Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 1 - Effettivita'

Roberto Chieppa

Effettività

 

1. La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.

Inquadramento

Il primo Capo del Libro I del Codice del processo amministrativo è dedicato ai principi generali con una impostazione non conosciuta negli altri Codici.

I principi generali del Codice del processo amministrativo svolgono la funzione di criteri interpretativi delle altre disposizioni, da utilizzare per dare una soluzione anche a questioni non normate, prima di ricercare tale soluzione all'esterno del Codice (tramite il rinvio al c.p.c.).

Il principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale è il principio guida dell'intero Codice e l'interprete deve sempre scegliere tra più soluzioni quella che garantisce la migliore attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Il richiamo ai principi del diritto europeo va riferito ai principi sia dell'Unione europea, sia della Cedu, che il giudice deve utilizzare quali criteri interpretativi.

Il valore dei principi generali

I principi generali mirano a costituire per l'interprete gli elementi di fondo, caratterizzanti la disciplina del processo amministrativo.

L'individuazione di alcuni principi generali, riferibili alla giustizia ed al processo amministrativo e già in parte contenuti in dati positivi, derivanti dal diritto europeo e costituzionale, ha lo scopo di fornire un ausilio, all'interprete e al giudice, per definire le controversie che non possano essere decise applicando una precisa disposizione o disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe.

Al riguardo, l'art. 39 del Codice contiene un rinvio esterno, che è stato opportunamente riferito alla applicabilità delle disposizioni del c.p.c. per quanto “non disciplinato” dal Codice (e non “per quanto non espressamente previsto”, come indicato in un primo testo della bozza di Codice).

Il rinvio al codice di procedura civile per quanto non espressamente previsto avrebbe attenuato l'autonomia del Codice da quello di procedura civile, in quanto l'interprete avrebbe dovuto solo verificare se una questione processuale era risolta espressamente dal Codice del processo amministrativo e, in caso contrario, passare all'applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

L'art. 39 determina, invece, che dopo la ricerca della soluzione della questione tra le previsioni espresse del Codice, l'interprete debba dapprima ricercare se dai principi contenuti nel Capo I o comunque desumibili dal Codice si possa trovare la corretta definizione del problema processuale.

I principi hanno poi l'ulteriore funzione — propria come è noto delle clausole generali — di dotare il sistema di una sorta di valvola, aperta verso la realtà sociale, in grado di indirizzare l'interprete ed il giudice verso un costante adattamento del diritto positivo alle finalità fondamentali che il legislatore ha voluto conseguire con la codificazione.

Tale adattamento ha costituito una costante nella evoluzione del processo amministrativo: al centro della tutela deve, quindi, essere posto il cittadino e in questo senso si è diretto il processo amministrativo secondo un percorso evolutivo durato negli anni.

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale

Fin dall'entrata in vigore del T.U. della legge sul Consiglio di Stato ( r.d. n. 1054/1924), e anche dopo la legge istitutiva dei T.A.R. ( legge n. 1034/1971), a differenza del processo civile, il processo amministrativo è stato retto da poche regole e ciò ha consentito che, anche a normativa immutata, il giudice amministrativo avesse un maggiore margine per adattare tali regole e costruirne in via pretoria di nuove, al fine della ricerca di strumenti di tutela sempre più effettivi.

Tale evoluzione è stata tuttavia graduale ed ha subito anche dei momenti di arresto nel corso degli anni ed è partita da un modello di processo, ovviamente impugnatorio, in cui la tutela risultava spesso di tipo formale.

Nel passato, molte delle decisioni di annullamento risultavano in concreto inidonee a fornire al cittadino una tutela effettiva, in quanto l'amministrazione poteva, dopo l'annullamento, riesercitare il potere nello stesso modo previa correzione del profilo formale viziante accertato dal giudice (ad es., con una motivazione più estesa).

Ciò determinava che spesso la pretesa sostanziale, che giustificava l'interesse all'azione di annullamento, non veniva alla fine soddisfatta ed era in passato priva di una tutela in via risarcitoria.

Tali difficoltà nell'erogare una tutela effettiva hanno spinto il giudice amministrativo a ricercare tecniche di sindacato della discrezionalità amministrativa più incisive, attraverso una attenta verifica dei fatti oggetto del procedimento amministrativo e mediante l'utilizzo di figure sintomatiche di tipo intrinseco, quali la logicità, la ragionevolezza e la proporzionalità del provvedimento amministrativo.

Nell'ambito di tale evoluzione l'effettività della tutela è stato il principio cardine che ha guidato le decisioni del giudice amministrativo.

Effettività della tutela e oggetto del processo amministrativo.

Il principio dell'effettività della tutela è stato perseguito anche attraverso un più stretto legame tra la motivazione delle decisioni del giudice e il loro contenuto dispositivo. Mentre il dispositivo è restato legato al modello impugnatorio, risolvendosi — in caso di accoglimento del ricorso — nell'annullamento dell'atto impugnato, è dal contenuto della motivazione delle sentenze che dipende il reale effetto conformativo delle pronunce del giudice, intendendosi per questo gli obblighi di esecuzione della sentenza che gravano sulla p.a. Ad un dispositivo identico (“annulla l'atto impugnato”) possono corrispondere effetti conformativi profondamente diversi: un annullamento per un vizio della motivazione, obbliga l'amministrazione solo a rimotivare l'atto, ben potendo in tale sede determinarsi in modo diverso, e favorevole per il privato, ma non essendo obbligata in tal senso; al contrario un annullamento disposto sulla base del riconoscimento della spettanza al privato del bene della vita richiesto (ad es., l'edificazione) comporta il ben più rilevante effetto conformativo del rilascio del provvedimento, qualora ciò non sia impedito da sopravvenienze.

L'evoluzione del processo amministrativo e la trasformazione di alcuni dei suoi istituti è stata tutta diretta ad arrivare ad assicurare al privato tale effetto conformativo, a consentirgli di conseguire il bene della vita cui aspira.

In questo senso, è stato più volte affermato che l'oggetto del processo amministrativo, pur rimanendo formalmente ancorato al modello impugnatorio, si sia spostato (o si stia spostando) dall'atto impugnato al rapporto controverso.

Tale affermazione può essere in sé fuorviante, in quanto per giudizio sul rapporto si intende quel giudizio, in cui a fronte di una controversia interviene il giudice, che stabilisce quale è l'assetto degli interessi corretto, attribuendo il bene della vita controverso a questo o a quella parte del processo (nel giudizio sul rapporto, dopo la presentazione del ricorso, è il giudice che decide sostituendosi alla p.a. anche per la parte di attività non ancora svolta); tuttavia, non è questo il modello del nostro processo amministrativo, in cui al giudice amministrativo non spetta sostituirsi all'amministrazione, ma compete verificare se il potere sia stato esercitato in modo legittimo, o meno, dalla p.a..

In tale verifica, il giudice deve tendere, per quanto possibile, ad accertare la fondatezza, o meno, della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, non fermandosi all'esame dei vizi solamente formali, ma spingendo oltre nei limiti dei vizi dedotti con il ricorso; è evidente che un ricorso proposto con la deduzione del solo vizio del difetto di motivazione, o di altro vizio procedimentale o formale, non consentirà al giudice amministrativo di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, ma quando le censure coinvolgono tale aspetto, è compito, e anzi dovere, del giudice procedere a tale accertamento.

In applicazione del principio sancito dall'art. 1 del Codice del processo amministravo (sulla ‘tutela piena ed effettiva'), il giudice può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive dell'interesse fatto valere e deve interpretare coerentemente ogni disposizione processuale. Cons. St. VI, n. 2755/2011.

In omaggio ai canoni costituzionali e comunitari di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall'art. 1, la portata dell'obbligo comportamentale sancito dal precetto giudiziario non può essere sganciato dall'apprezzamento dell'interesse sostanziale al quale è preordinata la proposizione del ricorso. Ne deriva che, anche a fronte di una sentenza che si limita all'annullamento della procedura con effetto di riedizione, senza spingersi al giudizio sulla fondatezza della pretesa al conseguimento diretto dell'aggiudicazione, l'amministrazione è tenuta, onde soddisfare l'interesse del ricorrente vittorioso, non solo a ripetere la procedura emendandola dai vizi colti dalla sentenza ma anche, in caso di esito favorevole al ricorrente del procedimento, ed ove non sussistano ragioni ostative debitamente esternate, ad adottare gli atti, consequenziali all'aggiudicazione, necessari allo scopo di assicurare al ricorrente medesimo l'“id quod interest”. Cons. St. V, n. 6688/2011.

L'effettività della tutela giurisdizionale di cui all' art. 1 c.p.a., implica che il Commissario ad acta/ausiliario del giudice, nominato in sostituzione dell'amministrazione rimasta inerte, porti a conclusione il procedimento amministrativo sostituendosi in tutte le eventuali varie competenze dell'ente sostituito, al fine di giungere all'adozione del provvedimento amministrativo conclusivo e soddisfare così l'istanza del privato ricorrente. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 4 dicembre 2012, n. 1075.

In dottrina è ancora attuale la questione della idoneità del nostro sistema di giustizia amministrativa ad assicurare una tutela effettiva ad una situazione di interesse legittimo e, pur riconoscendo che il singolo giudizio amministrativo può non essere in grado di accertare compiutamente il rapporto, definendo una volta per tutte (“one shot”) la controversia, si osserva che si tratta di una necessità fisiologica, correlata alle vicende sostanziali dell’interesse legittimo, che talvolta costituisce una fattispecie a formazione progressiva, a conclusione della quale il g.a. è in grado di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale, anche nei casi più complessi, relativi agli interessi legittimi pretensivi (Greco, Interesse legittimo).

 

Pienezza della tutela.

L'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale può arrivare a volte “fuori tempo massimo”, quando il c.d. bene della vita non è più conseguibile (ad es., appalto già eseguito; edificazione non più possibile) e in questi casi la tutela per essere effettiva deve essere piena, ovvero estesa anche all'aspetto risarcitorio.

La tutela offerta dal giudice amministrativo non poteva essere considerata piena quando in passato il giudice aveva a disposizione solo lo strumento dell'annullamento dell'atto e non anche quello della condanna al risarcimento del danno.

Effettività della tutela e disciplina delle azioni.

Il tratto distintivo dell'evoluzione del processo amministrativo è stato la ricerca dell'effettività della tutela giurisdizionale ( art. 24 Cost.) e tale evoluzione è stata consacrata proprio con l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo e con la codificazione dei principi generali, primo fra tutti quello dell'effettività e della pienezza della tutela.

Il principio di effettività e di pienezza della tutela trova una ricaduta immediata nella disciplina delle azioni che si articola nel libro primo, configurando forme di tutela di ricchezza ed estensione del tutto analoghe alle forme di tutela esistenti nel processo civile, con le specificità necessarie alla natura delle vicende trattate dalla giurisdizione amministrativa che si caratterizzano pur sempre per la presenza del pubblico potere (v. artt. 27 e ss.)

La codificazione ha avuto come scopo l'effettività e l'effettività è il principio che connota il nuovo processo amministrativo.

Va, infine, ricordato che il principio dell'effettività è intimamente collegato ad altri principi: l'effettività della tutela risulterebbe ad esempio attenuata in assenza della certezza del diritto, chiaro indice di affidabilità di un sistema; l'interprete (il giudice in primo luogo) deve sempre tendere verso una interpretazione certa ed uniforme.

Entrambi i principi verrebbero poi vanificati se la decisione del giudice arriva oltre un ragionevole tempo di attesa (sul punto v. art. 2).

I principi del diritto europeo

L'art. 1 ha richiamato, accanto ai principi costituzionali, i principi del diritto europeo.

Con tale espressione si è inteso fare riferimento ai principi sia dell'Unione europea, sia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (Cedu).

Viene confermata quella tendenza dell'ordinamento a strutturarsi come un sistema connotato dall'esistenza di una rete europea di garanzie costituzionali e processuali, da tribunali sovranazionali e nazionali, che interagiscono come giurisdizioni appartenenti a sistemi differenti ma tra loro collegati.

È stato rilevato come negli ultimi decenni il diritto sovranazionale ha acquisito una forza sempre più pervasiva rispetto alle fonti nazionali (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 53 e ss.).

L' art. 117, comma 1, Cost. (dopo la modifica costituzionale del 2001) ha previsto che la potestà legislativa si esercita nel rispetto, oltre che della Costituzione e del diritto comunitario, anche degli “obblighi internazionali”.

Essa, secondo l'interpretazione ormai più accreditata (recepita anche dalla Corte costituzionale a partire dal 2007), ha dato luogo ad una costituzionalizzazione degli obblighi internazionali anche di fonte pattizia (è appena il caso di ricordare che la costituzionalizzazione degli obblighi internazionali di fonte consuetudinarie già era sancita dall' art. 10 Cost. che rinvia alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute). Le norme degli accordi internazionali diventano, in questo modo, norme interposte nel giudizio di costituzionalità e la loro violazione determina l'incostituzionalità della legge per violazione (indiretta) dell' art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost. n. 347/2007 e Corte cost. n. 348/2007).

Si tratta di una soluzione di grande impatto, perché ha come conseguenza che qualsiasi accordo internazionale può condizionare l'esercizio della funzione legislativa, al punto di rendere la legge con esso configgente incostituzionale. In passato, al contrario, si riteneva che gli accordi internazionali avessero lo stesso rango dell'atto normativo (normalmente, ma non necessariamente, la legge), mediante i quali venivano recepiti nell'ordinamento nazionale (Chieppa-Giovagnoli, Manuale 53 e ss.).

Segue. I principi del diritto dell'Unione europea

Tale evoluzione del diritto amministrativo era fino ad un recente passato inimmaginabile: il diritto amministrativo è figlio dello Stato e una conseguenza del carattere essenzialmente statale del diritto amministrativo è stata per anni l'assenza di un diritto amministrativo internazionale e di una disciplina globale dei diritti amministrativi nazionali (Cassese, 35).

Come osservava uno dei fondatori del diritto amministrativo tedesco, nei suoi territori il potere pubblico nazionale è padrone, ad esclusione di ogni altro; solo a titolo eccezionale l'azione di una potenza straniera può essere considerata valida sul territorio di un altro Stato (Mayer, 354).

Tale tradizionale impostazione (rigorosamente nazionale) del diritto amministrativo ha subito l'irrompere del diritto dell'Unione europea, che con il suo crescente influsso sugli ordinamenti nazionali ha finito per mettere in crisi il sistema e ha condotto alla creazione di un diritto amministrativo europeo.

È stata evidenziata “la lenta ma costante formazione di un diritto comune” (Gambino, 64), in cui i principi generali di diritto amministrativo, “pur trovando origine nei sistemi amministrativi nazionali, vengono ora a presentare profili almeno in parte modificati, ma anche, per così dire, rinforzati a seguito della rielaborazione subita nell'ambito comunitario” (Massera, 332).

Il diritto amministrativo europeo diventa così espressione “di un emergente ius commune administrativum, che riceve il suo particolare stimolo dallo scambio reciproco tra diritto comunitario e diritti nazionali” (Weber, 589)

Da un lato, il diritto comunitario influenza i diritti amministrativi nazionali, sia in via diretta attraverso la sostituzione di proprie regole e istituti a quelli del diritto interno, sia indirettamente favorendo la convergenza tra i diritti amministrativi nazionali (Greco, Incidenza del diritto, 936; Torchia, 846; Picozza, 19).

Sotto il versante opposto, i diritti nazionali contribuiscono a creare principi e regole comunitarie, innescando un processo di integrazione, o meglio di armonizzazione, “circolare”, definito anche di cross fertilization (Sandulli, 73), in cui il confronto tra i diversi istituti di diritto amministrativo, vigenti negli Stati membri, contribuisce a creare la regola comunitaria, che a sua volta influisce sull'interpretazione delle norme interne (Chiti, 182).

Segue. I principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu)

Il processo di armonizzazione, ormai collaudato per il diritto dell'Unione europea, si è progressivamente esteso ai principi del diritto europeo derivanti dalla Cedu.

Il termine “diritto europeo” appare il più idoneo a rappresentare tale fenomeno ed è stato preferito ad altre espressioni ipotizzate, quali “i principi del diritto dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa” nel cui ordinamento è incardinata la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu).

In conseguenza del richiamo operato dal Codice, i principi dellaCedu divengono direttamente applicabili dal giudice interno, ove non si renda necessario un controllo di costituzionalità sulla norma interna incompatibile con la norma europea

La giurisprudenza costituzionale ha ritenuto vincolante nell'ordinamento interno la Cedu, ma ha ritenuto che la prevalenza sulle leggi interne passi attraverso un tentativo di interpretazione conforme, seguito non dalla disapplicazione, ma dal classico schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta; in questo caso la Cedu si configura quale norma interposta che integra il parametro dell' art. 117, comma 1, Cost., così come si riteneva che il diritto comunitario integrasse il parametro dell'art. 11 negli anni '70, prima di ammettere la disapplicazione (Corte cost. n. 348 e n. 349/2007, cui hanno fatto seguito Corte cost. n. 39/2008; Corte cost. n. 311/2009 e Corte cost. n. 317/2009; Corte cost. n. 136/2010, Corte cost. n. 187/2010 e Corte cost. n. 196/2010; Corte cost. n. 1/2011; Corte cost. n. 113/2011; sulla perdurante validità di questa ricostruzione dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, v. Corte cost. n. 80/2011).

La Corte ha chiarito che « l' art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l' art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della Cedu, si traduce in una violazione dell' art. 117, primo comma, Cost.

La Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica.

Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all'applicazione della norma della Cedu (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la Cedu, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell' art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell' art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall' art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto » (in questi termini Corte cost. n. 311/2009, § 6 Cons. diritto).

In sostanza, la Corte costituzionale ha affermato che l'espressione “obblighi internazionali”, contenuta nell'art. 117, comma 1, Cost., si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l' art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della Cedu, si traduce in una violazione dell' art. 117, primo comma, Cost. (Corte cost. n. 311/2009 e successivamente Corte cost. n. 93/2010).

La Corte ha, inoltre, precisato che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica; con l' art. 1 del c.p.a. tale dovere di interpretazione conforme è confermato e rafforzato dal richiamo ai principi del diritto europeo.

Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all'applicazione della norma della Cedu (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la Cedu, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (v. anche Corte cost. n. 239/2009), con riferimento al parametro dell' art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell' art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall' art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto.

Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta alla Corte costituzionale il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma Cedu, dal momento che la diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione europea all'art. 53. In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell' art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della Cedu.

Alla Consulta è precluso di sindacare l'interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete di verificare se la norma della Cedu, nell'interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme costituzionali e il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l'operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell' art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta — allo stato — l'illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento.

La Corte costituzionale ha, infatti, reiteratamente affermato di non poter sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo: le norme della Cedu, quindi, devono essere applicate (anche dai giudici comuni) nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. n. 113/2011 e Corte cost. n. 1/2011; Corte cost. n. 93/2010; Corte cost. n. n. 311/2009 e Corte cost. n. 239/2009; Corte cost. n. 39/2008; Corte cost. n. 349/2007 e Corte cost. n. 348/2007).

In ordine a tale vincolo, la Corte costituzionale ha, tuttavia, chiarito (Corte cost. n. 49/2015, relativa al c.d. caso Varvara, sulla possibilità — esclusa dalla Corte Edu — di applicare la confisca urbanistica anche con la sentenza che dichiara estinto il reato per prescrizione) che l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo diventa parametro vincolante capace di esplicitare ed integrare la portata precettiva delle normeCedusolo quando tale interpretazione sia espressione di un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, mentre nessun obbligo di recepimento esiste a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento divenuto definitivo.

Una simile distinzione è stata ripresa dalle Sezioni Unite penali (Cass. S.U. n. 8544/2020), nella nota vicenda Contrada (relativa alla prevedibilità del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso). Le Sezioni Unite, richiamando Corte cost. n. 49 del 2015, hanno affermato che « i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata ».

Peraltro, va evidenziato che, di recente, in senso velatamente critico verso la distinzione fornita dalla Corte costituzionale, la Grande Camera della Corte Edu, nella sentenza 28 giugno 2018, Giem, ha voluto precisare le sue decisioni hanno tutte lo stesso valore giuridico e che la loro natura vincolante e l’autorità “interpretativa” delle stesse non possono quindi dipendere dal modo in cui sono state rese.

Questa “rivendicazione” da parte della Corte Edu ha sollevato perplessità in dottrina. Si è evidenziato che il quesito, del tutto diverso, cui si sarebbe dovuto dare risposta era il seguente: quando le sentenze della Corte Edu, ferma restando la vincolatività nel caso concretamente deciso, possano assurgere a filtro di coagulo di un significato univoco e stabile della disposizione Cedu, per tutti i casi, e anche ai fini del controllo di costituzionalità. In altri termini, non si sta discutendo della forza vincolante delle sentenze europee prevista dall’art. 46 della Convenzione (sulle controversie nelle quali lo Stato è parte, o comunque anche con riguardo a decisioni che producono effetti conformativi verso tale Stato), ma piuttosto delle condizioni, poste dagli ordinamenti nazionali, affinché l’intero spettro della giurisprudenza europea sia assunto in considerazione per formare la normativa interposta con cui, al di là del singolo decisum, dichiarare con effetti erga omnes l’incostituzionalità di una legge. E le condizioni in presenza delle quali la giurisprudenza europea può assumere questo valore sembrano effettivamente rientrare nella competenza della Corte costituzionale. Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della Cedu abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all'impatto prodotto dalla Cedu su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, come ha evidenziato la Corte costituzionale, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 53 e ss.)

Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte Edu per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.

Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato, quindi, a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all'incidente di legittimità costituzionale (Corte cost. n. 80/ 2011).

Quest'ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale la Corte costituzionale ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, Corte cost. n. 303/2011), salva l'eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, Corte cost. n. 264/2012), di stretta competenza di questa Corte.

La Corte costituzionale che altresì precisato che nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della Cedu, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale (cfr. ancora Corte cost. n. 49/2015).

La Corte costituzionale, inoltre, pur affermando di non poter sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella consolidata della Corte di Strasburgo si è, tuttavia, riservata “un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (Corte cost. n. 311/2009; Corte cost. n. 237/2011). La Corte costituzionale, quindi, può «valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano». Ciò in quanto la norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell' art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza».

Sull'obbligo di adeguamento ad una successiva sentenza della Corte Edu e il ricorso per revocazione vedi il commento all'art. 106.

 Per il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) v. Lipari.

Segue. Il ruolo della Cedu alla luce del Trattato di Lisbona

Ulteriore questione da esaminare è se il ruolo della Cedu sia cambiato in seguito all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, modificando l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea prevede, ai parr. 2 e 3, « L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali ».

A seguito di tale modifica, una parte della giurisprudenza (Cons. St. IV, n. 1220/2010; T.a.r.Lazio II-bis, 18 maggio 2010, n. 11894) aveva ritenuto che laCedufosse stata addirittura “comunitarizzata”, con la conseguenza che il giudice nazionale avrebbe potuto direttamente disapplicare la legge nazionale in contrasto con la Convenzione, senza necessità di rimettere la questione alla Corte costituzionale.

Il giudice amministrativo ha affermato che gli artt. 6 e 13 della Cedu (ritenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell'art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009) impongono agli Stati di prevedere una giustizia effettiva e non illusoria in base al principio the domestic remedies must be effective. Pertanto, in relazione all'azione prevista dall' art. 389 c.p.c., in sede interpretativa il giudice amministrativo deve adottare tutte le misure che diano effettiva tutela al ricorrente la cui pretesa risulti fondata (Cons. St. IV, n. 1220/2010).

Va però rilevato che la tesi della “comunitarizzazione” dellaCedunon sia stata accolta con favore da parte della dottrina prevalente, che ha osservato che il Trattato di Lisbona non ha affatto comunitarizzato la Cedu ma ha soltanto previsto la possibilità per l'Unione europea di aderire alla Cedu, superando la posizione contraria espressa dalla Corte di giustizia nel noto parere 28 marzo 1996, 2/94 (tale adesione deve ancora avvenire — si sostiene — non comporterà l'equiparazione della Cedu al diritto comunitario, bensì — semplicemente — una loro utilizzabilità quali “principi generali” del diritto dell'Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri). Da qui la conclusione secondo cui il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell'ordinamento italiano della Cedu che resta, per l'Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 53 e ss.). Tale conclusione avrebbe avuto risultati pratici rilevantissimi: considerando che molte norme Cedu rispecchiano, nel loro contenuto sostanziale, norme costituzionali, attribuire valore comunitario alla Cedu poteva significare, in pratica, ridurre di molto il peso della Corte costituzionale (e quindi l'ambito applicativo del controllo di costituzionalità accentrato), in quanto, a fronte di una norma costituzionale che trova corrispondenza in una norma Cedu, il giudice comune avrebbe potuto direttamente procedere alla disapplicazione.

Anche in ragione di ciò, si comprende perché la tesi della “comunitarizzazione” dellaCedusia stata subito recisamente negata dalla Corte costituzionale (cfr., in particolare, Corte cost. n. 80/2011).

Al riguardo si è osservato che l'art. 6, par. 2,Tuenon ha affatto comunitarizzato laCedu, ma ha soltanto previsto la possibilità per l'Unione europea di aderire allaCedu, superando la posizione contraria espressa dalla Corte di giustizia nel noto parere 28 marzo 1996, 2/94. La statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l'adesione stessa verrà realizzata.

Quanto, poi, al richiamo alla Cedu contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 — secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali» — si tratta di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona.

Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all'impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell'Unione, di far derivare la riferibilità alla Cedu dell'art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell'Unione).

Come ha chiaramente precisato (Corte cost. n. 80/2011), le variazioni apportate al dettato normativo — e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell'art. 6 del Trattato) con l'espressione «fanno parte» — non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia — che la statuizione in esame è volta a recepire — era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla Cedu e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (Corte Giust. UE 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29).

Segue. La Carta di Nizza

Un discorso diverso potrebbe essere fatto per la Carta di Nizza. A differenza della formula utilizzata per la Cedu, l'art. 6, par. 1 del Trattato, come modificato dal Trattato di Lisbona prevede che: “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati.

I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. »

La Carta di Nizza, a differenza della Cedu, acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”. In tal modo diviene diritto comunitario e comporta tutte le conseguenze del diritto comunitario in termini di prevalenza sugli ordinamenti nazionali.

Gli effetti di questa comunitarizzazione non vanno, tuttavia, enfatizzati. Sarebbe ad esempio, un errore ritenere, che, dopo il Trattato di Lisbona si possa procedere senz'altro alla disapplicazione di qualsiasi norma nazionale in contrasti con i diritti riconosciuti dalla Carta (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 53 e ss.).

Come ha precisato ancora Corte cost. n. 93/2011, la Carta di Nizza ha rango comunitario solo nelle materie attribuite alla competenza dell'Unione. Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, in altri termini, che la fattispecie sottoposta all'esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo — in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione — e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.

In sede di modifica del Trattato si è, infatti, certamente inteso evitare nel modo più netto che l'attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» potesse avere effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell'Unione.

L'art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati». A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che «la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'Unione al di là delle competenze dell'Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati».

I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all'art. 51 (anch'esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione»; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1.

Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell'Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10Ppu, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

 La sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali. A tale proposito, di fronte a casi di “doppia pregiudizialità” — vale a dire di controversie che possono dare luogo a questioni di illegittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione — si pone il problema di individuare i rapporti tra i due rimedi Carta (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 67 e ss., anche con riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 269/2017).

La Corte costituzionale ha di recente sostanzialmente affermato una sorta di “priorità” o “di preferenza” per il sindacato di costituzionalità, che grazie ai suoi effetti erga omnes garantirebbe una maggiore tutela ai diritti fondamentali rispetto alla mera disapplicazione incidentale (Corte cost., n. 269/2017; v. il commento di Lageder), chiarendo che “fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione Europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza Europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte giustizia UE, grande sezione, sentenza 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S, M.B.)”.

In questo caso aggiunge la Corte costituzionale, “le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.). La Corte giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli Europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto, si sono orientate altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione”.

Viene così rovesciato il tradizionale ordine di trattazione tra questioni attinenti al contrasto di una norma interna contemporaneamente con la Costituzione e con il diritto eurounitario (precisamente con la Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.). La pregiudiziale comunitaria, che in ossequio alla giurisprudenza pregressa doveva sempre precedere la questione di costituzionalità a pena di inammissibilità, viene ora postergata all’incidente di costituzionalità e configurata come ipotesi eventuale e residuale, almeno nel caso in cui sussistano dubbi di costituzionalità per contrasto con diritti protetti sia dalla Costituzione, sia dalla CDFUE.

Segue. La teoria dei c.d. controlimiti e la loro possibile comunitarizzazione dopo il Trattato di Lisbona

La Corte costituzionale italiana (non diversamente da quasi tutte le Corte costituzionali degli Stati membri dell'Unione) nel momento in cui ha accolto il principio del primato del diritto comunitario (con conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la legge interna anticomunitaria, senza sollevare la questione di legittimità costituzionale) ha, tuttavia, individuato dei controlimiti alla penetrazione del diritto comunitario.

I controlimiti rappresentano un nucleo di principi fondamentali intangibili, normalmente sottratti anche al potere di revisione costituzionale, che costituiscono una barriera all'ingresso di norme comunitarie con esse contrastanti (Chieppa-Giovagnoli, Manuale, 61 e ss., le cui tesi sono esposte nelle considerazioni che seguono).

La Corte costituzionale italiana fa espresso riferimento all'esistenza di controlimiti nelle sentenza Corte cost. n. 183/1973 e Corte cost. n. 179/1984. Nella prima decisione, la Corte afferma espressamente che le limitazioni di sovranità che l'adesione all'Unione europea (e che trovano il loro fondamento nell' art. 11 Cost.) possano, tuttavia comportare per gli organi comunitari un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse ma i darsi all'art. 189 (ora art. 249) una sì aberrante interpretazione, in tali ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale della Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i principi fondamentali”. Nella successiva Corte cost. n. 170/1984, pur recependo definitivamente la tesi della disapplicabilità della legge anticomunitaria, la Corte rileva, tuttavia, “come le osservazioni fin qui svolte non implicano che l'intero settore dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte, la quale ha, nella sentenza n. 183/1973, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andare soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili delle persona umana”.

La teoria dei controlimiti è stata recepita anche dal Consiglio di Stato italiano con la sentenza Cons. St. n. 4207/2005. Il problema si era posto con riferimento alla legge n. 362/1991 che prevedeva, inizialmente solo per le farmacie private, l'incompatibilità con qualsiasi altra attività nel settore della produzione, distribuzione, intermediazione e informazione scientifica del farmaco. La Corte costituzionale con la sentenza n. 275 del 293 aveva esteso tale incompatibilità anche alle farmacie comunali dichiarando l'incostituzionalità dell' art. 8, comma 1, lett. a) della legge n. 362/1991. Nel giudizio dinnanzi al Consiglio di Stato alcune società di gestione di farmacie comunali avevano però denunciato il contrasto di tale norma (come modificata dalla Corte costituzionale) con gli artt. 12, 43, 56 del Trattato di Roma e avevano chiesto la disapplicazione della norma nazionale o la rimessione alla Corte di giustizia ai sensi dell'art. 234 del Trattato (ora art. 269 Tfue). Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4207/2005 ha respinto tale impostazione rilevando che “non è consentito che il giudice nazionale in presenza di una statuizione della Corte costituzionale che lo vincola all'applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, possa prospettare alla Corte di Lussemburgo un quesito pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione della Corte costituzionale italiana, incidente sull'area dei diritti ad essa riservata”.

L'esistenza di controlimiti è stata affermata, come si accennava, anche dalle Corti costituzionali di altri Stati membri. In particolare, merita menzione la sentenza Lissabon, che esamina la costituzionalità della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona. In tale sentenza, il Bundesverfassungsgericht si attribuisce il potere di esercitare nei confronti delle norme comunitarie due tipi di controllo: il c.d. controllo ultra vires (al fine di verificare se l'Unione europea abbia rispetto il principio di attribuzione e, quindi, se gli atti comunitari rappresentino espressione di competenze effettivamente attribuite) e il controllo di identità e cioè un sindacato sul rispetto da parte degli atti dell'Unione del nucleo intangibile dell'identità costituzionale tedesca.

Queste tendenze dei giudici costituzionali nazionali a riservarsi il controllo di costituzionalità sulle norme comunitarie per la violazione dei c.d. controlimiti sono state guardate sempre con una certa diffidenza dalla Corte di Giustizia, timorosa che un simile controllo riservato ai giudici nazionali potesse compromettere il primato e l'uniforme applicazione del diritto comunitario. Nella sentenza Corte giustizia UE 22 giugno 2010, C-188/10, la Corte di giustizia, nell'esaminare la compatibilità comunitaria del nuovo sistema di controllo a posteriori della costituzionalità delle leggi recentemente introdotto in Francia (la c.d. question prioritaire de costitututionnalité), ha precisato che la dichiarazione di incostituzionalità di una normativa comunitaria (o di una norma nazionale che attua la norma comunitaria) esclude il controllo di validità che le spetta in via esclusiva e, pertanto, ha dichiarato che questa prassi non è conforme al diritto comunitario.

Recentemente il dibattito sui controlimiti si è riacceso per effetto delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona.

A detta di molti interpreti, infatti, il Trattato di Lisbona ha avuto l'effetto di comunitarizzare i controlimiti, con la conseguenza che l'atto comunitario che dovesse violarli sarebbe illegittimo già in base all'ordinamento europeo e, quindi, il giudice competente a conoscere di tale violazione sarebbe ormai solo la Corte di giustizia, e non più le Corti costituzionali nazionali.

A favore di questa comunitarizzazione dei controlimiti si invocano le seguenti norme del Trattato di Lisbona: l'art. 4, comma 2, che prevede che l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insista nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomia locali e regionali, l'art. 5, comma 2, che sancisce il principio di attribuzione stabilendo che in virtù di esso “l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri; l'art. 6, che, come si è già visto, comunitarizza la Carta di Nizza e i diritti fondamentali ivi previsti

Il riferimento al principio di attribuzione e al rispetto della struttura fondamentale politica e costituzionale degli Stati membri richiama proprio il doppio controllo (ultra vires e sull'identità nazionale) che era stato ipotizzato dal Tribunale costituzionale federale tedesco.

Come è stato rilevato (Cassese), le norme appena citate sembrano produrre due conseguenze: “sono svuotati i controlimiti che vengono europeizzati; non solo le Corti nazionali, ma la Corte di giustizia a dover accertare e far valere i limiti. E, quindi, non vi saranno più tanti controlimiti quante sono le Corti nazionali, ma un sistema uniforme di limiti”.

La tesi della comunitarizzazione dei controlimiti sembra essere accolta dalla Corte di giustizia nella sentenza 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, concernente la decisione-quadro sul mandato d'arresto europeo (sospettata di violare i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione spagnola, laddove consente l'esecuzione del mandato anche in caso di condanna in contumacia).

In quell'occasione, il Tribunale costituzionale spagnolo ha sottoposto alla Corte di giustizia dell'UE una questione che concerneva direttamente la potestà degli Stati membri di far valere i “controlimiti”, in materia di tutela dei diritti fondamentali, rispetto agli obblighi di adeguamento dell'ordinamento nazionale al diritto UE. Il Tribunale poneva, in particolare, alla Corte l'interrogativo cruciale se l'art. 53 Cdfue (che recita: “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti [...] dalle costituzioni degli Stati membri”) consenta allo Stato membro di rifiutare l'esecuzione di un mandato di arresto europeo nei confronti di un condannato contumace nel caso in cui lo Stato richiedente non garantisca in ogni caso la riapertura del processo, e consenta così allo Stato membro di assicurare ai diritti di cui ai citati artt. 47 e 48 Cdfue un livello di protezione più elevato nell'ordinamento interno rispetto a quello assicurato a livello europeo.

La risposta della Corte di giustizia è stata tranchante: nella misura in cui il diritto UE rispetta i diritti fondamentali tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE (di seguito: Cdfue), lo Stato membro non può rifiutare di adempiere gli obblighi che ne derivano, nemmeno nell'ipotesi in cui tali obblighi risultino in contrasto con i diritti fondamentali garantiti dal proprio ordinamento costituzionale.

Segue. Il richiamo ai principi del diritto europeo e l'intensità del sindacato giurisdizionale

L'iniziale indifferenza del diritto comunitario rispetto ai sistemi processuali nazionali è stata da tempo sostituita da una sempre maggiore invasività, che, seppur limitata ad alcuni settori, tra i quali emerge quello degli appalti, ha poi finito per condizionare anche altri ambiti dei processi nazionali.

L'autonomia dei processi nazionali è stata, quindi, progressivamente erosa sia per settori, come dimostra il grado di dettaglio della direttiva ricorsi in materia di appalti, sia in termini generali, come — ad esempio — in conseguenza dell'affermazione dell'obbligo di dare piena ed effettiva attuazione al diritto comunitario anche attraverso il riesame di decisioni divenute definitive per esaurimento dei rimedi giurisdizionali disponibili con passaggio in giudicato delle relative pronunce (Corte giustizia CE, 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne & Heitz)

Per un completo esame di tale ultima questione si rinvia al commento all'art. 112.

Sotto altro profilo, va evidenziato come, a fronte dei già menzionati obblighi imposti dall'ordinamento comunitario ai sistemi processuali degli Stati membri, lo standard di tutela offerto dal giudice comunitario non sia particolarmente elevato con riguardo al controllo sui fatti e sulle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione.

Fin dalla nota sentenza Upjohn, la Corte di Giustizia ha escluso che il diritto comunitario richieda agli Stati membri particolari standard di incisività del controllo giurisdizionale sulla valutazione amministrativa degli elementi tecnici e, quindi, rimedi giurisdizionali che consentano al giudice di sostituire la sua valutazione degli elementi di fatto a quella dell'autorità amministrativa competente (Corte giustizia CE, 21 gennaio 1999, C-120/97, Upjohn Ltd. c. Licensing Authority, con cui è stato ritenuto compatibile con il diritto comunitario un rimedio giurisdizionale interno (inglese), che non consente al giudice di sostituire la propria valutazione degli elementi di fatto a quella delle autorità nazionali competenti in materia di revoca delle autorizzazioni all'immissione in commercio di sostanze medicinali).

È vero che in quella occasione la Corte, pur affermando la compatibilità comunitaria della soluzione inglese, che sottrae al giudice il controllo sostitutivo della valutazione amministrativa, non ha escluso la compatibilità di soluzioni diverse e più avanzate, ma è anche vero, come è stato fatto notare, che la Corte ha forse perso l'occasione di affrontare più compiutamente le tematiche di diritto sostanziale concernenti l'attività discrezionale della pubblica amministrazione e le connesse tematiche del grado di controllo giurisdizionale (Caranta, 503).

Con riguardo al controllo giurisdizionale sul fatto e sulle valutazioni tecniche sembra, quindi, che l'autonomia dei singoli ordinamenti non sia stata intaccata, senza alcuna “comunitarizzazione” di un determinato standard di incisività della tutela.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono registrate aperture verso un livello di tutela più elevato sia in sede comunitaria (Corte giustizia CE, 29 aprile 2004, C-387/99), sia in ordinamenti, come quello italiano, in origine meno aperti a soluzioni più efficaci applicate in Francia e soprattutto in Germania.

Si deve, inoltre, rilevare che a fronte di un incisivo sindacato, tradizionalmente svolto dal giudice comunitario sulle decisioni amministrative discrezionali soprattutto grazie al parametro della proporzionalità, la giurisprudenza comunitaria si sia attestata su standard meno avanzati con riguardo al controllo sui fatti e sulle valutazioni tecniche.

Non vi è quindi un obbligo per gli Stati membri di adeguarsi a determinati e generalizzati standards di tutela, anche se le spinte verso modelli di tutela più effettivi provenienti da Francia, Germania e ora anche Italia potranno contribuire ad un innalzamento del livello anche in sede comunitaria.

Tale passaggio appare indispensabile affinché la tutela giurisdizionale nei confronti dei pubblici poteri possa definitivamente superare una dimensione strettamente nazionale, che la ha caratterizzata nel passato, ma che è oggi sempre più condizionata da regole, principi e obblighi di rinvio provenienti da fonti non nazionali (De Pretis, 2005) e dall'esigenza di garantire una tutela omogenea anche in presenza di quei procedimenti composti, in cui le soluzioni non possono essere diverse in sede di sindacato delle fasi nazionali o comunitarie del procedimento.

La giurisprudenza della Cedu e il sindacato di giurisdizione piena sugli atti sanzionatori irrogati dalle Autorità indipendenti

Con riferimento agli atti sanzionatori adottati dalle autorità indipendenti la giurisprudenza amministrativa ha definitivamente superato la terminologia “sindacato forte o debole”, definendo il sindacato “forte, pieno ed effettivo” per porre l'attenzione unicamente sulla ricerca di “un sindacato tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere, ma di verificare — senza alcuna limitazione — se il potere a tal fine attribuito all'Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato” (Cons. St. VI, n. 597/2008, Jetfuel).

Le menzionate precisazioni fornite dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato escludono limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall'attività delle Autorità indipendenti, individuando quale unica preclusione l'impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore alle autorità.

È tuttavia singolare che al termine di questa sorta di sviluppo evolutivo della giurisprudenza amministrativa sulla questione sia di recente arrivato un segnale parzialmente contrario dalla Cassazione, che ha affermato che “non è consentito al Consiglio di Stato è un controllo c.d. di tipo “forte” sulle valutazioni tecniche opinabili, id est l'esercizio, da parte del giudice, di un potere sostitutivo, spinto fino a sovrapporre la propria valutazione tecnica opinabile a quella dell'Amministrazione, fermo restando anche sulle valutazioni tecniche il controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza” ( Cass.S.U., n. 7063/2008; seguita da Cass.S.U., n. 1013/2014, che ha affermato che il sindacato del g.a. comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini).

A seguito di tale sentenza si potrebbe porre il problema di verificare se la nuova modalità (più intensa) di sindacato, esercitata dal g.a. non possa essere ritenuta lesiva dei limiti esterni della giurisdizione, in quanto idonea a invadere le prerogative proprie dell'amministrazione (rectius, autorità indipendente).

Tale rischio di un passo indietro nella effettività della tutela giurisdizionale dovrebbe essere escluso, anche in considerazione della giurisprudenza della Cedu.

Con la sentenza Menarini, la Corte europea dei diritti dell'Uomo ha affrontato la questione della compatibilità dei procedimenti antitrust con le norme della Cedu e, in particolare, con l'art. 6 della Convenzione — diritto ad un equo processo (Corte Edu, 27 settembre 2011, A. Menarini Diagnostics S.R.L. c. Italia).

La Cedu ha stabilito che l'imposizione di una sanzione pecuniaria da parte di un'Autorità antitrust (nel caso specifico, si trattava proprio dell'Autorità italiana) costituisce una sanzione di tipo penale (o quanto meno assimilabile), concludendo però con l'affermazione secondo cui il controllo di piena giurisdizione esercitato dal Consiglio di Stato esclude la violazione del suddetto art. 6.

Tale conclusione risolve il problema della compatibilità dei procedimenti sanzionatori irrogati dalle autorità indipendenti anche con riferimento ai principi contenuti nella successiva sentenza Grande Stevens ” ( CorteEdu, 4 marzo 2014 n. 18640).

Proprio il sindacato maggiormente effettivo garantito dal Consiglio di Stato evita la violazione dell' art. 6 della Cedu e, di conseguenza, non appare praticabile la strada di limitare tale sindacato con riferimento ai limiti esterni della giurisdizione e si deve rilevare come la citata sentenza della Cassazione (Cass. n. 1013/2014) abbia il limite di non prendere in esame la già intervenuta giurisprudenza della Cedu.

Deve, quindi, essere garantito il mantenimento da parte del giudice amministrativo di un sindacato di piena giurisdizione; il concetto di «full jurisdiction », introdotto dalla giurisprudenza della Cedu è un concetto complesso e non del tutto sovrapponibile alle categorie nazionali alle quali siamo più abituati (sindacato di legittimità, di merito, intrinseco, sostitutivo) e implica che il giudice nazionale esamini compiutamente, punto per punto, i profili in concreto contestati, senza la possibilità di invocare spazi di discrezionalità, tecnica o amministrativa, riservati all'amministrazione.

La Cassazione indica la strada di limitare il sindacato alla verifica che il provvedimento impugnato non esorbiti dai margini di opinabilità insiti nelle complesse valutazioni tecniche rimesse alle Autorità indipendenti.

Successivamente, il giudice amministrativo ha ribadito che il sindacato sulla discrezionalità tecnica dell'Autorità è pieno e particolarmente penetrante e si svolge tanto con riguardo ai vizi dell'eccesso di potere quanto anche attraverso la verifica dell'attendibilità delle operazioni tecniche compiute; resta comunque fermo il limite della relatività delle valutazioni scientifiche o della scienza economica, sicché al giudice amministrativo è consentito censurare la sola valutazione che si pone al di fuori dell'ambito di opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga sostitutivo di una valutazione parimenti opinabile (Cons. St. VI, n. 2479/2015 e Cons. St. VI, n. 2947/2016).

Tale sindacato appare coerente con i principi della Cedu e con la giurisprudenza comunitaria, che esclude un potere del giudice di sostituire le proprie valutazioni economiche a quelle contenute nella impugnata decisione della Commissione, rientrando tali tipo di valutazioni nelle prerogative della Commissione per garantire la concorrenza nel mercato interno (cfr. Corte giustizia UE 6 ottobre 2009, GlaxoSmithKline e 3 maggio 2012, Legris Industries).

La giurisprudenza del giudice amministrativo, quindi, non riconosce oggi alcun ambito di attività “riservato” all'Autorità indipendente e non sindacabile in modo effettivo dal giudice; ciò che è riservato all'Autorità, cui non può sostituirsi il giudice, è il diretto esercizio del potere, rispetto al quale il compito del giudice è quello di valutarne la correttezza, sotto tutti i profili, anche sotto quello dell'analisi economica applicata.

Nella precedente edizione di questo volume si auspicava che, a prescindere dagli obblighi imposti dalla Cedu (ad oggi già soddisfatti), il passaggio da un sindacato intrinseco di attendibilità ad un tipo di sindacato di maggiore attendibilità, in cui il giudice non si limiti a ritenere appunto attendibile la valutazione dell’Autorità, ma la valuti in termini di maggiore o minore attendibilità rispetto alle valutazioni alternative prospettate dalle parti con la possibilità, quindi, di ritenere che la valutazione dell’Amministrazione, sebbene intrinsecamente attendibile, non meriti conferma, in quanto meno attendibile di quella prospettata dall’impresa sanzionata.Tale auspicio è stato accolto da una recente sentenza del Consiglio di Stato, con cui è stato affermato che il giudice amministrativo non deve limitarsi a verificare se l’opzione prescelta dalla autorità indipendente rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto, bensì deve procedere ad un controllo penetrante attraverso la piena e diretta verifica della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità, che è cosa diverso dal concetto di mera attendibilità (Cons. St. VI, n. 4990/2019, Roche-Novartis). Con tale sentenza si completa il passaggio da un sindacato di “mera attendibilità” ad un sindacato pieno di “maggiore attendibilità”, anche se sarà necessario attendere il consolidamento e la corretta applicazione dei sopra enunciati principi.

Va, al riguardo, segnalato come il recepimento della direttiva 2014/104/EU sul c.d.private enforcement (azioni civili di danni derivanti da illeciti antitrust) comporta l'introduzione del carattere vincolante delle decisioni antitrust definitive (non impugnate o definite con sentenze passate in giudicato) nei giudizi civili di risarcimento e ciò dovrebbe indurre la Cassazione ad evitare passi indietro sull'intensità del sindacato giurisdizionale esercitato dal g.a. al fine di consentire che la definitività delle decisioni antitrust arrivi dopo un controllo di piena giurisdizione (come è tale il controllo oggi esercitato proprio sulla base della sentenza Menarini della Cedu).

Tuttavia, proprio in sede di recepimento è stato inserito un periodo non presente nella direttiva: “Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima” (art. 7, comma 1, d. lgs. n. 3/2017).

Vi è l'evidente rischio di un passo indietro e, dunque, la necessità di un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma per evitare appunto che possano essere intesi come non sindacabili le valutazione tecniche che presentano un oggettivo margine di opinabilità.

Una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in esame deve allora condurre alla conclusione che con essa il legislatore abbia solo voluto ribadire la natura non sostitutiva del sindacato giurisdizionale, richiamando il giudice amministrativo al dovere di accertamento « diretto » di tutti i fatti rilevanti ai fini del decidere, senza in alcun modo esentarlo (per quanto la formula impiegata sia involuta) dal contemporaneo dovere di accertamento « critico » degli elementi valutativi lasciati indeterminati dalla fattispecie sanzionatoria (in questo senso, la già citata Cons. St. VI, n. 4990/2019; anche se Cass. S.U., n. 11929/2019 — con riferimento al citato art. 7 — continua ad affermare la “riserva comunque garantita all’Autorità in tema di valutazioni tecnico discrezionali”).

La più recente giurisprudenza della Cassazione sembra aver frenato la tendenza espansiva dell’ambito del sindacato esercitabile sulle sentenze del giudice amministrativo e si auspica quindi che non sussista il rischio che i limiti esterni alla giurisdizione possano frenare la descritta evoluzione del sindacato del g.a. sugli atti delle Autorità indipendenti (auspicio che sembra essere stato raccolto da Cass. S.U., n. 4610/2020, che proprio in materia antitrust ha applicato l’orientamento più restrittivo sul sindacato della Cassazione sulle sentenze del g.a.).

Differenze del Capo sui principi generali rispetto al testo proposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato

Rispetto al testo approvato dal Consiglio di Stato, il Capo I dedicato ai principi generali è stato sensibilmente ridotto (da sette articoli a tre articoli).

Nell'ambito del principio del giusto processo (v. art. 2), sono state eliminate le parti che facevano riferimento al pieno accesso delle parti agli atti e alla piena conoscenza dei fatti, al rispetto del principio del contraddittorio e al rilievo anche costituzionale degli interessi azionati, da tenere in considerazione da parte del giudice per una rapida definizione dei giudizi.

È stato, inoltre, eliminato l'art. 3 (Corrispondenza tra chiesto e pronunciato); l'art. 4 (Disponibilità, onere e valutazione della prova) e l'art. 5 (Diritto alla decisione di merito).

Con tale ultima norma il Consiglio di Stato aveva inteso affermare che il giudice assicura, nel rispetto delle regole del processo, il diritto delle parti alla decisione di merito; il diritto delle parti ad una decisione di merito costituiva un canone interpretativo, ricavabile dalla giurisprudenza europea, che, nell'osservanza dei principi del giusto processo, informa di sé tutto il sistema del processo, nel senso che esso deve tendere, nel rispetto delle norme processuali, a rendere una decisione capace di definire la controversia nella sua sostanza, limitando approcci formali da parte del giudice, fermo restando la piena applicabilità delle preclusioni processuali, ove verificatesi.

Bibliografia

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