Risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi

Secondo la lettura interpretativa precedente la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500, l'ostacolo insormontabile alla risarcibilità dell'interesse legittimo era costituito da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale lettura dell' art. 2043 c.c., che identificava il danno ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l' art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, andava intesa nella duplice accezione di danno prodotto  non iure  contra ius; non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall'ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto ( Cass.  S.U., n. 5813/1985).

Nessun limite veniva invece ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della p.a., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (Cass. III, n. 3939/1996).

La giurisprudenza della Corte suprema, anche prima dell'intervento della sentenza n. 500/1999, pur riaffermando in linea di principio la irrisarcibilità degli interessi legittimi quale necessario corollario della lettura tradizionale dell' art. 2043 c.c., aveva manifestato una tendenza progressivamente estensiva dell'area della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di interesse legittimo, « mascherando » da diritto soggettivo situazioni che non avevano tale consistenza, come affermato poi nella stessa sentenza n. 500/1999.

Con riguardo alla tutela degli «interessi legittimi oppositivi », era stata ammessa la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (Cass. III, n. 6542/1995).

Analoghe conclusioni erano state raggiunte nell'ipotesi, che costituisce sviluppo di quella precedente, della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell'atto fonte della posizione di vantaggio (Cass. S.U., n. 2436/1997).

Anche per gli interessi legittimi pretesivi venne riconosciuta la risarcibilità limitatamente all'ipotesi di lesione da fatto reato, ritenendo che per i danni prodotti da reato l'ingiustizia è in re ipsa, e non ha quindi bisogno di essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo (Cass. I, n. 1540/1995).

Perplessità circa l'adeguatezza della tradizionale soluzione che negava la tutela risarcitoria in caso di danni causati a posizioni di interesse legittimo erano state espresse dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 35/1980), che aveva anche auspicato un intervento del legislatore (Corte cost. n. 165/1998).

Con la sentenza n. 500/1999, la Cassazione ha preso atto che l' art. 2043 c.c. non costituisce una norma secondaria, ma racchiude una clausola generale primaria espressa nella formula danno ingiusto, riconoscendo che la tradizionale limitazione della tutela risarcitoria alle posizioni di diritto soggettivo è estranea al tenore letterale della norma e ne costituisce una forzatura, essendo invece risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l'ordinamento attribuisce rilevanza.

Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori, ma è compito del giudice procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, sulla base di un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, che non è rimesso alla sua discrezionalità, ma va condotto alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all'interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche. La Cassazione ha poi precisato che ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, in quanto la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risultino integrati tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, dell'illecito (Cass.  S.U., n. 500/1999).

Il riparto di giurisdizione

Prima dell'attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione sulle pretese risarcitorie, il dibattito sulla giurisdizione era incentrato sulla definizione della nozione di diritti patrimoniali conseguenziali (v. oltre).

Attribuita la giurisdizione sulle domande di risarcimento e ammessa la possibilità di ottenere il risarcimento per i danni causati alle posizioni di interesse legittimo, si è aperta una discussione sull'esatta delimitazione della estensione della giurisdizione amministrativa alle diverse domande di risarcimento.

Segue. I diritti patrimoniali consequenziali

Sulla base del previgente testo dell' art. 7, comma 3, l.Tar (e prima ancora dell' art. 30 del t.u. Cons. St.), era previsto che, nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., quest'ultimo conoscesse anche di diritti soggettivi, con il limite delle « questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di illegittimità dell'atto o provvedimento contro cui si ricorre », riservate all'autorità giudiziaria ordinaria.

Restavano quindi fuori dalla giurisdizione esclusiva non tutte le questioni attinenti a diritti patrimoniali, ma solo quelle consequenziali alla pronuncia di illegittimità; il risarcimento del danno derivato dal provvedimento amministrativo caducato nel giudizio amministrativo costituiva un diritto patrimoniale consequenziale, in quanto conseguenza ulteriore della pronuncia di illegittimità e non derivante immediatamente da questa (Caianiello, 229).

La nozione di diritti patrimoniali consequenziali ha costituito oggetto di approfondimento giurisprudenziale soprattutto nella materia del pubblico impiego.

Per quanto concerne le controversie in materia previdenziale tra amministrazione e dipendente, inerenti l'obbligo dell'amministrazione di versare i contributi assicurativi e previdenziali agli appositi enti, fu riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alle controversie sia per l'accertamento che per il risarcimento, sulla base dell'assunto, secondo cui i contributi formano parte integrante del rapporto di pubblico impiego ( Cass. S.U. , n. 4674/1995). Il Consiglio di Stato ritenne sussistente la propria giurisdizione in ordine ad una domanda volta ad ottenere la condanna dell'amministrazione, che non abbia provveduto al versamento dei contributi afferenti alle assicurazioni obbligatorie dei pubblici impiegati, al risarcimento dei danni ai sensi dell' art. 2116 c.c., ovvero alla costituzione della rendita vitalizia; tali pretese, infatti, non vennero considerate propriamente risarcitorie, in quanto tese soltanto ad ottenere una reintegrazione per equivalente (essendo divenuta impossibile la restituzione specifica) dell'omesso versamento, e non già al ristoro dell'ulteriore danno da questo derivante ( Cons. St. Ad. plen. , 6 maggio 1980 n. 13).

Per i crediti di lavoro dei dipendenti pubblici la giurisprudenza amministrativa riconosceva la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda di corresponsione degli interessi legali, anche moratori ( Cons. St. Ad. plen. , 27 aprile 1981, n. 2) e della rivalutazione monetaria, trattandosi di stabilire l'intrinseco valore economico del credito del lavoratore pubblico e di delineare un profilo della disciplina del rapporto assoggettato alla sua esclusiva giurisdizione ( Cons. St. Ad. plen. , 30 ottobre 1981, n. 7); mentre secondo la Cassazione sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario, qualora, deducendosi un comportamento dilatorio o comunque colposo del datore di lavoro, esorbitante dal puro e semplice ritardo nel titolo di spesa, la suddetta svalutazione veniva pretesa quale risarcimento superiore a quello consentito dal calcolo automatico previsto dall' art. 150 disp. att. c.p.c., e gli interessi fossero qualificabili come moratori ( Cass. S.U., 3 novembre 1982, n. 5750).

Prima dell'entrata dell' art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ai fini del riparto della giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell'amministrazione, secondo la giurisprudenza assumeva valore determinante l'accertamento della natura contrattuale o extracontrattuale dell'azione di responsabilità in concreto proposta, dovendosi ritenere proposta la prima, con conseguente devoluzione della controversia al giudice amministrativo, ogni qual volta la pretesa dedotta in giudizio trovi titolo necessario nel rapporto di lavoro, nel senso che questo, considerato nella sua costituzione, svolgimento o estinzione, funzioni da momento genetico, diretto ed immediato, dei diritti che sarebbero stati disconosciuti o comunque lesi in pregiudizio del dipendente e, in particolare quando la domanda di risarcimento era espressamente fondata sull'inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una violazione degli obblighi inerenti al rapporto di impiego ( Cass. S.U., n. 1147/2002).

Erano esclusi dalla nozione di diritti consequenziali le pretese patrimoniali derivanti in modo immediato e diretto, e non ulteriore, dal rapporto devoluto alla cognizione del G.A. in sede di giurisdizione esclusiva, quali i diritti insiti nell'annullamento dell'atto, come ad esempio, gli stipendi arretrati non percepiti a causa del licenziamento poi annullato ( Cass. S.U., n. 3241/1980).

Per quanto riguarda la natura della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati ad un dipendente a seguito della tardiva assunzione in servizio (in ordine a controversie, attinenti ad una fase del rapporto di pubblico impiego anteriore al 30 giugno 1998), secondo un primo orientamento, l'oggetto di simili controversie non è una situazione giuridica nascente da un rapporto di impiego già in atto, ma si fonda sull'assenza della sua tempestiva costituzione, restando in tal modo estraneo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nella quale ricadevano le sole controversie inerenti i rapporti di impiego già costituiti (Cass. S.U., n. 1324/2000). Secondo altro indirizzo, la tardiva assunzione in servizio del pubblico dipendente integra un illecito di natura contrattuale, con conseguente esclusione della possibilità di prospettare un diritto patrimoniale consequenziale; la causa pretendi, infatti, si collega non occasionalmente al rapporto di pubblico impiego, costituito con efficacia retroattiva, con la conseguenza che la relativa domanda è devoluta, in virtù di tale collegamento, alla cognizione del giudice a cui spetta la giurisdizione del rapporto Cass. S.U., n. 1147/2002).

La questione si propone oggi a termini ribaltati, essendo il G.O. il giudice del rapporto e conoscendo il G.A. anche dei diritti patrimoniali consequenziali nei giudizi aventi ad oggetto le procedure concorsuali per l'assunzione; è stato affermato che il danno consistente nelle retribuzioni perdute nel periodo antecedente la tardiva assunzione non appare integrare una situazione giuridica nascente da un rapporto di impiego già in atto, ma si fonda sull'assenza della sua tempestiva costituzione; la consequenzialità della pretesa risarcitoria rispetto all'annullamento in parte qua della graduatoria, disposto dal G.A., è evidente se si considera che la stessa pretesa non sarebbe neanche sorta senza il predetto annullamento, da cui è derivata l'immissione in ruolo della ricorrente, e da cui solo poteva derivare, non trattandosi di atto conoscibile in via incidentale da altro giudice (Cons. St. VI, n. 1423/2003).

Segue. I diritti patrimoniali consequenziali dopo le riforme

Nel quadro normativo, antecedente al 1998, come ribadito anche nella sentenza n. 500/1999 (relativa ad una fattispecie antecedente alla modifica legislativa), sussisteva la giurisdizione del G.A. per l'annullamento dell'atto e del G.O. per le pretese risarcitorie.

Tale sistema di tutela era stato codificato, in materia di appalti, dall' art. 13 della l. 19 febbraio 1992 n. 142, che prevedeva che « I soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. La domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo ».

Al fine di concentrare la tutela giurisdizionale, l' art. 11, comma 4, lett. g), della l. 15 marzo 1997, n 59 prevedeva, quale criterio di delega, la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sui rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e « infine, la contestuale estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici ».

Su quest'ultimo punto la legge delega venne attuata attraverso l'originaria formulazione dell' art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 (« il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto »).

La norma realizzava la concentrazione davanti al giudice amministrativo della c.d. giurisdizione piena (di annullamento e di risarcimento) nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del detto giudice sia essa « nuova » o « vecchia »; la giurisprudenza ha infatti osservato che la coerenza del sistema induceva a ritenere che la tutela risarcitoria fosse erogabile dal giudice amministrativo in tutte le materie di giurisdizione esclusiva, superando il limite della lettera dell'originaria formulazione dell'art. 35, commi 1, 4 e 5, che in apparenza limitava l'attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria alle sole « nuove » materie di giurisdizione esclusiva — servizi pubblici ed edilizia ed urbanistica (Cass. S.U., n. 500/1999).

Sempre, sulla base della sentenza n. 500/1999, qualora, la fattispecie produttiva di danno fosse insorta nell'ambito di materia non attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la domanda doveva essere proposta al giudice ordinario, quale giudice al quale spetta, in linea di principio (secondo il previgente ordinamento), la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto soggettivo, tenuto conto che il diritto al risarcimento del danno è un diritto distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto.

La scissione tra situazione lesa e strumento di tutela previsto dall'ordinamento per quella violazione, ritenuto oggetto di nuova e distinta posizione giuridica sostanziale qualificata di diritto soggettivo, è stata criticata dalla dottrina, che ha rilevato che mentre la cognizione della posizione sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo va di regola attribuita — rispettivamente — al giudice dei diritti e al giudice degli interessi, la cognizione della posizione strumentale andrebbe di regola attribuita al giudice della tutela della posizione sostanziale al quale la situazione strumentale accede » (Giacchetti, 1599; Cirillo, 293. Tesi ora accolta dalla Corte cost. n. 204/2004).

Sempre sul piano teorico, la ricostruzione seguita dalla Sezioni Unite non ha convinto anche per la sua sostanziale idoneità a riproporre, quale criterio di risoluzione delle questioni di giurisdizione, la teoria del petitum, in distonia, quindi, rispetto al tradizionale indirizzo volto ad utilizzare quello della causa petendi. A fronte di un medesimo atto e di un medesimo vizio il Giudice sarà quello ordinario o quello amministrativo a seconda che si chieda il risarcimento del danno ovvero l'annullamento del provvedimento » (Caranta, 40).

Il sistema di riparto di giurisdizione con riferimento alla tutela risarcitoria ha poi subito un definitivo assestamento dopo la sentenza n. 292/2000 della Corte costituzionale e l'entrata in vigore della l. n. 205/2000.

Dapprima, nel luglio del 2000, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell' art. 76 Cost., l' art. 33 comma 1 d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui istituisce una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi, anziché limitarsi ad estendere in tale materia la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in quanto l' art. 11, comma 4, lett. g), l. n. 59/1997 non consentiva l'ampliamento della giurisdizione esclusiva all'intero ambito della materia dei servizi pubblici. La dichiarazione di incostituzionalità dell' art. 33 d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui ha creato una giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi, non consentita dalla legge di delega, produce effetti sul successivo art. 35, inerente la tutela risarcitoria, determinando la necessità di adeguarne il contenuto in via interpretativa, e di limitarne la portata dei richiami operati nei commi 1, 2, 3 e 5 di tale norma alla sola parte residua dell'art. 33 (Corte cost. n. 292/2000). Con la stessa sentenza, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata questione di costituzionalità dell' art. 35, comma 4, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, sostitutivo dell' art. 7, comma 3 della l. Tar, ritenendo che la delega legislativa prevista dall'art. 11, comma 4, lett. g), seconda parte, della l. 15 marzo 1997 n. 59 fosse sufficientemente determinata, in quanto con la stessa il legislatore non intendeva ampliare, nelle materie dell'edilizia, dell'urbanistica e dei servizi pubblici, l'ambito delle esistenti giurisdizioni esclusive, ma soltanto concentrare dinanzi al giudice amministrativo, nell'esercizio dei poteri di cognizione ordinaria ed esclusiva già nella sua titolarità, accanto alla fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, anche quella (ove configurabile) della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, senza dover instaurare un successivo giudizio dinanzi al giudice ordinario. Nella parte finale della sentenza la Corte osservava che — premesso l'effetto prodotto dalla pronuncia di ricondurre l' art. 33 d.lgs. n. 80/1998 negli stretti limiti della legge delegante — restava al Legislatore ogni valutazione sull'opportunità di una delega più estesa o di un diretto intervento, nella prospettiva del compimento del disegno riformatore della l. n. 59/1997, che sia conforme alla Costituzione.

Immediatamente dopo la pubblicazione della sentenza Corte cost. n. 292/2000 è entrato in vigore l' art. 7 dellal. 21 luglio 2000, n. 205, che ha riscritto gli artt. 33,34 e 35 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80.

La l. n. 205/2000 ha quindi immediatamente sanato gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, di cui alla sentenza della Consulta n. 292/2000, ma non ha previsto alcuna disposizione di diritto transitorio per disciplinare i processi in corso.

In ipotesi di giudizi, anche risarcitori, riconducibili alla parte di art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 dichiarato incostituzionale, promossi davanti al giudice ordinario dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, ma prima dell'entrata in vigore della l. 21 luglio 2000, n. 205, la Cassazione ha affermato che la giurisdizione spetta al giudice ordinario, in quanto per valutare la giurisdizione, non è determinante l' art. 33 d.lgs. n. 80/1998, perché dichiarato incostituzionale, né è determinante la l. n. 205/2000, perché, ai sensi dell' art. 5 c.p.c., come sostituito dall' art. 2 l. n. 353/1990, la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della domanda e non hanno rilevanza i mutamenti successivi ( Cass. S.U., n. 9645/2001).

Invece, per i giudizi, anche risarcitori, proposti davanti al giudice amministrativo, sulla base della norma dichiarata incostituzionale e riformulata dalla l. n. 205/2000, si è formato un indirizzo giurisprudenziale della c.d. convalidazione della giurisdizione sopravvenuta, in base al quale esigenze di economia processuale impongono di attribuire rilevanza alla giurisdizione (così come alla competenza) sopravvenuta, in modo che il giudice originariamente sfornito di giurisdizione, non deve dichiararne il difetto, ma decidere nel merito, dato il sopravvenire per effetto della nuova legge di un criterio di collegamento tra la controversia e l'ufficio giudiziario adito ( Cass. S.U., n. 516/1999; Cons. St. VI, n. 192/2001).

Con particolare riguardo alla tutela risarcitoria, la l. n. 205/2000 non si è limitata a riscrivere le norme del d.lgs. n. 80/1998, ma ha introdotto due modifiche: con la prima (art. 35, comma 1) è stato chiarito che l'attribuzione della tutela risarcitoria al giudice amministrativo riguarda tutte le controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, e non solo le materie dei servizi pubblici e dell'urbanistica.

La portata innovativa della correzione viene comunque assorbita dalla riscrittura dell' art. 7 della l. Tar, con cui sono state attribuite al giudice amministrativo, « nell'ambito della sua giurisdizione » (quindi, sia in sede di giurisdizione esclusiva che di giurisdizione di legittimità) tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.

L'inciso « nell'ambito della sua giurisdizione » chiarisce che il potere di assicurare il risarcimento da parte del G.A. riguarda tutto l'universo della giurisdizione di quest'ultimo e non solo le materie attratte nella giurisdizione esclusiva (Cons. St. VI, n. 3338/2002; Cass. S.U., n. 10180/2004).

La dottrina non è concorde nel ritenere che quella sul risarcimento del danno sia una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.A. (Varrone, 36) o se si tratti di una giurisdizione sempre di legittimità, ancorché arricchita dai riconosciuti poteri cognitori e decisori di cui al riscritto art. 7, comma 3, l. n. 1034/1971 (Caranta, 2001, 35), tenendo anche presente che alcuni sottolineano che è in atto un fenomeno di avvicinamento della giurisdizione di legittimità a quella esclusiva, manifestatosi anche e soprattutto con il riconoscimento del generalizzato potere del giudice amministrativo di conoscere dei profili risarcitori (Pajno, 3257).

La Corte costituzionale ha aderito alla tesi, secondo cui il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova « materia » attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione (Corte cost. n. 204/2004).

Segue. Questioni di costituzionalità e ambito della giurisdizione del g.a. sul risarcimento del danno

Dopo la sentenza n. 292/2000, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate sempre per il vizio di eccesso di delega, nei confronti dell'originaria formulazione dell' art. 34 d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui sottrae al giudice ordinario e devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le cause, comprese quelle risarcitorie, su diritti soggettivi connessi a comportamenti materiali della pubblica amministrazione in procedure finalizzate alla gestione del territorio. La dichiarazione di inammissibilità si fonda sulla insufficiente motivazione sulla rilevanza della tesi, secondo cui l' art. 7 della l. n. 205/2000, sostituendo il testo dell'art. 34 (nonché degli artt. 33 e 35) all'interno del d.lgs. n. 80/1998, non solo avrebbe trasformato la natura delle corrispondenti disposizioni, da leggi in senso materiale a leggi in senso formale, così affrancandole dal vizio di eccesso di delega per il quale la stessa Corte con sentenza 17 luglio 2000, n. 292 aveva dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 33, ma avrebbe anche disciplinato la giurisdizione per i giudizi sopra indicati, apportando eccezione all' art. 5 c.p.c., mediante il mantenimento della norma dell' art. 45 diciottesimo comma del d.lgs. n. 80/1998 sulla devoluzione al giudice amministrativo a partire dall'1 luglio 1998 delle controversie di cui agli artt. 33 e 34 (Corte cost. n. 122/2002).

Il giudice ordinario ha successivamente riproposto le medesime questioni di costituzionalità, fondate sul vizio di eccesso di delega e quindi relative al periodo transitorio tra la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 80/1998 e quella della l. n. 205/2000, ritenendo di non condividere l'opzione interpretativa avanzata dalla Corte Costituzionale ( Cass.  S.U., n. 584/2002). La Corte ha ritenuto fondate tali questioni ed ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell' art. 34, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 80/1998, nella parte in cui istituisce una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di edilizia e urbanistica, anziché limitarsi ad estendere in tale materia la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno; come nel caso della pronuncia n. 292/2000, la sentenza ha un effetto limitato al periodo transitorio successivo all'entrata in vigore del d.lg. n. 80/1998, ma antecedente all'entrata in vigore della l. 21 luglio 2000 n. 205 (Corte cost. n. 281/2004).

Erano state sollevate anche le questioni di costituzionalità, riguardanti la compatibilità con gli artt. 3,24,102,103,111 e 113 Cost. dell'attribuzione al G.A. delle nuove ampie materie di giurisdizione esclusiva di cui agli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80/1998, come riscritti dall' art. 7 della l. n. 205/2000 e della tutela risarcitoria prevista dall'art. 35. I dubbi di costituzionalità riguardavano l'estensione della giurisdizione esclusiva, comprensiva della tutela risarcitoria, a blocchi di materie talmente ampi e di incerta identificazione da determinare l'abbandono del tradizionale criterio di riparto di giurisdizione, fondato sulla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo e concernevano inoltre la presunta irragionevolezza dell'attribuzione al G.A. delle controversie risarcitorie, cui si applicano le regole generali del danno ingiusto e in cui manca la peculiarità che giustifichi la devoluzione ad un giudice diverso da quello ordinario, con la conseguenza di prevedere due giurisdizioni per questioni sostanzialmente identiche e il rischio di contrasti giurisprudenziali insanabili (Trib. Roma, 31 gennaio 2003).

Con la sentenzan. 204/2004 la Corte costituzionale ha dichiarato in parte incostituzionali gli artt. 33 e 34 del d.lgs. n. 80/1998, come riscritti dall' art. 7 della legge n. 205/2000 ed ha precisato che la dichiarazione di incostituzionalità non investe in alcun modo — nonostante il richiamo da parte dei giudici a quo a sostegno delle loro censure — l' art. 7 della l. n. 205/2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l' art. 35 del d.lgs. n. 80/1998. La Corte ha chiarito che il risarcimento del danno non è una nuova « materia » attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Ha aggiunto la Corte che l'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell' art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola, che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l' art. 13 l. n. 142/1992, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all' art. 24 Cost. (Corte cost. n. 204/2004).

La dottrina ha subito evidenziato: che la Corte ha inequivocabilmente avallato la tesi che considera la riparazione del danno conseguente all'efficacia di un provvedimento amministrativo come un rimedio a tutela dell'interesse legittimo, senza possibilità di confusione, dal punto di vista del fondamento costituzionale, col diritto soggettivo; che sono stati così dissipati i sospetti di illegittimità sollevati a proposito dell' art. 7, comma 3, della legge Tar, quale novellato dall' art. 7 della legge n. 205/2000, nella parte in cui attribuisce al g.a. le competenze risarcitorie anche nella giurisdizione di legittimità; che sembra da escludere, stando alle affermazioni della Corte, che possa residuare lo spazio per una competenza risarcitoria del g.o. per la lesione degli interessi legittimi provocata direttamente da un provvedimento amministrativo, in quanto quando è in gioco il sindacato sul potere e sull'autorità che ne presidia l'esercizio, la giurisdizione spetta al g.a. e sempre davanti a questi si concentra la tutela risarcitoria; che, anche a prescindere dall'opinione che si abbia sulla vexata quaestio della c.d. pregiudizialità amministrativa, dovrebbe escludersi la proponibilità, nel termine di prescrizione e davanti al g.o., di una domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi cagionata da un atto amministrativo rimasto inoppugnato perché il sindacato sul potere dell'amministrazione e la tutela degli interessi legittimi sono riservati esclusivamente al giudice amministrativo e perché, una volta identificata la giurisdizione risarcitoria del giudice speciale come un rimedio per la protezione dell'interesse legittimo, l'introduzione di una giurisdizione parallela del g.o., a contenuto egualmente risarcitorio sulle medesime fattispecie, rischierebbe di rompere l'equilibrio costituzionale quale delineato nella decisione della Corte, introducendo poi inevitabili disarmonie e incertezze; che difficilmente possono oggi ritenersi rientranti nella giurisdizione del g.a. le domande di risarcimento di danni derivanti da un mero comportamento dell'amministrazione, sia pure legato a vario titolo al procedimento (Cintioli, 2004).

Sempre in dottrina è stato aggiunto che il carattere pieno della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di responsabilità civile è intrinseco alla stessa natura di un giudizio di responsabilità: per poter giudicare il giudice, anche quello amministrativo, deve poter conoscere il fatto dal quale può esser sorta l'obbligazione al risarcimento e per soddisfare la domanda del ricorrente deve condannare il danneggiante, nel nostro caso la Pubblica Amministrazione, a soddisfare l'obbligazione sorta dal fatto illecito. Così fa il giudice civile, così fa anche il giudice amministrativo se a lui è attribuita la giurisdizione. E' la natura stessa del giudizio di responsabilità che esige che questo sia pieno. Il giudice, ancorché amministrativo, non può fare altrimenti (Merusi, 2020).

Successivamente, la Corte Costituzionale, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale, dell' art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001 ( t.u. espropriazioni), ha in particolare considerato come sia da escludere che « per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario »: ed ha osservato che dove « la legge — come fa l' art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 — costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone il carattere “rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell' art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli ». « In altri termini » — ha osservato la Corte — « al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario “le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi” il legislatore ha sostituito un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione » (Corte cost. n. 191/2006; principio ribadito da Corte cost. n. 140/2007, che ha affermato che il giudizio amministrativo assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto dell'esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l'intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio della funzione amministrativa).

Dopo la sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale era sembrato a tutti pacifico che le controversie in tema di danno da provvedimento amministrativo illegittimo rientrassero nella giurisdizione del giudice amministrativo: la riparazione del danno conseguente all'adozione di un provvedimento amministrativo è un rimedio a tutela dell'interesse legittimo, e come tale rientra appunto tra quegli strumenti ulteriori di tutela, menzionati dalla Consulta (Chieppa-Lopilato, 615).

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato era stata chiara nel ritenere che l'azione di risarcimento del danno può essere proposta davanti al giudice amministrativo sia unitamente all'azione di annullamento che in via autonoma dopo aver impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento (Cons. St. Ad. plen. , n. 47/2003 e Cons. St. Ad. plen. , n. 2/2006).

Sennonché tale principio era poi stato, posto in dubbio dalla Cassazione, che aveva affermato che la connessione tra tutela annullatoria e tutela risarcitoria è subordinata all'iniziativa del ricorrente, il quale resta libero di esercitare in un unico contesto entrambe le azioni passando attraverso il giudizio di ottemperanza per ottenere il risarcimento del danno, ovvero di riservarsi l'esercizio separato dell'azione risarcitoria dopo aver ottenuto l'annullamento dell'atto o del provvedimento illegittimo, proponendo la sua domanda al giudice ordinario, cui compete in via generale la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo ( Cass. S.U., n. 1207/2006).

In tal modo si faceva dipendere la giurisdizione proprio da una scelta del ricorrente, che se decideva di proporre la domanda di risarcimento unitamente a quella di annullamento si rivolgeva al giudice amministrativo e se, invece, optava per proporre la domanda separatamente dopo aver ottenuto l'annullamento, andava dal giudice ordinario; ciò in contrasto con il principio generale che esclude il condizionamento della giurisdizione rispetto a ragioni di connessione, precludendo l'ordinamento che la scelta del giudice possa dipendere dalla strategia processuale della parte che agisce in giudizio; ancor più perché si rimetterebbe alla volontà delle parti il realizzare o meno quella concentrazione di tutela giudiziaria, la cui ratio è alla base della soluzione legislativa, avallata dal giudice delle leggi, che ha attribuito alla giurisdizione amministrativa anche le controversie risarcitorie ( Cass. S.U.,n. 6745/2005, che aveva espressamente escluso una concorrenza tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa sulle domande di risarcimento del danno, sottolineando che sulla base dell' art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 il privato deve necessariamente richiedere al giudice amministrativo il risarcimento del danno, risultandogli preclusa la facoltà di chiederlo autonomamente dinanzi al giudice ordinario).

Il quadro giurisprudenziale è nuovamente, e repentinamente, mutato dopo la pubblicazione di due ordinanze della Cassazione del giugno del 2006: ribaltando i principi affermati a gennaio 2006, la Cassazione afferma che in tema di responsabilità civile della p.a. connessa ad attività provvedimentale (c.d. danno da provvedimento), la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste, sia in caso di domanda risarcitoria proposta unitamente all'azione di annullamento sia in caso di domanda proposta in via autonoma (Cass. S.U., n. 13659/2006 e Cass.S.U., 13660/2006). Il riconoscimento della sussistenza della giurisdizione amministrativa sui danni da provvedimento, viene accompagnato dall'affermazione dell'insussistenza del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa e per rendere effettivo il principio, la Cassazione aggiunge, con un obiter dictum, che se il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione, non esaminando nel merito la domanda autonoma di risarcimento del danno per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti, la sua decisione, a norma dell' art. 362, primo comma c.p.c., si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite quale giudice del riparto della giurisdizione.

La questione della pregiudiziale viene così trasformata in una questione di giurisdizione, anche se parte della dottrina amministrativa ha evidenziato che in tal modo, però, si finisce per assoggettare le sentenze del giudice amministrativo ad un controllo di merito, estraneo a profili di giurisdizione, per i quali solo è ammesso il sindacato della Cassazione (Chieppa-Lopilato, 618; Cons. St. Ad. Plen. , n. 12/2007 riafferma il principio della pregiudiziale, ponendosi in contrasto con i principi affermati dalla Cassazione; Villata, 2007, ritiene che in caso di mancata impugnazione dell'altra fonte del danno, in applicazione del principio della pregiudiziale, la domanda risarcitoria vada respinta nel merito, e non dichiarata inammissibile, con conseguente impossibilità di un sindacato della Cassazione sul merito di una pronuncia del g.a.).

Per quanto concerne le domande risarcitorie e il silenzio non qualificato della p.a., la giurisprudenza si è espressa in favore della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo per i danni da ritardo nell'azione amministrativa.

Dapprima, la Corte di Cassazione ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad una domanda con cui il privato aveva chiesto, previo accertamento del colpevole ritardo del Comune nel rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, la condanna dell'ente locale al risarcimento dei danni ( Cass. S.U., n. 6745/2005); poi anche l'Adunanza Plenaria ha confermato tale tesi, evidenziando che il danno da ritardo deriva dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi prefigurati da norme di legge e che, ai fini della giurisdizione non rileva la circostanza che, oltre il detto termine, sia intervenuto un provvedimento espresso (di accoglimento dell'istanza o di diniego) ovvero che l'amministrazione continui a serbare un comportamento inerte (mero ritardo), ma rileva unicamente l'inerenza a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere. Il potere delineato dalla norma ha natura autoritativa e l'omesso esercizio del potere — sia che venga sindacato al fine di ottenere il provvedimento sia che se ne lamenti l'illegittimità a fini risarcitori — costituisce la fattispecie speculare del suo esercizio, che non può essere trattata alla stregua di un mero comportamento materiale ( Cons. St. Ad. plen. , n. 7/2005).

Anche con le ordinanze del giugno 2006, la Cassazione, nell'affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sui danni da provvedimento, ha sottolineato, in conformità con la Plenaria, che appaiono riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio, in quanto ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all'esercizio del potere e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo, non di un diritto soggettivo (Cass. S.U., n. 13659/2006 e Cass.S.U., n. 13660/2006).

In sostanza, alla cognizione del giudice amministrativo – giudice del legittimo esercizio della funzione amministrativa – sono attribuite le domande di risarcimento del danno che si pongano in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio del potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno provocato da “comportamenti” della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere»; di conseguenza, il danno provocato dalla mancata o illegittima adozione di provvedimenti amministrativi discrezionali rientra nell'ambito della giurisdizione amministrativa (Cass. S.U. n. 30221/2017, che ha riconosciuto la sussistenza della giurisdizione amministrativa in relazione ad una domanda di risarcimento del danno, posto in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio del potere pubblico e prospettato come derivante da una complessiva condotta della Pubblica Amministrazione, di gestione dell'istruttoria di un procedimento sulla domanda di erogazione di aiuti finanziari latamente discrezionali, che non si risolve in una congerie o sequenza di singoli comportamenti dei funzionari investiti del relativo potere, ma integra appunto una condotta tipica amministrativa  - di impostazione di contatti ed interlocuzioni con la richiedente volti, anche con provvedimenti formali quali una delibera di Giunta, a conseguire le condizioni migliori affinché l'impegno, per cifra rilevante, delle risorse pubbliche possa valutarsi, se non vantaggioso, quanto meno non destinato ad una prognosi sicuramente sfavorevole).

Il descritto quadro normativo, caratterizzato dalla concentrazione davanti al g.a. delle diverse forme di tutela, compresa quella risarcitoria, viene confermato dal Codice nella disposizione generale sulla giurisdizione (art. 7), che conferma l'attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria sia nella giurisdizione generale di legittimità (comma 4), sia in sede di giurisdizione esclusiva (comma 5).

La rilevanza dell'attribuzione al g.a. della tutela risarcitoria, al fine di rendere tale tutela piena, si desume dal comma 6 dell'art. 30, che rafforza l'art. 7, esplicitando che «di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo».

Viene definitivamente chiarito che le modalità di proposizione della domanda (contestualmente all'azione di annullamento o in via autonoma) non hanno alcun rilievo ai fini del riparto di giurisdizione, che spetta comunque al giudice dell'esercizio del potere, che è appunto il giudice amministrativo, unico a poter conoscere delle domande risarcitorie inerenti le modalità di esercizio, o mancato esercizio, di quel potere, non potendo in alcun modo la giurisdizione dipendere da ragioni di connessione.

Segue. Questioni di giurisdizione: casistica

Permangono in giurisprudenza alcune incertezze circa il riparto di giurisdizione per le domande risarcitorie in materia espropriativa.

Anche prima della sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale, il Consiglio di Stato aveva interpretato in senso restrittivo la nozione di controversie aventi per oggetto i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia di urbanistica ed edilizia ritenendo ricompresi nella giurisdizione del giudice amministrativo solo i comportamenti in cui ricorra la sussistenza dei requisiti dell'esercizio di un pubblico potere (esplicazione di funzione amministrativa) e della rilevanza, legislativamente prevista, del comportamento dell'amministrazione — silenzio rifiuto, D.I.A. e le altre ipotesi di inerzia o di attività legislativamente qualificata (Cons. St. VI, n. 2221/2004, secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo una domanda di risarcimento di un danno, derivante non dalla illegittimità di provvedimenti amministrativi, ma dalla abusiva realizzazione di opere collocate in luogo diverso rispetto al progetto approvato).

Dopo la sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale, la Cassazione ha chiarito che, sulla base di principi affermati dal giudice delle leggi, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti a « comportamenti » di soggetti pubblici (non involgenti l'esercizio di pubbliche potestà, perché carenti in astratto o in concreto) concretatisi nell'irreversibile trasformazione non autorizzata di fondi di proprietà privata, a nulla rilevando il fatto che il decreto di esproprio sia tardivamente intervenuto, ove l'esistenza e validità di quest'ultimo decreto non venga assolutamente in considerazione ( Cass.  S.U., n. 21944/2004; Cass.  S.U., n. 605/2005).

Tuttavia, in contrasto con tali pronunce, è intervenuta l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui anche a seguito della sentenza della Corte cost. n. 204/2004, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia ex art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, la domanda di risarcimento del danno sopportato dalla parte privata in conseguenza dello spossessamento dell'area di sua proprietà sulla quale è stata realizzata l'opera pubblica durante il periodo nel quale il provvedimento di occupazione ha esplicato i suoi effetti senza però l'emanazione nel termine prescritto del decreto di espropriazione ( Cons. St.  Ad. plen. , n. 4/2005; principio ribadito da Cons. St.  Ad. plen., n. 9/2007 e da Cons. St.  Ad. plen. , n. 12/2007, secondo cui rientra nella giurisdizione del g.a. l'azione di risarcimento del danno proposta a seguito di occupazione d'urgenza in caso di decreto di esproprio mancante o tardivo).

La Cassazione ha poi precisato che nella materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione – anche ai fini complementari della tutela risarcitoria – di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, ancorché il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti in ipotesi illegittimi; sicché non determina la devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario la circostanza che l'ingerenza nella proprietà privata si sia in concreto realizzata una volta divenuta inefficace l'occupazione di urgenza per essere l'effettiva immissione nel possesso dell'immobile intervenuta decorso il termine di tre mesi dall'emanazione del provvedimento commissariale che la autorizzava (Cass. S.U., n. 2145/2018).

Con la già citata sentenza n. 191/2006 la Corte costituzionale ha ritenuto conforme a Costituzione l'attribuzione al giudice amministrativo delle controversie, in cui i « comportamenti » causativi di danno ingiusto costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi (dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili all'esercizio del pubblico potere dell'amministrazione, costituendo anche tali « comportamenti » esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica amministrazione, mentre è costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di « comportamenti » posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.

Sembrava chiaro che tra i comportamenti non riconducibili all'esercizio del potere rientrassero quelle ipotesi di occupazione usurpativa, caratterizzate dall'apprensione del fondo altrui in carenza di titolo per assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità (con conseguente giurisdizione dell'A.G.O.); parimenti è stata ritenuta appartenere alla giurisdizione ordinaria una controversia relativa ad un'ipotesi di cd. sconfinamento, ossia del caso in cui la realizzazione dell'opera pubblica abbia interessato un terreno diverso o più esteso rispetto a quello considerato dai provvedimenti amministrativi di occupazione e di espropriazione (Cass. S.U., n. 18272/2019). Mentre in caso di annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente il comportamento era comunque da ritenersi riconducibile ad un potere, benché illegittimamente esercitato (con conseguente giurisdizione amministrativa).

Tuttavia, la Cassazione aveva dapprima affermato che nelle controversie aventi ad oggetto casi di occupazione usurpativa, nelle quali manca o è stata annullata una valida dichiarazione di pubblica utilità delle opere realizzate di trasformazione di immobili altrui, sussiste comunque la giurisdizione del giudice ordinario (Cass.  S.U., n. 13431/2006); successivamente, è stata riconosciuta la giurisdizione del G.A. per le controversie aventi ad oggetto le pretese restitutorie o risarcitorie collegate all'annullamento (ex tunc) della dichiarazione di pubblica utilità (Cass.  S.U., n. 14954/2007) ed anche nel caso in cui il vizio della dichiarazione di pubblica utilità consista nella mancata o incompleta indicazione dei termini previsti per l'inizio e il completamento dell'espropriazione e delle opere, in quanto, pur trattandosi di un vizio di nullità, si tratta di contestare l'esercizio del potere della p.a. (Cass. S.U., n. 2765/2008, che supera così il precedente orientamento espresso da Cass.  S.U., n. 2688/2007), equiparando infine a tale fattispecie quella della espropriazione fuori termine, atteso che la giurisdizione ordinaria è invocabile soltanto quando l'Amministrazione espropriante abbia agito nell'assoluto difetto di una potestà ablativa, intesa come mancanza di qualunque facultas agendi vincolata o discrezionale di elidere o comprimere detto diritto, restando devoluta alla g.a. la contestazione di scorrettezze commesse dall'espropriante nell'esercizio del potere ablativo (Cass.  S.U., n. 25393/2010). Anche successivamente, Le Sezioni unite hanno confermato che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di domanda di retrocessione e di risarcimento danni proposta in presenza di una occupazione protrattasi dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, venendo in rilievo un comportamento dell'amministrazione — che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione – comunque connesso, ancorché in via mediata, all'esercizio del potere ablatorio (Cass. S.U., n. 8246/2017; Cass.  S.U., n. 1092/2017, secondo cui il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione; mentre Cass. S.U., n. 23462/2016, ha confermato la giurisdizione del G.O. sulla domanda di risarcimento del danno e restituzione di un fondo occupato sine titulo in via temporanea ed urgente).

In caso di danni derivanti da meri comportamenti, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.

Ad esempio, è stato ritenuto che rientra nella giurisdizione dell'A.G.O. l'azione di risarcimento proposta dal proprietario nei confronti di un Comune per danni asseritamente patiti a causa della omessa demolizione di un manufatto abusivo, essendo il danno stato cagionato non dall'esercizio o dal mancato esercizio del potere repressivo (ordine di demolizione) ma da un mero comportamento omissivo, consistente nella omessa conformazione della situazione materiale all'ordinanza di demolizione in precedenza adottata (Cass. S.U., n. 25978/2016).

Sotto altro profilo, sempre con le due ordinanze del giugno 2006, la Cassazione ha escluso il collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo, giustificativo dell'attribuzione della giurisdizione al G.A., non solo quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera attività materiale, ma anche in tutte le ipotesi in cui l'azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute o l'integrità personale.

In dottrina, sono state mosse critiche a quello che è stato definito « il rilancio del mito del Superdiritto non degradabile »; è stato evidenziato che si creano in tal modo diritti di serie « A » e di serie « B » (intangibili i primi, comprimibili i secondi) sulla base di scelte rimesse all'arbitrio del giudice in assenza di alcuna base giuridica (Carpentieri).

Al riguardo, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la q.l.c. dell'art. 1, comma 552, della l. n. 311/2004 nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia elettrica di cui al d.l. 7 febbraio 2002, n. 7 e le relative questioni risarcitorie, ha evidenziato che non osta alla validità costituzionale della norma la natura « fondamentale » dei diritti soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario — escludendone il giudice amministrativo — la tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro, l'orientamento — espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione — circa la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari (tra cui quello alla salute) risulta enunciato in ipotesi in cui venivano in considerazione meri comportamenti della pubblica amministrazione, e pertanto esso è coerente con la sentenza n. 191 del 2006, con la quale questa Corte ha escluso dalla giurisdizione esclusiva la cognizione del risarcimento del danno conseguente a meri comportamenti della pubblica amministrazione. Diverso è il caso di specifici provvedimenti o procedimenti « tipizzati » normativamente (Corte cost. n. 140/2007, e successivamente Corte cost. n. 35/2010, che ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell' art. 4 del d.l. n. 90/2008 in materia di rifiuti, che prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, anche relative a diritti costituzionalmente tutelati, comunque attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti dell'amministrazione pubblica o dei soggetti alla stessa equiparati).

A tale principio si è poi adeguata anche la Cassazione, che ha negato la fondatezza della tesi, secondo cui i diritti fondamentali protetti dalla Costituzione, come quello alla salute, sarebbero non degradabili ad interessi legittimi, con la conseguenza che la P.A. agirebbe sempre in carenza assoluta di potere e quindi i comportamenti di essa dovrebbero sempre ritenersi non fondati sull'esercizio di un potere e valutarsi come attività materiali e di mero fatto, riservate alla esclusiva cognizione del giudice ordinario ( Cass.  S.U., n. 27187/2007, che ha affermato che si deve distinguere sempre tra i comportamenti materiali, che esprimono l'esercizio di un potere amministrativo e sono collegati comunque ad un fine pubblico o di pubblico interesse legalmente dichiarato, da quelli di mero fatto, riservando quindi soltanto i primi alla cognizione dei giudici amministrativi, nella materie riservate alla giurisdizione esclusiva di questi ultimi; Cass. S.U., n. 16304/2013, che sempre in materia di tutela della salute e in presenza di una domanda di risarcimento del danno derivante dalla compromissione dell'ambiente, ha ribadito l'inesistenza nell'ordinamento di un principio che riservi esclusivamente al giudice ordinario la tutela dei diritti costituzionalmente protetti; Cass.  S.U., n. 22612/2014, che, nell'affermare che il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del visto d'ingresso per ricongiungimento familiare appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha ritenuto che da ciò non derivi alcuna illegittimità costituzionale, in quanto il g.a. assicura una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella garantita dal g.o.).

Infine, per alcune fattispecie di danno da scorrettezza della p.a., non direttamente collegata ad un provvedimento negativo la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto sussistente la propria giurisdizione in relazione alle fattispecie del danno causato al privato, beneficiario di un provvedimento a lui favorevole ma illegittimo ed annullato dall'amministrazione stessa in via di autotutela; o nell'ipotesi di revoca di una procedura di gara, dopo l'aggiudicazione, a causa della carenza di fondi ( Cons. St.  Ad. Plen. , n. 6/2005, secondo cui sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per tutte le controversie tra privato e pubblica amministrazione riguardanti la fase anteriore alla stipula dei contratti di lavori, forniture e servizi anche con riferimento alla responsabilità precontrattuale).

Il principio sembrava essere stato condiviso anche dalla Cassazione, quanto meno in caso di procedure di appalto, essendo stata affermata la giurisdizione del g.o. per il giudizio di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale della p.a. proposto in relazione ad una procedura di ricerca di mercato finalizzata all'acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero all'acquisto anche per cosa futura di un complesso immobiliare, in quanto, non trattandosi di materia di procedura di affidamento di appalto di lavori, ma di trattative aventi ad oggetto un contratto di compravendita di cosa futura, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista per le sole controversie relative alle procedure di affidamento di lavori da parte delle p.a., ai sensi dell' art. 6 l. n. 205/2000 (Cass. S.U., n. 11656/2008). La sussistenza della giurisdizione amministrativa è stata esclusa anche in relazione ad una domanda proposta da una p.a. nei confronti dell'aggiudicatario provvisorio (poi escluso) per il risarcimento dei danni derivanti da una condotta che, pur essendo prodromica ad una fase amministrativa posta a monte della stipulazione del contratto, non è conseguente ma solo occasionata dal procedimento amministrativo di affidamento (Cass. S.U. n. 17329/2021, che ha inquadrato il caso all'interno della species della responsabilità precontrattuale).

Tuttavia, è stato poi affermato che la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto alla impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta ( art. 1223 c.c.) della illegittimità dell'atto impugnato. Il proprietario del suolo o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, hanno, quindi, un interesse pretensivo al rilascio della concessione edilizia; se il richiedente che si trova nelle condizioni previste dalla legge per il rilascio di detta concessione, se la veda ingiustamente negare, può insorgere contro l'illegittimo provvedimento di diniego chiedendo al giudice amministrativo sia il controllo della legittimità dell'atto sia il conseguente risarcimento del danno. In questo caso è ammissibile la concentrazione di entrambe le tutele dinanzi allo stesso giudice, potendo l'avente diritto al rilascio della licenza invocare entrambe le tutele. Quando, invece, il proprietario o altro titolare dello ius aedificandi che ottenuta la concessione edilizia ed iniziata l'attività di edificazione sul fondo facendo affidamento (incolpevole) sulla (apparente) legittimità dell'atto, venga successivamente (e legittimamente) privato del diritto ad edificare a seguito di annullamento di ufficio della concessione o di annullamento giurisdizionale della stessa su ricorso di un soggetto, la tutela — risarcitoria per l'affidamento ingenerato dal provvedimento (illegittimo) favorevole spetta al giudice ordinario, perché non richiede che per ottenere il risarcimento la parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimità del comportamento tenuto dall'amministrazione (Cass.  S.U., n. 6594/2011; principio ribadito da Cass.  S.U.n. 6450/2016, che ha affermato la sussistenza della giurisdizione del G.O. per l'azione di risarcimento dei danni derivanti dall'affidamento incolpevole su di un provvedimento amministrativo, nella specie, licenza di esercizio di un albergo, successivamente oggetto di provvedimento di chiusura per l'assenza di certificati che costituivano il presupposto per l'iniziale rilascio della licenza, sulla quale aveva fatto affidamento una impresa al momento dell'acquisto del complesso alberghiero; Cass. I, n. 24438/2011; Cass. S.U., n. 17586/2015; Cass. S.U., n. 15640/2017, che ha ribadito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in presenza di una azione di risarcimento del danno proposta dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato illegittimo in una fattispecie in cui una società aveva chiesto il risarcimento dei danni asseritamente patiti in conseguenza della mancata esecuzione di un contratto di appalto in seguito all'annullamento in sede giurisdizionale del procedimento di selezione del contraente; Cass.  S.U., n. 19170/2017; Cass. S.U., n. 22435/2018, che ha ribadito tale principio anche in fattispecie rientranti nella giurisdizione esclusiva del g.a., affermando che l'attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che ha impugnato; mentre si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l'emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell'azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l'affidamento dell'interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole. In questi casi – secondo la Cassazione - la natura stessa del comportamento lesivo non consiste tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell'agire della p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale del neminem laedere; Cass. S.U. n. 4889/2019, ha attribuito alla giurisdizione ordinaria una controversia in cui un privato aveva chiesto il risarcimento dei danni derivanti dall'affidamento incolpevole riposto dall'acquirente di un immobile sui titoli edilizi e certificati di abitabilità rilasciati dal Comune successivamente rivelatisi illegittimi, venendo in questo caso in rilievo la situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicchè i provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale affidamento; Cass. S.U., n. 12635/2019 che afferma anch'essa la giurisdizione del g.o. nelle controversie risarcitorie per lesione del legittimo affidamento del privato ingenerato dal comportamento della p.a.).  

Il contrasto tra Cassazione e Consiglio di Stato permane anche dopo le sentenze della Plenaria del novembre del 2021: da un lato, la Adunanza plenaria ha affermato che sussiste, tanto in sede di giurisdizione generale di legittimità, quanto nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la giurisdizione amministrativa sulla domanda risarcitoria proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione per il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione dell'affidamento ingenerato in un provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale (Cons. St., Ad. plen., n. 20/2021) e, dall'altro lato, la Cassazione ha ribadito la sussistenza della  giurisdizione ordinaria sulla domanda di risarcimento dei danni da lesione dell'affidamento serbato su un provvedimento favorevole poi annullato in sede giurisdizionale, affermando che non è giuridicamente e logicamente configurabile la riconduzione di simili casi all'esercizio di un potere pubblico, dal momento che la pronuncia giurisdizionale di annullamento non costituisce in alcun modo una manifestazione di volontà della p.a., bensì il necessario rimedio all'illegittimità del comportamento da questa in precedenza tenuto (Cass., S.U., n. 1778/2022; n. 1567/2023 e n. 13191/2024).

Nel merito, la Plenaria ha aggiunto che la responsabilità dell'amministrazione per lesione dell'affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento e postula che sia insorto un ragionevole convincimento sulla legittimità dell'atto, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento (Cons. St., Ad. plen., n. 19/2021 e n. 21/2021; con la sentenza n. 19/2021 è stato anche affermato che la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo regionale sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo; Cons. Stato, IV, n. 9467/2024 ha offerto ulteriori argomenti alla tesi della giurisdizione amministrativa evidenziano come in caso di lesione dell'affidamento ingenerato da una pubblica amministrazione, tramite l'adozione di una serie di atti di natura endoprocedimentale favorevoli in ordine alla realizzazione di un intervento edificatorio, l'esercizio del potere rappresenta l'antecedente logico causale del danno con conseguente giurisdizione esclusiva de giudice amministrativo, laddove prevista; i meri comportamenti, per i quali è pacifica la giurisdizione del giudice ordinario, sono predicabili solo qualora la pubblica amministrazione operi come qualsiasi soggetto di diritto, trattandosi di comportamenti materiali non collegati nemmeno in via indiretta o mediata al potere pubblico).

 

Il Consiglio di Stato ha anche ritenuto sussistente la propria giurisdizione su una domanda di risarcimento del danno da lesione del cd. affidamento procedimentale, che consiste nell'affidamento ingenerato da atti endoprocedimentali favorevoli al soggetto privato, qualora il procedimento non si sia poi concluso con un provvedimento favorevole espresso (Cons. St., IV, 5 novembre 2024, n. 9467).

La tesi della Cassazione ha aperto un nuovo fronte di contrasto tra giudice amministrativo e giudice ordinario, ma ha il pregio di offrire una possibilità di tutela, forse non del tutto esplorata dalla giurisprudenza amministrativa, in fattispecie peculiari in cui il danno deriva al privato non da un atto lesivo illegittimo, ma da un atto (illegittimo) a lui favorevole, ma successivamente (e legittimante) rimosso. Nel caso esaminato dalla Cassazione la domanda di risarcimento traeva origine dall'annullamento (legittimo) di un permesso di costruire e si incentrava sui danni subiti per aver fatto affidamento sul provvedimento amministrativo, poi caducato. La conclusione è opinabile soprattutto nei casi, come in realtà era quello di specie (e altro analogo in materia di appalti risolto nello stesso senso), relativi a materie di giurisdizione esclusiva, in quanto, anche ipotizzando l'autonomia del diritto al risarcimento del danno, si è in presenza di un danno sempre connesso con l'esercizio del potere, con l'unica differenza che l'illegittimità è stata compiuta a vantaggio del privato, danneggiato dall'aver fatto affidamento in un provvedimento appunto a lui favorevole. Inoltre, la ratio di concentrazione delle tutele conduce a concentrare anche tali domande davanti al G.A., altrimenti si avrebbe l'irragionevole conseguenza che il privato viene costretto ad adire il G.A. per chiedere, ad es., l'annullamento dell'atto di autotutela che ha rimosso il provvedimento a lui favorevole e ad adire il G.O. per chiedere il risarcimento del danno nell'ipotesi in cui il provvedimento risulti effettivamente illegittimo (azione rispetto alla quale risulta logicamente pregiudiziale la definizione del giudizio di annullamento). Accanto a tale osservazione critica, non si può però negare che fino ad oggi in simili fattispecie in materia edilizia, mai era stata riconosciuta la tutela risarcitoria da parte del giudice amministrativo (CHIEPPA; in senso critico verso la tesi della cassazione v. anche Neri).

Parimenti, si deve sottolineare come in materia di appalti il G.A. ha sempre affermato che l'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione appaltante, benché legittimo, può determinare la lesione dell'affidamento dei concorrenti negli atti revocati o annullati, facendo insorgere obblighi risarcitori (Cons. St. V, n. 7000/2011).

In senso adesivo alla tesi della Cassazione sulla giurisdizione ordinaria in tali fattispecie, v. Cons. St. IV, n. 293/2017; mentre va segnalata Cass., S.U., n. 12428/2021 che ha temperato l'orientamento indicato in precedenza, evidenziando che per il mero affidamento di natura civilistica attribuito alla giurisdizione ordinaria è necessario che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, differenziabile dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico, ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell'emanazione del provvedimento non più adottato.

L'impressione è che in siffatti casi assume rilievo il tipo di vizio che invalida il provvedimento favorevole al privato e il possibile concorso nel vizio da parte del privato stesso o quanto meno la sua conoscibilità.

Ad esempio, la giurisprudenza amministrativa, ritenendo (seppur implicitamente) sussistente la propria giurisdizione, ha escluso la risarcibilità in concreto dei danni lamentati a chi aveva fatto affidamento in un provvedimento amministrativo a lui favorevole, poi rivelatosi illegittimo e annullato in autotutela dall'amministrazione rilevando che la condotta, anche soltanto negligente, del danneggiato fosse risultata idonea a sviare la P.A. nel rilascio dell'atto di assenso edificatorio e che in nessun caso, l'istante avrebbe potuto legittimamente ottenere il rilascio del titolo edilizio (Cons. St. IV, n. 1713/2017).

Quest'ultima ipotesi è diversa da quella in cui invece la Cassazione ha ritenuto sussistere la giurisdizione ordinaria in relazione ad una domanda di risarcimento dei danni lamentati dal privato per lesione dell'affidamento riposto nella attendibilità della attestazione (richiesta dal privato stesso al fine di valutare la convenienza dell'acquisto di un terreno) rilasciata dalla P.A., in seguito rivelatasi erronea ( Cass. S.U., n. 6961/2017).

Inoltre, la Cassazione ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione ordinaria e della responsabilità della p.a. per i danni causati dal comportamento da questa tenuto nella conduzione dei rapporti tra i propri uffici e il privato, tale da ingenerare in quest'ultimo un incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, poi deluso dal diniego finale (del quale non viene messa in discussione la legittimità); un danno, cioè, da comportamento, pur in presenza di un provvedimento sfavorevole e legittimo (Cass. S.U.., n. 8236/2020, criticata in dottrina per aver legato il danno ad una maggiore partecipazione procedimentale del privato, che ha poi finito per essere utilizzata contro l'amministrazione).

Pur ammettendo la configurabilità della responsabilità della P.A. per diffusione di informazioni inesatte, attraverso cui viene lesa la posizione di affidamento del soggetto in contatto con la P.A., tenuto conto che l'amministrazione deve ispirare la propria azione alle regole di correttezza, imparzialità e buon andamento, di cui all'art. 97 della Costituzione (Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2424 e Cass. S.U., 23 settembre 2010, n. 20072), Cass. civ., III, n. 6469/2025 ha tuttavia respinto una domanda di risarcimento del danno, proposta nei confronti di un Comune a cui veniva addebitato di avere taciuto in un certificato di destinazione urbanistica la presenza di vincoli idrogeologici, tali da privare l'area della vocazione edificatoria e di avere di conseguenza indotto la parte interessata, completamente ignara, ad acquistare il terreno come edificabile, sulla base del ragionamento secondo cui i vincoli una volta approvati e pubblicati hanno valore di prescrizione generale a contenuto normativo con efficacia erga omnes, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari.

 

Peculiare è invece la fattispecie relativa ad una domanda di risarcimento proposta dalla stazione appaltante nei confronti dell'impresa aggiudicataria, che ha opposto un ingiustificato rifiuto alla richiesta della P.A., di stipulare il contratto di appalto (ritenuta rientrante nella giurisdizione amministrativa e accolta da Cons. St. III, n. 3755/2016).

Per il settore del pubblico impiego, nessuna difficoltà si pone allorché la pretesa risarcitoria sia avanzata da dipendenti rientranti nelle categorie escluse dal processo di privatizzazione, per le quali permane il carattere pubblico del rapporto con il conseguente perdurare della giurisdizione esclusiva del G.A., mentre l'attribuzione alla giurisdizione del G.A. delle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni comporta che tale giudice conosca anche dei danni subiti per effetto di illegittimità verificatesi nella gestione della procedura selettiva, quali quello da ritardata assunzione subito per effetto della illegittimità del provvedimento di approvazione della graduatoria, rientrando invece nella giurisdizione ordinaria la cognizione della pretesa risarcitoria derivante dal ritardo dell'amministrazione nella stipula del contratto con il vincitore del concorso (Cons. St. VI, n. 1423/2003).

L'impugnazione della delibera regionale di conferma o mancata conferma nell'incarico di direttore generale delle aziende sanitarie deve essere proposta davanti al G.A., atteso che tale provvedimento, condividendo la natura dell'atto di nomina, implica una valutazione discrezionale sull'idoneità del direttore generale a svolgere l'incarico affidatogli e riguardo ad esso l'interessato è titolare solo di una posizione di interesse legittimo. Ove però l'interessato, senza impugnare la predetta delibera regionale, si riferisca al provvedimento di mancata conferma nell'incarico quale fonte di una pretesa civilistica di risarcimento del danno, deducendo la violazione, da parte della Regione, delle regole di correttezza comportamentale nell'adozione della misura operativa e gestoria, la relativa controversia rientra nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, in quanto la domanda risarcitoria non è espressione di tutela di diritti patrimoniali consequenziali, devoluta alla giurisdizione, amministrativa, perché essa non dipende dal favorevole esito del giudizio amministrativo, non essendo collegata alla giurisdizione generale di annullamento, alla quale l'interessato ha esplicitamente rinunciato senza contestazione di controparte ( Cass. S.U., n. 2065/2003; vi sono state osservazioni in senso critico nei confronti di un criterio di riparto, che così risulta fondato sul petitum e non sulla causa petendi).

La domanda di risarcimento del danno proposta da risparmiatori nei confronti della Consob per violazione degli obblighi di vigilanza sul credito e sul mercato mobiliare è devoluta, anche in base al regime di riparto della giurisdizione introdotto dall' art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, al giudice ordinario. Pur avendo, infatti, il cit. art. 33 del d.lgs. n. 80/1998, nel testo vigente, attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo « tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare », la suddetta domanda esula dalla giurisdizione medesima, atteso che la controversia con essa proposta deve farsi rientrare nella categoria delle « controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose » (che lo stesso art. 33, comma 2, eccettua dall'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), dovendosi intendere per tali le controversie — come quella in esame — che, di per sé (e non per il tipo di tutela che la parte chiede in concreto), possono assumere a loro contenuto soltanto una pretesa di risarcimento del danno.

Pur essendo stato dichiarato incostituzionale il comma 2 del citato art. 33, non appare ragionevole ritenere che il ridimensionamento della giurisdizione esclusiva del G.A., operato dalla Corte, possa avere avuto l'effetto di ampliare invece tale giurisdizione con riferimento alle suddette domande risarcitorie e, a conferma di ciò, la Cassazione ha ribadito che le controversie aventi ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da risparmiatori nei confronti della Consob per violazione degli obblighi di vigilanza sul mercato mobiliare sono devolute al G.O., non rientrando tra le controversie in materia di pubblici servizi attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A. dall' art. 33 d.lgs. n. 80/1998, nel testo introdotto dall' art. 7 l. n. 205/2000 — quale risultante a seguito della sentenza della Corte cost. n. 204 del 2004 — in quanto a differenza, infatti, di quanto avviene rispetto ai « soggetti abilitati » — nei cui confronti l'Autorità di vigilanza esercita una serie di « poteri » diretti ad assicurare che i loro comportamenti siano « trasparenti e corretti » onde le posizioni di tali soggetti nei confronti dell'Autorità si configurano, in linea di massima, come interessi legittimi — la Consob non esercita alcun « potere » sui risparmiatori, trattandosi dei soggetti che essa è tenuta a tutelare, con la conseguenza che la posizione di questi ultimi nei confronti dell'Autorità di vigilanza assume la consistenza del diritto soggettivo non collegato ad alcuna relazione di potere con la P.A.,   non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti “doverosi” posti a tutela del risparmio, che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo tali autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell'attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere (Cass. S.U., n. 15916/2005; Cass. S.U., n. 25953/2020).

Nel sistema di riparto della giurisdizione risultante a seguito della l. 21 luglio 2000, n. 205, l'azione di risarcimento del danno proposta nei confronti dello Stato legislatore per tardivo recepimento di direttive comunitarie appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice cui spetta, in linea di principio, la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto soggettivo, tale natura avendo la pretesa risarcitoria, che è distinta dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (nella fattispecie, l'azione di risarcimento del danno era stata proposta da alcuni risparmiatori per tardivo recepimento della direttiva 10 maggio 1993, n. 93/22/Cee, relativa ai servizi di investimento) ( Cass.S.U., n. 6719/2003 e Cass. S.U. n. 36373/2021, che hanno chiarito che la domanda proposta per il risarcimento dei danni che si assumono derivati dall'illegittimo esercizio della potestà legislativa derivante dalla predisposizione, presentazione o mancata modifica di un atto legislativo, non configura un difetto assoluto di giurisdizione, ma l'esercizio di un diritto soggettivo mediante una comune azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., da proporre davanti al G.O.

Il principio della responsabilità del legislatore è stato, tuttavia, limitato alla violazione del diritto dell'U.E. e non esteso alla violazione della Costituzione, in relazione alla quale l'esame del merito delle domande ha condotto a escludere una responsabilità derivante dall'esercizio della funzione legislativa anche in ipotesi di norma poi dichiarata incostituzionale, in quanto la funzione legislativa è stata ritenuta espressione di un potere politico, incoercibile e sottratto al sindacato giurisdizionale e rispetto ad esso non possono configurarsi situazioni giuridiche soggettive dei singoli, protette dall'ordinamento (Cass. civ., III, n. 4351/2025 con critiche da parte della dottrina che ha rimarcato la non ragionevole differenziazione rispetto alla responsabilità dello Stato per i danni causati al privato a causa della mancata o imperfetta attuazione delle direttive comunitarie, riconosciuta dalla famosa sentenza “Francovich” della Corte di Giustizia - Corte giust. CE 19 novembre 1991, C 6/90 e 9/90; v. C.D. Piro, La responsabilità del legislatore, in Caringella, Chieppa, Mattarella, Trattato di diritto amministrativo, Vol. III, Responsabilità, Milano, 2025).  

Fattispecie di responsabilità della p.a.

In dottrina è stato evidenziato come le diverse fattispecie di responsabilità della p.a. possono difficilmente essere ricondotte ad un unico modello (Caianiello, 279; Chieppa, Viaggio, 2003, 686). In una prima categoria il danno deriva direttamente dal provvedimento illegittimo: si tratta di una responsabilità da provvedimento (Falcon, 287), mentre in altri casi discende dal comportamento tenuto dall'amministrazione, anche attraverso l'adozione di atti, che però non costituiscono diretta causa del danno (responsabilità da comportamento o da scorrettezza) (Cintioli, 2003, 85).

È stata inoltre evidenziata la distinzione tra vizi sostanziali e vizi formali dell'atto amministrativo: solo la sussistenza dei primi legittimerebbe le pretese risarcitorie e non anche la mera violazione delle regole formali o procedimentali, sanabile in sede di riedizione del potere amministrativo. La giurisprudenza ha però chiarito che anche in caso di annullamento di un atto per i c.d. vizi procedimentali è ammissibile la domanda di risarcimento del danno (Cons. St. IV, n. 3169/2001).

La dottrina ha evidenziato come, per quanto concerne le situazioni giuridiche procedimentali, il mezzo di tutela più adeguato non sembra essere quello risarcitorio, in quanto la valenza procedimentale del vizio non preclude la tutela risarcitoria, ma non consente di pretermettere la necessaria sussistenza dei requisiti della fattispecie di illecito; forme di tutela sommaria, simili a quelle previste per il ricorso avverso il silenzio o in materia di accesso, sembrano maggiormente utili per consentire già nel corso del procedimento di porre rimedio alla regola violata (Occhiena, 432).

Con la sentenza n. 500/1999 la Cassazione ha affermato che la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo, distinguendo tra interessi legittimi oppositivi e pretesivi. Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, può ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere, tenuto conto che il collegamento con il bene della vita si è già consolidato in capo al privato prima dell'illegittimità commessa dalla p.a. Circa gli interessi legittimi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, sarà invece necessario un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della istanza.

La dottrina ha definito interessi a risultato garantito le posizioni, in relazione alle quali, per l'assenza di margini di discrezionalità in capo alla p.a., si può raggiungere certezza del pregiudizio patito per la mancata acquisizione del bene della vita, che, alla stregua della situazione di fatto e di diritto, doveva costituire un risultato certo da raggiungere (Fracchia, Risarcimento, 2003, 479).

Altra fattispecie di responsabilità è quella del c.d. danno da ritardo, alla quale sono ricondotte ipotesi diverse fra loro: a) in alcuni casi il ritardo, produttivo del danno, deriva dal fatto che l'amministrazione ha dapprima adottato un provvedimento illegittimo, sfavorevole al privato, ed ha poi emanato altro provvedimento, legittimo e favorevole, a seguito dell'annullamento in sede giurisdizionale del primo atto; b) in altre ipotesi, pur in assenza di un provvedimento illegittimo, il privato invoca la tutela risarcitoria per i danni conseguenti al ritardo con cui l'amministrazione ha adottato un provvedimento a lui favorevole, ma emanato appunto con ritardo rispetto al termine previsto per quel determinato procedimento; c) il ritardo procedimentale, di cui alla precedente fattispecie, viene ritenuto da alcuni potenzialmente produttivo di danno risarcibile, anche nell'ipotesi in cui il provvedimento amministrativo, legittimo ma adottato con ritardo, sia sfavorevole per il privato, potendo quest'ultimo aver subito dei danni per non aver ottenuto il tempestivo esame della propria istanza e per non aver quindi appreso, entro i termini previsti, della non accoglibilità della stessa.

Le tre fattispecie sono nettamente diverse fra loro: nel primo caso si rientra nella c.d. responsabilità da provvedimento, in quanto il danno è provocato dal primo diniego (illegittimo) e dal conseguente ritardo nel rilascio del provvedimento richiesto; le altre due ipotesi attengono invece a danni (da ritardo procedimentale) non direttamente causati da provvedimenti illegittimi (anzi in entrambi i casi i provvedimenti sono legittimi) (Chieppa, Viaggio, 2003, 691).

Mentre nelle prime due fattispecie non vi alcun dubbio sulla astratta risarcibilità dei danni derivanti dal ritardo, nel terzo caso l'Adunanza Plenaria ha affermato che non è possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della p.a. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per il richiedente, a cui non spetta il relativo bene della vita a causa della legittimità del diniego o della sua intangibilità per la omessa proposizione di impugnativa ( Cons. St. Ad. plen. , n. 7/2005).

In senso critico, è stato osservato che anche il tempo è un bene della vita e per il privato il non aver saputo nei tempi fissati dalla legge se una sua istanza poteva essere accolta, o meno, può comportare conseguenze negative anche sotto il profilo patrimoniale, come ad es., non aver optato per altre soluzioni, in attesa della risposta tardiva della p.a. (Chieppa-Lopilato, 645).

Sul punto v. il par. 28.

Mentre il danno c.d. « da ritardo » è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo pretensivo, cagionata dal ritardo con cui la p.a. ha emesso il provvedimento finale, inteso ad ampliare la sfera giuridica del privato, il danno c.d. « da disturbo » implica l'illegittima compressione delle facoltà di cui il ricorrente sia già titolare (Cons. St. VI, n. 1261/2004).

All'interno della responsabilità non derivanti da provvedimento, è emersa la necessità di assicurare una tutela risarcitoria in alcune fattispecie, in cui il cittadino non è direttamente leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma da un fatto giuridico più ampio e articolato, in cui ciò che rileva è la violazione dell'affidamento generato dalla p.a. con i propri comportamenti o con i propri atti; con il riconoscimento della tutela risarcitoria del c.d. danno da affidamento (v. oltre per alcune fattispecie di responsabilità precontrattuale), viene così raccolta un'intuizione della dottrina, che già da tempo aveva evidenziato tale problematica (Merusi, 2002, 3). V. anche i par. 12 e 14.2.

Tra i danni derivanti da provvedimento amministrativo illegittimo è stato riconosciuto il danno non patrimoniale (risarcibile) inteso come categoria ampia, nella quale trovano collocazione giuridica tutte le ipotesi in cui si verifichi la lesione di beni o valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo (o danno da reato, consistente nel turbamento dell'animo della vittima), sia il danno biologico in senso stretto (o danno all'integrità fisica e psichica, coperto dalla garanzia dell' art. 32 Cost.), sia il c.d. danno esistenziale o danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale (Cons. St. VI, n. 1096/2005 in relazione del pregiudizio sofferto per la mancata instaurazione di un rapporto di lavoro a titolo di supplenza per un soggetto portatore di handicap; Cons. St. V, n. 125/2006).

Natura della responsabilità della P.A.

Dall'accertamento della natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità della p.a. derivano una serie di conseguenze in tema di prescrizione, onere della prova (nella responsabilità extracontrattuale l'onere della prova spetta al danneggiato, salvo l'utilizzo di presunzioni), calcolo di rivalutazione monetaria ed interessi legali (nella responsabilità extracontrattuale, gli interessi non decorrono dalla data della domanda, ma da quella del fatto illecito e possono concorrere con la rivalutazione monetaria e vanno computati sulle somme via via rivalutate), prevedibilità del danno (l'illecito extracontrattuale obbliga al risarcimento di ogni danno conseguente, seppur con i limiti derivanti dall'applicazione dei criteri della causalità giuridica e non dei soli danni prevedibili come avviene in caso di inadempimento contrattuale non doloso ai sensi dell' art. 1225 c.c.), costituzione in mora (per l'illecito extracontrattuale, la costituzione in mora non è necessaria, ai sensi dell' art. 1219, comma 2, n. 1, c.c.).

La questione della natura della responsabilità della pubblica amministrazione (se, in caso di lesione di interessi legittimi, il risarcimento sia da ascrivere ad una fattispecie di responsabilità contrattuale ovvero a quella aquiliana) era stata rimessa alla decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, che aveva evidenziato le conseguenze soprattutto con riferimento al regime di interessi e della rivalutazione monetaria (Cons. giust. amm. Sicilia, n. 267/2002). La questione, tuttavia, non è stata risolta dall'Adunanza Plenaria, che ha dichiarato inammissibile, sul punto, il gravame per avere le parti impugnato solo il capo « dipendente » della sentenza (quello concernente interessi e rivalutazione), e non anche il capo « principale », concernente l'obbligo stesso del risarcimento dei danni ( Cons. St.  Ad. plen. , n. 2/2003).

Tesi della natura contrattuale della responsabilità della P.A.

La natura contrattuale della responsabilità della p.a. viene sostenuta in applicazione della teoria della responsabilità da contatto amministrativo qualificato, secondo cui l'amministrazione non si trova rispetto al privato, leso nel suo interesse legittimo, nella posizione del « passante » o del « chiunque«, tipica della tutela aquiliana, poiché a seguito del contatto che si instaura tra l'amministrazione e il privato nel corso del procedimento amministrativo sorge se non un vero e proprio rapporto obbligatorio, un rapporto di fatto senza obbligo primario di prestazione (Castronovo, 653; Protto, 1005; Vaiano, 292, la cui tesi non prescinde però dalla necessità dell'accertamento della pretesa di provvedimento).

L'obbligazione risarcitoria non viene riferita all'utilità finale, cui il privato tende, ma, al contrario, ne prescinde, scaturendo dalla violazione di quei particolari obblighi procedimentali, il cui rispetto è funzionale alla garanzia dell'affidamento del privato sulla legittimità dell'azione amministrativa. Da tale impostazione discendono due ordini di conseguenze: a) l'inquadramento della responsabilità della p.a. per attività provvedimentale all'interno della responsabilità contrattuale, con le connesse implicazioni in tema di prescrizione (decennale) e soprattutto onere della prova e colpa; b) la tutela risarcitoria viene svincolata dal giudizio sulla spettanza del bene della vita o della sua probabilità di conseguirlo, incentrandosi invece sugli obblighi procedimentali, in cui il contatto qualificato si sostanzia.

La tesi è stata recepita da parte della giurisprudenza, che ha affermato che la responsabilità della p.a. per ingiusta lesione di interessi legittimi presenta profili sui generis che ne consentono, in taluni casi, l'accostamento alla responsabilità per inadempimento contrattuale (Cons. St. V, n. 3796/2002) e che il contatto che si stabilisce fra il privato e l'Amministrazione dà vita ad una relazione giuridica di tipo relativo, nel cui ambito, il diritto al risarcimento del danno ingiusto, derivante dall'adozione di provvedimenti illegittimi presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al modello aquiliano dell' art. 2043 c.c., in quanto, al contrario, caratterizzata da alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e di quella per inadempimento delle obbligazioni (Cons. St. VI, n. 204/2003). In altra decisione, il Consiglio di Stato, pur non recependo appieno la tesi della natura contrattuale della responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, ha tratto spunto dalla tesi per optare per un regime dell'onere della prova in ordine all'elemento dell'imputabilità del fatto dannoso secondo criteri corrispondenti a quelli (contrattuali) dell' art. 1218 c.c. (Cons. St. V, n. 4239/2001).

Secondo l'orientamento prevalente va esclusa una responsabilità da contratto sociale qualificato, giacché il danneggiato con la domanda di ristoro patrimoniale a tutela del proprio interesse legittimo non si duole dell'inottemperanza ad un obbligo gravante in capo alla p.a. quanto dello scorretto uso del potere amministrativo – Cons. St. V, n. 1833/2013).

Anche la Cassazione ha affermato che l'inadempimento delle regole di svolgimento dell'azione amministrativa integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale, anche se l'inquadramento degli obblighi procedimentali nello schema contrattuale, come vere e proprie prestazioni da adempiere secondo il principio di correttezza e buona fede ( art. 1174 e 1175 c.c.), è proponibile solo dopo l'entrata in vigore della l. n. 241/1990; nel caso di specie, in cui i fatti di causa erano antecedenti a tale data, la Cassazione ha ritenuto la natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. (Cass. I, n. 157/2003v. Cass. I, n. 25644/2017 che, in una fattispecie relativa ad un contratto di appalto divenuto inefficace e «tamquam non esset» per effetto dell'annullamento dell'aggiudicazione da parte dell'organo di controllo, ha ritenuto sussistente per le perdite ed i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario una responsabilità di tipo contrattuale da «contatto sociale qualificato», inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni,ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.).

Tesi della natura precontrattuale della responsabilità della P.A.

Altro indirizzo interpretativo individua la responsabilità precontrattuale quale modello prevalente di responsabilità dell'amministrazione, riprendendo l'idea di un accostamento tra la responsabilità precontrattuale e il dovere dell'amministrazione di comportarsi secondo buona fede nel valutare le pretese del privato (Giannini, 511).

È noto che la responsabilità precontrattuale, definita come lesione della libertà negoziale, è un istituto tipico del campo civilistico ed, infatti, fino a qualche tempo fa, si negava la sua applicabilità alla P.A.

Gli articoli 1337 e 1338 c.c. disciplinano il comportamento e le modalità da rispettare da parte dei contraenti durante lo svolgimento delle trattative e, segnatamente, avuto riguardo al profilo della buona fede ed ai casi di conoscenza di eventuali cause di invalidità, in grado di ripercuotersi sulla pattuizione in atto.

Secondo il sistema delineato nel codice civile, le parti sono libere di seguire lo schema formativo che più si adatta a realizzare i loro contrapposti (o, a volte, convergenti) interessi, potendo decidere di concludere subito il contratto mediante lo scambio immediato di proposta e accettazione ovvero di formare in maniera progressiva la loro volontà attraverso trattative (più o meno lunghe) nell'ambito delle quali si possono inserire «intese precontrattuali» o «contratti preparatori» di diversa natura. È consentito, inoltre, ai contraenti creare, nell'esercizio della propria autonomia procedimentale ( art. 1322 c.c.) e ferma restando l'osservanza delle prescritte norme imperative, schemi atipici di formazione della volontà contrattuale.

In questa fase precontrattuale le parti sono titolari della «libertà negoziale» di non stipulare il contratto ovvero di stipularlo con determinati contenuti. Ma tale libertà deve essere esercitata nel rispetto di «regole di condotta» che pongono puntuali «limiti» al fine di evitare che la stessa trasmodi in un «abuso» ai danni della libertà negoziale dell'altro contraente. Queste regole di condotta sono rappresentate dalla buona fede e dalla diligenza.

La prima impone alle parti, in ossequio al principio costituzionale di solidarietà contrattuale (art. 2), di comportarsi in maniera leale durante tutta la fase di formazione del contratto secondo quanto espressamente previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c.

La seconda impone alle parti, sempre in applicazione delle richiamate disposizioni, di osservare determinati standard tipizzati di condotta al fine di evitare comportamenti colposi idonei ad arrecare danni ingiusti.

L'«abuso della libertà negoziale», realizzata dalla parte che viola le regole indicate, è sanzionato con il rimedio, espressamente previsto dalle citate norme imperative, della responsabilità precontrattuale.

Tale tipologia di responsabilità, secondo l'opzione interpretativa preferibile, si inserisce nel più ampio genus della responsabilità extracontrattuale.

In quest'ambito, la disciplina normativa è volta alla tutela del contraente (del suo legittimo affidamento) affinché questi non sia coinvolto in trattative inutili o non stipuli contratti invalidi e consiste nel risarcimento del cd. interesse negativo (danno patito, spese sofferte e pregiudizio per le occasioni perse medio tempore).

Dottrina e giurisprudenza risalenti ritenevano che l'istituto non si attagliasse alla attività della P.A. (per la quale, peraltro, vale il principio di presunzione della legittimità degli atti) in ragione della sussistenza di posizioni di interesse legittimo del privato, della insindacabilità del comportamento discrezionale della parte pubblica durante lo svolgimento delle trattative ed, infine, dell'esistenza di un sistema di controlli e di procedure a evidenza pubblica, a cui è sottoposta l'attività negoziale degli enti pubblici.

L'evoluzione ad opera della dottrina è avvenuta soprattutto separando — nell'ambito dell'attività della P.A. — il piano del «corretto amministratore» (che resta disciplinato dalla normativa pubblicistica) da quello del «corretto contraente» (che ben può essere regolato dal codice civile); in altre parole, i suddetti profili non interferiscono affatto tra loro e, pertanto, il giudice deve (e può) accertare se la P.A. si sia comportata da «corretto contraente» (principi recepiti da Cass. S.U., n. 1675/1961, che riconobbe la configurabilità della responsabilità precontrattuale in capo alla P.A.).

Inizialmente, il riconoscimento dell'applicabilità alla p.a. della responsabilità precontrattuale è stato limitato ai casi in cui la p.a. agiva a trattativa privata c.d. pura, cioè solo nei casi in cui la Pubblica amministrazione si spogliava dei propri poteri pubblicistici ed operava come un qualunque altro soggetto, con la conseguenza che nelle ipotesi successivamente sempre più ricorrenti — a seguito delle impostazioni di matrice comunitaria — di trattativa privata preceduta da gara informale non potevano applicarsi i principi civilistici della culpa in contraendo (Cass. I, n. 6545/1987). Per le procedure di gara (aperte o ristrette), invece, la giurisprudenza continuava ad operare un distinguo: in particolare, se l'illecito era avvenuto prima o dopo l'aggiudicazione, riconoscendo la responsabilità solo dopo l'aggiudicazione di una gara ( Cass. S.U., n. 4673/1997).

Il definitivo approdo giurisprudenziale ha esteso il riconoscimento della responsabilità precontrattuale della p.a. a tutti i casi in cui il soggetto pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, con la conseguenza che l'inosservanza di tali precetti, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della p.a. per violazione del dovere di correttezza previsto dall' art. 1337 c.c., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante (da ultimo, v. Cass. I, n. 15260/2014 e Cons. St. V, n. 383/2013 e Cons. St. V, n. 1797/2016; Cons. St. IV, n. 1142/2015, secondo cui tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale e, pertanto, il rispetto dei principi di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. non può essere circoscritto al singolo periodo successivo alla determinazione del contraente).

In coerenza con tali principi, la giurisprudenza ha sottolineato che, in materia di responsabilità precontrattuale della P.A., l'esistenza di un procedimento amministrativo che doppia quello negoziale, la predefinizione di regole formative caratterizzate, tra l'altro, dalla normale pluralità delle parti, la possibile incidenza di valutazioni di interesse pubblico nell'esercizio del potere di recesso, se certamente determinano una deviazione dagli schemi ordinari in ragione del particolare status di uno dei contraenti e la consequenziale necessità di adattamento delle regole civilistiche, non sono idonei ad escludere la generale operatività delle «regole di condotta» della buona fede e della diligenza in relazione a tutto il procedimento negoziale antecedente la stipulazione del contratto (T.A.R. Calabria (Catanzaro), 9 giugno 2009, n. 627).

La responsabilità precontrattuale della P.A. non può, quindi, essere limitata alle procedure negoziate, ovvero, in presenza di una procedura non negoziata, alla fase successiva alla scelta del contraente, dato che non è possibile scindere il momento di sviluppo del procedimento negoziale limitando l'applicazione delle regole di responsabilità precontrattuale alla fase in cui il «contatto sociale» viene individualizzato. Una volta che si riconosce l'autonomia del momento negoziale rispetto a quello pubblicistico non sussistono valide ragioni per ritenere che la buona fede e la diligenza non operino sin dalla fase di inizio del predetto «contatto» che si ha con la esternazione dell'invito ad offrire, dato che anche nel diritto civile il modello formativo dell'offerta al pubblico presuppone normalmente il «contatto» con una pluralità di «partecipanti» al procedimento negoziale; diversamente argomentando l'interprete sarebbe costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità, per cui la valutazione giudiziale deve avere ad oggetto la condotta della P.A. sia prima che dopo la scelta del contraente.

La «responsabilità precontrattuale da mancata conclusione del contratto» impone di ancorare il giudizio finale di responsabilità alla sussistenza di due elementi: a) uno positivo, rappresentato dall'affidamento senza colpa ingenerato nella controparte dal comportamento del soggetto recedente; b) l'altro negativo, rappresentato dalla mancanza di una giusta causa alla mancata conclusione del contratto. Il recesso dalle trattative determina, pertanto, responsabilità precontrattuale quando le stesse sono interrotte in assenza di una giusta causa con lesione dell'affidamento ingenerato nell'altro contraente.

In materia di contratti pubblici va, quindi, tutelato il legittimo affidamento nell'aggiudicazione dell'appalto e nella successiva stipulazione del contratto dell'imprenditore che abbia ignorato, senza sua colpa, una causa di invalidità, con conseguente responsabilità dell'amministrazione appaltante per non essersi astenuta dalla stipulazione del negozio che doveva sapere essere invalido, rientrando nei suoi poteri (e doveri) conoscere le cause dell'illegittimità dell'aggiudicazione (Cass. I, n. 9636/2015, secondo cui, per accertare se un contraente abbia confidato colpevolmente o incolpevolmente nella validità ed efficacia del contratto con la P.A. va verificato in concreto se la norma (di relazione) violata sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, e sia quindi causa di invalidità «autoevidente», tenuto conto della univocità dell'interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità, rispetto alle quali sussiste comunque un obbligo di informazione della p.a., che dovrà in caso dimostrare in concreto che l'affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifiche).

Gli esatti limiti della' applicabilità della responsabilità contrattuale alla p.a. sono precisati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che ha affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell'altrui scorrettezza; tali doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell'aggiudicazione, in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento e in relazione sia a comportamenti anteriori al bando, sia a comportamenti successivi contrari ai doveri di correttezza e buona fede (Cons. St. Ad. Plen., n. 5/2018 che ha aggiunto che affinché nasca la responsabilità dell'amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose, ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento - la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale - sia il danno-conseguenza - le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate - sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'amministrazione).

E' stato ritenuto che sussiste la responsabilità della p.a. per violazione dei canoni di correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c. nel caso in cui, dopo aver ammesso a finanziamento un'iniziativa imprenditoriale, solo a distanza di anni, in sede di rendicontazione dell'attività svolta, la p.a.accerti che questa non rientrava fra quelle ammissibili, in quanto il fatto che la revoca o il recupero del contributo costituisca un atto dovuto non esclude che per effetto della pregressa condotta della stessa amministrazione possa essersi formato in capo al privato un ragionevole affidamento nella legittimità del riconoscimento dei contributi in proprio favore, tale da indurlo a portare avanti l'iniziativa imprenditoriale e a sostenere i relativi oneri nella legittima convinzione che gli stessi sarebbero stati coperti dalle risorse pubbliche (Cons. St. II, n. 7246/2019). V. anche i par. 12 e 13.

Secondo parte della dottrina, la responsabilità della P.A. viene configurata come responsabilità (precontrattuale) per inadempimento degli obblighi di correttezza (Garofoli, Racca, De Palma, 171). L'azione amministrativa, che è l'esercizio della potestà, e l'azione del privato, che è l'esercizio dell'interesse legittimo, vanno riguardati alla stregua dei comportamenti precontrattuali, che sono governati, oltre che dalle regole giuridiche interne all'azione pubblica (le regole della discrezionalità), anche dalle regole proprie della responsabilità precontrattuale, adattate, però, alla specificità dell'azione pubblica (Cirillo, 168).

Secondo altre opinioni, l'accostamento con la responsabilità precontrattuale può contribuire a far emergere la necessità di assicurare una tutela risarcitoria in alcune fattispecie, in cui il cittadino non è direttamente leso da un provvedimento illegittimo adottato dall'amministrazione, ma dal comportamento della p.a., che aveva dapprima generato, e poi violato, un affidamento, senza però perdere di vista la differenza che intercorre tra la realtà delle trattative che preludono al contratto ed i rapporti che si svolgono nell'istruttoria procedimentale, dove l'interesse non è quello a non essere coinvolti in trattative infruttuose, ma è il più rilevante interesse a conseguire un determinato bene della vita (Chieppa, Viaggio, 2003, 705).

È stato anche rilevato che se alle origini della responsabilità precontrattuale di diritto privato vi è la convinzione che la fase delle trattative non possa essere del tutto libera e che possano sorgere dei vincoli per le parti anche prima della conclusione del contratto in modo che la violazione del precetto di buona fede oggettiva nella conduzione delle trattative ( art. 1338 c.c.) genera responsabilità, nonostante il soggetto abbia agito avvalendosi della regola di libertà nella negoziazione, parallelamente, anche prima dell'emanazione del provvedimento l'azione amministrativa non è del tutto libera ed esente da vincoli, dovendo piuttosto muoversi nel quadro del procedimento e rispettare tutte le norme che ne condizionano lo sviluppo. Sicché, se è prevista una responsabilità precontrattuale per le tenui regole che ispirano le trattative contrattuali, a maggior ragione è configurabile una responsabilità della p.a. per violazione delle regole procedimentali e dei principi cui deve uniformare la sua azione (Caianiello, 280).

La tesi della responsabilità speciale.

La dottrina ha evidenziato il rischio che le difficoltà di inquadramento della responsabilità della p.a. possano indurre l'interprete nella tentazione di scegliere una strada autonoma, costruendo un tertium genus di responsabilità speciale della p.a. ad immagine e modello delle peculiarità della p.a., concludendo con l'auspicio che il giudice amministrativo non ricostruisca la specialità della responsabilità della p.a. con regole domestiche (Busnelli, 352).

In isolate decisioni, anche il Consiglio di Stato ha mostrato di aderire alla tesi di una responsabilità speciale, affermando che nel diritto pubblico e per il caso di lesione arrecata all'interesse legittimo, si è in presenza di una peculiare figura di illecito, qualificato dall'illegittimo esercizio del potere autoritativo — il che preclude che possa essere senz'altro trasposta la summa divisio tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale, storicamente affermatasi nel diritto privato (Cons. St. VI, n. 1047/2005, Urb. app., 2005, 1060, con nota di Garofalo, Verso un modello autonomo di responsabilità amministrativa; decisione poi richiamata anche da Cons. St. IV, n. 4401/2007).

In favore di una sorta di responsabilità peculiare della P.A.: Zito, 172; Maruotti).

La peculiarità di tale responsabilità consisterebbe nel fatto che il comportamento illecito si inserisce nell'ambito di un procedimento amministrativo e che la stretta connessione esistente tra sindacato di validità sul potere discrezionale e sindacato di responsabilità sul comportamento impone al giudice amministrativo, nel caso in cui sia proposta anche l'azione di annullamento o di nullità, di non sovrapporre, nell'accertare la sussistenza del fatto illecito, proprie valutazioni a quelle riservate alla pubblica amministrazione (Cons. St. VI, n. 5611/2015).

La responsabilità della pubblica amministrazione per attività provvedimentale è stata ricondotta, con la nota sentenza della Corte di Cassazione, n. 500/1999, nel sistema della responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 c.c., clausola generale con la quale si sanziona con un obbligo risarcitorio la violazione del principio del neminem laedere (Cass.  S.U., n. 500/1999).

La tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della P.A.

La tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della p.a. è stata ribadita anche da successiva dottrina, che ha escluso che la natura contrattuale o precontrattuale della responsabilità possa costituire il modello prevalente della responsabilità della P.A., evidenziando come l'ambito di applicazione della responsabilità extracontrattuale si è ampliato: alla semplice responsabilità del quisque de populo che casualmente si trova a ledere diritti altrui si sono aggiunte nuove fattispecie, come ad esempio quelle che si collegano alla violazione dei doveri derivanti dal proprio status professionale, in cui è evidente che il danno non è causato da un passante, ma è altrettanto evidente che il collegamento tra i due soggetti (danneggiato e danneggiante) è spesso ricostruibile solo ex post e comunque non fa nascere un vero e proprio rapporto obbligatorio, il cui inadempimento costituisce fonte di responsabilità contrattuale (Chieppa- Giovagnoli, 717).

A conforto dell'idoneità della tesi della responsabilità extracontrattuale a costituire il modello prevalente della responsabilità della p.a. anche per le fattispecie in cui viene leso l'affidamento del privato, viene richiamata la consolidata giurisprudenza comunitaria, che ha sempre tutelato ai sensi dell'art. 288, comma 2, del Trattato (responsabilità extracontrattuale) anche il semplice affidamento, come nell'ipotesi del riconoscimento della responsabilità della Commissione per aver abolito, con effetto immediato e senza preavviso, determinati importi compensativi previsti per le imprese del settore agricolo senza l'adozione di misure transitorie e senza che ricorressero ragioni di urgenza (Caranta, 1993, 326).

La giurisprudenza maggioritaria continua a inquadrare la responsabilità della p.a. all'interno del modello della responsabilità extracontrattuale: è stato evidenziato che, assonanze fonetiche a parte, il contatto non è di per sé un contratto: sicché, fino alla conclusione dell'accordo di cui all'art. 1321 c.c., Cons. St. VI, n. 12/2018 relativa al danno da ritardo), il rapporto intersoggettivo resta regolato dalla clausola generale di cui all' art. 2043 c.c. e non, invece, dal principio di responsabilità contrattuale ex art. 1218 (Cons. giust. amm. Sicilia, 18 marzo 2006, n. 153); anche il Consiglio di Stato, con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dall'esercizio illegittimo dell'attività amministrativa, ha aderito a quell'orientamento favorevole a restare all'interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell'illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela ( Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. VI, n. 6607/2006; Cons. St. VI, n. 1114/2007; Cons. St. VI, n. 1514/2007; Cons. St. IV, n. 5012/2004; Cons. St. IV, n. 5500/2004,  Cons. St. VI, n. 12/2018relativa al danno da ritardo), seguendo una tesi definitivamente avallata dalla Plenaria, che ha ribadito che la responsabilità della p.a., sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale (Cons. St., Ad. Plen. n. 7/2021, commentata da Contessa).

Deve, quindi, ritenersi che la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. costituisce il modello prevalente, cui viene ricondotta la maggiore parte delle fattispecie di danni causati dalla P.A. nell'esercizio di attività illegittima; ciò comporta che, per la quantificazione del danno, si applicano, in virtù dell'art. 2056 cod. civ. – da ritenere espressione di un principio generale dell'ordinamento - i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell'evitabilità con l'ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ., e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall'art. 1225 cod. civ..

È di natura extracontrattuale la responsabilità della p.a. per diffusione di informazioni inesatte, attraverso cui viene lesa la posizione di affidamento del soggetto in contatto con la p.a., tenuto conto che l'amministrazione deve ispirare la propria azione alle regole di correttezza, imparzialità e buon andamento, di cui all' art. 97 della Costituzione (Cass. III, n. 2424/2004).

I requisiti dell'illecito

Affermata in astratto la risarcibilità del danno derivante da lesione di interessi legittimi, la Cassazione ha affrontato anche l'ulteriore questione dei presupposti per il riconoscimento in concreto della tutela risarcitoria, affermando, sotto il profilo dell'elemento oggettivo, che il giudice:

a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso;

b) procederà quindi a stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento;

c) dovrà inoltre accertare, sotto il profilo causale (nesso di causalità), facendo applicazione dei noti criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della p.a;

d) dovrà verificare la sussistenza dell'elemento soggettivo (colpa).

Segue. L'elemento oggettivo

L'illegittimità dell'atto amministrativo, che si assume essere stato causa del danno, è un requisito necessario ma non sufficiente per la fondatezza dell'azione risarcitoria (Cass., S.U., n. 500/1999). Secondo la sentenza 500/1999, la lesione degli interessi legittimi oppositivi è di per sé sufficiente a configurare un danno ingiusto poiché l'illegittimo esercizio del potere sacrifica l'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio.

In una fattispecie, in cui dopo l'annullamento per difetto di motivazione di una variante al Prg, che non aveva tenuto conto di una convenzione di lottizzazione, il comune aveva (legittimamente) riadottato la variante, esplicitando le ragioni di pubblico interesse che avevano condotto l'amministrazione ad una scelta incompatibile con l'attuazione della convenzione, la Cassazione ha qualificato la posizione lesa dal primo atto come interesse oppositivo ed ha affermato che non è necessaria la prognosi sull'esito favorevole delle aspettative dell'interessato, in quanto il collegamento con il bene della vita si è già consolidato in virtù di un precedente provvedimento (convenzione di lottizzazione), e tanto basta a pretendere la riparazione delle conseguenze patrimoniali sfavorevoli dell'illegittimità dell'azione amministrativa, anche in ipotesi di successivo (legittimo) riesercizio del potere amministrativo sempre in senso sfavorevole al privato (Cass. I, n. 157/2003).

In senso contrario, è stato evidenziato che la soluzione prospettata dalla Cassazione con la sentenza n. 157/2003 sembra dare eccessiva protezione risarcitoria in una situazione, in cui il danno richiesto dipende dal mancato sfruttamento dell'area quale edificabile, mentre invece tale possibilità edificatoria è stata legittimamente preclusa in sede di (legittimo) riesercizio del potere; l'ingiusta incisione dell'aspirazione del privato all'edificazione viene meno al momento dell'adozione del nuovo piano, legittimo, che conferma le statuizioni del precedente annullato, con la conseguenza che estendere la tutela risarcitoria oltre la perdita dell'utilità per il tempo in cui essa è stata effettivamente sottratta conduce ad una iperprotezione della posizione del privato e rende difficile configurare il nesso di causalità tra fatto e danno (Fracchia, Risarcimento, 2003, 78).

In dottrina si è criticata l'eccessiva protezione riservata agli interessi oppositivi nei casi in cui il provvedimento che va ad incidere su di essi è viziato per ragioni attinenti alla forma o al procedimento ma è sostanzialmente corretto e, quindi, non priva ingiustamente il cittadino del bene della vita. Viene anche richiamata l'attenzione sul paradosso dell'eccessiva protezione degli interessi legittimi oppositivi, specie in presenza di vizi di carattere procedimentale e della possibilità per l'amministrazione di sanare il vizio riadottando (legittimamente) il medesimo provvedimento sfavorevole per il privato (Caringella, 202).

In conformità con la dottrina citata, già prima dell'entrata in vigore dell' art. 21-octies della legge n. 241/1990, si poneva quella giurisprudenza, secondo cui nel caso di annullamento di un atto amministrativo incidente su interessi legittimi oppositivi e viziato nella forma o nel procedimento, l'ingiustizia del danno, rilevante ai fini risarcitori, non sussiste allorché sia provato che l'Amministrazione non avrebbe diversamente deciso pure osservando la regola violata (Cons. St. VI, n. 1261/2004).

La giurisprudenza aveva anche precisato che sussisteva il requisito dell'ingiustizia del danno nel caso di annullamento di un atto espropriativo per violazione della garanzia di avviso di avvio del procedimento, anche se si tratta di una illegittimità che concerne solo un interesse procedimentale, in quanto viene ad essere inficiata la legittimità del provvedimento finale. La pretesa di cui all' art. 7 l. n. 241/1990 « è per diritto vivente, di portata sostanziale, nel senso che può avere ingresso nel processo e condurre all'accoglimento della domanda » (Cons. St. VI, n. 3338/2002).

Tuttavia, tale « iperprotezione » degli interessi legittimi di tipo oppositivo, specie in presenza di mere violazioni formali o procedimentali, è stata in parte attenuata in seguito all'entrata in vigore dell'art. 21- octiesdella legge n. 241/1990, con cui alcuni vizi sono stati privati del carattere invalidante nel caso in cui emerga in giudizio che il contenuto del provvedimento non poteva che essere quello concretamente adottato dall'amministrazione (Chieppa-Lopilato, 642).

La semplice lesione degli interessi legittimi pretensivi non è invece sufficiente a configurare un danno ingiusto perché il privato non è titolare del bene della vita ma aspira ad ottenerlo e non è certo che l'atto amministrativo, sebbene illegittimo, abbia ingiustamente negato l'ampliamento della sfera giuridica dell'istante.

Con la sentenza 500/1999, si è affermato che il giudice deve formulare un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell'istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, di per sé non tutelabile, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva: una situazione, quindi, che sulla base della disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, risultando perciò giuridicamente protetta (Cass. S.U., n. 500/1999).

Sulla base della tesi della responsabilità da contatto amministrativo qualificato, viene affermata la risarcibilità delle lesioni ad interessi legittimi pretesivi, anche a prescindere dall'accertamento della spettanza del bene della vita.

Parte della dottrina ha criticato tali conclusioni, nella parte in cui fanno sorgere, quasi in via automatica, una pretesa risarcitoria in capo al privato per la mera violazione di regole procedimentali, prescindendo dalla sorte del provvedimento conclusivo del procedimento e quindi dalla spettanza dell'utilità, che il privato tende conservare o a conseguire, senza verificare in modo rigoroso la sussistenza del danno ed il nesso di causalità con l'illegittimità commessa (Casetta-Fracchia, Responsabilità, 18). È stata anche proposta una tesi, che, pur aderendo ad una ricostruzione lato sensu contrattuale della responsabilità, mantiene ferma l'esigenza di dimostrare in giudizio la fondatezza della propria pretesa di provvedimento favorevole, non potendo essere risarcito allo stesso modo chi si vede privato ingiustamente del bene della vita e chi è stato leso solo da un atto viziato per ragioni i forma o attinenti al procedimento (Vaiano, 292).

Pur non negando in astratto la risarcibilità di danni anche a prescindere dall'accertamento della spettanza del bene della vita, la giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che per quanto concerne gli interessi legittimi pretensivi quasi sempre la pretesa risarcitoria ha ad oggetto proprio il pregiudizio connesso alla mancata attribuzione del bene finale. In ipotesi siffatte, il Giudice non può limitarsi a liquidare un danno per la mera violazione procedimentale, ma è chiamato a formulare un giudizio, laddove possibile, sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene o dell'utilità finale, mentre quando a seguito dell'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo, persistano in capo all'Amministrazione significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, il risarcimento del danno può riconoscersi solo dopo e a condizione che l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere (come le compete, per effetto del giudicato), abbia riconosciuto all'interessato il bene della vita; in quest'ultima ipotesi, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento del bene richiesto (Cons. St. VI, n. 1945/2003).

E' stato affermato che nei casi in cui la lesione discenda da una illegittimità provvedimentale accertata solo sul piano dei vizi formali (e, quindi, per definizione, senza il riconoscimento della fondatezza della pretesa sostanziale) il danno può essere riconosciuto soltanto all'esito della (doverosa) riedizione dell'azione amministrativa (correlata all'effetto conformativo del giudicato o, più correttamente, dell'annullamento, che opera, sul piano giuridico, eliminando l'atto che, con la sua adozione, aveva estinto l'obbligo di provvedere sulla istanza privata e riattivando, con ciò, l'obbligo di riprovvedere ex art. 2 l. n. 241/1990): ciò perché solo all'esito del satisfattivo riesercizio del potere potrà dirsi accertata la spettanza del bene della vita. Al privato pregiudicato da un provvedimento amministrativo riconosciuto illegittimo non può essere riconosciuta la facoltà di abdicare alla pretesa di rinnovo del procedimento, di fatto optando per la monetizzazione del bene della vita: con il che, appunto, il danno da pretesa abusivamente conculcata può essere solo ed alternativamente: a) preordinato a coprire il ritardo nella soddisfazione della pretesa; b) ovvero a surrogare, per equivalente, la perdita dell'utilità, imputabile all'inadempimento dell'Amministrazione, che corre il rischio delle sopravvenienze, giusta l'ordinario principio della perpetuatio obligationis (Cons. St. V, n. 5737/2019).

Cons. St., II, n. 2161/2020 ritiene che in sede di giudizio di risarcimento il g.a. deve formulare un giudizio prognostico ex ante, verificando se il “bene della vita” cui il privato aspirava (nel caso di specie, l'autorizzazione all'apertura del centro commerciale) sarebbe stato da lui verosimilmente perseguito al netto dei vizi di legittimità che hanno affetto il provvedimento sfavorevole.

In generale, si può rilevare che permane una tendenza della giurisprudenza a legare il risarcimento del danno al giudizio di spettanza sul bene della vita illegittimamente negato dalla p.a. (v. Cons. St., IV, n. 653/2022), anche se la dottrina ha più volte evidenziato come possano porsi in rapporto di causalità con illegittimità compiute dalla p.a. anche danni non direttamente collegati alla mancata attribuzione del bene della vita.

Segue. La colpa della P.A.

L'indirizzo giurisprudenziale consolidato prima della sentenza 500/1999, riteneva la colpa sussistente  in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dall'atto amministrativo; la colpa era di per sé già ravvisabile con l'adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che inficiava il provvedimento ( Cass. S.U., n. 5361/1984). Non si tratta di qualificare la responsabilità civile della p.a. come una forma di responsabilità oggettiva, ma di affermare soltanto che non occorre la prova del comportamento colpevole del funzionario, anche perché tale prova sarebbe difficilissima da raggiungere per un privato (Cass. I, n. 5883/1991).

L'indirizzo in esame escludeva, inoltre, la possibilità per l'amministrazione di liberarsi del danno dimostrando la scusabilità dell'errore, ad esempio, perché l'atto illegittimo era conforme ad una prassi interpretativa giurisprudenziale poi superata o per l'oggettiva oscurità della legge da interpretare. La configurabilità dell'errore scusabile, se deve essere ammessa con riferimento ala persona fisica dell'organo, cui la violazione sia materialmente riferibile, per escluderne la diretta responsabilità ex art. 28 Cost., non può, invece, essere ammessa con riferimento alla pubblica amministrazione che, come è noto, rispondendo in via diretta della sua attività, non può giovarsi dell'errore in ipotesi scusabile, dei propri funzionari ( Cass.  S.U., n. 5361/1984).

Tale indirizzo viene superato con la sentenza n. 500/1999 , con cui la Cassazione abbandona la tesi della configurazione di una colpa in re ipsa, sussistente nella stessa illegittimità dell'atto processualmente accertata e non conciliabile con la più ampia formula dell' art. 2043 c.c., svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obbiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente, ma della p.a. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità (Cass.  S.U., n. 500/1999).

Il criterio di accertamento della colpa indicato dalla sentenza n. 500 del 1999 è stato in parte disatteso dal Consiglio di Stato, che ne ha sottolineato che se da una parte il criterio rimane ad un livello di inevitabile astrazione, dall'altra non tiene conto del fatto che la violazione dei limiti esterni alla discrezionalità comporta l'illegittimità dell'atto per eccesso di potere. Sicché, pur premettendo l'esigenza di un'indagine penetrante sulla colpa dell'apparato, finisce per accontentarsi di una verifica di tipo solo oggettivo. Secondo un orientamento è indispensabile accedere direttamente ad una nozione oggettiva di colpa, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento ed, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall'amministrazione, anche alla luce dell'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell'apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento.

Se una violazione è l'effetto di un errore scusabile dell'autorità, non si potrà configurare il requisito della colpa. Se, invece, la violazione appare grave e se essa matura in un contesto nel quale all'indirizzo dell'amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente (Cons. St. IV, n. 3169/2001). Con altra decisione il Consiglio di Stato ha affermato che non può essere accolta la tesi, secondo cui la colpa della p.a. si verificherebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento amministrativo più grave ed evidente, in quanto verrebbe introdotta, indirettamente, una limitazione della responsabilità alla colpa grave, senza adeguata base normativa. In base alla regola generale racchiusa nell' art. 2697 c.c. (operante, in questa parte, anche nel processo amministrativo), il danneggiato ha l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa), ma detto onere può essere ragionevolmente adempiuto anche attraverso prove indirette ed adeguate semplificazioni probatorie consentite dall'ordinamento processuale. In particolare, in questo ambito, assume rilievo lo strumento probatorio della presunzione. La accertata illegittimità dell'atto ritenuto lesivo dell'interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l'indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell'amministrazione. La mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, solo in ipotesi molto circoscritte, coincidenti con l'errore scusabile dell'amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti.

L'incertezza del quadro normativo di riferimento è, quindi, indice della sussistenza di un errore scusabile, in quanto se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere sia stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità (Cons. St. IV, n. 7082/2019).

In tale contesto, non è plausibile ritenere che il danneggiato debba fornire la completa ed esauriente prova negativa dell'assenza di errori incolpevoli dell'amministrazione. Tale onere avrebbe un peso davvero eccessivo, anche considerando che il privato non è tenuto conoscere la struttura organizzativa dell'ente e le carenze operative eventualmente incidenti sull'elemento soggettivo dell'illecito. La decisione fa riferimento alla tesi della responsabilità da contatto, evidenziando che l'adeguata valorizzazione del rapporto procedimentale instaurato tra le parti consente di affermare che l'onere della prova dell'elemento soggettivo dell'illecito va ripartito tra le parti secondo criteri sostanzialmente corrispondenti a quelli codificati dall' art. 1218 c.c. attraverso una presunzione relativa di colpa derivante dall'illegittimità dell'atto e vincibile dall'amministrazione con la dimostrazione della sussistenza di un errore scusabile (Cons. St. V, n. 4239/2001).

Anche secondo la Cassazione va esclusa la responsabilità della p.a., in presenza di un errore ritenuto scusabile perché riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata (Cass. III, n. 2424/2004).

In senso critico con riguardo all'applicazione dell' art. 1218 c.c. ed alla configurabilità di una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione in presenza di un atto illegittimo o comunque di una violazione delle regole, si è espressa parte della dottrina, rilevando che in mancanza di una esplicita previsione normativa una presunzione relativa generalizzata non può operare e che possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all' art. 2727 c.c., che però non può ritenersi in via generale ma va desunta dalla singola fattispecie (Lo Presti, 92).

In favore dell'utilizzo di presunzioni semplici, Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. IV, n. 5012/2004; Cons. St. V, n. 265/2012).

Molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell'errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla quaestio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia (Caranta, 2001, 172).

L'elemento della violazione grave e manifesta, giustamente valorizzato dalla citata decisione n. 3169/2001 del Consiglio di Stato, costituisce anch'esso una questione di diritto, ma deve essere riferito al contenuto precettivo della norma non osservata e non al carattere grave e manifesto del vizio dell'atto, altrimenti si perverrebbe all'inaccettabile conclusione di ritenere che l'inosservanza della medesima disposizione normativa realizzi o meno una condotta colposa a seconda che l'illegittimità del provvedimento sia o no manifesta (Lopilato, 2001, 481).

Inoltre, la responsabilità aquiliana dell'Amministrazione per i danni da illegittimo svolgimento dell'attività amministrativa non richiede, quale criterio soggettivo di imputazione, esclusivamente la colpa grave, ma può essere ritenuta sussistente anche nel caso di colpa lieve da valutare con il parametro soggettivo del c.d. agente modello individuato, secondo i casi, nel bonus pater familias o nel homo eiusdem profecionis et condicionis, cioè nel giurista di medio livello che applica professionalmente norme amministrative (Cons. giust. amm. Sicilia, 20 aprile 2007, n. 361).

Spetta al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la presunzione relativa di colpa, che spetterà poi all'amministrazione vincere; dovrà essere prestata particolare attenzione al carattere vincolato o discrezionale dell'attività svolta: in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita (Cons. St., VI, n. 3981/2006; Cons. St. VI, n. 6607/2006).

Il Consiglio di Stato aveva precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria. Si ricorda che la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte giustizia CE, 14 ottobre 2004 C-275/03). Tuttavia, secondo il Consiglio di Stato, tale decisione appariva riferirsi all'onere della prova in relazione all'elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell'amministrazione. Nell'ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della P.A. l'onere di dimostrare l'esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari (Cons. St. VI, n. 3981/2006; Cons. St. VI, n. 6607/2006; Cons. St. VI, n. 1114/2007). Veniva evidenziato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell'errore scusabile (Corte giustizia CE, 5 marzo 1996, C-46 e 48/93).

È, tuttavia, intervenuta una nuova pronuncia della Corte di Giustizia, che ha smentito tale interpretazione «restrittiva» del precedente comunitario. I giudici comunitari hanno affermato che il diritto dell'Unione europea osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un'amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all'amministrazione suddetta (Corte giustizia UE, 30 settembre 2010, C-314/09).

La decisione della Corte di Giustizia incide profondamente sul nostro diritto vivente e smentisce la giurisprudenza italiana, richiamata in precedenza. Sotto altro profilo, in alcuni casi l'amministrazione potrà fornire la prova di un concorso colposo del danneggiato e talvolta il contatto tra p.a. e cittadino può anche costituire elemento a favore dell'amministrazione, quando ad esempio è stato il privato a violare doveri di correttezza nel fornire il suo apporto partecipativo al procedimento, celando circostanze rilevanti o producendo dichiarazioni inesatte (Cons. St. VI, n. 4007/2002, in cui il giudice amministrativo, dopo aver annullato l'esclusione da una gara per l'affidamento di un pubblico appalto per violazione delle norme che impongono la verifica in contraddittorio dell'offerta ritenuta anormalmente bassa, esclude la responsabilità dell'amministrazione per l'assenza del requisito della colpa sulla base del criterio dell'errore scusabile, valutato anche alla luce del comportamento negligente (scorretto) della parte privata consistente nel non aver fornito un'esaustiva analisi degli elementi dell'offerta come richiesto dal bando di gara, concorrendo quindi a causare l'errore della amministrazione).

La giurisprudenza interna si è immediatamente adeguata al principio comunitario, ritenendo che la nuova regola vigente in materia di risarcimento dei danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici configura una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante dall'esigenza di garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici (Cons. St. V, n. 772/2016; Cons. St. V, n. 5686/2012; Cons. St. V, n. 5115/2014, che hanno esteso la regola a tutti gli appalti pubblici, e non solo a quelli comunitari, ma non a settori diversi dagli appalti).

In materia di appalti va evidenziato che, di norma, la via del risarcimento per equivalente viene percorsa qualora risulti preclusa (in tutto o in parte) quella della tutela in forma specifica in casi in cui ogni ostacolo alla via del risarcimento rischierebbe di privare il privato di qualsiasi forma di tutela e vanificare l'accertamento della illegittimità dell'aggiudicazione che ha già esaurito i suoi effetti o li ha prodotti almeno in parte (contratto interamente o parzialmente eseguito stipulato a seguito di una aggiudicazione illegittima). 

il principio espresso dalla Corte di Giustizia evita che il risarcimento per equivalente sia subordinato ad una indagine sulla colpa della p.a. e che in tal modo si possa precludere il ristoro dei danni a chi ha subito le conseguenze di una illegittimità nella procedura di gara e non può ottenere il bene della vita che gli sarebbe spettato (stipula e integrale esecuzione del contratto o chance di partecipare ad una gara regolare). Ciò rende maggiormente effettiva la tutela giurisdizionale nel settore degli appalti, pur creando un varco nel tradizionale modello extracontrattuale della responsabilità della P.A.

La citata sentenza della Corte di giustizia, quand'anche dovesse essere intesa nel senso dell'affermazione di una vera e propria responsabilità oggettiva, deve restare circoscritta al settore degli appalti pubblici, come si desume non solo dal richiamo alla disciplina europea specifica, ma anche dall'evidente tensione della Corte all'effettività della tutela in un settore oggetto di particolare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie per la sua incidenza sul corretto funzionamento del mercato e della concorrenza (Cons. St. IV, n. 482/2012).

Nelle gare pubbliche non grava sul ricorrente danneggiato l'onere di provare che il danno derivante dal provvedimento amministrativo illegittimo è conseguenza di un comportamento colposo dell'Amministrazione, con la conseguenza che questa non può sottrarsi all'obbligo di risarcire i danni cagionati dal suo provvedimento illegittimo adducendo l'inesistenza a proprio carico di elementi di dolo o di colpa. La regola comunitaria in materia di appalti pubblici per la quale agli effetti risarcitori è indifferente che il provvedimento illegittimo sia conseguenza o non di dolo o colpa dell'Autorità emanante, atteso che ciò che rileva è l'ingiustizia del danno e non la colpevolezza del suo autore non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari, ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia di effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice degli appalti, Cons. St. V, n. 5686/2012; Cons. St. V, n. 966/2013; Cons. St. V, n. 1833/2013.

Non esclude la colpa la circostanza che il giudice di primo grado abbia dato ragione all'amministrazione con decisione ribaltata in appello, in quanto anche il T.a.r. può incorrere in errori manifesti e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto successivo a quello che ha generato l'illecito; aderendo a tale impostazione, inoltre, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio, finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo (Cons. St. VI, n. 1114/2007).

Segue. Il danno derivante da atti amministrativi posti in essere in esecuzione di pronunce del giudice, poi riformate.

Una fattispecie particolare è costituita dal caso in cui un appalto sia stato aggiudicato in base ad una pronuncia del giudice (cautelare o di primo grado), poi riformata in sede di giudizio di merito o in appello; in tale ipotesi è evidente l'assenza di colpa della stazione appaltante che aveva correttamente individuato il contraente della P.A., ma era stata poi «costretta» ad eseguire una sentenza rivelatasi poi errata (Cons. St. V, n. 5789/2002).

Si è in presenza di danni derivanti da atti amministrativi posti in essere in esecuzione di pronunce giurisdizionali; in questo caso vi è un soggetto (quello sbagliato) che ha svolto il rapporto con la P.A. e altro soggetto, a cui spettava l'aggiudicazione, che non ha potuto farlo a causa dell'avvenuta esecuzione di una decisione giurisdizionale, poi riformata, senza quindi che si sia verificato alcun errore da parte dell'amministrazione. Vi è sicuramente un danno, ma è difficile pervenire al risarcimento, essendo difficile la strada della responsabilità del giudice.

In alcuni obiter, la giurisprudenza ha escluso in questi casi la configurabilità di una responsabilità della stazione appaltante e ha ipotizzato in siffatte ipotesi l'applicazione dell' art. 96, comma 2, c.p.c., che prevede che il giudice che accerta l'inesistenza di un diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare sulla base del principio, secondo cui l'errore del giudice va considerato come errore della parte (bene intendasi: di quella che vi ha dato causa, non certo di quella che ne subisce le conseguenze); o in alternativa, si è suggerito di spostare l'attenzione su fattispecie normative diverse dalla responsabilità civile, al fine di esplorare il ruolo da riconoscersi alle norme in tema di restituzione dell'indebito, o di arricchimento senza causa (l'indebito sarebbe costituito dall'utile di impresa, che potrebbe così essere in tutto o in parte restituito alla controparte privata dell'aggiudicazione di un appalto a seguito di una decisione giurisdizionale, portata ad esecuzione e solo successivamente riformata, dopo che il rapporto era stato svolto in fatto, nelle more della definizione del giudizio, da altro soggetto sine titulo (Cons. giust. amm. Sicilia, 21 luglio 2008, n. 600). Anche il Consiglio di Stato, per giustificare l'interesse di un'impresa alla decisione, non ha escluso che il soggetto che ha svolto sine titulo un appalto pubblico possa essere chiamato a restituire l'utile di impresa, o all'amministrazione ovvero direttamente alla controparte che, in esito al giudizio definitivo, sia risultata legittima aggiudicataria, avente come tale titolo a svolgere il lavoro o il servizio (Cons. St. VI, n. 1750/2008).

Va rilevato che la possibilità di prevedere obblighi restitutori in capo a chi ha svolto l'appalto in luogo del soggetto che lo avrebbe dovuto svolgere sembra essere presupposta dalla previsione dell' art. 41, comma 2, del codice del processo amministrativo, in base al quale qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell'atto illegittimo, ai sensi dell' articolo 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo 49.

In precedenza, la giurisprudenza aveva sempre ritenuto che quando la domanda era limitata al risarcimento del danno il beneficiario del provvedimento fonte del danno non era parte necessaria del giudizio, solo risarcitorio.

Nella relazione al Codice viene indicato che «per quanto attiene all'azione di condanna — che nel codice ha trovato sistematizzazione — si è mantenuto il litisconsorzio necessario con i beneficiari, ove esistenti, dell'atto di cui il ricorrente assume l'illegittimità e in dipendenza della quale propone la domanda risarcitoria. Con tale previsione, si vuol provocare la formazione del giudicato sull'illegittimità dell'atto anche nei confronti dei suoi eventuali beneficiari (sicché, almeno per tale profilo, non potrà più essere contestato in altra sede l'eventuale ricorso all'autotutela.

Nella relazione al Codice del processo amministrativo viene richiamato il considerando 21 della c.d. direttiva ricorsi, recepita con il d.lgs. n. 53/2010, che afferma che «Nel prevedere che gli Stati membri fissino le norme atte a garantire che un appalto sia considerato privo di effetti si mira a far sì che i diritti e gli obblighi dei contraenti derivanti dal contratto cessino di essere esercitati ed eseguiti.... il diritto nazionale può, ad esempio, prevedere la soppressione con effetto retroattivo di tutti gli obblighi contrattuali (ex tunc) o viceversa limitare la portata della soppressione agli obblighi che rimangono da adempiere (ex nunc). Ciò non dovrebbe condurre a una mancanza di forti sanzioni se gli obblighi derivanti da un contratto sono già stati adempiuti interamente o quasi interamente.... Il diritto nazionale dovrà determinare inoltre le conseguenze riguardanti il possibile recupero delle somme eventualmente versate nonché ogni altra forma di possibile restituzione, compresa la restituzione in valore qualora la restituzione in natura non sia possibile».

Con l'ultimo periodo si ipotizza che la declaratoria di inefficacia del contratto con effetti ex tunc possa comportare il recupero delle somme versate all'aggiudicatario sbagliato e ciò ovviamente avverrà nei limiti dell'arricchimento.

Sia in caso di danni causati da provvedimenti giurisdizionali non confermati, che nell'ipotesi di declaratoria di inefficacia del contratto con effetti ex tunc, si è in presenza di un rapporto, in tutto o in parte eseguito, restato sine titulo, rispetto al quale si possono ipotizzare obblighi di restituzione.

Il Codice non prende posizione su quali possano essere le azioni per pervenire a tali restituzioni, né su quale possa essere la giurisdizione davanti alla quale proporre tali azioni, ma crea i presupposti affinché la domanda di risarcimento autonoma, che può contenere un accertamento dell'illegittimità dell'atto, sia pronunciata anche nei confronti del beneficiario dell'atto e fare stato nei suoi confronti.

Tuttavia in questo caso — a differenza di quanto è previsto per l'azione di annullamento — il ricorrente non rischia di incorrere in alcuna decadenza per omessa notificazione del ricorso ai litisconsorti necessari, purché integri il contraddittorio nei loro confronti nel termine a tal fine assegnatogli anche d'ufficio dal giudice.

In caso di danno derivante dall'esecuzione di provvedimento del giudice non confermato, l'ipotizzata domanda dell'originario aggiudicatario nei confronti del soggetto che ha effettuato i lavori dovrebbe comunque essere proposta davanti al giudice ordinario, tenuto conto che è stato escluso che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati, in presenza di azioni tra privati, che non possono essere attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo per mere ragioni di connessione (Cons. St. VI, n. 2957/2008).

Sulla questione è intervenuta l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in un caso in cui la domanda di risarcimento del danno era stata proposta dall'originario aggiudicatario, individuato correttamente dall'amministrazione, che non aveva potuto stipulare ed eseguire il contratto perché, in esecuzione di una sentenza del Tar non sospesa, l'amministrazione aveva nel frattempo stipulato il contratto con il secondo classificato vincitore nel giudizio di primo grado, il cui esito era stato poi ribaltato in appello quando ormai i lavori erano già stati eseguiti dal soggetto sbagliato. L'Adunanza plenaria, in coerenza con il precedente appena citato, esclude che possa appartenere alla giurisdizione amministrativa la domanda che la parte privata danneggiata dall'impossibilità di ottenere l'esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell'altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo (rectius, provvedimento adottato in esecuzione di una sentenza poi riformata). Tuttavia, condanna la stazione appaltante al risarcimento del danno, riconoscendo la sussistenza di una obbligazione ex lege scaturente dal fatto oggettivo dell'impossibilità di eseguire il giudicato, ricordando che sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia non è necessario provare la colpa dell'amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria. In questi casi la responsabilità potrebbe essere esclusa solo dalla mancanza o dal venir meno della antigiuridicità della condotta o del nesso di causalità, che è invece presente caso concreto essendoci profili di imprudenza in capo all'amministrazione (Cons. St. Ad. plen., n. 2/2017, che non ha escluso che l'amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell' art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare un'azione di regresso nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato, collegata a un'obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, non proposta nel caso di specie e quindi non esaminata neanche sotto il profilo della sussistenza della giurisdizione).

Al riguardo, si osserva che in una siffatta fattispecie l'originario provvedimento di aggiudicazione adottato dall'amministrazione non era illegittimo, come riconosciuto anche dalla sentenza e la ricostruzione effettuata appare opinabile sotto il profilo della antigiuridicità di una condotta, che si è concretizzata nell'individuare l'aggiudicatario giusto e nel dare esecuzione ad una sentenza non sospesa del giudice, benché poi riformata; altrettanto opinabile è il richiamo ad una assenza di cautela e ad una eccessiva rapidità nel dare esecuzione ad una sentenza.

In questi casi sembra preferibile lasciare alla parte danneggiata l'azione diretta (davanti al g.o.) nei confronti del beneficiario dell'atto posto in esecuzione di una decisione del giudice adottata su suo ricorso (atto poi travolto automaticamente dal diverso esito finale del contenzioso).

In coerenza con tale ultima osservazione, è stato affermato che il danno da mancata aggiudicazione derivante dall'esecuzione di una pronuncia del giudice poi riformata non discende da una condotta illecita o da un provvedimento illegittimo della stazione appaltante, bensì risulta conseguenza immediata e diretta dell'avvenuta esecuzione di una decisione giurisdizionale di primo grado, la cui efficacia non è stata interinalmente sospesa, in ragione anche della scelta processuale  di rinunciare all'istanza cautelare; in questi casi l'azione risarcitoria non esaurisce lo strumentario giuridico approntato dall'ordinamento per reintegrare la sfera patrimoniale, potendo il concorrente pretermesso – che avrebbe avuto titolo all'affidamento e all'esecuzione del contratto di appalto – agire in giudizio per ottenere, nei limiti legalmente tipizzati, che il vantaggio economico ottenuto dall'affidatario del contratto, tradottosi in uno spostamento di ricchezza senza idonea causa, venga riverso a chi ha subìto un impoverimento. L'arricchimento senza causa sussiste quando tra due soggetti si verifica, senza alcuna giustificazione giuridica, uno spostamento patrimoniale tale che uno subisca pregiudizio e l'altro si arricchisca. Trattasi di un'azione generale, perché esperibile in una serie indeterminata di casi; sussidiaria, ai sensi dell'art. 2042 c.c., perché proponibile solo quando il danneggiato non possa esercitare alcun'altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria (Cons. giust. Amm. Reg. Sic., n. 598/2024 ).

Sull'azione di arricchimento e il riparto di giurisdizione v. Cingano.

Il superamento della pregiudiziale amministrativa e l'azione autonoma di risarcimento

Il passaggio da un sistema processuale incentrato sulla rigorosa e non derogabile regola della pregiudiziale amministrativa ad un sistema aperto alla possibilità di azioni autonome di risarcimento è stato lungo e controverso, oltre che caratterizzato da una forte contrapposizione tra la giurisprudenza civile e quella amministrativa.

Segue. La pregiudiziale amministrativa

Per «pregiudiziale amministrativa» si intende la necessità di impugnare (ed ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto.

Prima della sentenza n. 500/1999, la Cassazione ammetteva la tutela risarcitoria del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (Cass. III, n. 6542/1995; v. supra).

In tali ipotesi era necessario adire prima il giudice amministrativo per ottenere l'annullamento dell'atto, idoneo a far riemergere il diritto soggettivo e poi il giudice ordinario per chiedere il risarcimento del danno.

La pregiudizialità dell'azione di annullamento rispetto a quella risarcitoria aveva anche costituito il presupposto, in base al quale la Corte Costituzionale aveva ritenuto inammissibile per assenza di rilevanza attuale la questione di costituzionalità relativa alla mancata previsione della risarcibilità dei danni derivanti a terzi dall'emanazione di atti e provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi, in quanto nella fattispecie in esame non si era verificato il presupposto per la configurazione di una responsabilità della pubblica amministrazione in conseguenza di un atto amministrativo, essendo in corso l'accertamento del giudice amministrativo sulla illegittimità dell'atto o della condotta amministrativa (Corte cost. n. 165/1998; v. supra).

Da quel momento è sorto, in giurisprudenza e in dottrina, un aspro contrasto tra i sostenitori della tesi della pregiudiziale e quelli dell'opposto orientamento.

Il contrasto è stato acceso fino al primo semestre del 2009 e si è poi sopito, dopo l'entrata in vigore della legge delega di cui all' art. 44 della l. n. 69/2009, in attesa della soluzione normativa offerta dal Codice.

Segue. Lo stato della giurisprudenza sulla pregiudiziale prima dell'entrata in vigore del Codice

Con la sentenza n. 500/1999, la Cassazione, anche se solo in un obiter dictum, accoglie una visione ispirata all'assoluta autonomia delle due azioni, ammettendo che il danneggiato possa direttamente rivolgersi al G.O. per ottenere il risarcimento nel termine di prescrizione, anche senza la previa impugnazione dell'atto amministrativo illegittimo. Viene evidenziato che non sembra ravvisarsi la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento rispetto alla domanda risarcitoria, che era stata in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi all'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi; tale indirizzo non può quindi trovare conferma alla stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all' art. 2043 c.c. (Cass. S.U., n. 500/1999).

I dubbi sulla pregiudizialità si sono però riproposti con tutta la loro complessità quando la tutela risarcitoria dell'interesse legittimo si è spostata sul fronte della giurisdizione amministrativa a seguito della concentrazione delle due azioni presso il medesimo giudice, resasi necessaria per evitare al cittadino la complicazione di dover adire due giudici prima di essere soddisfatto, per evitare il contrasto di giudicati e per attuare il principio della ragionevole durata fissato all' art. 111 Cost.

Il problema della pregiudizialità si pone unicamente in ipotesi di danno derivante dal provvedimento illegittimo, mentre non vi alcuna pregiudizialità dell'azione di annullamento in fattispecie di danni derivanti da comportamento, o comunque non direttamente provocati dagli effetti del provvedimento illegittimo (Caianiello, 2001, 282).

La previa o contestuale proposizione dell'azione di annullamento del provvedimento amministrativo non costituisce presupposto di ammissibilità dell'azione risarcitoria nel caso in cui l'atto sia già stato caducato all'esito di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica o sia stato rimosso in via amministrativa prima della scadenza del termine di decadenza previsto per l'impugnazione (a seguito dell'esercizio dei poteri di autotutela o dei poteri di annullamento di organo sovraordinato) o nella diversa ipotesi in cui il danno da risarcire derivi da una illegittimità non già di un atto, ma dell'attività della P.A. (Cons. St. VI, n. 3338/2002).

La giurisprudenza amministrativa si è orientata in favore della tesi della sussistenza della pregiudizialità. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell'atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l'accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell'atto non impugnato nei termini decadenziali al solo fine di un giudizio risarcitorio e l'azione di risarcimento del danno è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato di poter disapplicare atti amministrativi non regolamentari ( Cons. St. Ad. plen. , n. 4/2003). La pronuncia richiama una precedente decisione, in cui la tesi della pregiudizialità è stata sostenuta sulla base delle seguenti motivazioni: — l'assenza del potere di disapplicazione in capo al G.A costituisce argomento non di carattere puramente processuale, ma assume una valenza sostanziale, in quanto è strettamente collegato al principio della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, al cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi; — in ipotesi di danni da provvedimento illegittimo la tutela risarcitoria ha una funzione sussidiaria rispetto alla tutela giurisdizionale accordata con l'annullamento dell'atto impugnato; — la tesi dell'autonomia tra azione di annullamento e azione risarcitoria determinerebbe che, in presenza di un atto amministrativo, mai impugnato e ritenuto solo incidentalmente illegittimo dal G.A., l'amministrazione dovrebbe o tenere quindi fermo l'assetto degli interessi regolato da quell'atto con evidente contraddittorietà tra l'accertato obbligo di risarcimento e la permanente efficacia di un atto fonte di pretese risarcitorie anche ulteriori, o rimuovere necessariamente l'atto con aggiramento dei termini decadenziali, oltre che l'ulteriore inconveniente del mancato rispetto del contraddittorio con controinteressati che non rivestono la qualifica di parti necessarie nel giudizio risarcitorio e che possono aver beneficiato del provvedimento amministrativo, che in quel giudizio è stato ritenuto illegittimo. (Cons. St. VI, n. 3338/2002, che richiama Cons. St. IV, n. 952/2002, motivata in modo più sintetico facendo riferimento all'elusione del termine decadenziale previsto per l'impugnazione degli atti amministrativi ed all'assenza di un potere di disapplicazione in capo al g.a., che può solo conoscere in via principale il provvedimento amministrativo).

A favore della tesi della pregiudizialità si era espressa anche la Cassazione, che, andando di contrario avviso rispetto ai principi affermati nella sentenza n. 500/1999, aveva rilevato che il giudice ordinario è titolare del potere di disapplicare il provvedimento amministrativo quando l'oggetto della controversia al suo esame sia costituito dalla pretesa di un diritto soggettivo perfetto e quando la valutazione della legittimità del provvedimento debba avvenire soltanto in via incidentale. L'illegittimità dell'atto, quale elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell' art. 2043 c.c., non può essere accertata in via incidentale e senza efficacia di giudicato; pertanto, ove l'accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio in quanto l'interessato non sperimenta, o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, transazione, ecc.), i rimedi specifici previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere rigettata perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile di essere qualificato illecito. Il principio fondamentale di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, subirebbe un notevole vulnus ove fosse consentito far valere, sia pure ad altri fini, l'illegittimità. Anche nei rapporti paritetici, in molti casi viene privilegiata tale esigenza di certezza con la previsione di termini decadenziali entro cui contestare la conformità a diritto di determinate situazioni giuridiche, la cui scadenza preclude anche l'azione risarcitoria: non è consentito domandare il risarcimento del danno per essere stati assoggettati illegittimamente a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai sensi della l. 689/1981; il lavoratore licenziato non può scegliere di optare per il risarcimento del danno, senza impugnare il recesso secondo le prescrizioni della l. n. 604/1966; lo stesso deve dirsi per il caso di mancata impugnativa di delibere condominiali o societarie (Cass. II, n. 4538/2003).

Il collegamento tra l'esercizio del potere autoritativo e la questione risarcitoria, posto alla base della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale, sembrava confortare l'idea che tale potere vada sempre contestato nel termine di decadenza, secondo la tecnica impugnatoria (Cintioli).

Anche con la sentenza n. 1207/2006 le Sezioni Unite della Cassazione, nell'affermare che le controversie sul danno da provvedimento appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo solo in caso di domanda risarcitoria proposta contestualmente all'azione di annullamento (e non in caso di autonomo giudizio dopo il giudicato di annullamento, da proporre al giudice ordinario), avevano escluso che potesse essere proposta una azione risarcitoria avente a oggetto il pregiudizio derivante da un atto amministrativo definitivo per difetto di tempestiva impugnazione, essendo precluso al giudice il sindacato in via principale sull'atto o sul provvedimento amministrativo ( Cass. S.U., n. 1207/2006).

Nel giugno del 2006 la Cassazione, nel riconoscere la giurisdizione del giudice amministrativo sul danno da provvedimento anche in caso di domanda proposta in via autonoma, sembra abbandonare definitivamente la tesi della pregiudiziale, affermando che ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento dal previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso (tesi definita « tutta amministrativa »), anziché dal solo accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento del danno, anziché alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung amministrativa, tutta italiana (Cass. S.U., n. 13659/2006 e Cass.S.U., 13660/2006, con cui la pregiudiziale è stata anche trasformata in una questione di giurisdizione).

La giurisprudenza amministrativa fin dall'inizio è sembrata non aderire alla posizione della Cassazione e ribadire il principio della pregiudiziale (Cons. St. IV, n. 2136/2007, secondo cui la tutela risarcitoria costituisce un rimedio di tutela ulteriore per chi abbia tempestivamente e fondatamente impugnato l'atto lesivo; Cons. St. IV, n. 3034/2007; T.A.R. Puglia (Lecce), 4 luglio 2006, n. 3710; T.A.R. Abruzzo, 11 luglio 2006, n. 581; T.A.R. Campania, 3 agosto 2006, n. 7797; T.A.R. Sicilia (Catania), 16 aprile 2007 n. 651; in senso contrario, Cons. St. V, n. 2822/2007 e Cons. giust. amm. Sicilia, 18 maggio 2007 n. 386, che ha aderito alla tesi della Cassazione, richiamando comunque l' art. 1227, comma 2, c.c.; Cons. St. VI, n. 2590/2007 ritiene che non si applichi il principio della pregiudiziale quando il provvedimento, fonte del danno, sia già stato rimosso in autotutela dalla p.a., pur potendo permanere — secondo Cons. St. VI, n. 1137/2008 — l'interesse della parte a coltivare, a fini risarcitori, l'azione di annullamento proposta avverso l'atto poi rimosso in autotutela). Tale tendenza è stata confermata da Cons. St. Ad. plen. , n. 12/2007, che ha ribadito con forza il principio della pregiudiziale, confermando quindi il contrasto con la Cassazione.

In ciò supportata dalla posizione di parte della dottrina (Greco; Villata, 2007).

La Plenaria ha affermato che l'applicazione del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa non comporta alcuna restrizione della tutela giurisdizionale; infatti, dalle pronunce della Corte Costituzionale emerge che il risarcimento del danno è uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione (Corte cost. n. 204/2004; Corte cost. n. 191/2006).

Pur non annullando la pronuncia della Plenaria per l'assenza del valore decisorio delle considerazioni della Plenaria sulla pregiudiziale, la Cassazione ha affrontato la questione ai fini della enunciazione del seguente principio di diritto, in applicazione dell' art. 363 c.p.c: «Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento» ( Cass. S.U.,n. 30254/2008). Secondo la Cassazione, nell'applicare la pregiudiziale, il g.a. finisce col negare in linea di principio che la sua giurisdizione includa nel suo bagaglio una tutela risarcitoria autonoma, oltre ad una tutela risarcitoria di completamento e, di conseguenza, il rigetto della relativa domanda, si risolve in un rifiuto di erogare la relativa tutela.

La prevalente giurisprudenza amministrava ha continuato ad aderire alla tesi della pregiudiziale, in applicazione della quale le domande risarcitorie sono state spesso respinte nel merito e non dichiarate inammissibili.

È stato ritenuto che la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato (o tardivamente impugnato) è ammissibile, ma è infondata nel merito in quanto la mancata impugnazione dell'atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendone l'osservanza ai consociati ed impedisce così che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall'amministrazione in esecuzione dell'atto inoppugnato. Infatti, l'applicazione del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa non comporta una preclusione di ordine processuale all'esame nel merito della domanda risarcitoria, ma determina un esito negativo nel merito dell'azione di risarcimento ( Cons. St. VI, n. 3059/2008; in precedenza, v. Cons. St. V, n. 2515/2008; Cons. St. V, n. 2967/2008)

Ci si era chiesti se la Cassazione si sarebbe spinta fino ad annullare una sentenza del Consiglio di Stato applicativa del principio della pregiudiziale e la risposta è arrivata con una ordinanza delle Sezioni Unite, con cui è stata annullata una decisione del Consiglio di Stato, che aveva confermato una sentenza del Tar con cui una domanda risarcitoria era stata dichiarata inammissibile a causa della mancata tempestiva impugnazione dei provvedimenti fonte del danno (Cass. S.U., ord. n. 5464/2009, con cui peraltro un ricorso incidentale dell'amministrazione, che eccepiva la prescrizione dell'azione, è stato dichiarato inammissibile, trattandosi di questione di merito estranea ai profili di giurisdizione).

A completare il susseguirsi di pronunce sulla pregiudiziale da parte di giudice ordinario e del giudice amministrativo è arrivata una nuova rimessione della questione alla Plenaria del Consiglio di Stato da parte della VI Sezione, che ha confermato la propria adesione al principio della pregiudiziale, ma, tenuto conto dell'orientamento della Cassazione e al fine di evitare di pronunciare una sentenza «suicida», ha appunto rimesso la questione alla Plenaria, prospettando un dubbio di compatibilità costituzionale della soluzione data dalla Corte di cassazione al problema della pregiudiziale e anche della ricostruzione delle Sezioni unite della questione della pregiudizialità amministrativa come questione di giurisdizione, quindi vincolante per il giudice amministrativo (Cons. St. VI, n. 2436/2009).

Segue. La soluzione al problema della pregiudiziale individuata dal Codice.

La legge delega non conteneva un puntuale riferimento alla questione della pregiudiziale, ma con il richiamo alla necessità di disciplinare le azioni e i termini di decadenza o prescrizione (eventualmente riducendoli) delle azioni esperibili era risultato chiaro che uno degli obiettivi dell'intervento di riforma era di dare una soluzione al contrasto tra Cassazione e Consiglio di Stato sul problema della pregiudiziale (R. Chieppa, Il Codice, 2010)

Ed, infatti, nell'ambito dei lavori della Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato si è fin da subito lavorato per raggiungere tale obiettivo e, soprattutto, per una soluzione condivisa tra le due giurisdizioni sull'annoso problema.

La soluzione individuata dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato è stata quella di prevedere l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, superando così il principio della c.d. pregiudiziale ma, al contempo, sottoponendo la proponibilità dell'azione di risarcimento al rispetto di un termine decadenziale di centottanta giorni decorrente dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato o il provvedimento lesivo è stato conosciuto. Inoltre, si attribuiva una mera rilevanza di fatto alla mancata impugnazione come al mancato invito all'autotutela, che sono valutati dal giudice in sede di quantificazione del risarcimento (che può essere limitato o escluso), attraverso un meccanismo ispirato a quello di cui all' art. 1227 c.c.

Il Governo è intervenuto su tale previsione, lasciandone inalterata la struttura, ma modificando sia il termine di decadenza, portato a centoventi giorni, sia il meccanismo di valutazione degli oneri di ordinaria diligenza, gravanti sul danneggiato.

La soluzione alla fine prevalsa è stata quella di lasciare il termine di decadenza di centoventi giorni e di prevedere che, nel determinare il risarcimento il giudice valuti tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, «anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti».

Scompare il riferimento anche all'invito all'autotutela, inserito nell'originario testo del Consiglio di Stato e viene reso meno rigido il riferimento agli oneri del danneggiato, ora ricondotto al più generale esperimento dei mezzi di tutela, in luogo della precisa indicazione dell'impugnazione degli atti illegittimi, contenuta nel primo testo approvato dal Consiglio dei Ministri.

Dalla relazione governativa emerge che, in relazione alla questione della c.d. pregiudiziale amministrativa, si è optato per l'autonoma esperibilità della tutela risarcitoria per la lesione delle posizioni di interesse legittimo, prevedendo per l'esercizio di tale azione un termine di decadenza di 120 giorni – sul presupposto che la previsione di termini decadenziali non è estranea alla tutela risarcitoria, vieppiù a fronte di evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione – e affermando l'applicazione di principi analoghi a quelli espressi dall' art. 1227 c.c. per quanto riguarda i danni che avrebbero potuto essere evitati mediante il tempestivo esperimento dell'azione di annullamento.

Va precisato che la questione del termine di decadenza di centoventi giorni riguarda solo il risarcimento per lesione di interessi legittimi, e non anche il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi, che resta assoggettato all'ordinario termine di prescrizione.

In particolare, la questione della pregiudiziale concerne i c.d. danni da provvedimento illegittimo e, in questi casi, il nuovo termine di decadenza decorre dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo; quando la lesione di interessi legittimi non deriva direttamente dal provvedimento e va ricondotta ad altre illegittimità procedimentali o di condotta della p.a., il termine di decadenza per proporre la domanda di risarcimento decorre dal giorno in cui il fatto si è verificato; anche in caso di provvedimenti illegittimi, il danno potrebbe in ipotesi non derivare direttamente dal provvedimento e in questi casi il criterio deve essere quello del verificarsi del fatto dannoso.

È stato rilevato che la formulazione della disposizione può lasciare il dubbio sulla decorrenza del termine di decadenza dalla percezione da parte della vittima della lesione della sua posizione soggettiva (c.d. danno evento) o dal momento in cui si verificano le conseguenze patrimoniali (c.d. danno conseguenza; Gisondi, L'azione di condanna, favorevole a far decorrere il termine dal momento in cui le conseguenze dannose siano percepibili).

Inoltre, per evitare che l'introduzione dell'azione risarcitoria autonoma possa limitare le strategie difensive del cittadino nei casi in cui egli preferisca optare per l'immediato esercizio della sola azione di annullamento, per poi valutare se sussistono i presupposti per proporre l'azione di risarcimento, è stato previsto che, nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (quindi, anche con motivi aggiunti) o comunque sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza (art. 30, comma 5).

Segue. L'idoneità della soluzione individuata dal Codice al fine di superare i contrasti e la tesi della Plenaria

Ci si deve, a questo punto, chiedere se la soluzione individuata dal Codice sia idonea a far finalmente cessare i contrasti tra le due giurisdizioni sulla questione della pregiudiziale.

Nel nuovo sistema non si può più ritenere sussistente la necessità di impugnare (ed ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto.

Si apre la strada ad una azione risarcitoria autonoma, intendendosi con tale termine non la possibilità che il risarcimento dei danni da provvedimento illegittimo possa essere chiesto semplicemente con autonoma domanda rispetto all'azione di annullamento, ma che possa essere chiesto senza aver proposto l'azione di annullamento.

Tuttavia, l'aver proposto, o meno, l'azione di annullamento costituisce un fatto che mantiene la sua rilevanza ai fini dell'esame dell'azione risarcitoria autonoma.

Prima di dare una risposta all'interrogativo di partenza, va premesso che alla questione della pregiudiziale possono essere date più soluzioni (Chieppa, 2010):

a ) la pregiudizialità dell'azione di annullamento rispetto a quella di risarcimento del danno derivante dal provvedimento illegittimo (necessità, appunto, di impugnare (ed ottenere l'annullamento) dell'atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto;

b ) l'assoluta indifferenza dell'aver impugnato, o meno, il provvedimento rispetto alla successiva domanda risarcitoria;

c ) la rilevanza dell'avvenuta, o meno, impugnazione del provvedimento fonte del danno rispetto alla domanda di risarcimento del danno (l'esercizio dell'azione di annullamento non è pregiudiziale, ma assume rilievo ai fini dell'esame della domanda risarcitoria).

Nei vari stati europei si rinvengono soluzioni diverse; in primo luogo, va sottolineato che anche negli altri ordinamenti è avvertita l'esigenza di prevedere un breve termine di decadenza per impugnare gli atti amministrativi e ciò a presidio della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico; in analogia con il nostro termine di 60 giorni, in Germania è previsto un termine di un mese decorrente dalla decisione del previo ricorso amministrativo, in Francia, Spagna e nel sistema comunitario un termine di due mesi e in Gran Bretagna di tre mesi.

È stato inoltre evidenziato che anche nel diritto comparato la tematica dei rapporti fra azione di annullamento e azione risarcitoria si colloca a cavallo fra il contesto strettamente processuale e la più generale tematica dei limiti della responsabilità extracontrattuale dell'amministrazione (de Pretis).

L'ordinamento francese è quello in cui si registra la posizione più netta in favore della autonomia fra azione risarcitoria e azione annullatoria e ciò va letto nell'ambito della specialità, che caratterizza il diritto della responsabilità civile dell'amministrazione francese: nel corso del procedimento amministrativo vi è una tutela minore ed anche in sede giurisdizionale vi è una preferenza per la tutela risarcitoria rispetto alla possibilità di incidere direttamente sul potere esercitato; si può, quindi, affermare che l'ordinamento francese è quello che più si avvicina alla tesi dell'indifferenza, anche se con diversi temperamenti (de Pretis).

Diversa è la situazione negli altri ordinamenti: in Gran Bretagna, le azioni in tort nei confronti dei public powers vengono respinte qualora non siano stati previamente esperiti i rimedi amministrativi e un sistema analogo vige in Spagna; in tali due ordinamenti, la soluzione è quella della pregiudizialità e, quindi, simile a quella fino ad oggi condivisa dal Consiglio di Stato.

In Germania non esiste un pregiudiziale di annullamento di tipo processuale, ma, in applicazione di una norma di diritto sostanziale (§ 839, Abs. 1 e 3, Bgb) la pretesa nei confronti dell'amministrazione viene respinta se la vittima del pregiudizio ha intenzionalmente o colposamente omesso di mitigare il danno non ricorrendo agli altri rimedi giuridici offerti dal sistema; nell'ordinamento comunitario dalle pronunce della Corte di Giustizia, che non sono state sempre uniformi, emerge una tendenza a non ritenere sussistente la pregiudiziale di annullamento, ma a considerare non ammissibile l'azione risarcitoria autonoma tutte le volte in cui essa tenda in realtà a mascherare una ormai tardiva azione di annullamento (de Pretis). In Germania e nell'Unione europea, pertanto, prevale la tesi della rilevanza.

Da questi brevi spunti di diritto comparato emerge che solo in Francia vi è una piena autonomia, giustificata a causa delle peculiarità evidenziate in precedenza, tra azione di annullamento e tutela risarcitoria, mentre negli altri ordinamenti, compreso quello comunitario, pur non esistendo una pregiudiziale di annullamento di tipo processuale, è, ameno tendenzialmente, richiesto il tempestivo esercizio dell'azione di annullamento per poter poi chiedere il risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo.

Tornando all'ordinamento italiano e alla soluzione individuata dal Codice, va osservato come la soluzione della assoluta indifferenza non sia stata né proposta né presa in considerazione durante l'intero iter formativo del Codice, in cui si sono fin dall'inizio sviluppati ragionamenti su come disciplinare la tesi della rilevanza.

Del resto, le stesse citate ordinanze della Cassazione del giugno del 2006 non escludevano l'assoggettabilità dell'azione risarcitoria autonoma per i danni da lesione di interessi legittimi ad un termine di decadenza, che – veniva aggiunto – doveva essere espressamente previsto dal legislatore e non poteva coincidere con il termine dell'azione di annullamento, «perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione».

Tale ultima affermazione può essere oggetto di critica sia perché proveniente dalla Cassazione, che al massimo può avanzare dubbi di costituzionalità circa determinate soluzioni legislative, peraltro all'epoca solo ipotizzate; sia perché anche nel diritto civile nei rapporti paritetici, in molti casi viene privilegiata tale esigenza di certezza con la previsione di termini decadenziali entro cui contestare la conformità a diritto di determinate situazioni giuridiche, la cui scadenza preclude anche l'azione risarcitoria (si tratta dei casi della mancata impugnazione delle sanzioni amministrative; dell'atto di licenziamento, delle delibere condominiali o societarie- per le seconde v. l' art. 2377, comma 6, c.c. — e della conseguente impossibilità di chiedere il risarcimento).

Tuttavia, non è questo oggi il nodo della questione: il Codice ha previsto un termine di decadenza di centoventi giorni, differente – come richiesto dalla Cassazione – dal termine di decadenza di sessanta giorni (trenta in alcuni casi), previsto per il ricorso al Tar.

Ci si può chiedere perché centoventi e non centottanta; la soluzione prevalsa restringe il termine e lo fa coincidere con quello per esperire il ricorso straordinario al Capo dello Stato.

Si potrebbe sostenere, quindi, che è un termine maggiormente coerente con l'ordinamento, anche se poi si correrebbe il rischio di ricadere nel pericolo, paventato dalla Cassazione, di eliminare gli effetti della novità, facendo coincidere il nuovo termine di decadenza con quello comunque previsto per la modalità alternativa di contestazione degli atti amministrativi, costituita dal ricorso straordinario.

In realtà, non è così, la previsione di un termine di centoventi giorni non assicura alcuna maggiore coerenza, perché, nella materia in concreto oggetto del numero maggiore di domande di risarcimento (gli appalti), il ricorso straordinario non è più ammesso dall'entrata in vigore del d. lgs. n. 53/2010 (disposizione confermata nel Codice).

Quindi, nessuna maggiore coerenza e, di conseguenza, nessuna incompatibilità con i principi in passato affermati dalla Cassazione. Solo una scelta del legislatore, opinabile, ma di per sé compatibile con i principi costituzionali (Chieppa, 2010).

In sostanza, dagli artt. 30 e ss. c.p.a. emerge che il legislatore delegato non ha condiviso né la tesi della pregiudizialità amministrativa, né quella della totale autonomia dei due rimedi, impugnatorio e risarcitorio, optando viceversa per una soluzione intermedia, che valuta l'omessa tempestiva proposizione del ricorso per l'annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo dell'istanza risarcitoria, ma solo come condotta che, nell'ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il giudice ad escludere il risarcimento, o a ridurne l'importo, ove accerti che la tempestiva proposizione del ricorso per l'annullamento dell'atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni da quest'ultimo derivanti (Cons. St. V, n. 5556/2012).

Il discorso si deve quindi spostare sul meccanismo analogo a quello dell' art. 1227, comma 2, c.c., che codifica la descritta soluzione ispirata chiaramente alla tesi della rilevanza.

Alla luce del nuovo sistema, l'omessa impugnazione del provvedimento amministrativo, fonte del danno, non rappresenta più una causa di per sé ostativa all'accoglimento dell'azione risarcitoria, ma costituisce comunque un elemento valutabile dal giudice.

Sulla base dell'art. 1227 c.c. il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (comma 2) ed è comunque diminuito se il fatto colposo del creditore ha contribuito a cagionare il danno (comma 1).

Fino ad oggi era stato escluso che il secondo comma di tale articolo potesse essere interpretato nel senso di richiedere che il danneggiato fosse tenuto a far valere tempestivamente in giudizio il suo diritto nei confronti del danneggiante, in quanto il ricorso a rimedi processuali comporta pur sempre un apprezzabile sacrificio in termine di costi e di rischi (Cass. I, n. 5995/1988); tuttavia, l'applicazione di tale indirizzo alle fattispecie di danno da provvedimento amministrativo illegittimo non era pacifica, come dimostra anche quella giurisprudenza che in passato aveva già accolto la tesi dell'ammissibilità dell'azione risarcitoria autonoma, applicando l' art. 1227 c.c. (Cons. St. IV, n. 1684/2001) e che ha poi confermato che l'onere che incombe sul danneggiato ai sensi dell' art. 1227, comma 2, c.c., si estende fino all'esperimento di un'azione giurisdizionale, da ritenersi non eccessivamente onerosa, tenuto conto che l'ordinamento amministrativo consente di porre in discussione i provvedimenti amministrativi anche mediante lo strumento del ricorso straordinario, che non presuppone la necessaria assistenza di un avvocato (Cons. St. VI, n. 5183/2008; argomento però non più invocabile in materia di appalti; Cons. St. VI, n. 12/2018, secondo cui il principio di cui all'art. 1227 comma 2 c.c. che, pur se non espressamente richiamato dall'art. 30 comma 3, per orientamento costante viene reputato come pacificamente applicabile nel processo amministrativo, nel senso che l'omessa attivazione da parte dell'interessato degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della riduzione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza, in una logica che vede l'omessa attivazione dei rimedi di tutela - nella specie ad esempio tramite riproposizione dei vizi erroneamente assorbiti ovvero attivazione del rimedio dell'ottemperanza . non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile).

Peraltro, con le ordinanze del giugno del 2006 la stessa Cassazione aveva affermato che il giudice amministrativo avrebbe dovuto mutuare le regole civilistiche sul concetto stesso di danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico, sui criteri di valutazione richiamando espressamente anche l' art. 1227 c.c., comma 1 (concorso di cause) e comma 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza).

Il meccanismo previsto dal Codice si discosta in lieve misura da quello proposto dal Consiglio di Stato con una soluzione, anch'essa opinabile, ma che non sembra prestare il fianco a dubbi di costituzionalità.

La prima parte della disposizione è restata inalterata. «Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti», mentre nella seconda parte è previsto che il giudice «esclude» il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anziché «può escludere» (proposto dal Consiglio di Stato) e, sotto tale profilo, si osserva come l' art. 1227, comma 2, c.c. utilizzi l'espressione «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza», non lasciando quindi spazio alla possibilità di una valutazione da parte del giudice e, di conseguenza, la norma approvata è coerente con la disposizione civilistica.

La valutazione del giudice è, invece, necessaria per verificare quali sono i danni evitabili usando l'ordinaria diligenza e qui il Codice chiarisce che rientra nell'ordinaria diligenza anche l'esperimento degli strumenti di tutela previsti, dando così corpo alla tesi della «rilevanza».

La Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato aveva proposto di fare riferimento non solo all'esercizio dei mezzi di tutela, ma anche all'invito all'autotutela.

Si intendeva affermare che in alcuni casi l'onere di diligenza si poteva anche arrestare alla segnalazione all'amministrazione dell'illegittimità del provvedimento adottato, dei danni derivanti da quel provvedimento e della possibilità di evitare o ridurre i danni, rimuovendo l'atto in autotutela (in materia di appalti, l' art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006, introdotto dal d.lgs. n. 53/2010 e ora non più vigente, aveva previsto l'informativa preventiva dell'intenzione di proporre ricorso).

Le reali differenze tra soluzione proposta dal Consiglio di Stato ed esaltata come idonea a superare ogni contrasto dai vertici delle due giurisdizioni consistono nella riduzione da 180 a 120 giorni del termine di decadenza, dalla sostituzione del termine «può escludere» con «esclude» e dall'eliminazione al riferimento all'invito all'autotutela ai fini dell'assolvimento dell'onere di diligenza del danneggiato.

Le modifiche non sembrano essere di portata tale da porre in discussione l'idoneità della soluzione a porre fine ai contrasti sulla questione dei rapporti tra azione di annullamento e azione di risarcimento.

Alcuni degli argomenti critici che ora vengono mossi per affermare che in realtà si tratterebbe di una «pregiudizialità mascherata» sono argomenti che tendono in realtà a sostenere la tesi dell'assoluta indifferenza dell'azione di risarcimento rispetto all'azione di annullamento; tesi che però non è stata mai proposta né dalla Cassazione né in sede di lavori del Codice e che è del tutto minoritaria anche con riferimento agli altri ordinamenti europei.

Ciò ha condotto a rilevare che se si vuol parlare di azione risarcitoria autonoma con pregiudiziale «mascherata», il principio appare affermato compiutamente già nelle tre ordinanze della Cassazione del 2006 (Villata, 2010).

In coerenza con tali considerazioni, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto che le regole introdotte dal Codice del processo amministrativo in ordine all'azione autonoma di risarcimento non sono applicabili alle fattispecie anteriori all'entrata in vigore del Codice, ma sono estensibili per la parte ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all'entrata in vigore del codice. La regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall' art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva del capoverso dell' articolo 1227 c.c. Il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell'omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso. La mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno ( Cons. St. Ad. plen. , n. 3/2011).

La regula juris da ultimo trasfusa nella previsione di cui all'art. 30, comma 3, a tenore del quale nel decidere in ordine alla domanda risarcitoria il Giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti, risulta ricognitiva di un principio generale dell'ordinamento.

Conseguentemente, la regola in parola risulta applicabile anche alle domande risarcitorie proposte prima dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, costituendo espressione – sul piano teleologico – di un principio di non contraddizione, desumibile dalla normativa riguardante la rilevanza della decorrenza dei termini previsti dalla legge per attivare i previsti rimedi di tutela. Cons. St. VI, n. 6202/2011. Tuttavia, è stato anche chiarito che il termine di decadenza di 120 giorni, previsto dall' art. 30 comma 5, c.p.a. per la proposizione di una domanda risarcitoria, non è applicabile a cause nelle quali, ancorché proposte nella vigenza del c.p.a., detta domanda assume a suo presupposto vicende e sentenze anteriori all'entrata in vigore del suddetto codice e soggette al solo termine di prescrizione quinquennale Cons. St. III, n. 297/2014.

Affinché il comportamento del creditore sia ritenuto conforme all'ordinaria diligenza ai fini del risarcimento del danno, non è richiesto il necessario esperimento degli ordinari rimedi giurisdizionali di impugnazione: ciò sarebbe contrario alla ratio della norma di cui all' art. 30 c.p.a., che ha escluso la necessità di previa impugnazione dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno patrimoniale, nonché alla lettera del comma 3, che chiaramente si riferisce a «strumenti di tutela», non già di «tutela giurisdizionale» e comunque non li considera ineluttabili («anche attraverso...»). A tal fine, è sufficiente che l'amministrazione sia stata messa in condizione, tramite un apposito «avviso di danno» consistente nell'invito all'autotutela, di ritornare sul proprio atto, assolvendo, in un regime di risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo, l'obbligo (o, meglio, l'onere) di annullamento d'ufficio dell'atto illegittimo ( art. 21-nonies l. n. 241/1990), al fine di evitare di incorrere nella condanna al risarcimento del danno anche per le spese ulteriori sostenute dal privato (Cons. St. V, n. 6296/2011; Cons. St. VI, n. 1605/2014). La prima decisione, che richiama Cass. III, 3 marzo 2011, n. 5120, si riferisce ad un caso in cui il ricorrente aveva tenuto un comportamento rispondente al canone di ordinaria diligenza preordinato ad evitare il danno, dapprima comunicando con raccomandata all'amministrazione, analiticamente, le ragioni per le quali riteneva l'illegittimità del provvedimento, con avviso degli «ingenti danni economici» subiti per effetto dell'atto, e trasmettendo, poi, atto stragiudiziale di diffida a provvedere entro dieci giorni alla revoca dell'atto; la mancata impugnazione dell'atto è stata ritenuta valutabile in sede di quantificazione del danno risarcibile, ma non come causa di esclusione del risarcimento; nel secondo caso il danneggiato da una ordinanza comunale di occupazione di una cava aveva diligentemente provveduto a partecipare durante tutto il periodo di perdurante occupazione a conferenze di servizi convocate dalle amministrazioni interessate, vanamente manifestando la volontà di ottenere ristoro al danno perpetrato e il g.a. non ha ravvisato elementi per escludere o diminuire il danno da risarcire.

Secondo Cons. St. IV, n. 7053/2023, la mancata impugnazione dell'atto lesivo non costituisce di per sè un comportamento contrario a buona fede e, come tale, suscettibile di assumere rilievo ai sensi dell'art. 30, comma 3, c.p.a., ma soltanto nelle ipotesi in cui si appuri che una tempestiva impugnazione avrebbe evitato o mitigato il danno. L'onere di ordinaria diligenza posto a carico del privato per delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile può intendersi soddisfatto con l'attivazione di strumenti non necessariamente processuali ma anche procedimentali. Inoltre, l'onere di diligenza ex art. 1227 c.c. non può essere interpretato in modo così ampio e rigido da tradursi, di fatto, in una forma di denegata giustizia; in particolare, esigere non solo l'impugnativa degli atti lesivi e la proposizione di un'istanza cautelare, ma anche la proposizione di ogni possibile censura significa denegare, in concreto, l'esistenza stessa di quella cognizione, che rende la tutela del g.a. effettiva, piena e satisfattiva (Cons. St. IV, n. 8149/2023).

Si segnala che, in tema di danni derivanti da un'illegittima esclusione da una procedura concorsuale, ove l'attore chieda il risarcimento senza aver impugnato gli atti della procedura (ma basandosi sull'annullamento del bando ottenuto da altro candidato), il G.A. ha ritenuto che la valenza strutturalmente erga omnes dell'annullamento di un atto generale, seppure conforma la successiva attività amministrativa, non legittima il privato ad avanzare istanze risarcitorie attinenti alla sua specifica posizione, ove egli non abbia assunto in prima persona concrete iniziative giudiziarie tese alla demolizione dell'atto generale medesimo ai sensi dell'art. 1227 c.c.. In tal caso, si è ritenuto che la proposizione del ricorso non esonda dall'ordinaria diligenza esigibile da parte del cittadino, ma anzi rappresenterebbe un comportamento assolutamente esigibile, sia in quanto costituente lo strumento di reazione appositamente (recte, ordinariamente) apprestato dall'ordinamento per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sia perché consente il recupero ex post delle spese di lite in caso di esito vittorioso della controversia, sia, infine, perché esperibile anche in assenza di adeguate sostanze economiche, grazie alla disciplina in tema di patrocinio a spese dello Stato (Cons. St, IV, n. 3282/2017 e Cons. St, n. 1835/2017).

Per le procedure di appalto, l'ordinaria diligenza richiesta dall'art. 30, comma 3 va valutata alla luce degli strumenti messi a disposizione dall'ordinamento per ottenere una tutela effettiva e tempestiva, tra cui il c.d. meccanismo dello stand-still e la domanda di subentro (TAR Piemonte II, 22 agosto 2018 n. 972, esclude il risarcimento nel caso in cui l'impresa, oltre a non aver tempestivamente effettuato la comunicazione alla stazione sai sensi dell'(abrogato) art. 243 bis, d.lgs. n. 163/2006, abbia proposto tardivamente l'azione di annullamento avverso il provvedimento di esclusione, la domanda di tutela cautelare e la domanda di subentro nel contratto violando in tal modo l'obbligo di cooperazione con la p.a.).

Segue. L'infondatezza dei dubbi di costituzionalità

Con riferimento ai dubbi di costituzionalità va segnalato che per due volte la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità, per difetto di rilevanza, di questioni proposte con riferimento all' art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo, che prevede per la domanda di risarcimento il termine di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento lesivo (Corte cost. n. 280/2012 in relazione ad una questione sollevata dal Tar Sicilia – Palermo; Corte cost. n. 57/2015 in relazione ad una questione sollevata dal Tar Liguria nel presupposto – ritenuto erroneo dalla Corte — che detta norma, relativamente al termine di decadenza previsto per la proposizione della azione risarcitoria, si applichi in luogo dell'ordinario termine di prescrizione, anche ad un giudizio introdotto anteriormente alla sua entrata in vigore; sul rapporto tra prescrizione e decadenza; v. oltre).

Una ulteriore questione di costituzionalità è stata proposta con riferimento all' art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, laddove stabilisce che la domanda di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi deve essere proposta «entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal momento in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo», per violazione: – dell' art. 111, primo comma, della Costituzione, nonché (per il tramite dell' art. 117, primo comma, Cost.) dell'art. 47 della Carta dei diritti UE e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; – dell' art. 3 della Costituzione; – degli artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione (T.A.R. Piemonte, II, ord. 17 dicembre 2015 n. 1747).

I dubbi di costituzionalità sono stati questa volta dichiarati infondati dalla Corte Costituzionale.

Il giudice delle leggi ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma 3, nella parte in cui stabilisce che la « domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo», sollevata, in riferimento agli artt. 3,24, primo e secondo comma, 111, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all' art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 12 dicembre 2000, e agli artt. 6 e 13 della Cedu (Corte cost. 4 maggio 2017 n. 94).

La Consulta ha escluso l'incostituzionalità della nuova disciplina sulla base delle seguenti ragioni.

a) in relazione al principio di ragionevolezza, la previsione del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l'espressione di un coerente bilanciamento dell'interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l'obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta anche in diritto privato ( art. 2377, comma 6, c.c.). La ragionevolezza emerge anche a fronte del bilanciamento operato con l'interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni(artt. 81,97 e 119 Cost.) e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull'efficacia dell'azione amministrativa;

b) in relazione al principio di uguaglianza, è esclusa la sussistenza del presupposto dell'identità di situazioni. Infatti, alla necessità che davanti al giudice amministrativo sia assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria, non consegue che detta tutela debba essere del tutto analoga all'azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi;

c) in relazione all'introduzione di un termine breve per l'esercizio della difesa ex artt. 24 e 113 Cost., secondo la Consulta il termine di centoventi giorni è significativamente più lungo di molti dei termini decadenziali previsti dal legislatore sia nell'ambito privatistico che in quello pubblicistico, e per ciò solo non può dirsi in alcun modo inidoneo a rendere la tutela giurisdizionale effettiva;

d) in merito ai parametri di ordine sovranazionale, mentre il principio di equivalenza è rispettato in quanto la norma censurata riguarda sia la posizione dei titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto dell'Unione sia i titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto interno, per ciò che concerne il principio di effettività, il termine di centoventi giorni, di per sé ed in assenza di problemi legati alla conoscibilità dell'evento dannoso (v. infra), non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione.

Con la decisone della Corte costituzionale si chiude definitivamente una lunga vicenda che aveva visto dapprima contrapposte la giurisprudenza amministrativa e quella civile sulla c.d. pregiudiziale amministrativa e poi aveva visto sollevare dubbi (oggi rivelatisi infondati) sulla idoneità della soluzione accolta dal Codice a superare le criticità del precedente orientamento favorevole alla pregiudiziale.

Segue. La compatibilità della nuova disciplina con l'ordinamento dell'U.E.

La Corte costituzionale, come appena illustrato, ha escluso che il termine di 120 giorni per proporre l'azione autonoma di risarcimento possa determinare un contrasto con il diritto dell'U.E.

In relazione al dedotto possibile contrasto della nuova disciplina con il diritto dell'U.E., già in precedenza la Corte di Giustizia aveva affermato che il principio comunitario di effettività, osta ad una normativa nazionale che subordina la proposizione di un ricorso diretto ad ottenere il risarcimento danni per violazione di una norma (nel caso di specie, austriaca) in materia di appalti pubblici al previo accertamento dell'illegittimità della procedura di aggiudicazione di appalto per mancata previa pubblicazione di un bando di gara, qualora tale azione di accertamento di illegittimità sia soggetta ad un termine di decadenza di sei mesi a partire dal giorno successivo alla data dell'aggiudicazione dell'appalto pubblico di cui trattasi, indipendentemente dalla circostanza che colui che propone l'azione fosse o meno in grado di conoscere l'esistenza dell'illegittimità di tale decisione dell'amministrazione aggiudicatrice (Corte giustizia UE, 26 novembre 2015, C-166/14).

Va notato che i giudici comunitari hanno espressamente ritenuto compatibile con il diritto dell'U.E. la previsione di un termine processuale di decadenza per la proposizione delle domande di risarcimento (in quanto l' articolo 2-septies, paragrafo 2, della direttiva 89/665 precisa che, salvo le disposizioni dell'articolo 2-quater di tale direttiva, irrilevanti ai fini della questione sollevata, «i termini per la proposizione del ricorso sono determinati dal diritto nazionale». Spetta pertanto a ciascuno Stato membro definire tali termini processuali). Anzi in un passaggio della menzionata decisione (par. 35) è stato rilevato che gli Stati membri possono subordinare l'esercizio di una azione di risarcimento al previo annullamento della decisione contestata da parte dell'«organo che ha la competenza necessaria a tal fine» e, quindi, anche la (ormai superata) regola della pregiudiziale amministrativa sarebbe risultata compatibile con il diritto dell'U.E.

Il caso all'esame della Corte di Giustizia era l'azione di risarcimento dei danni causati dalla illegittimità della procedura di aggiudicazione dell'appalto in questione a causa dell'assenza della previa pubblicazione di un bando di gara; secondo la Corte mentre esigenze di certezza giustificano l'assoggettamento dell'azione di annullamento a un termine semestrale di decadenza, senza tener conto della conoscenza o meno, da parte del soggetto leso, dell'esistenza di una violazione di una norma giuridica, la stessa conclusione non può trarsi per l'azione di risarcimento, il cui assoggettamento al medesimo termine decadenziale può rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di proporre l'azione, decorrendo tale termine a prescindere dalla conoscenza della lesione da parte del soggetto danneggiato. In sostanza, il grado di esigenza della certezza del diritto relativa alle condizioni della ricevibilità dei ricorsi non è identico a seconda che si tratti di ricorsi per risarcimento danni o di ricorsi diretti a privare un contratto dei suoi effetti.

La motivazione delle decisione conferme che la disciplina dell'azione di risarcimento contenuta nel Codice del processo ammnistrativo non presenta profili di contrasto con il diritto dell'U.E., che non preclude l'assoggettamento della domanda di risarcimento né al principio (superato) della pregiudiziale, né ad un termine di decadenza decorrente (come previsto nel Codice) dalla conoscenza del provvedimento fonte del danno.

Con riferimento al comma 5 dell'art. 30, è stato chiarito che l'inizio della decorrenza del termine di 120 giorni, previsto dall'art. 30 comma 5, per la proposizione dell'istanza risarcitoria, conseguente all'annullamento giurisdizionale dell'atto impugnato, coincide con l'esaurimento delle possibili impugnazioni, compresa quella in Cassazione per motivi attinenti la giurisdizione ex art. 110 (Cons. St. III, n. 1500/2013; Cons. St. III, n. 2082/2012, che ritiene il principio applicabile alle posizioni risarcitorie rispetto alle quali è pendente un giudizio di annullamento alla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo).

Segue. Il superamento della pregiudiziale e gli effetti sul termine di prescrizione

Con riguardo al termine di prescrizione, la prevalente tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. implica la durata quinquennale del termine di prescrizione (a tale soluzione si perviene anche nelle ipotesi di responsabilità precontrattuale).

 Per l'applicazione del termine di prescrizione decennale previsto dall'art. 2946 c.c., e non di quello quinquennale di cui all'art. 2947 c.c. v.  Cass. I, n. 25644/2017 in una fattispecie di responsabilità di tipo contrattuale da «contatto sociale qualificato»; v. sopra). Con riferimento alla decorrenza del termine di prescrizione, prima del superamento della tesi della pregiudiziale amministrativa, si riteneva che, in caso di danni da provvedimento illegittimo, il termine iniziasse a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento produttivo del danno, in quanto, essendo necessario il previo annullamento dell'atto amministrativo, la pretesa risarcitoria può farsi valere solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, e dunque, la prescrizione inizia a decorrere solo da tale momento in applicazione della regola civilistica secondo cui la prescrizione comincia a decorrere non già da quando il diritto è sorto, bensì da quando il diritto può essere fatto valere ex art. 2935 c.c. (Cons. St. V, n. 5453/2008). Giungendo ad analoga conclusione la Cassazione aveva ritenuto che la domanda che il privato propone al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento di tali provvedimenti determina, a norma degli artt. 2943, comma 1, e 2945, commi 1 e 2, c.c., l'interruzione della prescrizione, fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce quel giudizio (Cass. I, n. 17940/2003).

Dall'abbandono della tesi della c.d. pregiudiziale amministrativa è stata tratta la conseguenza della decorrenza del termine di prescrizione non dall'annullamento dell'atto, ma dalla data dell'illecito — e cioè dalla data di adozione dell'atto illegittimo; posto che l'intervenuto annullamento dell'atto amministrativo lesivo non costituisce un presupposto di ammissibilità della domanda risarcitoria, il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il danno si è effettivamente verificato.

La Cassazione aveva affermato che in seguito al venir meno della pregiudiziale amministrativa, il termine di prescrizione dell'azione di risarcimento contro la P.A. decorre dalla data dell'illecito e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, in quanto l'esistenza dell'atto amministrativo illegittimo non costituisce più un impedimento all'esercizio dell'azione risarcitoria ( Cass. S.U., n. 9040/2008, che ha temperato il principio aggiungendo che la domanda di annullamento dell'atto proposta al g.a. prima della concentrazione davanti allo stesso anche della tutela risarcitoria, pur non costituendo il prodromo necessario per conseguire il risarcimento dei danni, dimostra la volontà della parte di reagire all'azione amministrativa reputata illegittima ed è idonea ad interrompere per tutta la durata di quel processo il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria proposta dinanzi al g.o.; anche secondo Cass. I, n. 4846/2010, il termine di prescrizione per il risarcimento del danno extracontrattuale conseguente ad un atto illegittimo della P.A. inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e pertanto dall'emissione del provvedimento, ma il ricorso giurisdizionale contro un provvedimento della P.A. causativo di un danno extracontrattuale può valere ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno a condizione che vi sia un atto interruttivo ritualmente inserito dall'interessato nel processo).

La tesi dell'immediata decorrenza del termine di prescrizione era poi stata applicata ad una fattispecie in cui il privato aveva tempestivamente impugnato il provvedimento lesivo, ma aveva poi atteso l'esito del giudizio di annullamento prima di proporre la domanda di risarcimento, poi dichiarata prescritta (Cons. giust. amm. Sicilia, 16 settembre 2008, n. 762). In quel caso, l'adesione alla tesi del superamento della pregiudiziale era risultata addirittura penalizzante per la tutela del cittadino.

Dopo l'entrata in vigore del Codice, per i danni causati alle posizioni di interesse legittimo da un provvedimento amministrativo, il problema della prescrizione non si pone, dovendo essere rispettato il termine di decadenza di 120 giorni, decorrente – in caso di domanda di risarcimento autonoma — dal momento in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo o – in caso di domanda proposta dopo il tempestivo esercizio dell'azione di annullamento del provvedimento fonte del danno — dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce tale azione. Per i danni causati a posizioni di diritto soggettivo o che comunque non derivano da un provvedimento amministrativo illegittimo, il termine per proporre la domanda di risarcimento è quello quinquennale di prescrizione.

L'entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal Codice ha posto il problema interpretativo relativo all'applicabilità del termine decadenziale previsto dall'articolo 30, comma 3, agli illeciti consumati in epoca anteriore a detto jus superveniens.

La giurisprudenza ha ritenuto che l'introduzione di un termine di decadenza di centoventi giorni – decorrente, a seconda dei casi, dalla verificazione del fatto lesivo o dalla conoscenza del provvedimento dannoso – costituisce un'innovazione legislativa rispetto al regime prescrizionale quinquennale, ex art. 2947 c.c., operante in epoca precedente e i principi generali stabiliti dalle preleggi, in materia di efficacia delle leggi nel tempo (art. 11) e di portata applicativa di norme eccezionali (art. 14), impediscono, in assenza di una prescrizione esplicita in tal senso, l'applicazione retroattiva di una reformatio in peius a fattispecie sostanziali anteriori, senza che assuma rilievo l'epoca della proposizione del ricorso; soluzione confermata dal disposto dell'art. 2 dell'Allegato 3 al Codice, secondo cui «per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti», applicabile anche (e a maggior ragione) all'ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali «in corso») innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva ( Cons. St. III, n. 297/2014; Corte cost. n. 57/2015; Cons. St. Ad plen., n. 6/2015; Cons. giust. amm. Sicilia, 8 febbraio 2016, n. 38).

In conclusione, per tutti i fatti antecedenti al 16 settembre 2010 (data di entrata in vigore del Codice del processo amministrativo) non si applica il termine di decadenza previsto dall'art. 30, comma 3 del Codice stesso, ma continua ad applicarsi l'originario termine quinquennale di prescrizione decorrente dal momento in cui il danno si è verificato.

Per i fatti (e atti) successivi all'entrata in vigore del Codice si applicherà il nuovo termine di decadenza di 120 giorni, fermo restando che il ricorrente può decidere di impugnare il provvedimento fonte del danno e attendere l'esito del giudizio di annullamento per proporre la domanda risarcitoria, avvalendosi del disposto del comma 5 dell'art. 30, che prevede che «nel caso in cui sia stata proposta l'azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio «o, comunque, fino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza». Norma da intendersi riferita ai soli danni causati a posizioni di interesse legittimo da un provvedimento illegittimo e che amplia le possibili strategie processuali del danneggiato, consentendogli di attendere l'esito del giudizio di annullamento prima di proporre la domanda di risarcimento (in linea con la ratio della citata pregressa giurisprudenza, secondo cui l'azione di annullamento avverso il provvedimento fonte del danno interrompeva la prescrizione).

La proposizione della domanda di annullamento produce un effetto interruttivo astrattamente ascrivibile a siffatta domanda giudiziale ai sensi dell'art. 2943 c.c. anche se gli effetti interruttivi della prescrizione operano solo a favore del soggetto attivo ed in danno del soggetto passivo dell'atto interruttivo, non potendo riverberarsi sulla sfera giuridica di terzi estranei ( Cass. I, n. 25644/2017, che ha rilevato che nel giudizio amministrativo di annullamento deve essere parte l'amministrazione nei cui confronti successivamente si chiede il risarcimento del danno).

Segue. L'opzione del privato in favore della tutela risarcitoria

Un profilo, distinto da quello della pregiudiziale, ma non meno importante, è quello della scelta tra tutela demolitorio-conformativa e la tutela risarcitoria; ci si è chiesti se nel nostro sistema sia desumibile una priorità in favore della tutela demolitorio-conformativa, ove possibile o se la scelta tra i due strumenti sia rimessa alla volontà del ricorrente.

La dottrina ha posto la questione se sia possibile optare per la sola tutela risarcitoria, dopo aver tempestivamente impugnato l'atto amministrativo fonte del danno (in senso favorevole, Francario, Attività, 23).

Anche in senso favorevole, Cons. St. VI, n. 7256/2004 e Cons. St. VI, n. 213/2008, in cui è stato affermato che un'impresa che ha ottenuto l'annullamento dell'aggiudicazione di una gara di appalto ed il riconoscimento del diritto a subentrare nel servizio in corso, può rinunciare ad avvalersi degli effetti conformativi del giudicato — ormai oggettivamente limitati alla durata residua del contratto — ed optare per il solo risarcimento per equivalente.

La decisione è commentata da Chieppa, È possibile optare per il solo risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo, senza avvalersi degli effetti conformativi del giudicato di annullamento?, in Dir. e form. 2005, 376.

L'orientamento non può ritenersi consolidato, con riferimento alle ipotesi in cui vi è ancora la possibilità di portare a piena esecuzione la pronuncia di annullamento, anche se il superamento della pregiudiziale e l'ammissibilità di una azione autonoma di risarcimento dovrebbe condurre a ritenere consentita l'opzione per la sola tutela risarcitoria fin dalla proposizione del ricorso, salvo a valutare in termini di diligenza il rifiuto di conseguire il bene della vita (Chieppa, Il Codice, 2010).

La questione è più delicata nella materia degli appalti, che peraltro ha costituito l'occasione per il formarsi della richiamata giurisprudenza, dovendo in questo caso essere valutato attentamente se la scelta fin dall'origine per la sola tutela risarcitoria (quando cioè il contratto non è ancora stato stipulato ed è possibile stipularlo con il ricorrente) sia possibile o se contrasti, invece, con le specifiche norme in materia di appalti (art. 120 e ss.), soprattutto nei casi in cui la proposizione del ricorso con contestuale domanda cautelare ha paralizzato la stipula del contratto.

E' stato anche affermato che al privato pregiudicato da un provvedimento amministrativo riconosciuto illegittimo, ma senza l'accertamento della spettanza del bene della vita, non può essere riconosciuta la facoltà di abdicare alla pretesa di rinnovo del procedimento, di fatto optando per il solo risarcimento del danno, al di fuori delle ipotesi in cui la perdita del bene sia imputabile alla p.a. per il tempo trascorso e per le sopravvenienze (Cons. St. V, n. 5737/2019); anche se tale principio non appare condivisibile in assoluto, essendo necessaria una verifica caso per caso delle ragioni che inducono il privato a richiedere il solo risarcimento.

Segue. I presupposti del risarcimento del danno da ritardo

Descritte le diverse fattispecie di danno da ritardo e affrontati i profili attinenti al riparto di giurisdizione, va osservato che minori certezze vi sono sui presupposti della responsabilità dell'amministrazione per i ritardi nella sua azione amministrativa.

Rispetto alla tesi che riteneva possibile una ricostruzione del danno da ritardo inteso come danno conseguente alla violazione dell'interesse procedimentale al rispetto dei tempi posti dall'ordinamento, l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha optato per la necessità dell'accertamento della spettanza del bene della vita e della proposizione della diffida nel sistema previgente l'entrata in vigore delle modifiche introdotte con il d.l. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/05 (Cons. St.  Ad. plen. , n. 7/2005).

Secondo la Plenaria, il ritardo da parte della P.A. nella definizione delle istanze del privato non comporta, per ciò solo, l'affermazione della responsabilità per danni. Il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l'interesse pretensivo assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l'interessato (suscettibile di appagare un «bene della vita»); deve pertanto ritenersi che non sia possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della P.A. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa.

Si osserva che la questione della diffida non è più attuale, in quanto a seguito dell'entrata in vigore dell' art. 6-bis del d.l. n. 35/2005 convertito nella l. n. 80/2005, non è più necessario, ai fini della rituale formazione del silenzio-rifiuto, che la presentazione dell'istanza sia seguita, dopo la scadenza dei termini procedimentali, dalla notifica di apposito atto di diffida, che nel sistema previgente rappresentava la condicio sine qua non per la costituzione delle inadempienze pubblicistiche.

È stata, invece, oggetto di critiche l'esclusione in assoluta della risarcibilità dei danni subiti per non aver saputo nei tempi fissati dalla legge se una determinata istanza poteva essere accolta, o meno; anche il tempo è un bene della vita per il privato e non può essere in astratto escluso che il ritardo anche nel ricevere un provvedimento sfavorevole possa comportare conseguenze negative anche sotto il profilo patrimoniale (ad es., non aver optato per altre soluzioni, in attesa della risposta tardiva della P.A.).

Un argomento a favore del superamento della tesi della Plenaria può essere tratto dal nuovo art. 2- bis della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 69/2009, che disciplina le conseguenze per il ritardo dell'amministrazione nella conclusione del procedimento, stabilendo che le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Pur lasciando la norma aperta la questione sui presupposti per accedere alla tutela risarcitoria in caso di danni da ritardo, sembra potersi ricavare un favor del legislatore per una risarcibilità anche del danno da mero ritardo (ove provato), non collegato alla ritardata attribuzione di un bene della vita.

In questo senso, è stato riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica (Cons. giust. amm. Sicilia, 4 novembre 2010, n. 1368, che, traendo argomenti dal citato art. 2-bis, ha aggiunto che il danno sussisterebbe anche se il procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e finanche se l'esito fosse stato in ipotesi negativo, atteso che l'inosservanza del termine massimo di durata del procedimento ha comportato, quale immediata e pregiudizievole conseguenza, l'assoluta imprevedibilità dell'azione amministrativa e quindi l'impossibilità per il soggetto privato di rispettare la programmata tempistica dei propri investimenti). Una ulteriore apertura della giurisprudenza in favore di un ampliamento della tutela risarcitoria in presenza di una mera inerzia della p.a. si è avuta con alcune decisioni con cui è stato affermato che anche il tempo è un bene della vita per il cittadino e che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica; nel caso di specie, è stato risarcito anche il danno biologico, quale danno non patrimoniale (Cons. St. V, n. 1271/2011; Cons. St. V, n. 675/2015;  anche se Cons. St. V, n. 5834 continua a ritenere il danno da ritardo relativo ad un interesse legittimo pretensivo risarcibile solo in caso di dimostrazione della spettanza definitiva del bene della vita, non essendo elevato a bene della vita l'interesse procedimentale al rispetto dei termini; in ogni caso si tratta di questione non denunciabile in Cassazione ex art. 111 Cost., come affermato da Cass. S.U., n. 30650/2018).

La violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l'invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell'amministrazione, comportamento che genera incertezza idonea a indurre il privato a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l'adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell'amministrazione e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali, con la possibilità, quindi, di risarcire anche il c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento, come ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento (Cons. St. Ad. Plen., n. 5/2018 , che, superando così il precedente orientamento, ha precisato che comunque che deve essere provato sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta (ritardo) che si imputa all'amministrazione.

Anche una successiva Adunanza plenaria ha riconosciuto che il ritardo è idoneo a ledere il bene "tempo", che ha dignità di interesse risarcibile ex art. 2-bis l. n. 241 del 1990, se e nella misura in cui, per effetto di tale lesione, si sia prodotto un "danno ingiusto", che deve essere dimostrato con riferimento sia all'elemento soggettivo che all'elemento oggettivo dell'illecito (Cons. St., Ad. Plen.,  23 aprile 2021, n. 7).

Cons. St. IV, n. 358/2019 non appare giustificabile da alcune previsione normativa, dovendo invece il diritto al risarcimento derivare non dalla natura imprenditoriale o meno del soggetto danneggiato, ma dalla capacità dello stesso di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con il mero ritardo configurabile a prescindere dalla spettanza del bene della vita.

Per quanto concerne l'elemento soggettivo nella responsabilità della P.A. per danno da ritardo, si rinvia ai principi generali esposti in precedenza, limitandosi ad evidenziare come in presenza della violazione del termine di conclusione del procedimento, ben difficilmente l'amministrazione potrà dimostrare la sussistenza di un errore scusabile (tranne casi eccezionali), essendo suo compito predisporre misure organizzative idonee a consentire il rispetto di termini normativamente previsti (l'errore scusabile potrebbe essere ipotizzato solo in presenza di un contrasto di giurisprudenza sulla individuazione del termine di conclusione del procedimento).

La pretesa risarcitoria, relativa al danno da ritardo, deve essere ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (Cons. St. VI, n. 12/2018).

Vedi anche il commento all'art. 31 (in particolare, il par. “Risarcimento del danno da ritardo”).

Segue. La differenza con l'indennizzo da ritardo

Va a questo punto approfondito il rapporto tra il danno da ritardo e l'indennizzo previsto per il ritardo nella conclusione dei procedimenti ad iniziativa di parte.

Va ricordato che in passato non venne attuato il criterio di delega di cui all' art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 59/1997 (introduzione per il semplice ritardo della P.A.

di forme di indennizzo automatico e forfetario) e che, comunque, tale indennizzo non avrebbe fatto venir meno l'eventuale risarcimento del maggior danno, da provare secondo i criteri ordinari.

Una prima forma di indennizzo automatico e forfetario (che è cosa diversa e ulteriore rispetto al risarcimento) venne prevista dalla l.reg. Toscana 23 luglio 2009, n. 40 (Norme sul procedimento amministrativo, per la semplificazione e la trasparenza dell'attività amministrativa) che, all'art. 16, 1º comma, ha previsto l'obbligo per la Regione, gli altri enti e organismi (anche di diritto privato) dipendenti dalla Regione, le aziende sanitarie e gli enti del servizio sanitario regionale, di corrispondere agli interessati che ne facciano richiesta, in caso di inosservanza dei termini per la conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza... una somma di denaro a titolo di indennizzo per il mero ritardo, stabilita in misura fissa di 100,00 euro per ogni dieci giorni di ritardo, fino a un massimo di 1.000,00 euro. Resta impregiudicato il diritto al risarcimento del danno » (con onere per l'interessato di presentare apposita istanza entro un anno dalla scadenza del termine fissato per la conclusione del procedimento).

La Regione Toscana ha fatto da precursore al legislatore nazionale che con l' art. 28 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 ha introdotto, seppur con alcune limitazioni, il diritto dell'interessato ad ottenere un indennizzo da ritardo (v. il testo del citato art. 28 e il nuovo comma 1-bis dell'art. 2-bis della legge n. 241/1990).

Sotto il profilo soggettivo la disposizione in questione si applica a tutte le amministrazioni pubbliche e ai soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative di cui all' art. 1, comma 1-ter, della legge n. 241 del 1990 (in base all'art. 29 della stessa legge e, con riferimento all'ambito oggettivo, si applica ai procedimenti avviati ad istanza di parte dopo il 21 agosto 2013 (data di entrata in vigore della legge di conversione) per i quali sussiste un obbligo della pubblica amministrazione di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato (silenzio assenso e silenzio rigetto) e dei concorsi.

Nelle ipotesi di silenzio rigetto e di silenzio assenso, si è in presenza di un silenzio significativo e, quindi, di un comportamento, di per sé, idoneo a concludere il procedimento; allo stesso modo il diritto all'indennizzo non riguarda la denunzia di inizio di attività (o la segnalazione certificata di inizio di attività), non sussistendo uno specifico obbligo dell'amministrazione di emanare un provvedimento nelle ipotesi di cui all' art. 19 della legge n. 241/1990.

L'amministrazione responsabile del ritardo è tenuta a corrispondere, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro al verificarsi di tutte le seguenti condizioni:

a) che il procedimento amministrativo, iniziato ad istanza di parte, riguardi l'avvio o l'esercizio dell'attività di impresa (fino all'adozione del regolamento, emanato ai sensi dell' art. 17, comma 2, legge n. 400 del 1988, che dovrà confermare, rimodulare, estendere o eliminare la disposizione in esame);

b) che detto procedimento non si concluda nei termini previsti dalla legge o da un regolamento appositamente emanato dall'Amministrazione di riferimento;

c) che sia stato azionato, preventivamente il potere sostitutivo ex art. 2, comma 9-ter, della legge n. 241/1990 nel termine perentorio di venti giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.

Qualora il titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel termine (anch'esso perentorio) pari alla metà di quello originariamente previsto per il procedimento iniziale, né provveda alla liquidazione dell'indennizzo, l'istante potrà: a) proporre ricorso avverso il silenzio della pubblica amministrazione ai sensi dell' art. 117 del codice del processo amministrativo, nonché, congiuntamente, domanda per ottenere l'indennizzo; b) presentare ricorso per ingiunzione di pagamento, ai sensi dell'art. 118 per ottenere la sola condanna al pagamento della somma dovuta a titolo di indennizzo.

L'indennizzo è liquidato dall'amministrazione procedente o, in caso di procedimenti complessi in cui intervengono più amministrazioni, da quella effettivamente responsabile del ritardo e ai fini del riconoscimento del diritto all'indennizzo è del tutto insufficiente l'emanazione del preavviso di rigetto di cui all' art. 10-bis l. n. 241/1990, che costituisce atto meramente interlocutorio.

La limitazione più evidente della disciplina è costituita dal fatto di essere circoscritta, in fase di prima applicazione, ai soli procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività d'impresa. Era stato previsto che dopo diciotto mesi e a seguito di un monitoraggio sull'applicazione, la disposizione avrebbe dovuto essere confermata, rimodulata, estesa anche gradualmente ad altri procedimenti amministrativi o eliminata con un regolamento emanato, ma nulla è avvenuto nonostante i diciotto mesi siano trascorsi con la conseguenza che resta la suddetta limitazione.

La previsione di un indennizzo da ritardo lascia inalterato il diritto dell'interessato a chiedere il risarcimento del danno in presenza dei presupposti descritti in precedenza; infatti, l'indennizzo da «mero ritardo» di cui all' art. 2-bis, comma 1-bis, l. n. 241/1990, è configurabile per il solo decorso del termine anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile e prescinde anche dall'elemento della colpa.

Infatti, l'indennizzo forfettario introdotto in via sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis, costituisce un ristoro automatico (collegato alla mera violazione del termine), mentre  resta sempre possibile chiedere il risarcimento del danno e in questo caso è onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell'elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere (Cons. St. IV, n. 358/2019).

Al contrario, la responsabilità da ritardo che dà diritto ad un risarcimento vero e proprio, previsto dall' art. 2-bis, comma 1, l. n. 241/1990, dev'essere ricondotta, relativamente all'identificazione dei suoi elementi costituitivi, all'alveo proprio dell'art. 2043. In conseguenza, il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto juris et de iure in collegamento al semplice passaggio del tempo, ma è necessaria la verifica dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito) nonché quelli di carattere soggettivo, dolo o colpa del danneggiante (Cons. St. IV, n. 5663/2014).

Vedi anche il commento all'art. 31 (in particolare, il par. “Silenzio inadempimento e indennizzo”).

Segue. La domanda di risarcimento del danno da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento

L'art. 30, comma 2 fa riferimento alla azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.

Il termine «obbligatoria» va riferito alla possibilità di chiedere il risarcimento del danno da ritardo, ove sussista un obbligo di provvedere della p.a. e, sotto tale profilo, la questione si sposta sul piano sostanziale della verifica, in ordine alle singole fattispecie, della sussistenza dell'obbligo di provvedere.

In relazione ai termini per proporre la domanda di risarcimento, per la ipotesi di danno da ritardo, consistente nell'adozione di un primo provvedimento negativo, poi annullato dal giudice e nel successivo rilascio del provvedimento favorevole, il danno da ritardo non è altro che una ipotesi di danno da provvedimento illegittimo (il primo diniego) e si rientra quindi nella disciplina del comma 3 dell'art. 30 e la domanda va proposta nel termine di 120 giorni dalla conoscenza del provvedimento di diniego o, in caso di impugnazione di tale provvedimento, nel corso del giudizio di annullamento o entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, con cui viene annullato l'atto fonte del danno.

Invece, per il risarcimento del danno derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento il Consiglio di Stato aveva previsto che, fintanto che perdura l'inadempimento, non potesse decorrere alcun termine per l'esercizio dell'azione risarcitoria, in quanto l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento costituisce un illecito di carattere permanente, in relazione al quale non vi è alcuna ragione di certezza delle posizioni giuridiche che giustifichi il consolidamento di una (illecita) situazione di inerzia.

Il termine di decadenza iniziava a decorrere solo al momento in cui tale situazione di inadempimento veniva meno. Fino a quando permaneva l'inadempimento, si era quindi stabilito di non assoggettare l'azione neanche al termine di prescrizione, la cui decorrenza era invece in precedenza prevista, anche in situazioni di persistenza dell'inerzia, dall' art. 2-bis della l. n. 241 del 1990, che è stato ora abrogato.

Nel testo finale è stato confermato che, fintanto che perdura l'inadempimento, non può decorrere alcun termine per l'esercizio dell'azione risarcitoria e nella stessa relazione si continua a fare riferimento alla natura permanente dell'illecito; tuttavia, in accoglimento di un'osservazione formulata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, si è stabilito che il termine decadenziale inizi comunque a decorrere con lo spirare di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento in esito al quale si sarebbe dovuto provvedere.

I due periodi del comma 4 appaiono porsi in contraddizione: affermare che il termine per proporre l'azione risarcitoria non decorre fintanto che perdura l'inadempimento e aggiungere subito dopo che lo stesso termine inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere significa negare la prima proposizione e stabilire una regola diversa (Viola, Le azioni).

La regola è, quindi, che il termine per proporre l'azione di risarcimento del danno derivante dall'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento è di un anno e 120 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per provvedere o di 120 giorni dalla cessazione dell'inadempimento (data del provvedimento adottato con ritardo ma prima della decorrenza dell'anno).

Tale soluzione si pone in contrasto con quanto indicato nella stessa relazione governativa circa la già ricordata natura permanente dell'illecito e circa il fatto che «fintanto che perdura l'inadempimento, non possa decorrere alcun termine per l'esercizio dell'azione risarcitoria, in quanto l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento costituisce un illecito di carattere permanente, in relazione al quale non vi è alcuna ragione di certezza delle posizioni giuridiche che giustifichi il consolidamento di una (illecita) situazione di inerzia» (testualmente dalla relazione del Governo).

Inoltre, anche tenuto conto della già menzionata previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l'abrogazione del riferimento al termine di prescrizione, contenuta nel comma secondo dell' art. 2-bis della legge n. 241/1990, appare meno giustificabile a seguito dell'introduzione di tale più stretto termine per l'azione risarcitoria.

Si ricorda che il decorso dell'anno dal termine di conclusione del procedimento non consolida la situazione di inerzia dell'amministrazione e non preclude la tutela del privato, che, come previsto dall'art. 31, comma 2, può sempre riproporre l'istanza.

Del resto, è nota in sede civilistica la distinzione tra l'atto illecito istantaneo e l'atto illecito permanente — con le relative conseguenze in ordine alla decorrenza del termine prescrizionale per l'esercizio dell'azione risarcitoria.

Il passaggio da un termine di prescrizione (di 5 anni) ad un termine di decadenza (di 120 giorni) ha determinato alcuni problemi di diritto transitorio in quelle fattispecie in cui l'inadempimento nel concludere il procedimento era iniziato prima dell'entrata in vigore del Codice e proseguito successivamente; in un caso in cui il ritardo era appunto iniziato prima del c.p.a. ed era stato poi interrotto successivamente dall'adozione del provvedimento favorevole, in sede di appello è stata riformata la sentenza del Tar che aveva dichiarato tardiva la domanda di risarcimento ed è stato evidenziato che essendo in corso il termine di prescrizione al momento dell'entrata in vigore del c.p.a si applica l'art. 2 dell'allegato 3 al codice, secondo cui “per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti” con conseguente tempestività della domanda proposta entro il termine di prescrizione, benchè successivamente a quello (sopravvenuto) di decadenza (Cons. giust. amm. Sicilia, n. 33/2018, che ha anche affermato che l'erronea declaratoria di tardività della domanda risarcitoria, traducendosi in una omessa pronuncia nel merito della causa, il cui oggetto coincide per intero con detta domanda, è sussumibile nella categoria della lesione del diritto di difesa e impone la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi e nei termini di cui all'art. 105 c.p.a.- v. il commento all'art. 105).

 

Mentre nell'illecito istantaneo tale comportamento si esaurisce con il verificarsi del danno, pur se l'esistenza di questo si protragga poi autonomamente (c.d. fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nell'illecito permanente la condotta oltre a produrre l'evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell'uno e dell'altro (Cass. III, n. 5831/2007).

Il danno derivante dalla mancata conclusione del procedimento non deriva da un fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti, ma costituisce un illecito permanente, che non cessa con la scadenza dell'anno dal termine per provvedere.

Il limite temporale inserito nel testo finale sembra, invece, presupporre che dopo il decorso dell'anno, se non tempestivamente attivata l'azione di risarcimento (nei 120 giorni successivi), la riproponibilità dell'istanza comporta che ogni eventuale danno può essere solo riferito al periodo temporale successivo alla scadenza del termine per provvedere sulla nuova istanza.

Inoltre, la modifica crea un ulteriore problema: in caso di proposizione dell'azione di annullamento il comma 5 dello stesso art. 30 ha previsto che la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza, consentendo, come si è già ricordato, al privato di scegliere la strategia processuale di attendere l'esito del giudizio di annullamento per poi proporre e articolare la sua domanda di risarcimento. Una volta inserito un analogo termine per il risarcimento del danno da ritardo, tale esigenza sussiste anche in questo caso e il meccanismo previsto dal comma 5 sarebbe dovuto essere esteso anche al ricorso avverso il silenzio.

Ciò non è avvenuto e, di conseguenza, il privato che propone ricorso avverso il silenzio è comunque «costretto» a proporre la domanda di risarcimento entro un anno e 120 giorni dalla scadenza del termine per provvedere, anche se il ricorso avverso il silenzio non è stato ancora deciso e non avendo, in questo caso, neanche la cognizione esatta dei presupposti su cui fondare la domanda di risarcimento (Viola, Le azioni, considera la norma una vera e propria «trappola normativa» che finisce con l'obbligare il cittadino a percorsi defatiganti ed in particolare, all'artificiosa suddivisione di un periodo di silenzio inadempimento unitario in tanti sub-periodi di durata annuale da azionare ai fini risarcitori, rispettivamente, nel termine di decadenza di 120 giorni decorrenti dal perfezionamento di ogni singolo sub-periodo).

È stato ritenuto che la mancata impugnazione del silenzio-rifiuto, formatosi ai sensi dell' art. 31 comma 6 l. n. 1150/1942, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione dell'istanza di concessione edilizia, non esclude la responsabilità dell'amministrazione per i danni derivanti dal ritardato rilascio della concessione, poiché il decorso del suddetto termine non consuma il potere-dovere dell'amministrazione di provvedere sulla domanda del privato; ciò perché il silenzio-rifiuto si sostanzia in un provvedimento fittizio con finalità acceleratorie del procedimento di rilascio del titolo concessorio e di semplificazione, in particolare attribuendo al privato la facoltà di liberarsi dell'inerzia dell'amministrazione e dell'onere della diffida e messa in mora al fine di adire il giudice amministrativo.

Ne discende che la mancata impugnazione del silenzio-rifiuto non esclude la responsabilità risarcitoria, ma rileva sotto il diverso profilo della sua eventuale efficacia causale alla produzione del danno e della concreta determinazione del danno risarcibile ( ex art. 1227 c.c. e 30 comma 3 c.p.a.) Cons. St. V, n. 4968/2013.

Il risarcimento per equivalente

Elemento essenziale della struttura dell'illecito è il pregiudizio patrimoniale patito dal danneggiato in conseguenza dell'attività antigiuridica posta in essere dal responsabile.

Con il risarcimento per equivalente viene garantita non la diretta rimozione della lesione e delle sue conseguenze, ma la compensazione pecuniaria del danno attraverso il riconoscimento del diritto a ricevere una somma corrispondente al valore del bene della vita leso per effetto dell'illecito (Bianca, 111).

Segue. La quantificazione del danno

Per i danni derivanti dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa la quantificazione del danno risarcibile non è sempre agevole, specie in presenza di lesione di interessi legittimi pretensivi o procedimentali, nei quali la verifica della spettanza del bene della vita postula un'intermediazione amministrativa favorevole e risultano, quindi, difficilmente apprezzabili le effettive implicazioni economiche della violazione accertata, mentre si rivela più agevole la quantificazione del danno nei casi di lesione di interessi oppositivi, nei quali si tratta di determinare il valore del bene illegittimamente sacrificato.

In caso di impossibilità di dimostrare la misura esatta del danno, soccorre il metodo di liquidazione equitativa dettato dagli artt. 2056 e 1226 c.c., certamente utilizzabile anche dal giudice amministrativo (Cons. St. IV, n. 396/2001); tuttavia, il ricorso a criteri equitativi per la quantificazione del danno, previsto dall' art. 1226 c.c., richiamato dall' art. 2056 c.c., è possibile solo quando il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, quando cioè il pregiudizio non è conoscibile perché il fatto che ne avrebbe consentito la quantificazione non è avvenuto e non può avvenire, sicché occorre procedere in via presuntiva secondo la regola dell'id quod plerumque accidit, mentre a tale criterio non può farsi ricorso quando i fatti causativi del danno sono avvenuti e sarebbero suscettibili di dimostrazione non potendo il criterio essere utilizzato per supplire al mancato assolvimento dell'onere della prova posto a carico del danneggiato (Cons. St. VI, n. 3989/2006).

Tra le regole civilistiche che trovano applicazione nella materia de qua va ricordato il principio della compensatio lucri cum damno, alla stregua del quale nella determinazione del danno risarcibile va tenuto conto anche degli effetti vantaggiosi direttamente derivanti dal medesimo fatto causativo del danno (Garofoli, Racca, De Palma, 667).

 Una applicazione del principio della compensatio lucri cum damno si è avuta con riferimento al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici (nella specie, equo indennizzo e risarcimento dei danni nel campo del pubblico impiego) ed è stato affermato che la presenza di un'unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario (Cons. St. Ad. Plen., n. 1/2018 , commentata da Ielo).

In sede di determinazione del danno il giudice amministrativo deve tener conto anche dei criteri valutativi contemplati dall' art. 1227 c.c., a tenore del quale se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno il risarcimento va diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate (comma 1), mentre il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (comma 2).

Nel settore degli appalti, la giurisprudenza ha individuato i seguenti criteri per la quantificazione del danno subito da un concorrente, che si sarebbe aggiudicato l'appalto se l'amministrazione avesse operato correttamente: a titolo di danno emergente vengono risarcite le spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara e le eventuali occasioni di lavoro perse, se dimostrate; a titolo di mancato guadagno si tiene conto dell'utile economico che sarebbe derivato all'impresa dall'esecuzione dell'appalto. Per determinare l'utile economico, la giurisprudenza ha individuato come parametro di valutazione la misura presuntiva dell'utile d'impresa complessivamente realizzabile dal danneggiato, pari al 10% dell'importo a base d'asta, come ribassata dall'offerta presentata dall'appaltatore medesimo, ricorrendo all'applicazione analogica dell' art. 345 della l. 20 marzo 1865, allegato F, in base al quale l'amministrazione può risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento all'appaltatore « dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite » (Cons. St. V, n. 3796/2002; Cons. St. IV, n. 5012/2004).

Il criterio trova ulteriori riscontri nell' art. 122 del d.P.R. n. 554/1999 e nel poi abrogato art. 37-septies, comma 1, l. n. 109/1994, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora da eseguire.

È stato tuttavia precisato che il danno derivante ad una impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nel 10% del prezzo offerto, solo se e in quanto l'impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l'espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta, è da ritenere che l'impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile, liquidato nel caso di specie nella misura del 5% (Cons. St. V, n. 5860/2002; Cons. St. VI, n. 1114/2007). In altre fattispecie, il danno è stato ridotto di un terzo in considerazione dell'avvenuto annullamento in autotutela del provvedimento, fonte del danno; comportamento della p.a. da valutare positivamente e che rende meno grave il precedente illecito (Cons. St. IV, n. 4401/2007).

Nel caso di mancata aggiudicazione il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto): non essendo, invero, dubitabile che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante) possa essere, comunque, fonte per l'impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e, quindi, la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.

In via di principio, che il riconoscimento del lucro cessante deve ritenersi subordinato:

a) all'assolvimento, in positivo, di un preciso onere probatorio, inteso a dimostrarne, anche per via indiziaria, la consistenza, avuto riguardo alle caratteristiche dell'appalto, al mercato di riferimento, alle condizioni operative dell'impresa, alle dimensioni organizzative, alle risorse reali e finanziarie disponibili, alle multiformi peculiarità della fattispecie;

b) alla dimostrazione, in negativo, anche qui per via indiziaria (e, per esempio, mediante la non disagevole allegazione dei libri contabili) della mancata interinale utilizzazione delle proprie risorse reali e personali e della obiettiva ed involontaria immobilizzazione delle stesse, nonché della diligente condotta imprenditoriale, preordinata a non trascurare occasioni di utile impiego, nell'esclusivo e non commendevole intento di aggravare il danno da mancata aggiudicazione (Cons. St. V, n. 5803/2019).

Quando il ricorrente allega solo la perdita di una  chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l'aggiudicazione dell'appalto spettava a lui in assenza della illegittimità commessa dall'amministrazione), la somma commisurata all'utile d'impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura (Cons. St. VI, n. 2485/2002), facendo anche ricorso al criterio di quantificazione della chance in misura corrispondente al numero di partecipanti alla gara, ipotizzando uguali possibilità per ciascuno (Cons. St. VI, n. 1514/2007;  Cons. St. V, n. 5837/2011; Cons. St. V, n. 3450/2016).

In sostanza, quando ad un operatore è preclusa in radice la partecipazione ad una gara (di tal che non sia possibile dimostrare, ex post, né la certezza della sua vittoria, né la certezza della non vittoria), la sola situazione soggettiva tutelabile è la chance, e cioè l'astratta possibilità di un esito favorevole. In tali situazioni, si è ritenuto  di utilizzare il criterio per cui il quantum del risarcimento per equivalente vada determinato ipotizzando, in via di medie e di presunzioni, quale sarebbe stato il numero di partecipanti alla gara se gara vi fosse stata (sulla base dei dati relativi a gare simili indette dal medesimo ente) e dividendo l'utile d'impresa (quantificato in via forfettaria) per il numero di partecipanti: il quoziente ottenuto costituendo, in tale prospettiva, la misura del danno risarcibile (Cons. St. V, n. 5307/2019, che ha però utilizzato il diverso criterio dell'utile percepito dalla ricorrente quale gestore uscente del servizio).

Va tuttavia considerato che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall'altro non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l'apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno” (Cons. St. III, n. 2181/2019, che richiamaCass. II, n. 4310/2018).

Secondo una giurisprudenza allo stato minoritaria il risarcimento della chance sarebbe ammissibile solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita, che dovrebbe essere almeno pari al 50 per cento, poiché, diversamente, diventerebbero risarcibili anche mere possibilità di successo, statisticamente non significative (Cons. St. V, n. 3249/2015;  Cons. St. III, n. 559/2016; Cons. St. IV, n. 3757/2017).

Al riguardo era stata rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione se spettasse, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe potuto concorrere quale operatore del settore economico (Cons. St. V, n. 118/2018 in relazione ad una fattispecie in cui la consistenza della chance ammontava al 20 % essendoci cinque operatori qualificati nel mercato interessato); la Plenaria ha tuttavia restituito gli atti alla sezione remittente potendo la definizione della questione interferire con profili già esaminati dalla sezione con la sentenza non definitiva (Cons. St. Ad. Plen. n. 7/2018).

La giurisprudenza successiva ha tuttavia ribadito che il richiamo alla ‘elevata probabilità' (ad es., almeno pari al 50 %) di realizzazione, quale condizione affinché la chance acquisti rilevanza giuridica, è fuorviante, in quanto così facendo si assimila il trattamento giuridico della chance alla causalità civile ordinaria (ovvero alla causalità del risultato sperato), mentre la risarcibilità della perdita di chance è stata elaborata al fine di ‘traslare' sul versante delle situazioni soggettive e, quindi, del danno ingiusto, un problema di causalità incerta non per accertare l'esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il ‘valore' economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile (Cons. St., VI, n. 6268/2021, che ha anche sottolineato che la tecnica risarcitoria della chance presuppone una situazione di fatto immodificabile, che abbia definitivamente precluso all'interessato la possibilità di conseguire il risultato favorevole cui aspirava).

Anche la dottrina ha evidenziato che in questi casi il danno riguarda la impossibilità di poter far valere una chance per poter eventualmente realizzare il bene della vita, ormai irraggiungibile, a causa dell'illegittima azione amministrativa concretizzatasi in un atto o un comportamento illegittim; il danno per perdita di chance perde l'aggancio al bene della vita perché non può ottenerlo, né si può procedere virtualmente a verificare se poteva conseguirlo (Follieri).

Nell'ipotesi di responsabilità precontrattuale il danno risarcibile consiste, secondo la costante giurisprudenza, nella diminuzione patrimoniale che è diretta conseguenza del comportamento del soggetto che ha violato l'obbligo della correttezza, definito comunemente « interesse contrattuale negativo ». In tal caso, possono essere riconosciute, a titolo risarcitorio, le spese sopportate per la partecipazione alla gara e la eventuale perdita delle occasioni di lavoro alternative, per la quale è necessaria la dimostrazione dell'entità dell'asserito pregiudizio derivante dalla perdita di altre occasioni (Cons. St. IV, n. 1457/2003, Cons. St. III, n. 2181/2019).

È stato osservato che la natura precontrattuale della responsabilità viene a volte richiamata unicamente per giustificare l'applicazione del limite dell'interesse negativo in sede di quantificazione del danno, quando la lesione dell'affidamento non si traduce nella perdita di una concreta chance di conseguire il bene della vita; mentre tale limitazione deriva dal rigoroso accertamento dell'esistenza del danno e del suo rapporto di causalità con il comportamento della p.a., anche senza ricorrere all'inquadramento nella responsabilità precontrattuale (Chieppa, Viaggio, 2003, 709).

Segue. L'indicazione da parte del g.a. dei soli criteri di quantificazione del danno

L'attribuzione al giudice amministrativo della cognizione delle domande risarcitorie nel periodo 1998 / 2000 è stata accompagnata dall'introduzione di alcune novità, tra le quali il meccanismo previsto dall' art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998.

In base a tale disposizione, il giudice amministrativo ha a disposizione, nel caso in cui non addivenga all'esatta determinazione del danno, una peculiare tecnica processuale: può « stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine » ( art. 35, comma, 2, d.lgs. n. 80/1998). In caso di mancato accordo, il danneggiato può ricorrere al giudice affinché determini, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta a titolo di risarcimento.

Si tratta di uno strumento che non è utilizzabile per determinare l'an del risarcimento, ma a cui può farsi ricorso solo nella fase successiva della liquidazione del danno, in quanto l'accertamento dell'inadempimento dell'amministrazione e dell'esistenza di un danno è un compito del giudice (Cons. St. V, n. 353/2001). L' art. 35 d.lgs. n. 80/1998non comporta la traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, ma solo della parte che concerne la determinazione del quantum, restando l'accertamento dell'an debeatur e la definizione dei criteri del risarcimento attratti nella giurisdizione di cognizione (Cons. St. IV, n. 396/2001).

Come si evince dalla lettera della legge, quella di determinare i criteri in base ai quali l'amministrazione deve proporre al danneggiato il pagamento di una somma ai sensi dell' art. 35, comma 2 del d.lgs. n. 80/1998, è una facoltà, e non un obbligo per il giudice amministrativo. In ordine alla natura dell'accordo concluso tra le parti, sembra che allo stesso non possa attribuirsi valore di titolo esecutivo, con la conseguenza che, in caso di inadempimento da parte dell'amministrazione, al privato resta preclusa la possibilità di ottenere la soddisfazione del suo credito con gli strumenti propri del procedimento di esecuzione forzata.

Le preminenti esigenze di garantire l'effettività della tutela e di evitare gravi lacune nel sistema processuale amministrativo impongono di giudicare esperibile il rimedio del ricorso per ottemperanza, anche in via analogica, anche per l'ipotesi in cui l'accordo sia stato concluso ma l'amministrazione sia rimasta inadempiente all'obbligazione ivi assunta e non solo nel caso, espressamente menzionato nella norma, in cui le parti non hanno raggiunto l'accordo (Cirillo, 348).

Il richiamo al giudizio di ottemperanza si riferisce solo alle forme del procedimento e non anche al suo contenuto ed ai suoi presupposti, considerato che lo strumento in questione più che servire a garantire l'attuazione di una pronuncia ineseguita, risulta piuttosto preordinato alla diversa finalità di assicurare l'integrazione della stessa, nella parte, relativa alla quantificazione della soma dovuta, rimasta incompleta.

La giurisprudenza ha chiarito che questo istituto non deve essere confuso con la condanna generica ai sensi dell' art. 278 c.p.c., che anzi è stata ritenuta inammissibile nel processo amministrativo ( Cons. St. Ad. plen. , n. 5/2009).

Il citato art. 35 introduce una forma di ottemperanza « anomala », per il caso di mancato raggiungimento dell'accordo; del giudizio di ottemperanza tale procedura condivide non solo la ratio e lo spirito, ma anche la forma, dovendo quindi la parte vittoriosa della cognizione porre in essere, a pena di inammissibilità del ricorso, gli adempimenti prodromici al giudizio di ottemperanza, quali l'intimazione all'amministrazione di provvedere nei trenta giorni, prevista dall' art. 90 r.d. 17 agosto 1907 n. 642, e, in caso di omissione di statuizione o di statuizione insoddisfacente, la domanda al giudice con ricorso notificato (Cons. St. V, n. 126/2004).

Il Codice ha non solo confermato tale istituto, ma lo ha esteso ad ogni tipo di condanna pecuniaria, prevedendo che la fissazione dei criteri possa avvenire da parte del giudice «in mancanza di opposizione delle parti» (art. 34, comma 4; v. il relativo commento).

In precedenza, la tesi che riconosceva il carattere libero ed ufficioso al potere del giudice di valersi di tale modulo operativo (nel senso che lo stesso può essere usato anche in mancanza di una specifica istanza o quando la parte ha domandato la quantificazione esatta dell'importo dovuto e può non essere usato, con liquidazione diretta del danno, nel caso in cui sia stata, invece, richiesta la fissazione dei criteri ai sensi dell' art. 35, comma 2 d.lgs. n.80/1998), è stata criticata in quanto insanabilmente confliggente con le esigenze di conformità tra chiesto e pronunciato postulate dal principio della domanda consacrato nell' art. 112 c.p.c. Non si ravvisano, viceversa, ostacoli alla pronuncia di una condanna c.d. mista, che contempli, cioè, la liquidazione del danno per la parte agevolmente accertabile (ad es. quella relativa al danno emergente) e che riservi all'accordo delle parti la determinazione delle voci più difficilmente quantificabili (presuntivamente relative al lucro cessante).

La soluzione accolta dal Codice è stata quella di consentire alle parti di opporsi espressamente alla fissazione dei soli criteri di quantificazione di una condanna pecuniaria e, in questo caso, al giudice è precluso l'utilizzo di questo strumento e deve necessariamente esaminare nel giudizio di cognizione ogni profilo della condanna pecuniaria.

La reintegrazione in forma specifica

L'art. 30, comma 2, stabilisce che «Sussistendo i presupposti previsti dall' articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica».

La proposizione non è collegata al periodo precedente dello stesso comma, che richiama i casi giurisdizione esclusiva e, quindi, la reintegrazione in forma specifica è possibile nell'intero ambito della giurisdizione amministrativa, sia di legittimità che esclusiva.

Non si tratta di una novità in quanto l' art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998 aveva già previsto l'applicabilità nel processo amministrativo dell'istituto della reintegrazione in forma specifica.

La previsione di tale meccanismo reintegratorio nel diritto pubblico aveva sollevato, tuttavia, non pochi interrogativi e problemi applicativi, sorti tra la tesi civilistica che, in coerenza con l' art. 2058 c.c., ricostruiva l'istituto come una modalità riparatoria alternativa al risarcimento per equivalente ed la tesi, secondo cui il legislatore avrebbe introdotto nel nostro ordinamento, con tale strumento, un'azione di adempimento simile a quella prevista nell'ordinamento tedesco, che consente di agire in giudizio per ottenere la condanna dell'amministrazione all'emanazione di un atto amministrativo.

Una tesi intermedia, sempre nel senso dell'azione di adempimento, reputava ammissibile la condanna ad un facere consistente anche nell'emanazione di atti amministrativi a condizione che si tratti di attività vincolata e non di attività con significativo tasso di discrezionalità.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato si era espressa, in senso maggioritario, in favore della tesi civilistica, affermando che il legislatore ha chiaramente inserito l'inciso « anche attraverso la reintegrazione in forma specifica » all'interno della disposizione che prevede che il giudice amministrativo dispone il risarcimento del danno ingiusto, con la conseguenza che contrasta con il dato letterale ogni interpretazione che pone l'istituto al di fuori di una alternativa risarcitoria ( Cons. St. VI, n. 3338/2002; Cons. St. VI, n. 1716/2003; Cons. St. VI, n. 2622/2008. In senso contrario e per un inquadramento della reintegrazione in forma specifica come forma di tutela parallela all'annullamento, la quale realizza la pretesa sostanziale e pertanto è emancipata da una dimensione meramente risarcitoria, si era in precedente orientato il Consiglio di Stato, con altra decisione della VI Sezione, che appare ora superata dai precedenti appena citati — Cons. St. VI, n. 6281/2001, in cui si afferma che la domanda di annullamento contiene in sé l'implicita domanda di risarcimento in forma specifica, che induce l'amministrazione ad emanare l'atto favorevole al ricorrente).

Anche secondo la dottrina, la reintegrazione in forma specifica non va confusa né con l'azione di adempimento (con la quale si chiede la condanna del debitore all'adempimento dell'obbligazione), né con il diverso rimedio dell'esecuzione in forma specifica, quale strumento per l'attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli (Travi, 2003).

Secondo la relazione, l'espresso richiamo nel Codice dell' art. 2058 c.c. costituisce il definitivo chiarimento del fatto che con la previsione di questo istituto nel processo amministrativo, già avvenuta ad opera del d.lgs. n. 80 del 1998, non si è introdotta un‘azione diretta ad ottenere la condanna del debitore all'adempimento di una obbligazione, né un rimedio in forma specifica per l'attuazione coercitiva del diritto, ma si è inteso estendere al processo amministrativo lo stesso rimedio, di natura risarcitoria, di cui all' art. 2058 cod. civ., al fine di ottenere la diretta rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo attraverso la produzione di una situazione materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno.

Va ricordato che, nel diritto civile il risarcimento in forma specifica consiste nella diretta rimozione delle conseguenze derivanti dall'evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno.

Nell'ottica civilistica la reintegrazione in forma specifica rimane un rimedio risarcitorio, o riparatorio secondo alcuni, ossia una forma di reintegrazione dell'interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio e non va confusa né con l'azione di adempimento (diretta ad ottenere la condanna del debitore all'adempimento dell'obbligazione), né con il diverso rimedio dell'esecuzione in forma specifica quale strumento per l'attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli.

La forma specifica non è né una forma eccezionale né una forma sussidiaria di responsabilità, ma uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito, la cui scelta spetta al creditore salva l'ipotesi di eccessiva onerosità (è possibile il concorso tra tale forma di risarcimento ed il risarcimento per equivalente per i danni ulteriori).

La giurisprudenza ha individuato i limiti della reintegrazione in forma specifica, desunti grazie al parallelo con la disciplina del codice civile: l'art. 2058 c.c. che pone come limite la concreta impossibilità di disporre la reintegrazione e l'eccessiva onerosità per il debitore; l' art. 2933 c.c. disciplina l'esecuzione forzata degli obblighi di non fare e pone un limite al processo esecutivo, prevedendo che « non può essere ordinata la distruzione della cosa e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento danni se la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia nazionale » (Cons. St. IV, n. 3169/2001, in cui la domanda di reintegrazione in forma specifica, che avrebbe comportato la demolizione dell'opera pubblica già realizzata oltre alla restituzione del fondo illegittimamente appreso dalla p.a., non viene accolta perché la distruzione della cosa è di pregiudizio all'economia nazionale e risulta eccessivamente onerosa per il pubblico interesse e per la collettività, tenuto conto che l'eccessiva onerosità « per il debitore » considerata dall' art. 2058 c.c., nell'applicazione dell' art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 e dell' art. 7 l.Tar « muta veste » e si trasforma proprio in eccessiva onerosità « per il pubblico interesse e per la collettività »).

La giurisprudenza civile ritiene che la scelta tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente deve ritenersi rimessa al potere dispositivo delle parti e che per la reintegrazione in forma specifica è necessaria un'espressa domanda in tal senso. Infatti, la domanda di reintegrazione in forma specifica include quella di risarcimento per equivalente ma non viceversa (Cass. II, n. 7298/1987).

Applicando tale indirizzo al processo amministrativo, si è rilevato che, in mancanza di espressa domanda di reintegrazione in forma specifica, il giudice non potrà che risarcire il danno per equivalente, perché altrimenti sarebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (né è possibile ritenere implicitamente proposta la domanda di reintegrazione in forma specifica); mentre nell'ipotesi inversa spetterà al giudice verificare l'eventuale eccessiva onerosità o impossibilità della forma specifica e in tal caso disporre il solo risarcimento per equivalente, o disporlo per il danno residuo alla reintegrazione in forma specifica (Chieppa, La reintegrazione, 2003, 11; Montanari, Reintegrazione, 361).

La competenza territoriale

Le regole di competenza territoriale comportano a volte problemi per le domande di risarcimento.

Il problema si pone ogni qualvolta la domanda risarcitoria sia proposta in modo non contestuale rispetto al ricorso di annullamento; in quanto la domanda risarcitoria contestuale a quella di annullamento è di competenza del tribunale davanti a cui è proposto il ricorso impugnatorio principale, in base al principio dell'accessorietà, che pure è positivamente affermato anche nell'ambito del processo civile.

Secondo una tesi la domanda risarcitoria successiva, ma strutturalmente consequenziale, deve essere proposta ugualmente davanti al giudice che ha cognizione sul ricorso principale, mentre solo la domanda risarcitoria «pura», proposta contro l'amministrazione, riguardante i comportamenti e l'inerzia, ma senza preventiva impugnazione del provvedimento, soggiace alle regole processuali del c.p.c.

È stato affermato che in mancanza di apposite norme idonee a definire i criteri sostanziali di riparto di competenza territoriale nel processo amministrativo avente ad oggetto esclusivamente diritti soggettivi patrimoniali, non potendosi utilizzare le regole sancite dagli artt. 2 e 3 l. n. 1034/1971, in quanto dettate per giudizi in tutto o in parte impugnatori, troveranno applicazione i criteri sostanziali di competenza territoriale previsti dal codice di procedura civile (Cons. St. IV, n. 400/2001). È stato stabilito che la competenza a conoscere di una domanda risarcitoria consequenziale rispetto all'annullamento del provvedimento spetta allo stesso giudice che ha già pronunciato la sentenza di annullamento, in quanto il ricorso con cui viene chiesto il risarcimento del danno costituisce vera e propria prosecuzione di quello a suo tempo definito con sentenza passata in giudicato, avente ad oggetto l'illegittimità dell'atto impugnato; il principio vale sia che si tratti di ipotesi nelle quali la pretesa risarcitoria consequenziale concerna diritti soggettivi lesi da atti degradatori, sia che si tratti di interessi pretensivi. Né vale a modificare la disciplina avanti riferita — fondata sulla regola della concentrazione innanzi al giudice dell'impugnazione anche della pretesa riparatoria — il fatto che la controversia rivolta ad ottenere il risarcimento del danno sia stata avanzata con autonomo e successivo ricorso proposto dopo che il giudizio di impugnazione si era concluso e la relativa sentenza era passata in giudicato ( Cons. St. Ad. plen. , n. 10/2004).

In base al Codice per i danni da provvedimenti il criterio della sede legale dell'autorità che ha causato il danno opererà unitamente a quello dell'efficacia dell'atto fonte del danno e, allo stesso modo, per i comportamenti, connessi con l'esercizio del potere e fonte di danno, gli effetti dannosi della condotta costituiranno il criterio di competenza territoriale,

Criterio che spesso coinciderà con quello applicabile al giudizio di annullamento (Caringella – Protto, 904).

Forma, contenuto e modalità di proposizione della domanda risarcitoria

Il veicolo necessario della domanda è costituito dal ricorso, notificato e depositato nei modi ordinari.

La domanda risarcitoria può essere proposta anche nel corso del giudizio per l'annullamento dell'atto che ha causato il danno, purché con atto notificato alla controparte, in quanto dalla riforma del processo amministrativo emerge in termini generali la ratio di concentrazione dei giudizi; detta ratio è confermata dalla disposizione prevista dall' art. 21, comma 1, della l. Tar, in materia di motivi aggiunti, che deve essere letta in maniera estensiva e quindi riferibile anche alla domanda di risarcimento del danno ( Cons. St. Ad. plen. , n. 10/2007). Resta fermo però il principio secondo cui ogni domanda a contenuto cognitorio, quale quella risarcitoria, è ammissibile solo se formulata con un atto ritualmente notificato alla controparte (e non con semplice memoria depositata) nel rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio. È inammissibile la domanda formulata con il ricorso in appello, tenuto conto che il rispetto del principio del doppio grado di giudizio costituisce limite invalicabile che impedisce di formulare per la prima volta in appello la domanda (Cons. St. VI, n. 6575/2002; Cons. St. VI, n. 2556/2006).

Se la domanda di risarcimento viene proposta unitamente a quella di annullamento, può accadere che il giudice di primo grado possa respingere la domanda di annullamento senza esaminare quella di risarcimento; in questo caso, la domanda può essere riproposta con l'atto di appello ai sensi dell'art. 101, comma 2,  ma è stato ritenuto che, ove non riproposta e riformata la sentenza che respinge l'azione di annullamento, la domanda di risarcimento possa essere riproposta in un nuovo giudizio nel termine previsto dall'art. 30, comma 5  (120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; Cons. St. III, n. 5014/2018).

Si è esclusa la necessità che la domanda risarcitoria venga articolata come autonomo motivo di ricorso indicante le ragioni della pretesa: essa, trovando il suo fondamento nelle stesse censure che sorreggono la separata, ma contestuale domanda di annullamento e che si configurano quindi come causa petendi, potrebbe essere contenuta anche nelle sole « conclusioni » (Cons. St. VI, n. 973/2004). Ciò non esclude, ovviamente, che la domanda di ristoro sia formulata in modo che emergano gli elementi costitutivi della ritenuta fattispecie di responsabilità dell'amministrazione, oltre che supportata con argomenti probatori di carattere specifico. È inammissibile la domanda di risarcimento del danno avanzata con mera clausola di stile (Cons. St. V, n. 6387/2001). La domanda di risarcimento deve essere fondata su una puntuale prospettazione del danno, in relazione alle concrete modalità della fattispecie e alla illegittimità procedimentale che ha determinato l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione (Cons. St. VI, n. 244/2000).

La domanda di risarcimento è a volte complementare rispetto all'azione di annullamento e altre volte alternativa rispetto agli effetti ottenibili con l'annullamento; spetta al ricorrente decidere la propria strategia processuale nel rapporto tra domanda di annullamento e di risarcimento e il g.a. non può sostituirsi in questo al ricorrente, come confermato dalla giurisprudenza, secondo cui il g.a. non può «ex officio» limitarsi a condannare l'Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda del ricorrente, a nulla potendo rilevare che l'annullamento possa recare gravi pregiudizi ai contro interessati o che sia decorso un lungo periodo di tempo dall'adozione degli atti ( Cons. St. Ad. Plen. , n. 4/2015).

La giurisprudenza ha chiarito che nel giudizio risarcitorio, in caso di incompletezza del contraddittorio, non valgono le regole generali del giudizio impugnatorio, ma operano, in via analogica, le norme previste per il processo civile e trova quindi applicazione l' art. 102 c.p.c. in materia di integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario (Cons. St. IV, n. 2850/2001).

Per quanto concerne l'individuazione delle parti necessarie del giudizio risarcitorio, si era affermato che il controinteressato è estraneo al giudizio, in quanto la pretesa risarcitoria si rivolge nei confronti dell'amministrazione autrice del provvedimento. Anche nelle ipotesi in cui sia ipotizzabile una partecipazione alla commissione dell'illecito (per esempio per aver rappresentato circostanze non veritiere, poi recepite nel provvedimento illegittimo), il privato non assume la veste del litisconsorte necessario, atteso il principio della responsabilità solidale extracontrattuale (Garofoli, Racca, De Palma, 410).

Tuttavia, l' art. 41, comma 2, c.p.a. ha previsto che «Qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell'atto illegittimo, ai sensi dell' articolo 102 del codice di procedura civile; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo 49.»

Per l'azione di condanna (in particolare, al risarcimento del danno) viene introdotto un caso di litisconsorzio necessario con la parte privata beneficiaria dell'atto illegittimo.

Nella relazione viene indicato che «per quanto attiene all'azione di condanna – che nel codice ha trovato sistematizzazione – si è mantenuto il litisconsorzio necessario con i beneficiari, ove esistenti, dell'atto di cui il ricorrente assume l'illegittimità e in dipendenza della quale propone la domanda risarcitoria. Ciò si pone in linea, da un lato, con la consueta presenza nel giudizio amministrativo, accanto all'amministrazione convenuta, del beneficiario del suo atto (sicché, in sostanza, si è inteso confermare anche in questo nuovo ambito tale tradizionale strutturazione soggettiva del processo); dall'altro lato, si vuol provocare la formazione del giudicato sull'illegittimità dell'atto anche nei confronti dei suoi eventuali beneficiari (sicché, almeno per tale profilo, non potrà più essere contestato in altra sede l'eventuale ricorso all'autotutela); l'opzione in parola, infine, risulta coerente con alcune suggestioni interpretative e sistematiche, seppur ancora generiche, di origine sia comunitaria che interna (c.f.r., quanto alle prime, il 21° «considerando» della direttiva comunitaria 11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE, recepita in Italia con il d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, a sua volta trasfuso, quanto ai profili processuali, nel presente codice; nonché, quanto alle seconde, la decisione di C.G.A.R.S. n. 600 del 2008)».

In realtà, la disposizione ha contenuto innovativo perché anche nel sistema retto dalla c.d. pregiudiziale amministrativa se si era svolto il giudizio di solo annullamento con la presenza del controinteressato, il successivo giudizio avente ad oggetto la sola domanda di risarcimento non vedeva il beneficiario dell'atto annullato come litisconsorte necessario.

Segue. Legittimazione attiva e trasferibilità del diritto al risarcimento del danno

La questione della trasmissibilità del diritto al risarcimento dei danni causati a posizioni di interesse legittimo è stata affrontata in alcune pronunce giurisprudenziali.

È stato affermato che il risarcimento del danno da perdita di chance non è trasmissibile agli eredi e non è ulteriormente trasmissibile inter vivos, in quanto la “personalità” dell'interesse legittimo, che ne determina la “intrasferibilità”, definisce anche il confine stesso della posizione tutelabile e, dunque, ove ne ricorrano i presupposti, “risarcibile (Cons. St. IV, n. 1403/2013).

Secondo questo orientamento, ogni possibile riparazione della posizione di interesse legittimo non può che definirsi se non in relazione al titolare della medesima al momento dell'esercizio o del mancato/rifiutato esercizio del potere amministrativo. In altre parole, se non è possibile ipotizzare una “circolazione” della posizione di interesse legittimo, non è allo stesso modo possibile ipotizzare la circolazione delle forme di tutela del medesimo, con il connesso potere di agire in giudizio, sia al fine di ottenere tutela ripristinatoria, sia al fine di ottenere tutela risarcitoria (T.A.R. Campania (Salerno), n. 1295/2017, che ha dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione attiva, una domanda di risarcimento del danno da mancata aggiudicazione di una gara di appalto, proposta in riassunzione dall'erede della originaria parte istante, che era una s.a.s. il cui titolare era deceduto e che era stata cancellata dal registro delle imprese per cessazione dell'attività con conseguente interruzione del giudizio e successiva riassunzione da parte dell'erede del titolare della s.a.s.).

La fattispecie esaminata dal Tar Campania era complessa e la domanda di riassunzione era stata proposta da una persona fisica erede del titolare della s.a.s.; tuttavia, il principio affermato dalla citata giurisprudenza sembra negare a priori ogni possibilità di trasferimento del diritto al risarcimento del danno, come se tale diritto non fosse idoneo ad entrare a far parte del patrimonio del soggetto danneggiato e tale conclusione si presta a rilievi critici, oltre a determinare un differente trattamento del diritto al risarcimento del danno a seconda della posizione giuridica lesa (diritto soggettivo o interesse legittimo).

L'istruttoria nel giudizio risarcitorio

L'istruzione probatoria nel processo amministrativo di legittimità è governata, com'è noto, dal c.d. principio dispositivo attenuato dal metodo acquisitivo. In base a tale principio sul ricorrente non grava « l'onere della prova », come accade nel processo civile, ma « l'onere del principio di prova », nel senso che egli è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, potendo il giudice acquisire d'ufficio gli elementi probatori indicati dalle parti ovvero ritenuti comunque necessari.

Il c.d. principio dispositivo attenuato con metodo acquisitivo si giustifica in ragione della disponibilità degli elementi probatori in capo alla pubblica amministrazione nel processo amministrativo di legittimità. Laddove tali elementi rientrino nella disponibilità del ricorrente, come accade nel giudizio risarcitorio, ove soprattutto (se non esclusivamente) l'istante è a conoscenza di quali danni ha subito ed è in possesso degli elementi idonei a provarli, il giudizio non può che essere governato dal principio dell'onere della prova e occorre che il ricorrente supporti la propria domanda dimostrando la sussistenza del danno medesimo (Garofoli, Racca, De Palma, Responsabilità, 470).

Il ricorrente deve necessariamente allegare e dimostrare in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa risarcitoria e il metodo acquisitivo può essere utilizzato laddove siano stati allegati tali fatti, ma il privato, per la sua posizione di disparità sostanziale con l'amministrazione, non sia in grado di provarli (Vaiano, 539; Cons. St. VI, n. 973/2004).Nell'azione di responsabilità per danni da ritardo il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697 comma 1, c.c., opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (Cons. St. VI, n. 12/2018).

In base alla regola generale racchiusa nell' art. 2697 c.c., il danneggiato ha l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa) per illecito della p.a. (Cons. St. V, n. 4239/2001). È generica la domanda di risarcimento del danno, ai sensi dell' art. 35 d.lgs. n. 80/1998, ove il ricorrente non fornisca una puntuale prova del danno patrimoniale subito e del suo nesso eziologico con l'atto di aggiudicazione annullato in sede giurisdizionale, non potendo, peraltro, scaturire dall'illegittimità dell'azione amministrativa una colpa in re ipsa per l'amministrazione (Cons. St. IV, n. 5412/2000).

Anche in materia di responsabilità precontrattuale, il principio dispositivo e dell'onere della prova, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con autonoma pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio invece dell'azione di annullamento; di tal che, il danno emergente risarcibile è costituito dalle sole spese effettivamente sostenute e comprovate sulla base delle risultanze documentali in atti (metodo analitico-documentale), non potendo trovare ingresso, neppure a mezzo di verificazione o consulenza tecnica d’ufficio, altre metodologie di calcolo, quale un approccio sintetico-deduttivo, quand'anche in presenza di un principio di prova introdotto dal danneggiato (Cons. St., IV, n. 8668/2024).

Anche in materia di responsabilità precontrattuale, il principio dispositivo e dell'onere della prova, sancito in generale dall'art. 2697, comma 1, c.c., opera con autonoma pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio invece dell'azione di annullamento; di tal che, il danno emergente risarcibile è costituito dalle sole spese effettivamente sostenute e comprovate sulla base delle risultanze documentali in atti (metodo analitico-documentale), non potendo trovare ingresso, neppure a mezzo di verificazione o consulenza tecnica d'ufficio, altre metodologie di calcolo, quale un approccio sintetico-deduttivo, quand'anche in presenza di un principio di prova introdotto dal danneggiato (Cons. St., IV, n. 8668/2024).

Se si può condividere l'assunto per cui l'assolvimento dell'onere della prova del ricorrente deve essere valutato solo al termine della fase istruttoria e non necessariamente nel ricorso introduttivo, non si può, invece, convenire sulla asserita sussistenza di un potere del giudice amministrativo di sollecitazione o addirittura integrativo dell'onere probatorio gravante sul ricorrente. Si deve invece distinguere tra onere della prova circa l'an della pretesa risarcitoria e circa l'esatta quantificazione dei danni subiti, in quanto ritenere che la mancanza di prova in ordine al quantum conduce ad un rigetto della domanda risarcitoria sembra contrastare con la previsione di cui all' art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998, che ha introdotto in capo al giudice il potere ordinario di fissare i criteri di liquidazione del danno da determinarsi tra le parti in ambito stragiudiziale. Quindi, se nel processo amministrativo esiste uno strumento di quantificazione utilizzabile senza alcun vincolo o limite sembra logico ritenere che l'onere probatorio del ricorrente si concreti nella sola dimostrazione della sussistenza pregiudizio economico (magari con l'indicazione di una somma indicativa), essendo il quantum determinabile mediante un procedimento complesso che si conclude al di fuori dell'instaurato giudizio (Garofoli, Racca, De Palma, 472).

Senza aderire all'assunto secondo cui l'onere della prova è circoscritto alla sussistenza del pregiudizio subito, non estendendosi alla sua entità, può ritenersi assolto l'onere probatorio allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l'apporto tecnico del consulente. Tuttavia, la consulenza tecnica, pur disposta d'ufficio, non è certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall' art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche non possedute (Cons. St. VI, n. 1261/2004). È ammissibile l'utilizzo di una consulenza tecnica per verificare la correttezza di alcune valutazioni fatte in sede di giudizio di anomalia delle offerte nelle pubbliche gare (Cons. St. VI, n. 6607/2006, in cui anche in base alla Ctu è stata accertata l'illegittimità del giudizio di anomalia ed è stato risarcito il danno).

Spetta al soggetto leso provare che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l'interesse azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non interamente reintegrato per effetto della caducazione dell'atto (Cons. St. IV, n. 5012/2004, in cui viene anche confermato che non può valere ad esonerare dalla prova del danno la parte sulla quale incombe il relativo onere, il ricorso, anche su istanza del ricorrente, alla consulenza tecnica d'ufficio).

In materia di appalti, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto e la la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull'ammontare del danno (Cons. St. V, n. 5803/2019, che ha anche però affermato che la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre, peraltro, che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici).

Domanda risarcitoria e giudizio di ottemperanza (rinvio)

Si rinvia al par. Ottemperanza e risarcimento del danno sub art. 112.

In questa sede ci si limita a sottolineare come nel passato In passato si riteneva inammissibile una domanda risarcitoria proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza.

Vi erano poi state alcune aperture della giurisprudenza, tendenti ad ammettere un ricorso cumulativo, proposto in primo grado, contenente sia la richiesta di esecuzione del giudicato sia la domanda risarcitoria (Cons. St. VI, n. 3332/2002).

L'art. 112 del Codice aveva confermato l'ammissibilità in sede di ottemperanza della condanna al risarcimento dei danni successivi al giudicato (comma 3) e aveva ammesso la proponibilità in sede di ottemperanza della domanda risarcitoria «connessa» (comma 4).

In sede di primo correttivo al Codice ( d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195) è poi prevalsa la soluzione di abrogare l'intero comma 4 dell'art. 112 e, contestualmente, di ampliare l'ambito di applicazione del comma 3, che ammette, in sede di ottemperanza, l'azione di risarcimento dei «danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione», in luogo della precedente e più restrittiva formula dei «danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato».

Resta fermo che l'azione risarcitoria ex art. 30 comma 3, di condanna dell'Amministrazione al risarcimento da comportamento o provvedimento illegittimo segue un regime processuale diverso da quello dell'azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato, contemplata in seno al giudizio di ottemperanza dall'art. 112 comma 3. La prima soggiace, infatti, a una differente disciplina processuale, sia in termini di proposizione; sia sotto il rilevante profilo tipologico del rito, che è quello ordinario, con i relativi tempi di calendarizzazione e conseguente fissazione dell'udienza di trattazione del merito (in dipendenza del ruolo e del relativo carico) e di deposito della sentenza e non quello celere e preferenziale dell'ottemperanza, trattata con il rito camerale; sia per il diverso ammontare del contributo unificato; sia sotto il considerevole aspetto del termine decadenziale di proposizione sancito dall'art. 30, comma 3, che, nel caso di specie, di azione non contestuale al ricorso demolitorio, è di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento causativo del danno (T.A.R. Campania, III, 24 ottobre 2016, n. 4866).

Domanda risarcitoria e ricorso avverso il silenzio della p.a. (rinvio)

Si rinvia al commento all'art. 117 e, in particolare, al par. “L'azione risarcitoria”.

Domanda risarcitoria nei confronti della p.a. ed azione diretta contro il pubblico dipendente

L'azione diretta del privato contro il funzionario trova il suo fondamento nell' art. 28 Cost., secondo cui « i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali ed amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti ».

L'azione diretta non è in genere esercitata, in quanto per il terzo è più agevole aggredire il più capiente patrimonio dell'amministrazione senza dover individuare il soggetto persona fisica che ha sbagliato e senza dover dimostrare la sussistenza del più rigoroso requisito della colpa grave, in luogo della colpa anche lieve dell'amministrazione come apparato.

Tuttavia, l'azione diretta è esercitabile dal privato e l'azione va certamente proposta davanti al giudice ordinario per i danni determinati da comportamenti materiali, che non hanno alcun legame con l'esercizio di poteri autoritativi della P.A.

Ammessa la risarcibilità degli interessi legittimi, il termine diritti, di cui all' art. 28 Cost., è stato inteso riferito a qualsiasi situazione giuridicamente protetta vantata dal privato nei confronti della P.A. (Vaiano, 270; Cirillo, 116). Tuttavia, aderendo alla tesi della responsabilità contrattuale da contatto, risulterebbe più difficile configurare la responsabilità del dipendente verso il terzo, se non ipotizzando una responsabilità extracontrattuale del dipendente, comunque estraneo all'obbligazione nascente dal contatto procedimentale (Garri-Giovagnoli, 251).

La giurisprudenza dopo aver inizialmente escluso che, ai sensi dell'art. 28 Cost., i dipendenti dello Stato sono direttamente e personalmente responsabili anche per la lesione di interessi legittimi, oltre che per gli atti compiuti in violazione di diritti (Cons. St. VI, n. 4153/2005), ha poi mutato orientamento escludendo che la responsabilità solidale e diretta dei pubblici dipendenti sia limitata ai soli atti compiuti in violazione di diritti, e non anche in caso di lesione di posizioni di interesse legittimo (Cons. St. VI, n. 3981/2006).

Con riguardo al giudice davanti a cui può essere proposta l'azione diretta contro il funzionario, vi sono state, quasi contestualmente, due pronunce di segno opposto di Consiglio di Stato e Cassazione: il Consiglio di Stato ha affermato che spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo l'azione risarcitoria diretta proposti nei confronti del funzionario pubblico, in quanto l' art. 22 del t.u. n. 3/1957, attuando l'art. 28 della Costituzione, pur non essendo relativo alla giurisdizione, nel prevedere che l'azione di risarcimento nei confronti dell'impiegato possa essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione, presuppone che vi sia un unico giudice avente la cognizione di una domanda risarcitoria, che può essere proposta in solido nei confronti di diversi soggetti, amministrazione e dipendenti (Cons. St. VI, n. 3981/2006); la Cassazione ha, invece, affermato che appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario cui è imputata l'adozione di un provvedimento illegittimo, in quanto fondata sulla deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e intercorrente tra privati, essendo il dipendente soggetto distinto dalla amministrazione e non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, attenendo al merito l'effettiva riferibilità all'ente dei comportamenti dei funzionari (Cass.  S.U., n. 13659/2006; Cass.  S.U., n. 19677/2016; Cass. S.U., n.19170/2017;  Cass. S.U., n. 19372/2019).

Resta ferma la giurisdizione della Corte dei Conti sulla azione di responsabilità contabile nei confronti del dipendente di un'amministrazione, che ha provocato danni, anche indiretti, alla p.a. (Cass. S.U., n. 24859/2019 ha precisato che poiché l'azione davanti al giudice contabile non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra l'amministrazione e il soggetto danneggiante, la singola P.A. danneggiata ben può promuovere dinanzi al giudice ordinario l'azione civilistica di responsabilità a titolo risarcitorio, facendo valere il proprio interesse particolare e concreto in relazione agli scopi specifici che essa persegue, non essendo neppure in astratto ipotizzabile che la P.A. non possa agire in sede giurisdizionale a tutela dei propri diritti).

Cass. I, n. 7012/2025 ha affermato che deve essere esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. equando colui che agisce ex art. 2041 c.c. ha a disposizione anche l'azione diretta nei confronti dei funzionari o degli amministratori dell'ente locale, tenuto conto della sussidiarietà dell'azione di arricchimento, sancita dall'art. 2042 c.c.

Una particolare disciplina della responsabilità civile è prevista per i magistrati dalla legge 13 aprile 1988 n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), con cui, oltre ad una tipizzazione delle ipotesi di colpa grave, è stata esclusa l'azione diretta nei confronti del magistrato e prevista la sola azione nei confronti dello Stato con successiva azione di rivalsa di quest'ultimo nei confronti del magistrato, esperibile davanti al g.o., e non alla Corte dei Conti, e limitata nel quantum ad eccezione dei casi di condotte poste in essere con dolo.

La responsabilità del giudice venne prevista per i casi di dolo o colpa grave, consistente, quest'ultima, in una grave violazione di legge conseguente a negligenza inescusabile o in un errore percettivo, consistente nell'affermazione di un fatto incontestabilmente inesistente o, per converso, nella negazione di un fatto incontestabilmente esistente e l'azione giudiziaria venne sottoposta ad un preventivo vaglio di ammissibilità nel termine di due anni dal fatto; era, inoltre esclusa la responsabilità civile del giudice per l'attività di interpretazione della legge e per quella di valutazione del fatto e delle prova.

Sui danni causati nell'esercizio dell'attività giurisdizionale è intervenuta anche la Corte di Giustizia con sentenze che riguardano esclusivamente la responsabilità dello Stato.

Con la prima pronuncia in materia, la Corte di Giustizia ha affermato che “La responsabilità dello Stato per danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che viola una norma di diritto comunitario può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente (Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, Köbler/Repubblica austriaca, causa C-224/01).

Nella stessa sentenza, tuttavia, veniva subito precisato che “il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l'indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado” (punto 42).

Tale principio è stato successivamente ribadito con la precisazione che “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.” (Corte Giust., 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo S.P.A., C-173/03).

Il principio è sempre stato riferito alla responsabilità dello Stato, e non del giudice ed, infatti, la successiva procedura di infrazione contro l'Italia ha avuto ad oggetto l'inadempimento del nostro Stato rispetto agli obblighi comunitari per non aver modificato la disciplina che esclude qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo. (Corte giustizia UE., 24 novembre 2011, C-379/10).

A seguito di tali pronunce è stata portata a termine con la legge 27 febbraio 2015 n. 18 una profonda modifica della legge n. 117/88, con cui il legislatore non si è limitato ad ampliare la responsabilità dello Stato, come chiedeva la Corte di Giustizia, ma esteso i casi di responsabilità civile dei magistrati.

In particolare, la recente riforma ha introdotto incisive novità tra le quali la risarcibilità del danno non patrimoniale per qualsivoglia ipotesi di errore giudiziario, l'eliminazione del precedente filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria e l'aumento del termine per proporre tale azione sino a tre anni, l'obbligo della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del giudice responsabile, l'aumento della misura di tale rivalsa fino alla metà del suo stipendio annuale. La responsabilità del magistrato per colpa grave è, inoltre, ora configurabile anche nella manifesta violazione della legge italiano o del diritto europeo (quindi, anche per errori nell'attività di interpretazione del diritto) o nel travisamento dei fatti e delle prove.

La nuova disciplina non si adegua affatto ad un modello europeo della responsabilità civile dei magistrati, che si limitava a richiedere la responsabilità dello Stato e non quella del giudice; né si pone in sintonia con la generalità degli altri ordinamenti continentali, che non conoscono una forma tanto aggravata di responsabilità; né con le raccomandazioni degli organismi internazionali (ONU e Consiglio d'Europa), che vanno nella direzione opposta a quella seguita dal nostro legislatore. Ovunque prevale il principio che la responsabilità del giudice deve essere specificamente regolata per tutelare la indipendenza del magistrato soprattutto quando si confronta con le parti economicamente più forti.

Si va dalla immunità assoluta propria dei Paesi di Common Law (Usa, Gran Bretagna, Canada) ai Paesi Bassi, dove la responsabilità è comunque esclusa. In Francia e Germania le norme prevedono limitazioni della responsabilità molto più rigorose anche di quelle della precedente legge italiana n. 117 del 1988.

L'azione risarcitoria nel processo penale

Ai sensi dell' art. 74 c.p.p., « l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all' art. 185 del codice penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell'imputato e del responsabile civile ». Nei casi in cui l'atto amministrativo illegittimo costituisca al contempo elemento implicante la responsabilità penale del dipendente e quella risarcitoria dell'Amministrazione, al privato leso si prospetterebbe, quindi, l'alternativa tra l'azione civile nella sede propria e la costituzione di parte civile contro la P.A., responsabile civile per il fatto del dipendente imputato.

È stata tuttavia ritenuta l'inammissibilità della proposizione in sede penale della domanda di risarcimento di un danno derivante da un provvedimento amministrativo illegittimo, in quanto la norma riguarderebbe solo le ipotesi di trasferimento dell'azione dal giudizio civile a quello ordinario, nell'ambito della giurisdizione ordinaria; tale tesi risponde anche all'esigenza di evitare che l'amministrazione possa essere costretta ad assumere, nel giudizio penale, la duplice ed antitetica veste processuale di parte civile contro il proprio dipendente e di responsabile civile per i danni dallo stesso arrecati a terzi (Garofoli, Racca, De Palma, 457). La tesi presuppone l'ammissibilità della proposizione dell'azione civile del privato contro il funzionario, sempre che questa venga ritenuta appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario.

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