Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 9 - Difetto di giurisdizioneDifetto di giurisdizione
1. Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione. Note operative
InquadramentoLa norma consente la piena rilevabilità del difetto di giurisdizione ad opera del giudice di primo grado che può sollevare la relativa questione anche d'ufficio ed emettere una sentenza di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. a), senza che le parti del giudizio possano opporsi a tale esito. La valorizzazione del principio di ragionevole durata del processo, tuttavia, impedisce di rimettere in discussione la questione di giurisdizione che sia stata già esaminata, espressamente o implicitamente, in primo grado e che non sia stata stigmatizzata in appello. La formazione del giudicato interno, implicito o esplicito, preclude al giudice d'appello la rilevabilità d'ufficio della questione di giurisdizione che, quindi, può essere riesaminata solo se dedotta con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata, rendendo irrilevante la semplice eccezione formulata in memoria, come si desume dagli artt. 9 e 101, comma 2. Disciplina identica a quella contenuta nell' art. 9 del c.p.a. è stata poi di recente recepita dall' articolo 15 del d.lgs. n. 174/2016, «Codice della giustizia contabile». La norma contenuta nel c.p.a., e che non trova un analogo riferimento nel c.p.c., è il frutto della giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione che ha ritenuto inammissibile la questione di giurisdizione proposta in sede di legittimità, qualora il giudice di primo grado si sia espressamente o implicitamente pronunciato su di essa, unitamente al merito, e tale statuizione sulla giurisdizione non abbia formato oggetto di impugnazione, determinando sul punto la formazione del giudicato interno evidenziato (Cass.S.U., n. 27348/2008 e Cass. S.U.,n. 24883/2008). Con il d.lgs. 149/2022 [art 3, comma 2, lett. a)] è stato modificato l'art. 37 del c.p.c., sul difetto di giurisdizione, nei seguenti termini: “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e' rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo. Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali e' rilevato anche d'ufficio nel giudizio di primo grado. Nei giudizi di impugnazione puo' essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l'attore non puo' impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito.”. Il legislatore, in sostanza, ha omologato i testi processuali, codificando la regola, ormai generale, che il difetto di giurisdizione può essere fatto valere solo con specifico motivo di impugnazione, in mancanza del quale scende il giudicato sulla relativa statuizione, espressa o implicita. Nel c.p.c., tuttavia, il legislatore ha fatto qualcosa di più rispetto a quanto oggi è espressamente previsto nel c.p.a. E' stato sostanzialmente codificato il principio giurisprudenziale, delineato anche dall'Adunanza plenaria (Cons. St., Ad. pl. n. 4/2017 e 19/2019), oltre che dalle sezioni unite (ord. . 10742/2021), secondo cui è precluso all'attore di contestare in appello la giurisdizione che lui stesso ha introdotto, trattandosi di un abuso del processo che va, pertanto, stigmatizzato. La soluzione recepita dal c.p.a. sembra anche quella auspicata qualche tempo fa da autorevole dottrina (Caianiello) che aveva evidenziato come tutte le questioni pregiudiziali, tra cui rientra anche quella di giurisdizione, possono essere esaminate in appello se disattese in primo grado solo se oggetto di apposita impugnazione. Il giudicato interno implicito e le Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883L'art. 9 rappresenta la codificazione di un orientamento della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione secondo cui la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano, ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dall' art. 329 c.p.c., comma 2, e dall'art. 324 c.p.c. Secondo le Sezioni Unite in ogni processo vanno individuati «due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda». Stante l'obbligo del giudice di accertare l'esistenza della propria giurisdizione prima di passare all'esame del merito o di altra questione ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al riguardo contenga implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata. La giurisprudenza consolidata ha sempre ritenuto necessario impugnare la sentenza che si è espressamente pronunciata sul difetto di giurisdizione. In questo senso la Corte di Cassazione ha evidenziato che è inammissibile la questione di giurisdizione proposta in sede di legittimità, qualora il giudice di primo grado si sia espressamente pronunciato su di essa, unitamente al merito, e tale statuizione sulla giurisdizione non abbia formato oggetto di impugnazione, determinando sul punto la formazione del giudicato interno (Cass.S.U., n. 27348/2008). Le sezioni unite (Cass.S.U.,n. 24883/2008) hanno esteso tale principio, affermato in relazione al giudicato espresso o esplicito, anche al giudicato implicito, perché sarebbe del tutto ingiustificato ritenere che il giudicato implicito non abbia lo stesso effetto preclusivo del giudicato esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale l'obbligo di controllare il corretto esercizio della potestas iudicandi. In altri termini, il giudice deve innanzitutto «autolegittimarsi» ( art. 276 c.p.c., comma 2) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione ( art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva, così come il silenzio delle parti vale acquiescenza ( art. 329 c.p.c.): «una sorta di trilaterale «silenzio assenso» giurisdizionale». Su queste basi le Sezioni Unite forniscono un'interpretazione adeguatrice dell' art. 37 c.p.c. delineando i seguenti principi: a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti, anche dopo la scadenza dei termini previsti dall' art. 38 c.p.c.; b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell' art. 41 c.p.c.; c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito; e) il giudice può rilevare anche di ufficio il difetto di giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito. Recependo questi principi l'art. 9 ha, quindi, esplicitamente introdotto anche nel processo amministrativo, il principio del c.d. giudicato interno implicito sulla questione di giurisdizione trattata, seppur tacitamente, dal giudice di primo grado (Cons. St. V, n. 3539/2016). E’ importante rilevare, sotto questo profilo, la diversità che sussiste tra difetto di giurisdizione e altri presupposti o condizioni dell’azione. Cons. St. Ad. plen., n. 4/2018 ha rilevato che nel processo amministrativo non può essere precluso al giudice di appello di rilevare ex officio la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado né può ritenersi che, sul punto, si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione; in sostanza il giudice amministrativo, in qualsiasi stato e grado, ha il potere e il dovere di verificare se ricorrono le condizioni cui la legge subordina la possibilità che egli emetta una decisione nel merito, né l'eventuale inerzia di una delle parti in causa, nel rilevare una questione rilevabile d'ufficio, lo priva dei relativi poteridoveri officiosi, atteso che la legge non prevede che la mancata presentazione di parte di un'eccezione processuale degradi la sua rilevabilità d'ufficio in irrilevabilità, che equivarrebbe a privarlo dell'autonomo dovere di verifica dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione. Nel vigente quadro normativo, la questione è risolvibile anche richiamando gli articoli 35 e 9 del c.p.a. Per un verso, infatti, “l’articolo 35 affida al potere officioso del giudice il rilievo dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione e, posto che tale prescrizione è collocata nel libro primo del codice, e riguarda il processo amministrativo in generale, non si vede come potrebbe escludersi che la medesima si applichi anche al giudizio di appello. Per altro verso, l’articolo 9 del c.p.a. ha limitato il principio del giudicato implicito, che ne impedisce il rilievo officioso in appello, alle sole questioni che riguardano la tematica della giurisdizione. A quanto sinora rilevato, può aggiungersi che l’art. 104 del c.p.a. (come previsto per il processo civile dall’art. 345 comma 2, c.p.c.) rende possibile che nel processo di secondo grado vengano liberamente prospettate “eccezioni rilevabili d'ufficio” e tale è sempre stata, per quanto prima chiarito, la disamina della originaria ammissibilità del ricorso di primo grado. Sulla scorta di una semplice esegesi del diritto positivo, dunque, sembra possibile in via piana ricostruire un sistema fondato sulla regola generale del possibile rilievo ex officio di tutte le questioni (condizioni dell’azione e presupposti processuali) che condizionano la possibilità di pervenire ad una pronuncia di merito, e su una espressa eccezione a tale criterio generale, rappresentata dal formarsi di un c.d. “giudicato implicito” sulla problematica relativa alla spettanza della giurisdizione al giudice adito. L’Adunanza plenaria, di fronte alla considerazione che un siffatto sistema processuale si esporrebbe a denunce di irragionevolezza, perché la giurisdizione rappresenta il primo e più importante presupposto processuale, ha evidenziato che la circostanza che la questione di giurisdizione, nei gradi successivi al primo, sia stata ricondotta al potere dispositivo delle parti ex art. 112 c.p.c. e sottratta al rilievo d’ufficio del giudice, si spiega quindi: a) con una precisa volontà legislativa in tal senso, anticipata, come prima chiarito, per via giurisprudenziale; b) con la considerazione che tale contenuta tempistica del rilievo officioso della questione non pregiudica in alcun modo le parti e consente che nei tempi più celeri venga individuato il giudice fornito di giurisdizione; c) con la constatazione che – a tutto concedere – il formarsi del giudicato implicito a cagione dell’inerzia delle parti e dell’omesso rilievo officioso del giudice di primo grado conduce ad una soluzione (quella che sulla controversia si pronunci un plesso sfornito di giurisdizione) certamente sconsigliabile, ma comunque non produttiva di conseguenze “contra ius”: al contrario, precludere al giudice di appello il rilievo officioso dell’assenza dei presupposti processuali o delle condizioni dell’azione condurrebbe a conseguenze negative sul piano del diritto sostanziale (esemplificativamente: la delibazione di un ricorso certamente tardivo, ovvero proposto da un soggetto non legittimato, etc). La giurisdizione e l'ordine di esame delle questioni: Cons. St., Ad. pl. 5/2015La questione di giurisdizione può essere esaminata anche sotto l'angolo prospettico dell'ordine di esame delle questioni. Il Consiglio di Stato,ad. Plen., n. 5/2015, ha evidenziato che sono sottratte alle parti e, in particolare, alla graduazione dei motivi, l'accertamento dei presupposti del processo (nell'ordine: giurisdizione, competenza, capacità delle parti, ius postulandi, ricevibilità e rimessione in termini, contraddittorio, estinzione del giudizio), e delle condizioni dell'azione (interesse ad agire, titolo o legittimazione al ricorso, legitimatio ad causam). Ne deriva che la sussistenza della giurisdizione rappresenta il primo accertamento spettante al giudice amministrativo senza il quale non è possibile procedere oltre. La stessa adunanza plenaria ha, peraltro, precisato che questo è vero solo in parte nel giudizio di impugnazione, che, retto dal principio devolutivo attenuato, è considerato una revisio prioris istantiae e non un mero iudicium novum, con la conseguenza che la decisione su una questione da parte del giudice di appello dipende dalla sottoposizione della stessa attraverso una specifica domanda o eccezione, fermo restando il rilievo d'ufficio in relazione alla tempestività e ritualità della costituzione del rapporto processuale in appello. Ne deriva che, in coerenza con l' art. 9 c.p.a., il difetto di giurisdizione non può essere rilevato d'ufficio in appello, ma deve essere dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che in modo implicito o esplicito ha statuito sulla giurisdizione. Il tema dell'ordine di esame delle questioni che il giudice deve seguire ha interessato di recente anche la questione relativa all'ordine di esame delle questioni tra giurisdizione e competenza che rappresentano due accertamenti di carattere pregiudiziale rispetto a quello di merito. Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato che l'accertamento della sussistenza della giurisdizione deve precedere quello sulla competenza, in quanto questa è compresa nella prima e, inoltre, la garanzia del giudice naturale precostituito per legge ( art. 25 Cost.) «pertiene non soltanto alla «competenza in senso stretto» — come invece non infrequentemente si mostra di ritenere (pure nell'ordinanza di rimessione) — ma anche, e ancor prima, alla «giurisdizione» (o «competenza giurisdizionale») a conoscere una determinata controversia». Quindi, secondo le sezioni unite, la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto alla questione di competenza — in quanto fondata sulle norme costituzionali relative al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1), alla garanzia del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1), ai principi del «giusto processo» (art. 111, commi 1 e 2), alla attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed al suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati (art. 102, commi 1 e 2, art. 103, art. 6 disp. trans. e fin.) — può essere derogata soltanto in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell'instaurazione del «giusto processo», oppure della formazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla giurisdizione (Cass.S.U., n. 29/2016). Si veda, sul punto, amplius, art. 13. La limitazione ermeneutica dell'art. 9: l'abuso del processoL'art. 9 non identifica i soggetti legittimati a far valere il difetto di giurisdizione in appello, sicché si potrebbe ritenere che ad essere legittimato in tal senso sia anche il ricorrente che in primo grado ha instaurato il giudizio innanzi al giudice amministrativo e sia risultato soccombente in primo grado. La giurisprudenza nel corso del tempo ha delineato due distinte strade. La Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibile l'auto-eccezione di difetto di giurisdizione in appello, applicando, tuttavia, la sanzione delle spese per violazione del dovere di lealtà e probità di cui all' art. 88 c.p.c. in relazione all' art. 92 c.p.c. Cass. S.U., n. 13940/2014 ha subordinato l'autoeccezione di difetto di giurisdizione alla sussistenza di idonee giustificazioni della parte che eccepisce il difetto di giurisdizione. Questo orientamento è stata seguito dal Consiglio di Stato solo occasionalmente (Cons. St. n. 5403/2016). La giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato ha, invece, riscritto la regola delineata dall' art. 9 c.p.a., perché ha precluso al ricorrente soccombente in primo grado di impugnare in appello la sentenza di primo grado per difetto di giurisdizione. La giurisprudenza amministrativa ha, quindi, aderito alla teoria dell'inammissibilità dell'autoeccezione sollevata in appello. Il Consiglio di Stato, ha ritenuto, quindi, inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che aveva adìto la medesima giurisdizione con l'atto introduttivo di primo grado, poiché tal regola processuale si basa sul divieto dell'abuso del diritto, quale è da ritenere, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium, dettato da ragioni meramente opportunistiche, vigendo nel nostro sistema un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva (divieto che, ai sensi dell' art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto), in cui si inserisce anche l'abuso del processo (Cons. St. V, n. 1605/2015; Cons. St. IV, n. 5403/2016). Di recente, tuttavia, anche le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno sposato la teoria dell'inammissibilità dell'auto-eccezione di difetto di giurisdizione sia pure per motivi differenti, giovandosi del contributo di una relazione dell'Ufficio Studi, Massimario e Formazione della Giustizia Amministrativa inviata all'Ufficio del massimario della Cassazione su richiesta del Primo presidente della Suprema Corte al Presidente del Consiglio di Stato. Le sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 21260/2016) hanno, valorizzato la soccombenza dell'appellante quale presupposto processuale indefettibile per proporre appello avverso un capo della sentenza (che corrisponde alla soluzione di una questione e non è necessariamente corrispondente con una domanda), compreso quello sulla giurisdizione. In base alle logiche della soccombenza, allora, l'attore/ricorrente che abbia avuto una pronuncia sfavorevole nel merito da parte del giudice che aveva adito in primo grado, è soccombente rispetto al capo della sentenza che decide il merito, ma non rispetto a quello che decide sulla giurisdizione. Dunque questi potrà impugnare il capo attinente al merito, che gli è sfavorevole, ma non quello sulla giurisdizione, che gli è favorevole. Diversamente, invece, il convenuto/resistente che sia vittorioso nel merito, potrà impugnare il capo inerente alla giurisdizione, rispetto al quale risulta soccombente. Va segnalato che, tuttavia, parte della dottrina non condivide il principio secondo cui l'abuso del processo può condurre ad una declaratoria di inammissibilità del ricorso, perché le cause di inammissibilità sono tassative e non possono essere create in via interpretativa. In caso di violazione delle regole di correttezza e buona fede nel processo la sanzione prevista dalla legge non è, infatti, l'inammissibilità del ricorso, ma la condanna della parte alle spese processuale, anche utilizzando lo schema della responsabilità aggravata previsto dall' art. 96 c.p.c. e 26 c.p.a. (Verde, 1138 ss.). Ancora più di recente è intervenuta anche l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che si è occupata della questione della legittimazione della parte vittoriosa in primo grado (anche nel merito) a sollevare per la prima volta in appello questione di giurisdizione, tramite la proposizione di un appello incidentale. L'adunanza plenaria ha precisato che la questione è stata risolta dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260, anche grazie al contributo della (sopra citata) relazione dell'Ufficio Studi, Massimario e Formazione della Giustizia Amministrativa. Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha rilevato che la Corte regolatrice ha condiviso le conclusioni cui è pervenuto lo stesso Consiglio di Stato a partire dalla sentenza della Quinta Sezione 7 giugno 2012, n. 656, ma non ha invece condiviso i presupposti di quella tesi, basati sul concetto di abuso del processo, affermando invece la questione di giurisdizione costituisce un capo della pronuncia in ordine al quale si individua una parte vittoriosa e una parte soccombente. Di conseguenza, precisa l'adunanza plenaria, vale il principio generale secondo il quale l'appello può essere proposto solo dalla parte soccombente in quanto la soccombenza “del potere di impugnativa rappresenta l'antecedente necessario” (così la richiamata sentenza della Cass. S.U., n. 21260/2016). L'adunanza plenaria, quindi, “riconferma le conclusioni cui erano pervenute le sezioni semplici, pur con le puntualizzazioni della Corte di cassazione, affermando, ai sensi dell' art. 99, quinto comma, del codice del processo amministrativo il seguente principio di diritto: “la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo” (Cons. St. Ad. plen., n. 4/2017). Ne deriva, quindi, che non è legittimato a impugnare la sentenza per difetto di giurisdizione chi non è soccombente sul capo della giurisdizione in primo grado. Ne deriva che è inammissibile sia l'appello avente ad oggetto il difetto di giurisdizione proposto dal ricorrente in primo grado soccombente nel merito (ma vittorioso, almeno implicitamente sul capo della giurisdizione), sia l'appello incidentale proposto dal resistente (o controinteressato) vittorioso nel merito in primo grado che non abbia contestato in primo grado il capo della giurisdizione. L'adunanza plenaria, con successiva sentenza n. 19/2021, ha aggiunto che il fondamento dell'inammissibilità della questione di giurisdizione proposta in appello mediante (auto)eccezione del ricorrente soccombente in primo grado, trova ulteriore base giuridica nell'esistenza di un rimedio tipico per dirimere in via definitiva ed immodificabile i dubbi sulla giurisdizione, e cioè il regolamento preventivo di giurisdizione davanti alle Sezioni unite della Cassazione, ai sensi dell'art. 41 c.p.c., che, secondo la giurisprudenza di quest'ultima, può essere proposto anche dall'attore a fronte dell'altrui contestazione (in questo senso, di recente: Cass. S.U., ord. 22 aprile 2021, n. 10742; 5 novembre 2019, n. 28331; 13 giugno 2017, n. 14653). Il mancato utilizzo dello strumento processuale appositamente previsto per risolvere la questione pregiudiziale di giurisdizione prima che la causa «sia decisa nel merito in primo grado» (così l'art. 41, comma 1, c.p.c.) rende pertanto palese la strumentalità della sua riproposizione in appello da parte di colui che avrebbe potuto farlo già in primo grado e che su tale questione non abbia nondimeno riportato alcuna soccombenza. Come sopra segnalato, il d.lgs. 149/2022 [art 3, comma 2, lett. a)] ha modificato l'art. 37 del c.p.c., sul difetto di giurisdizione, codificando sostanzialmente l'orientamento giurisprudenziale sull'abuso del processo appena richiamato. L'appello incidentale condizionatoSi discute se l'ordine delle questioni sopra evidenziato debba essere seguito dal giudice d'appello anche in presenza di un appello (incidentale condizionato), proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel merito, su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole, il cui esame è però espressamente condizionato al fatto che l'appello principale sia stato giudicato fondato; in caso contrario non sussisterebbe l'interesse dell'appellante incidentale alla pronunzia sulla propria impugnazione. Come già evidenziato i principi espressi dall'Adunanza plenaria 5/2015 valgono solo per il giudizio di primo grado. Il Consiglio di Stato ha aderito all'impostazione favorevole all'ammissibilità dell'appello incidentale condizionato, in quanto se la questione pregiudiziale o preliminare (come la questione di giurisdizione) è stata decisa dal giudice di primo grado, il riesame della questione da parte del Consiglio di Stato postula la proposizione di un'impugnazione, che è ammissibile solo in presenza di un interesse della parte, interesse che, per la parte totalmente vittoriosa, sorge solo nell'ipotesi della fondatezza dell'appello principale. In caso contrario, infatti, l'appellante incidentale manca di interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione, poiché il suo eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole in concreto di quello derivante dal rigetto del ricorso principale e, anzi, con particolare riferimento all'eccezione di giurisdizione, comporterebbe il rischio del riesame della pronuncia favorevole ad opera del diverso giudice con esito incerto per l'appellante incidentale (Cons. St. n. 882/2016). L'interesse ad impugnare diventa attuale (o, come è stato anche detto, sopravvenuto), solo con l'accoglimento dell'appello principale. A seguito di tale accoglimento si perfeziona la fattispecie relativa alla legittimazione ad impugnare da parte dell'appellante incidentale, fattispecie composta dalla soccombenza e dall'interesse all'impugnazione. In appello, peraltro, quando la decisione su una questione vi è stata, il riesame della stessa da parte del giudice dell'impugnazione è rimesso necessariamente all'impulso di parte, per il principio devolutivo che regge il sistema delle impugnazioni. Se tale impulso di parte è condizionato all'accoglimento dell'impugnazione avversaria e quindi al sopravvenire della soccombenza anche formale e dell'interesse all'impugnazione, in questi termini va valutato dal giudice il mezzo impugnatorio proposto (cfr. in tal senso, da ultimo, Cons. St. VI, n. 1596/2015). Il Consiglio di Stato, inoltre, ha evidenziato che proprio l'ordine logico delle questioni da esaminare impone anzitutto l'esame del ricorso principale. Il ricorso della parte totalmente vittoriosa è condizionato de jure, perché solo a seguito dell'accertamento della fondatezza del ricorso principale si può dire che sia sorto l'interesse alla proposizione del ricorso incidentale. Ciò comporta, secondo il Consiglio di Stato, un triplice ordine di fatti costitutivi della legittimazione ad impugnare del resistente vittorioso: a) la soluzione sfavorevole di una questione pregiudiziale o preliminare; b) la proposizione di un ricorso principale da parte del soccombente nel merito; c) la fondatezza di quest'ultimo ricorso. Proprio il previo esame del ricorso principale fa sì che il cosiddetto ordine logico della pregiudizialità sia rispettato in uno dei suoi profili più pregnanti in materia di impugnazioni, vale a dire nel divieto rivolto al giudice di esaminare il merito del gravame, prima di aver acclarato l'esistenza di tutti i relativi presupposti di ammissibilità, ivi compresa, appunto, la legittimazione ad impugnare, sotto il profilo dell'interesse (Cons. St. n. 882/2016, cit). In linea con questo orientamento è anche la Corte di Cassazione ( Cass.S.U., n. 5456/2009). L'adunanza plenaria 4/2017, sopra citata, dubita, tuttavia, della possibilità di seguire tale orientamento. In particolare, richiamando le conclusioni dell'ordinanza di remissione (Cons. Giust. Sicilia, ordinanza 22 ottobre 2015, n. 634), nonché quelle dell'adunanza plenaria n. 4 del 2011, il Consiglio di Stato evidenzia che la necessità di definire la controversia muovendo dall'esame delle questioni preliminari, costituisce, oltre che una regola di giudizio da sempre pacificamente ritenuta applicabile, anche una espressa previsione positiva, ora stabilita dal codice del processo amministrativo. L'art. 76 comma 4 del codice infatti rinvia espressamente all' art. 276 comma secondo c.p.c. secondo cui “il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e, quindi, il merito della causa”. Se dunque per norma tutte le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito (cfr. art. 187 c.p.c.) vanno esaminate prima di affrontare il merito della controversia, ciò a maggior ragione vale per le eccezioni relative al difetto di giurisdizione le quali hanno precedenza su tutte le altre questioni anche processuali (cfr. Cons. St.Ad. plen., n. 10/2011). Infatti, come è stato precisamente osservato, la questione relativa alla giurisdizione del giudice adito va necessariamente definita con assoluta priorità rispetto ad ogni altra questione, in rito e nel merito, atteso che il potere del giudice adito di definire la controversia sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia munito della potestas iudicandi, imprescindibile presupposto processuale della sua determinazione. (ad es. Cons. St. sez. V n. 5786 del 2013). In tale prospettiva vagliare l'appello incidentale sul difetto di giurisdizione solo dopo aver giudicato fondato nel merito l'appello principale rischia di risultare, in definitiva, alquanto contraddittorio poiché se il difetto di giurisdizione sussiste veramente tutto l'esame del merito (ricorso principale) sarà stato svolto da un giudice non titolato a farlo, in quanto privo di potestas iudicandi. D'altra parte, per completezza, deve ricordarsi che le sentenze rese dal Consiglio di Stato sono suscettibili di essere impugnate per difetto di giurisdizione e che quindi la parte ivi vittoriosa nel merito è potenzialmente esposta all'alea di siffatta impugnazione. Di talché non sembra immediatamente trasponibile nel processo amministrativo l'impostazione consolidata nella giurisprudenza della Suprema Corte (a far tempo da Cass.S.U.n. 5456 del 2009) secondo cui in sintesi nel giudizio civile di legittimità la parte vittoriosa nel merito non ha interesse a chiedere appunto che la Cassazione dichiari il difetto di giurisdizione di quel plesso giurisdizionale ordinario che le ha definitivamente dato ragione. L'adunanza plenaria, tuttavia, non ha deciso la relativa questione, lasciandola in sospeso in attesa dell'intervento delle sezioni unite. Rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione e art. 73, comma 3La possibilità per il giudice di primo grado di rilevare il difetto di giurisdizione d'ufficio ha posto il problema del coordinamento di tale potere con l'art. 73, comma 3, che impone al giudice, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, di indicarla in udienza, dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie. Dalla lettura dell'art. 73, comma 3 sembrerebbe che anche per il difetto di giurisdizione il collegio sia tenuto al contraddittorio endoprocedimentale pena la possibilità di annullamento della sentenza di primo grado da parte del giudice di appello per violazione delle garanzie partecipative. La Cass., con sentenza n. 16060/2015 ha chiarito che la valutazione dell'ammissibilità di un mezzo di impugnazione, nella logica sottesa alla qualificazione di un requisito come condizione di ammissibilità, è valutazione la cui necessità non sorge in forza di un rilievo del giudice, ma è imposta come condizione per l'esame dell'impugnazione dalle regole, che disciplinano l'esercizio del potere di impugnazione, il controllo del cui rispetto è doveroso per il giudice. Questo perché chi introduce un'impugnazione è tenuto al rispetto delle dette regole ed il giudice ha il dovere di controllare se esse siano state rispettate. Ne consegue, quindi, che la questione della loro osservanza non si può considerare come una questione che è introdotta dal giudice nel dibattito processuale come questione rilevante per la decisione, perché è già necessariamente parte del dovere decisorio del giudice per effetto dell'esercizio del diritto di impugnazione e la parte che esercita tale diritto, introducendo l'impugnazione è ben consapevole che, nell'esercitare tale diritto deve osservare le condizioni di ammissibilità e, quindi le forme ed i tempi in tal senso previste, e che esse debbono essere controllate dal giudice. Ne segue che, quando il giudice esercita tale controllo in sede decisoria e manifesta il risultato del suo esito, senza avere prima esternato l'intenzione di esaminare la relativa questione e senza che, d'altro canto, la parte che resiste all'impugnazione l'abbia a sua volta prospettata, la parte che ha esercitato il diritto di impugnazione non può in alcun modo lamentare che la questione di ammissibilità dell'impugnazione sia stata esaminata «a sorpresa» e, dunque, senza che le sia stato consentito di contraddire. Tale soluzione è confermata anche dalla nuova formulazione dell' art. 101, comma 2, c.p.c., in cui è presente la formula se il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio « ed in tale formula si evidenzia ancora più come il » porre a fondamento « debba riguardare una questione che non doveva porsi a fondamento della decisione secondo il dibattito svolto dalle parti e riguardo alla quale esse pertanto possono essere sorprese dall'esercizio del potere giudiziale. Il dovere del giudice di controllare i requisiti di ammissibilità dell'impugnazione esclude che la relativa questione sia una questione che, sebbene rilevata d'ufficio, possa dirsi posta a fondamento della decisione per iniziativa del giudice. Si tratta di questione che è posta a fondamento della decisione in adempimento del dovere di esame che la stessa impugnazione imponeva al giudice in ordine alla sua ammissibilità e che, concernendo Io stesso esercizio del potere delle parti, esse ben sapevano sarebbe stata oggetto di doveroso esame da parte del giudice. Applicando queste coordinate ermeneutiche al processo amministrativo, in considerazione del fatto che l' art. 73, comma 3 c.p.a. ricalca l'art. 101, comma 2, c.p.c., si può sostenere che anche nel processo amministrativo il giudice è tenuto a sollevare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio solo nel caso in cui queste ultime siano idonee a comportare nuovi sviluppi della lite in punto di fatto o di prova non presi in considerazione dalle parti. Solo in tali ipotesi la mancata segnalazione del giudice comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti non anche la mancata segnalazione di questioni di esclusiva rilevanza processuale del cui controllo le stesse parti sono preventivamente onerate, dovendo avere autonoma consapevolezza degli incombenti a cui la norma di rito subordina l'ammissibilità dell'esercizio giudiziale delle domande. BibliografiaCaianiello, Diritto processuale amministrativo, Torino, 2003; Verde, Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. Proc. amm. 3/2015, Vipiana Perpetua, Venire contra factum proprium in tema di giurisdizione: il nodo della soccombenza, in Giur. it. 2017, 2, 457 ss. |