Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 35 - Pronunce di rito

Roberto Chieppa

Pronunce di rito

 

1. Il giudice dichiara, anche d'ufficio, il ricorso:

a) irricevibile se accerta la tardività della notificazione o del deposito;

b) inammissibile quando è carente l'interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito;

c) improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione, o non sia stato integrato il contraddittorio nel termine assegnato, ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito.

2. Il giudice dichiara estinto il giudizio:

a) se, nei casi previsti dal presente codice, non viene proseguito o riassunto nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice;

b) per perenzione;

c) per rinuncia.

Inquadramento

L'art. 35 elenca le varie pronunce di rito che possono essere pronunciate dal giudice amministrativo e la disposizione si contrappone alle sentenze di merito, oggetto dell'art. 34.

Tra queste pronunce è codificata la declaratoria di improcedibilità del ricorso, già individuata in precedenza dalla giurisprudenza e che è appunto una pronuncia in rito, che va distinta dalla cessazione della materia del contendere, che è invece una pronuncia di merito (v. art. 34).

Il secondo comma dell'art. 35 indica i casi di estinzione del giudizio.

Tipologia delle pronunce di rito

Con le pronunce di rito il ricorso è deciso sulla base di una delle seguenti questioni preliminari:

A) dichiarazione di irricevibilità del ricorso per tardività della notificazione o del deposito.

La sanzione dell'irricevibilità è estesa all'ipotesi di deposito tardivo dell'atto oltre a quella tradizionale della tardività della notifica.

B) dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse o quando sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito, come il difetto di giurisdizione con indicazione della giurisdizione competente, a meno che non si tratti di difetto assoluto.

C) Il ricorso va dichiarato inammissibile quando è carente l'interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito La sentenza dichiarativa della inammissibilità del ricorso ha ad oggetto l'accertamento della insussistenza di una delle condizioni dell'azione, quale la situazione soggettiva che si assuma lesa, l'interesse all'azione e la legittimazione, o di un presupposto processuale, quale la giurisdizione o la competenza funzionale (Paolantonio, 549).

D) dichiarazione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (benché non prevista in passato dal legislatore, tale pronuncia viene adottata quando l'interesse, originariamente sussistente, viene meno nel corso del giudizio; ad es., quando il ricorrente dichiara che non ha più interesse o quando un atto sopravvenuto non contestato e a lui sempre sfavorevole fa venire meno l'interesse all'annullamento del primo provvedimento). L'improcedibilità è ora codificata nei casi in cui nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione, o non sia stato integrato il contraddittorio nel termine assegnato, ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito

Omessa impugnazione dell'atto consequenziale e inammissibilità

Secondo un orientamento tradizionale il ricorso veniva dichiarato inammissibile (o secondo alcuni improcedibile) quando era chiesto l'annullamento di un atto presupposto in caso di omessa impugnazione del successivo e conseguenziale provvedimento.

Appare più coerente con l'evoluzione del processo amministrativo, il cui oggetto si è progressivamente spostato dall'atto alla pretesa sostanziale, ritenere che l'annullamento dell'atto presupposto comporti l'automatica caducazione dell'atto conseguenziale, ad eccezione delle fattispecie in cui con l'atto posteriore sia stato conferito un bene o una qualche utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l'atto presupposto (cfr. Cons. St. VI, n. 1948/2007; Cons. St. VI, n. 5677/2001).

Tale indirizzo non è indebolito dall'introduzione nel processo amministrativo del rimedio dell'opposizione di terzo, in seguito alla sentenza della Corte cost. n. 177/1995, in quanto proprio il riconoscimento di un rimedio successivo di reazione conferma la necessità di efficaci meccanismi preventivi di partecipazione, che evitino conflitti risolvibili con l'opposizione di terzo.

Improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse

Prima dell'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo era stato ritenuto che l'istituto della sopravvenuta carenza di interesse, istituto di carattere pretorio, doveva intendersi sopravvissuto alla riforma introdotta nel processo amministrativo dalla l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nonostante che detta legge, all'art. 23, facesse menzione solo della cessazione della materia del contendere formula stabilita per il caso in cui l'amministrazione, entro il termine per la fissazione dell'udienza di discussione, annulla o riforma l'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente.

Il sopravvenuto difetto di interesse riguarda infatti, in senso più ampio, le ipotesi in cui l'atto impugnato abbia comunque cessato di produrre i suoi effetti (persino nel caso in cui sia stato sostituito da altro atto identico a seguito di rinnovazione del procedimento), o il processo non possa per qualsiasi motivo produrre un risultato utile per il ricorrente.

In assenza di una specifica volizione del ricorrente — che dichiari l'intervenuta estinzione del proprio interesse azionato —, la revoca dell'atto impugnato non implica di per sé l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse in tutti i casi in cui la decisione richiesta sia comunque idonea a far conseguire il soddisfacimento della pretesa sostanziale, anche in relazione ad ulteriori attività amministrative ( Cons. St. V, n. 4577/2000).

È improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l'appello incidentale proposto in via subordinata dai controinteressati in primo grado, a seguito della reiezione dell'impugnazione proposta dagli originari ricorrenti avverso la sentenza che già in prime cure aveva disatteso la loro azione proposta in via principale ( Cons. St. V, n. 353/2002).

La carenza di interesse in ordine all'annullamento del provvedimento originariamente impugnato, sopravvenuta nelle more del giudizio di appello, comporta la dichiarazione di improcedibilità, non soltanto dell'appello, ma altresì dell'originario ricorso proposto davanti al giudice di primo grado e determina, qualora non si verta in ipotesi di vizio o difetto inficiante la sola fase di appello, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ( Cons. St. IV, n. 2031/2002).

L'art. 35 ha codificato tra le pronunce di rito l'improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse.

In merito all'effetto estintivo del giudizio a causa della declaratoria di improcedibilità, la sopravvenuta estinzione dell'interesse azionato, che di tal declaratoria è il presupposto, ha un regime ben diverso dalla rinuncia, ai sensi del combinato disposto dell'art. 34, comma 3 e dell'art. 35, comma 1, lett. c). Nel processo innanzi al g.a., infatti, la predetta declaratoria può essere pronunciata al verificarsi di una situazione di fatto o di diritto nuova, che comunque muta radicalmente la situazione esistente al momento della proposizione del ricorso e che sia tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, per aver fatto venir meno per il ricorrente o per l'appellante qualsiasi residua utilità della pronuncia sulla domanda azionata, foss'anche soltanto strumentale o morale. Dunque la carenza sopravvenuta va accertata e dichiarata dal g.a. e non è nella solitaria determinazione potestativa del ricorrente, spettando al primo indagarne i presupposti con il massimo rigore, e non al secondo a pretenderne la pronuncia, per evitare che la declaratoria d'improcedibilità si risolva in una sostanziale elusione dell'obbligo di pronunciare sulla fondatezza, o meno, della domanda. Cons. St. III, n. 1534/2013.

Ai sensi dell'articolo 35, il giudice amministrativo deve dichiarare — anche d'ufficio — il ricorso improcedibile «quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione (...) ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito». Tale disposizione legislativa deve essere ricollegata alla tradizionale nozione di interesse al ricorso (e alla relativa decisione) intesa come l'utilità concreta che il ricorrente, nella situazione giuridica e di fatto in cui versa, si ripromette di ottenere dall'accoglimento del ricorso, sia pure in via indiretta e strumentale.

Segue. Differenza tra cessazione della materia del contendere e improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse?

Secondo Cons. St. IV, n. 4165/2005, la cessazione della materia del contendere può essere dichiarata solo quando l'amministrazione annulli o riformi, in senso conforme all'interesse del ricorrente, il provvedimento da questi impugnato; mentre la declaratoria di improcedibilità di un ricorso giurisdizionale per sopravvenuta carenza di interesse può derivare o da un mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della presentazione del ricorso, che faccia venir meno l'effetto logico del provvedimento impugnato, ovvero dall'adozione, da parte dell'amministrazione, di un provvedimento, che idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco, pur senza avere alcun effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente, sia tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza. La cessazione della materia del contendere si verifica, dunque, solo quando alla lite instaurata sopravvenga un provvedimento che sia atto ad eliminare ogni ragione del contendere tra le parti, nel senso che dallo stesso derivi all'originario ricorrente ogni risultato utile, giuridicamente apprezzabile, per il conseguimento del quale egli aveva in precedenza chiesto l'intervento del giudice.

Non cessa la materia del contendere ma il ricorso giurisdizionale diviene improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse nel caso in cui il sopravvenuto mutamento normativo produca un diverso assetto della materia della controversia ed alteri l'efficacia dei provvedimenti impugnati, incidendo sugli interessi dedotti dalle parti ed elidendo l'utilità della decisione della controversia.

La cessazione della materia del contendere non è formula istituzionalizzata di terminazione del processo civile od amministrativo, ma solo il riflesso processuale del mutamento della situazione sostanziale, quando questa dà luogo al venir meno della ragion d'essere della lite, in forza di un fatto sopravvenuto che priva i litiganti di ogni interesse a proseguire il giudizio e del quale le parti devono dare atto al giudice mediante contemporaneo e conforme mutamento delle conclusioni definitive nel processo civile, e delle loro domande nel processo amministrativo; se, invece, nonostante la sopravvenienza il ricorrente concluda per l'accoglimento della domanda come originariamente proposta, il giudice non può terminare la sentenza con un provvedimento sulle sole spese, ma dovrà pronunciare l'improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse ovvero l'accoglimento se tale interesse permanga ( Cons. St. VI, n. 603/2003). La pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse di cui all'art. 35 comma 1 lett. c), e quella di cessazione della materia del contendere in parte prevista dall'art. 26, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 costituiscono decisioni di rito che, ancorché comunemente accostate, si differenziano nettamente tra loro per la diversa soddisfazione dell'interesse leso; la sopravvenuta carenza di interesse può infatti essere conseguenza anche di una valutazione esclusiva dello stesso soggetto, in relazione a sopravvenienze anche indipendenti dal comportamento della controparte e, qualora sia determinata dal sopravvenire di un nuovo provvedimento, questo non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la p.a. e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato ( Cons. St. IV, n. 5317/2012).

Rinuncia

La parte appellata, vittoriosa in primo grado, non può ottenere l'estinzione del giudizio di appello — che farebbe passare in giudicato la sentenza impugnata — semplicemente dichiarando di non avere più interesse alla decisione perché sarebbe cessata la materia del contendere, in quanto tale cessazione richiede un provvedimento formale con cui l'Amministrazione, in pendenza del giudizio, annulli o comunque riformi in maniera satisfattoria per il ricorrente il provvedimento amministrativo contro cui è stato proposto il ricorso.

In mancanza di tale provvedimento, l'effetto estintivo del giudizio di impugnazione può ottenersi solamente attraverso una formale ed espressa rinuncia da parte dell'appellato vittorioso tanto al ricorso di primo grado quanto agli effetti della sentenza favorevole, mediante atto notificato alla controparte.

L'atto di rinuncia all'impugnazione — se irritualmente presentato e non notificato— vale comunque ad evidenziare la sopravvenuta carenza d'interesse del ricorrente alla decisione del ricorso.

Sulla necessità che la parte appellata vittoriosa in primo grado rinunci formalmente al ricorso di primo grado, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza gravata ( Cons. St. IV, n. 553/2005).

Qualora, nel corso del giudizio dinanzi all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sia depositato atto di rinuncia all'appello, in omaggio al principio dispositivo, cui è ispirato anche il processo amministrativo, l'Adunanza Plenaria deve prendere atto della predetta rinuncia, cui consegue la declaratoria di improcedibilità dell'appello per sopravvenuta carenza di interesse ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. c), (non potendo invece pronunciarsi l'estinzione, ai sensi dell'art. 35, comma 2, lett. c), in mancanza della rituale prova della consegna dell'atto di rinuncia, notificato a mezzo del servizio postale, alle controparti), Cons. St.,Ad. plen., n. 25/2012.

Estinzione del giudizio

Sono equiparate alle decisioni in rito, in quanto chiudono il giudizio senza un esame del merito della controversie, le decisioni con cui il giudice dichiara l'estinzione del giudizio, dando atto della rinuncia al ricorso, regolarmente notificata alle controparti, o in caso di perenzione o quando il giudizio non viene proseguito o riassunto nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice.

La perenzione agisce sull'atto di esercizio dell'azione, e non sul diritto d'azione, con la conseguenza che, quando esso ha le caratteristiche dell'atto collettivo, ad impedire il verificarsi di tale causa estintiva è sufficiente che l'istanza prevista dell'art. 9 comma 2, l. 21 luglio 2000 n. 205 sia formulata e sottoscritta da una sola delle parti ricorrenti, trattandosi di atto svolto con scopi conservativi di una situazione soggettiva attiva imputabile a tutti i ricorrenti collettivi, mentre la mancata sottoscrizione degli altri ricorrenti collettivi potrebbe essere autonomamente apprezzata come sopravvenuto difetto d'interesse all'azione e quindi per loro deve essere emessa una pronuncia di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione ai sensi dell'art. 35 comma 1 lett. c), ( Cons. St. V, n. 5344/2014).

Bibliografia

Paolantonio, Pronunce giurisdizionali, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 534; Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, Relazione al 56° Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 23-25 settembre 2010, in giustizia-amministrativa.it.

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