Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 40 - (Contenuto del ricorso) 1

Ciro Daniele Piro

(Contenuto del ricorso)  1

 

1. Il ricorso deve contenere distintamente:

a) gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto;

b) l'indicazione dell'oggetto della domanda, ivi compreso l'atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza;

c) l'esposizione sommaria dei fatti;

d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso;

e) l'indicazione dei mezzi di prova;

f) l'indicazione dei provvedimenti chiesti al giudice;

g) la sottoscrizione del ricorrente, se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione, in questo caso, della procura speciale.

2. I motivi proposti in violazione del comma 1, lettera d), sono inammissibili.

Inquadramento

Il Libro II è dedicato al processo amministrativo di primo grado, che – in virtù del rinvio interno di cui all’art. 38 – rappresenta il modello del processo amministrativo, applicabile anche al processo di impugnazione e ai riti speciali, in assenza di espresse disposizioni derogatorie.

Il Titolo I del Libro II è dedicato alle disposizioni generali e disciplina la proposizione del ricorso principale, la costituzione delle parti e il ricorso incidentale.

La scelta di fondo è stata quella di individuare nel ricorso introduttivo, nel ricorso incidentale e nei motivi aggiunti gli strumenti, assistiti da analoga disciplina, con i quali innanzi al giudice amministrativo possono essere introdotte, anche da parti diverse ma in posizione di assoluta parità davanti al giudice, le azioni previste e disciplinate dal codice.

Ricorso introduttivo, ricorso incidentale e motivi aggiunti sono, quindi, i «veicoli» attraverso cui sono proposte le varie domande innanzi al giudice amministrativo.

In tali atti possono essere cumulate più domande (v. art. 32) e la disciplina introdotta con il c.p.a. non appare più incentrata sul modello del giudizio amministrativo di tipo impugnatorio, ma è idonea a configurare il ricorso come atto introduttivo anche di domande diverse (di accertamento o di condanna, ad esempio).

I contenuti essenziali del ricorso includono così l’indicazione dei mezzi di prova e dei provvedimenti chiesti al giudice; inoltre, si fa riferimento a l’indicazione dell’oggetto della domanda, che comprende il – e non è più limitato al - provvedimento eventualmente impugnato.

Contenuto del ricorso

La norma sul contenuto del ricorso è ripresa dal previgente art. 6 del r.d. n. 642/1907 con gli adattamenti necessari soprattutto a seguito dell’evoluzione del processo amministrativo, come codificata nel Codice approvato con il d.lgs. n. 104/2010, da un giudizio di tipo solamente impugnatorio ad un giudizio, dove possono essere esercitate una pluralità di azioni.

Il ricorso rappresenta l'atto introduttivo del giudizio amministrativo, con il quale la parte può avanzare non solo domanda di annullamento, ma altresì di accertamento e condanna. Anche grazie alla norma di rinvio interno di cui all'art. 38, la disciplina del ricorso assume un valore generale (Caringella,Manuale proc. amm., 280).

Il ricorso si è osservato costituire la forma archetipica di instaurazione dei giudizi in cui si fa questione di atti autoritativi, contrassegnati dalla non paritarietà delle posizioni giuridiche sostanziali delle parti. Nel corso del tempo, la sua funzione si è adattata all'evoluzione che ha subito il processo amministrativo e oggi rappresenta il modo di proposizione di tutte le azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo, e non della sola azione di annullamento (Traina, 565; Benvenuti,Proc. amm., 1987, 548).

Il suo contenuto proprio, indicato dall'art. 40, consiste nei seguenti elementi, che la norma prevede debbano essere indicati in in maniera distinta («distintamente»).

L'inammissibilità dei motivi di appello consegue non solo al difetto di specificità di cui all'art. 101, comma 1, ma anche in ragione della mancanza di una indicazione «distinta» degli stessi, in apposita parte del ricorso a loro dedicata, come imposto dall'art. 40 (applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall'art. 38) Cons. St. IV, n. 4636/2016.

Chiaramente non tutti gli elementi appena citati assumono carattere indispensabile e necessario, dovendo tale qualità essere invece attribuita agli elementi indicati all'art. 44, comma 1, che disciplina le fattispecie di nullità dell'atto introduttivo, se e nella misura la loro mancanza determina incertezza assoluta sulle persone o sull'oggetto della domanda (v. sub art. 44).

Come è stato notato, l'elencazione non appare nemmeno esaustiva, in quanto ai requisiti indicati si aggiungono: — l'intestazione al tribunale adito (art. 41, comma 1); — la dichiarazione del valore della causa ( ex art. 14, d.P.R. n. 115/2002); — l'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica e del numero di fax del difensore (art. 136).

Segue. Intestazione dell'atto e il giudice adito

Pur se non è incluso espressamente dalla norma in commento nel contenuto del ricorso, il successivo art. 41 precisa che «[l]e domande si introducono con ricorso al tribunale amministrativo regionale competente» (v. sub art. 41), con ciò comportando che il ricorso debba necessariamente contenere anche l'indicazione del giudice adito, che consente alle parti di conoscere presso quale giudice viene radicata la controversia.

Si ritiene, tuttavia, che la mancata indicazione del tribunale adito non comporti necessariamente la nullità dell'atto introduttivo, ma può determinare conseguenze sul piano dei diritti di difesa delle altre parti chiamate (Invernizzi, 93). In senso contrario, chi ritiene che debba in ogni caso propendersi per una ipotesi di nullità, sanabile in caso di costituzione delle parti intimate (De Nictolis,Codice proc. amm., 512; Caringella,Manuale proc. amm., 293).

Secondo un principio di accessorietà delle forme, non è rilevante lo specifico nomen iuris indicato nell’intestazione dell’atto (ad es. “citazione”, in luogo di “ricorso”), fintantoché l’atto abbia i contenuti prescritti e sia notificato e depositato nei tempi e nei modi stabiliti (Donato, in Caringella-Protto, Manuale, 441).

Non è requisito necessario l'indicazione della data dell'atto di ricorso. La sua mancanza, infatti, non comporta la nullità dello stesso, atteso che la data della compilazione o della sottoscrizione non è compresa dall'art. 40fra gli elementi essenziali del ricorso al giudice amministrativo. Tale assenza si spiega in base al fatto che la data giuridicamente rilevante, nel modello processuale in oggetto, non è quella della compilazione o della sottoscrizione, ma della notificazione, resa certa dalla relazione di notifica Cons. St. III, n. 2603/2014.

Segue. Indicazioni delle parti

La lett. a)  richiede che il ricorso contenga l'individuazione delle parti (non limitata, dunque, al solo ricorrente) e del difensore di quest'ultimo (quando è necessario il patrocinio di un avvocato).

In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011).

In caso di proposizione del ricorso nell'interesse di una persona giuridica, la stessa sta in giudizio in persona del legale rappresentante, e si dovranno indicare la denominazione della società, la sede legale, l'eventuale iscrizione al registro delle imprese, la partita Iva, il codice fiscale.

Nel processo amministrativo è ininfluente la mancata indicazione nel ricorso dei codici fiscali dei ricorrenti, atteso che tale incombente è previsto dall'art. 4, comma 8, lett. b), l. 22 febbraio 2010 n. 24 in relazione all' art. 163 comma 3 n. 2), c.p.c., mentre l'identificazione delle parti nel giudizio amministrativo è governata dalla regola dell' art. 40 c.p.a., che parla solo di identificazione delle parti Cons. St. IV, n. 1473/2013; Cons. St. VI, n.6737/2020.

L'indicazione del codice fiscale non è quindi richiesto a pena di nullità. Tuttavia, ai sensi dell' art. 13, comma 6, d.P.R. n. 115/2002, in caso di mancata indicazione del codice fiscale gli importi del contributo unificato sono aumentati della metà.

In caso di procura rilasciata a più difensori, si dovrà indicare per ciascuno di essi i dati indicati (C.F., fax, etc...). L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall' art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011 conv. con modif. nella l. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall' art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. nella l. n. 24/2010.

A partire dal 18 agosto 2014, per gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non è più obbligatoria l'indicazione dell'indirizzo Pec del difensore (v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002 modificati dall' art. 45-bis d.l. 90/2014 conv., con modif., nella l. n. 114/2014). Quando la parte deve notificare un atto, dovrà fare ricorso alla Pec risultante dagli elenchi o dal registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (solo se la notifica tramite Pec non è possibile per causa imputabile all'avvocato destinatario, la legge prevede che, a partire dal 25 agosto 2014, la parte possa eseguirla depositando l'atto in cancelleria; v. amplius, sub art. 136).

L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall' art. 136 e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall' art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv. con modif., nella l. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale.... il contributo unificato è aumentato della metà».

Per ciò che riguarda le altre parti, diverse dal ricorrente, nel caso della amministrazione resistente, dovrà indicarsi sia l'amministrazione nel suo complesso sia l'organo munito di rappresentanza legale in seno ad essa.

Non è necessaria l'individuazione delle altre parti con particolari formalità, essendo sufficiente anche indicarla nel corpo del ricorso, riferendosi e individuando l'ente o autorità che ha emanato l'atto (Traina, 566).

L'erronea denominazione dell'autorità intimata costituisce una mera irregolarità inidonea a provocare la nullità dell'atto introduttivo del giudizio, salvo che determini una situazione di incertezza sull'identificazione del destinatario dell'impugnativa ( Cons. St. IV, n. 2874/2007).

Anche i controinteressati – ossia coloro che possono subire un pregiudizio dall'accoglimento del ricorso – devono, se ricorrono determinate condizioni (v. sub art. 41), essere chiamati in giudizio e, quindi, indicati nell'atto introduttivo. La mancanza di tale indicazione non comporta tuttavia uno specifico vizio, fermo restando gli adempimenti in tema di notificazione.

È da respingere l'eccezione d'inammissibilità dell'atto introduttivo per non aver il ricorrente individuato, in maniera specifica in tale sede, un soggetto nella sua qualità di controinteressato. Invero, l'art. 41 richiede che il ricorso sia notificato al controinteressato e non che questo sia menzionato come tale nell'ambito dell'atto introduttivo. Analogo specifico onere non è previsto neanche nell'art. 40, comma 1, lett. a) del codice, che pone a carico del ricorrente di indicare distintamente le parti e non già di qualificarne specificamente la posizione nel processo ( T.A.R.>Umbria I, n. 282/2013).

Con riferimento al domicilio, con l’entrata in vigore del processo amministrativo telematico, a decorrere dal 1° gennaio 2018, il comma 1 dell’art. 25 – che prevede la domiciliazione ex lege presso la segreteria dell’ufficio giudiziario in caso di omessa elezione di domicilio – non trova più applicazione. Assume dunque rilevanza il domicilio digitale, corrispondente all’indirizzo PEC del difensore contenuto nei pubblici registri, che diviene “domicilio eletto ex lege” (v. Parere Ufficio Studi del Consiglio di Stato del 7 marzo 2018; v. anche il commento agli artt. 25 e 136).

A seguito della introduzione dell’obbligo di domicilio digitale (corrispondente all'indirizzo PEC del difensore), è preclusa la possibilità di effettuare le comunicazioni o le notificazioni presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario  (Cons. St., IV, n. 6089/2019).

In caso di assenza di un indirizzo PEC nei pubblici elenchi dedicati alla notifica degli atti giudiziari, è possibile effettuare la notifica attraverso il domicilio digitale indicato nell'indice IPA, con effetti equiparabili alla notifica cartacea (T.A.R. Lombardia, n. 3/2021).

Segue. L'oggetto della domanda

Ai sensi dell'art. 40, comma 1, lett. b), il ricorso deve contenere l'indicazione dell'oggetto della domanda, ivi compreso l'atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza.

Il Codice ha sostituito la precedente «indicazione dell'atto o provvedimento amministrativo che s'impugna e della data della sua notificazione» (prevista dal R.d. 17 agosto 1907, n. 642) con «l'indicazione dell'oggetto della domanda, ivi compreso l'atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza». Tale cambiamento, si è notato, risponde all'evoluzione del paradigma processuale amministrativo secondo la quale l'impugnazione di un atto è, oggi, solo uno dei possibili oggetti della domanda (Chieppa, Il processo amministrativo, 280).

Tale requisito risponde all'esigenza di definire l'ambito oggettivo del ricorso, rilevante in base al principio della domanda, che impone al giudice di provvedere nei limiti di questa (v. sub art. 34).

Il processo amministrativo si configura infatti come processo di parte, nell’ambito del quale spetta alle parti la disposizione dell’oggetto del processo, delle richieste e dell’allegazione delle prove.

 Malgrado attenuazioni di tale carattere in considerazioni di norme che prevedono poteri esercitabili d’ufficio (ad es., la possibilità di pronunciarsi nel merito, in sede di esame della domanda cautelare ex art. 60), la parte si ritiene mantenere “la signoria” sulla domanda nel processo (Casetta, 754).

Il principio della domanda influenza altresì il potere del giudice amministrativo di sollevare una questione di costituzionalità, come condizionato dalle scelte del ricorrente. Infatti, una questione di costituzionalità potrà essere sollevata sulla base delle norme fatta valere nell’atto introduttivo del processo e non basandosi su altre norme non contenute nell’oggetto del ricorso (assumendone la non necessarietà rispetto al sindacato sul vizio dedotto). Nel processo amministrativo il potere di rilevare d’ufficio un dubbio di costituzionalità non sembra quindi “auto-limitato” dalle norme individuate dallo stesso giudice ma “etero-limitato” e vincolato alle norme indicate dal ricorrente. In questa logica la nozione di rilevanza nel processo amministrativo può essere qualificata in modo peculiare come una rilevanza condizionata (Pignatelli).

I provvedimenti impugnati devono essere specificamente inclusi nell’oggetto della domanda ed a questi devono essere direttamente collegate le specifiche censure. Ciò in quanto solo l’inequivoca indicazione del petitum dell’azione di annullamento consente alle controparti la piena esplicazione del loro diritto di difesa (TAR Lazio, n. 13300/2021). Non è, quindi, sufficiente a radicarne l’impugnazione il generico richiamo, nell’epigrafe del ricorso, alla richiesta di annullamento degli «atti presupposti, connessi e conseguenti» o la mera citazione di un atto nel corpo del ricorso stesso (Cons. St. III, n. 2843/2019; Cons. St. V., n. 5609/2017; Cons. St. IV, n. 2960/2013).

L'oggetto del ricorso può anche riguardare più atti individuati, tra loro collegati, vertendosi in un'ipotesi di ricorso cumulativo (v. art. 32).

Quindi, laddove sia proposta l'azione di annullamento, l'unicità o pluralità di domande si determina esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti (Cons. St. Ad. plen., n. 5/2015).

L'azione impugnatoria esige la puntuale indicazione nel ricorso, oltre che della causa petendi (i motivi del gravame) anche del petitum e, cioè, la domanda di annullamento dell'atto impugnato (che dev'essere puntualmente identificato ai sensi dell'art. 40, comma 1, lett. b). Così, nel caso in cui siano impugnate le diverse aggiudicazioni di distinti lotti di una procedura selettiva originata da un unico bando, l'ammissibilità del ricorso cumulativo (e quindi di una articolazione del petitum) resta subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni. In simile circostanza, si verifica infatti una identità di causa petendi e la riferibilità delle diverse domande di annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa demolitoria (con conseguente necessità di una trattazione congiunta) (Cons. St.III , n. 7527/2021; Cons. St. V, n. 2543/2016).

Non occorre nel ricorso che sia altresì indicata, da parte del ricorrente la data in cui ha conosciuto gli atti impugnati, che non è richiesta a pena di nullità/inammissibilità del ricorso; è peraltro è onere delle parti resistenti eccepire la tardività del ricorso che non risulti ictu oculi dagli atti di causa ( T.A.R.Marche I, 7 novembre 2014 n. 920).

Analogamente, l'individuazione degli atti impugnati deve essere operata non con riferimento alla sola epigrafe, ma in relazione all'effettiva volontà del ricorrente, desumibile dal tenore complessivo del gravame e dal contenuto delle censure dedotte. Quindi, sono oggetto d'impugnativa tutti gli atti che, seppure non espressamente indicati tra quelli impugnati ed indipendentemente dalla loro menzione in epigrafe, costituiscono oggetto delle doglianze di parte ricorrente in base ai contenuti dell'atto di ricorso.

L’impugnazione di un provvedimento non postula l'adozione di formule sacramentali, quando la volontà del ricorrente possa agevolmente ricavarsi dal testo del ricorso dal quale sia chiaramente desumibile il contenuto dispositivo ed ogni altro elemento identificativo del provvedimento effettivamente contestato (Cons. giust. amm. n. 1158/2020).

In tale prospettiva, persino l'errata individuazione degli estremi del provvedimento impugnato non rende inammissibile il ricorso, quando dalla lettura complessiva di quest'ultimo l'atto impugnato sia comunque chiaramente individuabile (T.A.R.Abruzzo (Pescara), I, 14 aprile 2015 n. 157). Analogamente, si è ritenuta ritualmente proposta una domanda di risarcimento consequenziale alla richiesta di annullamento dell’atto, se tale volontà emerge dal contenuto complessivo del ricorso introduttivo, senza che rilevi il fatto che l’epigrafe del ricorso e le conclusioni non vi facessero riferimento (Cons. St., VI, n. 12/2018).

Tale principio – che fa prevalere il contneuto sosanziale del ricorso a quello formale – ha condotto ad affermare la possibilità anche di un ricorso c.d. «al buio», ove il ricorrente impugni un atto di cui non conosce con precisione gli estremi o il contenuto, ma si trovi in una posizione tale da poter in ogni caso percepirne la lesività a prescindere da detti elementi (Caringella, Manuale proc. amm., 300).

La tesi appare tuttavia non trovare pieno accoglimento in giurisprudenza, che, specialmente in tema di appalti, è orientata nel riconoscere, in simili circostanze di non identificabilità del provvedimento da impugnare, un prolungamento del termine per ricorrere in misura pari al tempo necessario affinché il soggetto interessato consegua una piena conoscenza del contenuto dell’atto e dei profili di illegittimità (Cons. St. Ad. Plen., n. 12/2020; Cons. St. III, n. 1437/2021; Cons. St. III, n. 4432/2014; TAR Lazio, III, n. 9877/2021; TAR Lombardia, II, n. 2390/2020). In termini più generali, si è ritenuto che la prospettazione di una censura «al buio» debba essere ammessa quando la parte ricorrente non abbia avuto la possibilità di accedere alla documentazione in possesso dell'Amministrazione e si sia riservata, quindi, di meglio articolare le proprie difese al momento in cui, spontaneamente o iussu judici, tali documenti siano stati depositati in giudizio. Ciò richiede, tuttavia, che, a seguito dell'intervenuto deposito, con lo strumento dei motivi aggiunti, il ricorrente abbia sviluppato le questioni prospettate in via ipotetica con l'atto introduttivo del giudizio, con l'effetto di rendere ammissibili le pertinenti censure. Tale modalità di impugnazione degli atti non potrà chiaramente trovare applicazione tutte le volte in cui la tardiva conoscenza di nuovi elementi sia colposa, ossia imputabile a negligenza del ricorrente (che non ha tempestivamente posto in essere tutte le iniziative idonee ad acquisire cognizione dei documenti amministrativi), altrimenti si verrebbe ad eludere la regola del termine breve di decadenza di legge per impugnare ( T.A.R.Lazio (Roma) III, 4 agosto 2016, n. 9058; T.A.R.Sicilia (Catania) I, 23 maggio 2014 n. 1424).

Con riguardo alla necessità che l'impugnazione indichi in maniera esplicita, come oggetto, eventuali atti regolamentari presupposti (anche chiedendone la disapplicazione), secondo un recente indirizzo la mancata indicazione non preclude al giudice di disapplicare d'ufficio il regolamento, atteso che la disapplicazione riguarda l'interpretazione delle norme che disciplinano il rapporto controverso e può essere disposta d'ufficio (anche per la prima volta in grado d'appello) dal giudice (Cons. St. VI, n. 5753/2017; Cons. St. III, 3623/2014).

Nei casi in cui il ricorso introduce giudizi diversi da quello di annullamento, la domanda dovrà indicarne l'oggetto, individuandolo di volta in volta in funzione della specifica domanda (il più delle volte, gli estremi del fatto dal quale il comportamento di cui si chiede l'accertamento sia desumibile). Si rinvia, al riguardo, al commento relativo alle specifiche norme delle azioni di accertamento o condanna.

Anche in caso di giudizio in parte impugnatorio, l'oggetto della domanda potrà, quindi, non essere limitato all'annullamento degli atti impugnati e risultare maggiormente collegato alla pretesa sostanziale fatta valere.

Ciò contribuisce a sminuire la rilevanza di questioni formali, quali quelle inerenti l'apposizione di mere clausole di stile dirette ad estendere l'oggetto del giudizio agli atti connessi, presupposti e consequenziali.

Resta fermo che la dizione generica e di stile apposta nel ricorso, secondo cui sono impugnati « tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali », non integrata da alcuna specificazione nel testo del ricorso, non può ritenersi sufficiente a far ricomprendere nell'oggetto dell'impugnazione atti non nominati, direttamente lesivi e direttamente impugnabili.

In giurisprudenza, si è ritenuto improcedibile per mancata impugnazione del provvedimento di aggiudicazione il ricorso con cui si censura la decisione dell'amministrazione di ricorrere ad una procedura negoziata, essendo inidonea a soddisfare l'onere di impugnazione del provvedimento di aggiudicazione la mera dicitura “tutti gli ulteriori atti antecedenti, concomitanti e susseguenti” contenuta nell'epigrafe del ricorso, rappresentando, questa, una mera formula di stile  (Cons. St., III, n. 6287/2021; TAR Umbria (Perugia), n. 46/2022;  T.A.R.Lazio (Roma) I-bis, 21 agosto 2017, n. 9339).

Con riferimento agli atti consequenziali, la giurisprudenza aveva già ritenuto ormai superato l'orientamento che sosteneva l'inammissibilità del ricorso avente ad oggetto l'atto presupposto, per sopravvenuta carenza di interesse nel caso di omessa impugnazione del successivo e consequenziale provvedimento.

Reciprocamente, in caso di mancata impugnazione del provvedimento presupposto e autonomamente lesivo, divenuto inoppugnabile, è stata ritenuta inammissibile l'impugnazione dell'atto consequenziale per vizi riconducibili all'atto presupposto. Al contrario, è ammissibile l’impugnazione dell’atto presupponente per vizi propri ed autonomi (T.A.R. Lombardia (Milano)n. 360/2021).

Al contrario, era stato considerato più coerente con l'evoluzione del processo amministrativo, il cui oggetto si è progressivamente spostato dall'atto al rapporto controverso, ritenere che l'annullamento dell'atto presupposto comporti l'automatica caducazione dell'atto consequenziale, ad eccezione delle fattispecie in cui con l'atto posteriore sia stato conferito un bene o una qualche utilità ad un soggetto non qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l'atto presupposto (cfr. Cons. St. III., n. 3638/2013; Cons.St. VI, n. 5677/2001. V. anche, Cons. St. V, n. 447/1994; Cons. giust. amm. Sicilia n. 154/1996; Cons. giust. amm. Sicilia n. 398/1997). Nei casi in cui il rapporto tra atto presupposto e atto consequenziale determina che quest’ultimo ha un carattere meramente esecutivo del primo, ovvero fa parte di una sequenza procedimentale che lo rende di derivazione immediata, non susssiste l’esigenza di impugnare anche l’atto consequenziale (Cons. St., VI, n. 1590/2017; T.A.R. Lazio (Roma)n. 12550/2021).

Peraltro, tale indirizzo non è indebolito dall'introduzione nel processo amministrativo del rimedio dell'opposizione di terzo, in seguito alla sentenza della Corte cost. n. 177/1995 (e oggi in base al Codice), in quanto proprio il riconoscimento al terzo di un rimedio successivo di reazione, conferma la necessità di efficaci meccanismi preventivi di partecipazione, che evitino conflitti risolvibili con l'opposizione di terzo.

Segue. Indicazione dei fatti, motivi e mezzi di prova

Proseguendo nella indicazione del contenuto del ricorso, l'art. 40 elenca taluni ulteriori requisiti: ossia, «c) l'esposizione sommaria dei fatti; d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso; e) l'indicazione dei mezzi di prova; f) l'indicazione dei provvedimenti chiesti al giudice». Tali elementi erano prima (art. 6 r.d. 17 agosto 1907, n. 642) raggruppati unitariamente; mentre l'art. 40 prevede che gli stessi siano indicati «distintamente». La modifica sembra appunto evidenziare la volontà di individuare, in maniera formalmente distinta, i suddetti elementi, considerati tutti necessari (Caringella, Manuale proc. amm., 283).

L'esposizione dei fatti rappresenta la narrazione delle circostanze storico-ambientali che sottostanno al comportamento tenuto dall'autorità amministrativa, questa deve essere adeguata al tipo di motivo dedotto, con la conseguenza che essa non è qualcosa di intrinsecamente distinto dai motivi di diritto, ma, anzi, questi due elementi del ricorso tendono spesso ad immedesimarsi, potendo, infatti ritenersi che l'esposizione dei fatti rappresenti la sostanza in cui si materializzano le violazioni giuridiche contestate.

Inoltre, con il secondo correttivo al Codice ( d.lgs. n. 160/2012) è stata espressamente sancita la inammissibilità delle censure proposte in violazione della regola secondo cui nel ricorso devono essere indicati i motivi specifici su cui si fonda il ricorso.

Se il ricorso amministrativo viene diviso in «fatto» e «diritto», i motivi di censura devono essere contenuti nella parte in diritto, e sono per l'effetto inammissibili i motivi intrusi, contenuti invece nella parte in fatto: tale principio è stato codificato dal secondo d.lgs. correttivo del c.p.a. in sede di novella dell' art. 40 c.p.a. (Cons. St. II, n. 113/2022; Cons. St. VI, n.  5469/2012; T.A.R.Lazio (Latina) I, 7 aprile 2015, n. 314).

È stato dichiarato inammissibile il ricorso per eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alla pronuncia con cui il giudice amministrativo, facendo applicazione della sanzione stabilita dall'art. 40 (e dall'art. 3, comma 2) ha dichiarato l'inammissibilità dell'atto d'appello per violazione dei doveri di specificità, chiarezza e sinteticità espositiva. L'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo sussiste solo nel caso di un radicale stravolgimento delle norme di rito che implichi un evidente diniego di giustizia ( Cass. S.U., n. 964/2017).

In altro caso, il giudice ha ritenuto inammissibile il ricorso, per violazione dei doveri di chiarezza, sinteticità e specificità, in presenza di motivi non articolati distintamente, ma esposti confusamente con commistione di considerazioni in fatto. In particolare, il giudice ha rilevato come tale modalità espositiva comporta il rischio di dare ingresso ai c.d. ‘motivi intrusi', ossia a motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminino tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano in un vizio revocatorio (Cons. St., IV, n. 8325/2023).

In precedenza, era stato ritenuto che la genericità dei motivi, dalla quale deriva l'inammissibilità del ricorso giurisdizionale, sussiste solo quando il giudice non sia posto in grado di comprendere quali vizi il ricorrente deduca per sostenere l'invalidità del provvedimento impugnato. Fuori di questi limiti, è dovere del giudice interpretare il gravame ed esaminarne le censure, ancorché non organicamente articolate, ricavandole dal testo del ricorso, ivi compresa l'esposizione in fatto ( Cons. St. V, n. 601/1998).

Con la modifica introdotta dal codice in relazione alla specificità dei motivi, si è ritenuto che la stessa debba intesa con una certa elasticità, nel senso cioè di ritenere inammissibile il ricorso solamente nelle ipotesi in cui non sia dedotto alcun motivo di impugnazione, o in cui, comunque, dalla complessiva lettura dell'atto e dei documenti offerti in comunicazione non sia possibile comprendere la doglianza avanzata dal ricorrente. In tali casi, infatti, i motivi di ricorso non specifici vanno dichiarati inammissibili per effetto dell' art. 40 comma 2, c.p.a. (T.A.R. Campania (Napoli) III, 23 marzo 2016, n. 1524). Di contro, il requisito normativo è da ritenersi soddisfatto qualora il ricorso renda intellegibili le tesi sostenute e offra quanto meno un principio di prova a sostegno delle stesse (T.A.R.Friuli-Venezia Giulia (Trieste) I, 12 maggio 2016, n. 166).

Il principio si è tradotto con rigore nel contenzioso elettorale, richiedendosi, a pena d'inammissibilità del ricorso giurisdizionale, nel caso in cui vengono contestate le schede elettorali, la necessità, per chi alleghi l'esistenza di falsi, di specificare con rigore dove i medesimi si nascondono — (Cons. St. V, n. 610/2016); nello stesso senso, l'esigenza di una precisa ed univoca definizione del «thema decidendum» s'impone anche in materia elettorale e non permette di attribuire valenza di motivo di ricorso ad espressioni che, senza integrare critiche di legittimità di senso compiuto, potrebbero essere considerate, al più, alla stregua di involute allusioni (Cons. St. V, n. 3795/2013).

In tema di contenzioso in materia edilizia, si è ritenuto inammissibile, in quanto estremamente generico, ai sensi dell'art. 40, comma 2, la mancata specificazione né della categoria di intervento edilizio in cui ritiene ricomprese le opere realizzate oggetto di contestazione (nuova edificazione, ristrutturazione, sostituzione edilizia, ecc.) né quale norma ritiene nella specie applicabile, limitandosi ad un generico richiamo alla avvenuta violazione degli artt. 78 e 79 della legge regionale n. 1 del 2005, che contengono però l'intera disciplina degli interventi edilizi assentibili (T.A.R.Toscana (Firenze) III, 3 febbraio 2016, n. 193).

Pertanto, in termini più generali, si può concludere che si rende necessario, ai fini della proponibilità del ricorso, che il ricorrente esprima censure puntuali articolate in motivi contenenti la specificazione dei vizi da cui ritenga inficiata la legittimità degli stessi provvedimenti. Al contrario, non possono trovare ingresso rilievi di contenuto generico che si risolverebbero in una inammissibile azione sollecitatoria di un esame degli stessi provvedimenti da parte del giudice amministrativo. Ciò sempre tenendo in mente che, di regola, i requisiti di forma-contenuto degli atti processuali devono essere letti ed interpretati avendo riguardo il principio generale di strumentalità delle forme rispetto allo scopo attraverso di esse perseguito ( art. 156 c.p.c).

In questa ottica, l'onere di specificazione dei motivi può intendersi assolto solo qualora sia possibile desumere dal ricorso giurisdizionale la natura ed il significato delle doglianze avanzate, che devono essere formulate in modo da consentire al giudice adito di comprendere quali siano i vizi dedotti per sostenere l'invalidità dell'atto impugnato (non basta dunque dedurre genericamente un vizio, ma bisogna precisare il profilo sotto il quale il vizio viene dedotto, e, ancora, indicare tutte quelle circostanze dalle quali possa desumersi che il vizio denunciato effettivamente sussiste, sì da inficiare la legittimità del provvedimento impugnato) (Cons. St., III, n. 5356/2020 T.A.R. Lazio (Latina) I, 7 aprile 2015, n. 314).

Si è dunque affermata l'inammissibilità, ai sensi dell'art. 40, di motivi di ricorso consistenti in censure assolutamente generiche, fidando in una sorta di inammissibile intervento correttivo del giudice, che sarebbe così chiamato ad una sostanziale integrazione delle lacune difensive, integrazione che si porrebbe però in contrasto con la necessaria terzietà dell'organo giudicante e con il principio della parità delle parti nel processo (Cons. St., IV, n. 5368/2022; TAR Lazio, I, 29 gennaio 2024, n. 1631; T.A.R. Lombardia (Milano), IV, 22 marzo 2017, n. 694).

L'onere di allegare motivi specifici deve poi essere declinato anche in relazione al tipo di sindacato che si chiede al giudice di esercitare. Ne segue che, posto che in caso di giurisdizione di legittimità, il sindacato del giudice amministrativo sull'esercizio della attività amministrativa non può sostituirsi a quello della pubblica amministrazione (anche nell'ambito della c.d. discrezionalità tecnica),  motivi di censura attinenti il merito della valutazione amministrativa sono inammissibili, in quanto comporterebbero per il giudice l'esercizio di un sindacato sostitutivo, al di fuori dei casi sanciti dall'art. 134 c.p.a. (cfr. Cons. St. V, n. 173/2019; Cons. St. III, n. 6572/2018 e, da ultimo, con riguardo alla attività valutativa di una commissione giudicatrice, v. Cons. St. III, n. 6058/2019). I motivi di ricorso, pertanto, dovranno essere articolati non tanto nel senso di esprimere la non condivisibilità di una determinata valutazione (come nel caso di margini di fisiologica opinabilità), ma per evidenziarne “la palese inattendibilità e l'evidente insostenibilità del giudizio tecnico compiuto”, in presenza, ad esempio di una motivazione pretestuosa, irrazionale o affetta da travisamento di fatti (Cons. St., V, n. 10203/2023; Cons. St. III, n. 6058/2019; TAR Lazio, III, 8 marzo 2024 ,n. 4718 e, IV, 5 aprile 2024, n. 6694).

Va poi tenuto conto che il ricorrente può, nel ricorso, anche graduare l'ordine in cui chiede che avvenga l'esame dei propri motivi e, in tal caso, il giudice è tenuto a rispettare tale ordine. Tale facoltà deriva dalla più ampia libertà della parte di individuare e delimitare il perimetro del thema decidendum: così come al giudice non è consentito cercare vizi di legittimità di propria iniziativa, così deve ammettersi che la parte possa imporre a quest'ultimo un ordine di esame dei vizi di legittimità e delle eventuali domande di annullamento in funzione della sua utilità specifica.

Sul punto l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha fornito taluni chiarimenti in ordine alla facoltà della parte di indicare un ordine di trattazione dei motivi di ricorso e ai conseguenti effetti per il giudice. In particolare, si è affermato che ( Cons. St.  Ad. plen. , n. 5/2015):

(i) la graduazione della parte è idonea a vincolare il giudice all'esame di alcuni motivi e domande di annullamento, ad eccezione dei casi in cui, ai sensi dell' art. 34, comma 2, c.p.a., il vizio dedotto si traduca nel mancato esercizio di poteri da parte dell'autorità competente. Secondo tale impostazione, quindi, il rispetto dell'ordine dei motivi indicato dalla parte può portare, in concreto, ad un risultato non in linea con la tutela piena dell'interesse pubblico e della legalità (ciò si manifesta in particolare nelle controversie aventi ad oggetto procedure competitive o selettive, allorquando il ricorrente anteponga l'esame delle censure che gli permettono di conseguire il bene della vita finale — l'aggiudicazione di una gara d'appalto, la nomina ad un pubblico ufficio, l'inserimento in un graduatoria —, rispetto a quelle il cui accoglimento implicherebbe l'eliminazione di tutta o parte della sequenza procedurale attraverso la rimozione di tutti i vizi riscontrati);

(ii) la facoltà della parte di vincolare il giudice ad un ordine di esame trova il suo limite nella norma di carattere generale (art. 34, comma 2) che dispone che in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (norma espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri). Ne deriva che in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus;

(iii) a tal fine la graduazione non si identifica con il mero ordine di proposizione dei motivi o delle domande di annullamento, ma deve essere formulata in modo esplicito. Ciò si spiega in ragione del fatto che l'ordine di graduazione determina una eccezione all'obbligo del giudice di esaminare tendenzialmente tutti i vizi di legittimità costitutivi del thema decidendum.

Anche in assenza di una espressa graduazione dei motivi, l'ordine con cui il giudice procede ad esaminare le censure non può prescindere dal principio dispositivo, che regola anche il processo amministrativo, e comporta la necessità di esaminare prima quelle censure da cui deriva un effetto pienamente satisfattivo della pretesa del ricorrente.

In assenza di espressa graduazione operata dalla parte (e in considerazione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio, legato al controllo giurisdizionale, su domanda dell'interessato, sull'esercizio di una funzione pubblica), si riespande nella sua pienezza l'obbligo del giudice di primo grado di pronunciare su tutti i motivi e le domande. Ne segue che il giudice (anche di appello) individua l'ordine di trattazione dei motivi e delle domande di annullamento in primis sulla base della loro consistenza oggettiva avendo riguardo alla maggiore o minore radicalità del vizio, nonché sulla base della consistenza e al rapporto di priorità logica (o diacronico procedimentale) tra le stesse, anche assorbendo questioni di rito che appaiono infondate, per ragioni di economia processuale (Cons. St. II, n. 3290/2019; Cons. St. VI n. 358/2016; Cons. St. Ad. plen. n. 5/2015; T.A.R. Lazio (Roma), III 4 agosto 2016, n. 9086; T.A.R. Liguria II, 5 novembre 2015, n. 883).

Nel processo amministrativo, la tecnica dell'assorbimento dei motivi consegue al riconoscimento in capo al giudice del potere di decidere l'ordine di esame dei vizi — motivi (e delle domande di annullamento). Si è sviluppata secondo una prassi per cui il giudice «sceglie» un motivo fondato di ricorso e sulla base di questo solo motivo, che accoglie, annulla il provvedimento, omettendo di esaminare le altre censure proposte dal ricorrente, che vengono, appunto, dichiarate assorbite.

Si comprende dunque come la tecnica dell'assorbimento si prestava ad essere utilizzata in modo tale da condurre, in alcuni casi, alla pronuncia di sentenze di annullamento per vizi di mera forma che lasciavano, invece, impregiudicate le questioni d'ordine sostanziale. Duplici erano dunque le potenziali conseguenze negative: una prima, per il ricorrente, la cui pretesa apparentemente soddisfatta dalla sentenza di accoglimento, poteva non esserlo nella sostanza, se l'amministrazione reiterava l'atto riproducendo i vizi dedotti dal ricorrente con i motivi assorbiti; una seconda, per l'Amministrazione, che rimaneva nell'incertezza circa la fondatezza delle censure sostanziali e dunque sulle modalità di un eventuale riesercizio della funzione pubblica.

Proprio per i possibili effetti negativi che l'assorbimento poteva determinare, nello schema originario del c.p.a. era stata prevista una disposizione espressa secondo cui il giudice quando accoglie il ricorso, deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente.

Si ritiene tuttavia che tale principio sia tendenzialmente evincibile dal sistema attuale del codice e debba ritenersi operante pur in difetto di espressa previsione (peraltro si possono individuare taluni riferimenti normativi nell' art. 40, comma 1, lett. a), d.l. n. 90/2014 che, modificando l'art. 120, comma 6,, ha previsto esplicitamente che il «il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti»).

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (112 c.p.c.) e il conseguente dovere del giudice di pronunciarsi su tutta la domanda, unitamente alle esigenze di miglior cura dell'interesse pubblico e della legalità, comportano che il c.d. assorbimento dei motivi sia, in linea di principio, da considerarsi vietato. Tuttavia, limitate e ben circostanziate deroghe al divieto di assorbimento sono ammissibili nelle seguenti ipotesi generali: a) espressa previsione di legge; b) evidenti e ineludibili ragioni di ordine logico — pregiudiziale; c) ragioni di economia processuale, se comunque non risulti lesa l'effettività della tutela dell'interesse legittimo e della funzione pubblica. Deve allora ritenersi legittimo l'assorbimento dei motivi quando è espressione consapevole del controllo esercitato dal giudice sull'esercizio della funzione pubblica, sussistendo un rapporto di stretta e chiara continenza, pregiudizialità o implicazione logica tra la censura accolta e quella non esaminata. Tale conclusione è inevitabile in un contesto sistematico diretto ad assicurare il più intenso e integrale accertamento del rapporto amministrativo controverso, in relazione ai profili ritualmente prospettati dalle parti interessate, anche per evitare lunghi e defatiganti contenziosi diretti a riproporre le stesse domande in seguito al rinnovo del provvedimento, affetto dagli stessi vizi non esaminati dal giudice (Cons. St. IV , n. 706/2018;  Cons. St. Ad. plen. , n. 5/2015).

L'assorbimento dei motivi – e la loro mancata riproposizione in appello – determina la loro estraneità al thema decidendum del giudizio di appello e, in caso di remissione alla adunanza plenaria, l'impossibilità per quest'ultima di esprimersi sulla relativa questione rimasta assorbita (Cons. St., Ad. Plen., n. 13/2023).

L'eventuale assorbimento dei motivi disposto dal giudice amministrativo deve in ogni caso conformarsi alla fondamentale necessità che la soluzione prescelta, anche in mancanza di espressa graduazione dei motivi, deve essere quella che meglio soddisfa l'interesse del ricorrente. Secondo tale indirizzo consolidato, la discrezionalità del giudice di organizzare le priorità nell'esame della materia del contendere secondo un determinato ordine logico è strettamente correlata all'interesse di cui la parte ricorrente chiede tutela ( Cons. St. V, n. 4513/2015; Cons. St. V, n. 4513/2015).

Nel procedere alla individuazione dei motivi, il giudice non dovrà riferirsi alla sola enunciazione formale degli stessi, ma dovrà avere riguardo al contenuto sostanziale del ricorso (come articolato nella esposizione dei fatti e nell'ordine argomentativo del petitum di annullamento) da cui è desunto il tema controverso nei suoi aspetti in fatto e diritto (Cons. giust. amm., n. 303/2022; Cons. St. II, n. 2894/2020; Cons. St. III, n. 4231/2015).

Come può decidere l'ordine di graduazione dei motivi, il ricorrente può anche rinunciare a singoli motivi, consentendo così al giudice di prescinderne l'esame. Tale rinuncia, infatti, rientra nel potere dispositivo del ricorrente e risulta ammissibile, anche ove contenuta in una memoria depositata in giudizio. Diversamente da quanto avviene per la rinuncia al ricorso, la rinuncia a singoli motivi si perfeziona con il semplice deposito in giudizio, non integrando la fattispecie di un atto ricettizio nei confronti delle altre parti (Tar Lombardia, n. 2039/2018; T.A.R. Veneto, n. 431/2016 ; Cons. St. V, n. 3373/2021; Cons. St. IV, n. 5190/2014 Cons. St. VI, n. 2941/2010 ).  

La norma in commento estende l'oggetto del contenuto del ricorso anche alla indicazione dei mezzi di prova.

Si tratta di una innovazione maggiormente coerente con un processo di parti che riflette la costante giurisprudenza che, ai fini della pretesa azionata, riteneva necessaria l'allegazione di un adeguato principio di prova circa i presupposti condizionanti la stessa. Si tratta di un principio generale del processo, in base al quale spetta al ricorrente fornire al giudice un principio di prova che possa smentire le risultanze degli atti del procedimento. Tale principio è oggi testualmente riportato nella nuova formulazione dell'art. 40, comma 1, lett. e) che impone al ricorrente di indicare in ricorso «i mezzi di prova» di cui intende avvalersi per contestare le risultanze dell'azione amministrativa.

Si è osservato che si tratta, anche in tal caso, di una indicazione priva di sanzione, come si evince anche da altre correlate disposizioni che impongono anche alle altre parti di fornire documenti e atti utili al giudizio (art. 46, con riferimento all'amministrazione), nonché della norma di cui all'art. 45, comma 4, in base alla quale «la mancata produzione, da parte del ricorrente, della copia del provvedimento impugnato e della documentazione a sostegno del ricorso non implica decadenza». Le parti hanno inoltre la facoltà, nel corso del processo, di proporre istanze motivate al fine di stimolare l'esercizio dei poteri istruttori, tesi ad assicurare la completezza della istruttoria (art. 65) (Traina, 569).

In base al principio generale in materia di onere della prova, secondo cui esso è posto a carico delle parti che intendano proporre domande o eccezioni, l'art. 40 prescrive che nell'atto di ricorso siano indicati i mezzi di prova a fondamento del «petitum» diretto al giudice. Ciò è ulteriormente specificato nell'art. 64, in base al quale «spetta alle parti l'onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni», pur essendo consentito al giudice disporre anche d'ufficio l'acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della P.A. ( T.A.R. Lazio (Roma) I, 12 maggio 2021, n. 55889 marzo 2012, n. 2371; T.A.R. Liguria II, 21 marzo 2014, n. 438).

Se è pur vero è che nel processo amministrativo esiste una ontologica diseguaglianza delle parti con riguardo alle prove, il c.d. principio dispositivo con metodo acquisitivo (in base al quale il giudice può supplire alle carenze probatorie derivanti dalla maggior vicinanza della prova all'amministrazione), ne rappresenta un temperamento, che non può certo giungere a sovvertire il fondamentale principio per cui chi agisce in giudizio deve chiaramente indicare l'oggetto della propria pretesa. L'esercizio da parte del giudice di poteri istruttori d'ufficio rappresenta dunque una extrema ratio e, in ogni caso, resta fermo che, anche allorquando i fatti non sono nella piena disponibilità del ricorrente, giammai al giudice sarebbe consentito far uso dei suoi poteri per indagare circa la reale volontà della parte al di là di quanto da essa esplicitato nella domanda giudiziale, in buona sostanza, sostituendosi alla stessa e compromettendo il principio di assoluta terzietà dell'organo giudicante rispetto agli interessi in gioco. Il principio dispositivo con metodo acquisitivo «non può, comunque, mai ridursi ad un'assoluta e generale inversione dell'onere della prova e comunque non consente al giudice amministrativo di sostituirsi alla parte onerata quando la ricorrente non si trovi nell'impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione» ( (T.A.R. , Napoli , sez. III , 04 ottobre 2021, n. 6197;  T.A.R. Lazio (Roma) I, 24 giugno 2015 n. 8639). Pertanto, chi agisce in giudizio a tutela di un proprio diritto è tenuto indicare e allegare tutti gli elementi, i dati e i documenti idonei a sostenere la sua pretesa, domandando al giudice di accertare in concreto la sussistenza dei fatti dedotti; è invece inammissibile il ricorso (anche collettivo) che non contiene elementi in ordine alle condizioni di legittimazione e di interesse di ciascuno dei ricorrenti, in quanto ciò impedisce al giudice di controllare il concreto e personale interesse sotteso al ricorso e, in caso di ricorso collettivo, l'omogeneità dello loro posizioni e la concreta fondatezza della domanda (Cons. St. III, n. 4369/2019).

L'onere di specificazione dei motivi e di indicazione di un principio di prova è stato considerato applicabile anche nel caso dell'atto di riproposizione del giudizio a seguito del difetto di giurisdizione del G.O. (la «translatio iudicii» deve seguire le regole che disciplinano tale processo e deve pertanto avere i requisiti previsti dall'art. 40 comma 1 lett. d), non trovando pertanto applicazione l' art. 125 delle disp. att. del c.p.c., il quale non indica tra gli elementi necessari dell'atto di riassunzione l'indicazione specifica dei motivi) ( Cons. St. IV, n. 6442/2014).

Oltre agli elementi appena descritti, l'art. 40 include nel contenuto del ricorso anche i provvedimenti chiesti al giudice. Questi variano in funzione della azione intrapresa (art. 29 ss.) e possono anche essere plurime (cumulo di domande) ovvero poste in relazione di subordinazione. Tale onere in capo alla parte deve essere letto in relazione al potere che il giudice ha di qualificare la domanda in base al suo contenuto sostanziale, a prescindere dalla enunciazione formale proposta dalle parti.

In conformità al principio generale «iura novit curia» al giudice è consentito qualificare l'azione sulla base del reale contenuto della domanda, senza fermarsi al nomen iuris, utilizzato dalla parte, disponendo la conversione quando ne ricorrano i presupposti  (T.A.R. Campania (Napoli) V, n. 3185/2021 e T T.A.R. Campania (Napoli) VIII, n. 434/2017 , in quest'ultima fattispecie, non sono stati ravvisati ostacoli alla riqualificazione della domanda da parte del giudice, con conversione del ricorso per motivi aggiunti in ricorso autonomo).

Lo stesso principio generale dello ‘iura novit curia' è stato ritenuto il fondamento del potere del giudice di procedere ad una riqualificazione in fatto ed in diritto della fattispecie concreta dedotta in ricorso, al fine di ricercare gli elementi rilevanti che qualificano il rapporto sostanziale portato alla cognizione del giudice. Nel processo amministrativo, per qualificare la domanda giudiziale occorre guardare alla sostanza del rapporto giuridico sottostante e non alle forme impiegate dalla Pubblica amministrazione per regolarlo (Cons. St., V, n. 7915/2023, Cons. St. IV, n. 3392/2016).

In ogni caso, va specificato che il richiamato principio iura novit curia e dunque la conoscenza che il giudice ha e deve avere delle norme dell'ordinamento, non può esonerare il ricorrente dallo specificare adeguatamente le sue richieste, né il principio può essere interpretato nel senso che il giudice debba prestare la sua opera ovviando con la sua attività all'incapacità parti di reperire un qualunque fondamento per le loro pretese (Cons. St., VI, n. 7913/2021; T.A.R. Lazio (Roma), II, 25 novembre 2014, n. 11768).

Segue. La sottoscrizione

Ai sensi dell' art. 40 lett. g), c.p.a. il ricorso deve essere sottoscritto dal ricorrente che sta in giudizio personalmente oppure dal difensore, con indicazione in tal caso della procura speciale

In base al codice, se il ricorrente non sta in giudizio personalmente, il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore con l'indicazione, in questo caso della procura speciale. L'assenza di procura speciale alle liti comporta la radicale inammissibilità del ricorso per difetto di valida rappresentanza tecnica (T.A.R. Sardegna II 5 aprile 2016, n. 326).

La nuova disciplina ha quindi eliminato la previsione di doppia sottoscrizione prevista, in assenza di procura speciale, dall' art. 6 n. 4 r.d. n. 642/1907, sicché è sufficiente la sottoscrizione della parte ove questa possa anche stare in giudizio personalmente, altrimenti il difensore che sottoscrive l'atto dovrà essere munito di procura speciale, da indicarsi nell'atto di ricorso.

Il ricorso giurisdizionale innanzi al g.a. è inammissibile se sottoscritto dal difensore munito di procura generale. Tale regola conferma il sistema processuale precedente al codice del processo amministrativo (art. 6 r.d. n. 602/1947), ai sensi del quale nel giudizio davanti ai Tar la procura generale alle liti era ritenuta insufficiente per l'attribuzione della rappresentanza tecnica (T.A.R.Sicilia (Catania) I, 21 dicembre 2015, n. 2988; T.A.R. Piemonte I, 3 dicembre 2010, n. 4384).

È stato ritenuto valido il ricorso notificato alla controparte e ai controinteressati, anche in assenza della pagina contenente la sottoscrizione da parte del difensore, vista la presenza della procura, in calce all'atto, che conteneva la sottoscrizione del difensore. In tal caso, la firma del difensore, pur apposta solo per autenticare il mandato, assolve, per evidente connessione logica, oltre alla funzione di autenticare la sottoscrizione del mandato, anche a quella di riferire al medesimo patrocinante la provenienza dell'atto, cui la procura è stata materialmente congiunta. Ne consegue che la sua firma non può ritenersi limitata al mandato, privo di autonoma operatività, ma deve necessariamente considerarsi idonea pure ad integrare una valida sottoscrizione dell'atto, di cui costituisce ineluttabile complemento (T.A.R. Abruzzo (L'Aquila) I, 9 febbraio 2017, n. 70).

Si è evidenziato che una questione non risolta normativamente riguarda la necessità di una esplicita indicazione nella procura speciale della facoltà per il difensore di sottoscrivere per la parte il ricorso. Parte della dottrina sembra ritenere che, oltre alla procura speciale, occorra una procura ad hoc per tale adempimento, anche mediante esplicitazione nella procura (Caringella, Manuale proc. amm., 315).

Secondo un indirizzo giurisprudenziale, la firma del ricorrente sul mandato, apposto in calce o a margine del ricorso, integrerebbe in ogni caso il requisito della doppia sottoscrizione (Cons. St. V, 19 luglio 2004, n. 5226/2004).

Con l’attuazione del Pat, l’intenzione del legislatore è stata quella di sostituire al processo amministrativo cartaceo un processo telematico. A fronte di ciò si è posto il quesito se un ricorso (depositato successivamente al 1 gennaio 2017) redatto non come documento informatico con sottoscrizione digitale, ma in forma (tradizionalmente) cartacea, diverga in modo così radicale dallo schema legale del processo da dover essere considerato del tutto inesistente, abnorme o nullo. In giurisprudenza si è affermato l'orientamento per Con l’attuazione del Pat, l’intenzione del legislatore è stata quella di sostituire al processo amministrativo cartaceo un processo telematico. A far data dall’1.1.2018, gli atti processuali devono essere sottoscritti con firma digitale, richiedendosi pertanto che il ricorso sia nativo digitale. A fronte di ciò si è posto il quesito se un ricorso (depositato successivamente al 1 gennaio 2017) redatto non come documento informatico con sottoscrizione digitale, ma in forma (tradizionalmente) cartacea, diverga in modo così radicale dallo schema legale del processo da dover essere considerato del tutto inesistente, abnorme o nullo. In giurisprudenza si è affermato l'orientamento per cui trattasi di irregolarità, sanabile.

È stato ritenuto che il ricorso non redatto come documento informatico, né sottoscritto con firma digitale non può ritenersi inesistente (invero, il processo amministrativo cartaceo non è irreversibilmente e totalmente scomparso). Benché certamente non conforme alle prescrizioni di legge, tale ricorso non diverge in modo così radicale dallo schema normativo di riferimento da dover essere considerato del tutto inesistente perché, anche alla luce del principio di strumentalità delle forme processuali, non si configura in termini di non atto. Inoltre, poiché nella disciplina del Pat manca una specifica previsione di nullità per difetto della forma e della sottoscrizione digitale, viene meno il presupposto necessario per dichiarare il ricorso nullo nella sua fase genetica, ovvero in relazione alla successiva notificazione e deposito; difettando, anche in questo caso, disposizioni che sanciscano la nullità dell'adempimento se realizzato in formato cartaceo. Si tratta, quindi, di una situazione di irregolarità, che impone al giudice, ai sensi degli art. 44, comma 2, e 52, comma 1, di ordinare alla parte che ha redatto, notificato o depositato un atto in formato cartaceo di regolarizzarlo in formato digitale nel termine perentorio all'uopo fissato (Cons. St. V, n. 2126 /2019; Cons. St., V, ord. n. 56/2018; Cons. St., V, n. 5490/2017; Cons. St. IV, n. 1541/2017, T.A.R. Sardegna, I, 12 settembre 2017 n. 580). Ciò vale anche in caso di atto sottoscritto con firma Pades-Basic e non Pades-BES, come prescritta dalle norme attuative del PAT, trattandosi di una difformità che, avendo l'atto raggiunto il suo scopo, non si traduce in nullità. In linea generale, si è rilevato come l'evoluzione tecnologica non possa essere di ostacolo alla tutela giurisdizionale, qualora dalle difformità degli adempimenti rispetto alle prescrizioni non sia derivato pregiudizio per le controparti o per il giudice (Cons. St., III, n. 744/2018).  ; v. nello stesso senso, TAR Lazio, I-bis, 25 maggio 2018, n. 5912, secondo cui il ricorso notificato e depositato con sottoscrizione in formato CAdES, anziché PAdES, è ammissibile e l'unica esigenza di regolarizzazione riguarda il deposito di un atto in nativo digitale sottoscritto in PAdES. Pertanto, al fine di considerare validamente apposta la firma sul ricorso è sufficiente la sottoscrizione digitale con formato CAdES, tra l'altro pienamente idonea ad assolvere la funzione di attestare la provenienza dell'atto in capo al suo autore. Ai fini della correntezza del processo è necessario il deposito dell'atto processuale in formato nativo digitale PAdES (eventualmente mediante regolarizzazione.)

Ciò vale anche per la procura speciale, che può essere redatta in formato cartaceo, come previsto dall'art. 8, comma 2, d.P.C.S. 28 luglio 2021, e ai fini della regolarità, rileva solo che, al momento del deposito, da effettuare in formato digitale, il difensore compia l'asseverazione dell'art. 22, comma 2, d.lgs.7 marzo 2005,  n. 82 (Cons. St., V, n. 5490/2017 ; v. anche commento sub artt. 24).

Con riguardo alle problematiche relative alla rappresentanza in giudizio, in un primo momento si è ritenuto applicabile l'art. 182, comma 2, c.p.c., ai sensi dell'art. 39 c.p.a., secondo il quale quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione (Cons. St., III , n. 7441/2020; T.A.R. Milano, (Lombardia), III, 29 settembre 2017, n. 1886). Un più recente indirizzo sembra invece fermo nel ritenere inapplicabile la disposizione del codice di rito al caso di assenza di una procura speciale anteriore al ricorso, considerandola non compatibile con la disciplina del processo amministrativo che considera l'esistenza della procura speciale come requisito di ammissibilità del ricorso (T.A.R. Napoli, (Campania), sez. III, n.7003/2021; T.A.R. , Milano , sez. II , 15/03/2021, n. 661; T.A.R. Lazio II, n. 12558/2019, che dichiara inammissibile il ricorso. 

Per ciò che riguarda le questioni inerenti al patrocinio e alle modalità di conferimento della procura, v. il commento sub artt. 22-24; per le questioni relative alla sottoscrizione digitale e in generale al PAT, v. il commento sub art. 136 e le disposizioni di attuazione del Codice.

Segue. Ricorso collettivo e cumulativo

Sebbene il codice non contempli espressamente la forma collettiva di proposizione del ricorso, si ritiene tuttavia ammissibile la proposizione di più azioni di impugnazione da parte di soggetti diversi (c.d. ricorso collettivo), anche avverso più atti (assumendo così anche carattere cumulativo). 

La sua ammissibilità è condizionata al ricorrere di una duplice condizione consistente nella (i) mancanza di un conflitto di interesse tra i ricorrenti e (ii) dalla identità di situazioni sostanziali e processuali a fondamento delle domande, come meglio specificate infra.

In dottrina si ritiene ammissibile l'esperibilità del ricorso collettivo in base agli artt. 32 (che consente una pluralità di domande) e 79 (che consente la riunione dei giudizi per ragioni di connessione), oltre che in base alla norma di rinvio esterno, posta la compatibilità del litisconsorzio facoltativo ex art. 103 c.p.c. (Traina, 571).

È ammissibile nel processo amministrativo il ricorso collettivo, presentato da una pluralità di soggetti con un unico atto, solo caso in cui sussistano, congiuntamente, i requisiti dell'identità di situazioni sostanziali e processuali (ossia che le domande giudiziali siano identiche nell'oggetto, che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi) e dell'assenza di un conflitto di interessi tra le parti. La proposizione del ricorso collettivo rappresenta una deroga al principio generale secondo il quale ogni domanda, fondata su un interesse meritevole di tutela, deve essere proposta dal singolo titolare con separata azione. Quindi, la proposizione contestuale di un'impugnativa da parte di più soggetti è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia di segno negativo che di segno positivo. Con riferimento in particolare all'assenza di una situazione di conflittualità di interessi, questa deve intendersi anche in senso solo potenziale e deve trattarsi di una situazione per effetto della quale l'accoglimento della domanda di una parte dei ricorrenti sarebbe logicamente incompatibile con quella degli altri (Cons. St. IV , n. 8470/2021Cons. St. II , n. 7185/2021Cons. St. III, n. 1866/2017; Cons. St. VI, n. 831/2015; Cons. St. IV, n. 363/2015; Cons. St. III, n. 1866/2017; Cons. St. VI, n. 3747/2013).

Si è di conseguenza ritenuto improcedibile, per sopravvenuta situazione di conflitto di interessi, il ricorso collettivo proposto da più imprese avverso l'atto con cui l'amministrazione aveva indetto una procedura negoziata (in asserita violazione del codice degli appalti) a seguito dalla circostanza che, successivamente alla proposizione, tre delle imprese ricorrenti hanno presentato domanda di partecipazione alla procedura di affidamento, acquisendo, di conseguenza, la titolarità di una nuova posizione soggettiva, di interesse legittimo al regolare svolgimento della gara, in vista della possibile aggiudicazione del servizio (che si differenzia sostanzialmente dall'altra impresa che ha invece conservato l'interesse originario all'annullamento della procedura) (T.A.R.  Molise I, 4 dicembre 2013, n. 725).

È stato invece ritenuto ammissibile il ricorso collettivo proposto dalla società affittuaria e dalla società proprietaria di una struttura turistica avverso il provvedimento di informativa antimafia interdittiva emesso nei confronti della prima, rilevando che fra le due società ricorrenti non vi è nella specie alcun conflitto di interessi, tendendo entrambe a ottenere il “bene della vita” costituito dalla possibilità di riapertura dell'attività per effetto dell'annullamento degli atti impugnati (sebbene in qualità l'una di proprietaria e l'altra di affittuaria della struttura alberghiera). Ancorché emessa a carico di soggetto diverso, l'interdittiva costituisce infatti l'antecedente decisivo nella produzione della lesione consistita nella revoca delle autorizzazioni e nella chiusura dell'esercizio che ha colpito la società affittuaria (Cons. St. III, n. 1866/2017).

Con riferimento al profilo probatorio circa le condizioni di ammissibilità del ricorso in forma collettiva, grava sui ricorrenti l'onere “di indicare e allegare tutti gli elementi, i dati e i documenti idonei a sostenere la pretesa”, ivi inclusi gli elementi “in ordine alle specifiche condizioni di legittimazione e di interesse di ciascun singolo ricorrente”. Pertanto, è inammissibile il ricorso collettivo in assenza di una tale indicazione, poiché non consente al giudice di valutare le condizioni di omogeneità delle rispettive posizioni e, quindi, la concreta fondatezza della domanda (Cons. St. IV, 21 febbraio 2023, n.1775; T.A.R. Lazio, I, 2 febbraio 2024, n. 2094).

In tema di procedure selettive, si è ritenuta sussistere una radicale incompatibilità tra le posizioni di diversi ricorrenti, candidati ad una medesima prova di esame, che lamentano la illecita anticipata pubblicazione dei questionari di esame, laddove tali candidati abbiano sostenuto le prove in diversi giorni di esame, cosi che alcuni di essi si sono potuti, in ipotesi, avvantaggiare, di tale anticipata illecita conoscenza (Cons. St. III, n. 3815/2017), ovvero tra le posizioni di chi ha partecipato alla prova per una medesima graduatoria concorsuale, vista la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi fra gli stessi derivante dalla circostanza che in un concorso per il reclutamento di un numero determinato di personale ciascun concorrente è portatore di un interesse individuale al superamento delle prove del concorso stesso potenzialmente contrapposto a quello degli altri concorrenti (Cons. St. V, n. 3725/2017).

​In tema di quote latte, è stato ritenuto inammissibile il ricorso collettivo proposto da alcuni produttori, in quanto le relative posizioni azionate afferivano alla prescrizione del credito ovvero a ipotetiche compensazioni che necessariamente devono essere declinati individualmente e vanno riferite ai singoli e distinti rapporti obbligatori che legano ciascuno dei ricorrenti all'Amministrazione, autonomi in termini di genesi e gestione del rapporto (Cons. St. VI, n. 2971/2024 e id.,III,  n. 8488/2021). 

Con riguardo a provvedimenti di revoca delle quote latte, è stato invece ritenuto che - pur essendo gli stessi basati su presupposti (ad esempio, per non aver presentato l'istanza di rateizzazione o per non aver pagato una o più rate) è possibile l'impugnazione con ricorso collettivo nella misura in cui sono dedotte censure generali relative alla disciplina applicata dall'Amministrazione, senza contestare le singole ragioni alla base dei provvedimenti di revoca (T.A.R. Lazio, V, 22 marzo 2024, n. 5728).

Con riferimento al ricorso cumulativo, si è precisato che la sua ammissibilità dipende dalla circostanza che i distinti provvedimenti oggetto di impugnazione siano riferibili al medesimo procedimento amministrativo (inteso in senso ampio) e che i vizi dedotti colpiscano, nella medesima misura, i diversi atti impugnati, così da investire il complesso dell'attività provvedimentale contestata.

In termini generali va ricordato che, il principio generale operante nel processo amministrativo, per il quale il ricorso giurisdizionale va diretto nei confronti d'un solo atto, trova la sua ragion d'essere qualora sia finalizzato ad evitare la confusione tra controversie tra loro distinte. Da ciò ne deriva che la figura del ricorso cumulativo – che si pone quale eccezione a tale regola – può trovare ingresso nel processo amministrativo in presenza di una connessione tra gli atti impugnati (che viene qualificata nella maggior parte dei casi di tipo “procedimentale” o “funzionale”) tale da richiedere un unico giudizio, funzionale a concrete e ragionevoli esigenze di giustizia sostanziale, riconducibili, in ultima istanza, ai principi di effettività della tutela giurisdizionale, a mente delle previsioni di cui agli artt. 24 e 111 Cost. In tali situazioni, infatti, la proposizione di ricorsi distinti avverso atti che appartengono ad una medesima vicenda sostanziale significherebbe di fatto un maggior aggravio procedurale, privo di concreta utilità, che si pone a carico di chi intende tutelarsi contro gli atti lesivi dell'amministrazione.

Al riguardo è stato specificato che l'ammissibilità del ricorso cumulativo – e la conseguente deroga alla regola generale dell'impugnabilità con un ricorso di un solo provvedimento – si giustifica nelle sole ipotesi in cui la cognizione, nel medesimo giudizio, della legittimità di più provvedimenti sia imposta dall'esigenza di concentrare in un'unica delibazione l'apprezzamento della correttezza dell'azione amministrativa oggetto del gravame, quando questa venga censurata nella sua complessità funzionale e, soprattutto, per profili che ne inficiano in radice la regolarità e che interessano trasversalmente le diverse, ma connesse, sequenze di atti. (Cons. St. III, n. 1866/2017, Cons. St. IV, n. 3783/2016). È quindi necessario che i distinti provvedimenti siano riferibili al medesimo procedimento amministrativo, seppur inteso nella sua più ampia latitudine semantica, e che con il gravame vengano dedotti vizi che colpiscano, nella medesima misura, i diversi atti impugnati, in modo che non residui, quindi, alcun margine di differenza nell'apprezzamento della legittimità dei singoli provvedimenti congiuntamente gravati. Ciò avviene, in particolare, qualora fra i due atti impugnati sussiste un rapporto di presupposizione/consequenzialità necessaria (Cons. St., IV, n. 2902/2024 e , VII, n. 582/2023Cons. St., III , n. 7045/2021;Cons. St. Ad. plen. , n. 5/2015; Cons. St. V, n. 2543/2016; Cons. St. IV, n. 4277/2014; Cons. St. V, n. 398/2014; Cons. St. n. 6537/2011).

La connessione procedimentale o funzionale deve accertarsi in modo rigoroso, al fine di evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato — tale da giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (Cons. St. V, n. 1463/2017; T.A.R. Liguria II, 10 aprile 2017, n. 303; T.A.R. Valle d'Aosta I, 8 marzo 2017, n. 10).

Nell'ambito di procedure di gara, si è ritenuto ammissibile il ricorso cumulativo nel caso ricorra una identità di situazioni sostanziali e processuali, identità di oggetto delle domande e degli atti impugnati (e le relative censure); v. T.A.R. Lazio, 28ottobre 2021 , n. 11063.

Al contrario, è stato ritenuto inammissibile il ricorso cumulativo proposto contro l'aggiudicazione di due o più lotti di una stessa gara, nel caso in cui i lotti siano del tutto indipendenti ed aggiudicabili separatamente, le censure proposte sono dirette ad avversare l'attività del medesimo ente appaltante, ma in relazione a diverse imprese concorrenti e i motivi introdotti sono del tutto eterogenei, risentendo della specificità della posizione delle singole imprese meglio classificate in relazione a ciascun lotto. Tale ultima circostanza rappresenta un evidente fattore ostativo al cumulo: l'analogia dei motivi di impugnativa integra da sempre la condizione per la proposizione del ricorso cumulativo ed anche per la riunione di distinti ricorsi. (T.A.R. Piemonte II,  25 gennaio 2017, n. 146). 

Ai fini dell'ammissibilità del processo cumulativo per più lotti, il dato rilevante è che la contestazione riguardi fasi e atti comuni della procedura, senza che sia necessario altresì che la stessa gara sia unica, ovvero che i lotti siano riferibili ad un appalto unitario (TAR Veneto, 1° marzo 2024, n. 393).

Diversamente si è concluso in relazione invece al ricorso cumulativo che investa più aggiudicazioni (relative a più lotti, assegnati a diverse imprese concorrenti), nell'ipotesi in cui vi sia articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche, ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni. In simile circostanza, sussiste una identità di causa petendi e la riferibilità delle diverse domande di annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa demolitoria, legittimandosi la trattazione congiunta (T.A.R. Trentino-Alto Adige (Bolzano) I, 7 febbraio 2017, n. 46). È stato ritenuto inammissibile il ricorso cumulativo qualora l'interesse posto a fondamento degli atti impugnati, pur attenendo ad una medesima vicenda procedimentale, fosse diverso in quanto da un lato volto a non essere coinvolto in trattative inutili e, dall'altro, a realizzare l'interesse strumentale al rinnovo di una procedura selettiva (T.A.R. Liguria, n. 708/2023).  

Si richiede, in particolare, che le censure mosse dal ricorrente avverso gli atti di una procedura di gara siano idonee a inficiare segmenti procedurali comuni ai diversi lotti oggetto di contestazione (ad es., censure in merito alla genericità dei criteri di valutazione delle offerte, nonché allo scorretto utilizzo di tali criteri da parte della commissione di gara) (Cons. St. III , n. 7527/2021; T.A.R. Veneto III,  27 settembre 2016, n. 1077).

Con riferimento al rispetto dei limiti di configurabilità dei ricorsi collettivi e cumulativi, il giudice ha evidenziato come questo sia anche funzionale ad impedire l'elusione delle disposizioni fiscali in materia di accesso alla giurisdizione, posto che con la proposizione di un ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi (T.A.R. , Roma , III , 7 gennaio 2022 , n. 99).

Interesse a ricorrere

Le condizioni dell'azione giurisdizionale sono rinvenibili nella legittimazione ad agire e nell'interesse a ricorrere, la prima intesa come titolarità di una situazione soggettiva qualificata, la seconda come vantaggio che deriva al ricorrente dall'accoglimento del ricorso ex art. 100 c.p.c., che vale a qualificare la posizione dell'istante rispetto a quella indifferenziata di altri soggetti.

Prendendo le mosse dal principio generale, sancito dall' art. 100 c.p.c., applicabile anche al processo amministrativo, costituisce condizione per l'ammissibilità dell'azione, oltre alla titolarità di una situazione giuridica sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo, anche la sussistenza dell'interesse a ricorrere, inteso quest'ultimo non come idoneità astratta dell'azione a realizzare il risultato perseguito ma, più specificamente, come interesse proprio del ricorrente al conseguimento di un'utilità o di un vantaggio (materiale o, in certi casi, morale) attraverso il processo amministrativo; vale a dire, nell'ottica di un processo amministrativo di stampo impugnatorio originato dal varo di una determinazione lesiva di interessi legittimi, la sussistenza di un interesse all'eliminazione del provvedimento oggetto di impugnazione. L'interesse al ricorso è qualificato da un duplice ordine di fattori: a) la lesione, effettiva e concreta, che il provvedimento che si vuole impugnare, e alla cui caducazione si è quindi interessati, arreca alla sfera patrimoniale, o anche semplicemente morale, del ricorrente; b) il vantaggio, anche solo potenziale, che il ricorrente si ripromette di ottenere dall'annullamento del provvedimento impugnato. L'interesse a ricorrere deve altresì essere caratterizzato dai predicati della personalità (il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente), dell'attualità (l'interesse deve sussistere al momento del ricorso, non essendo sufficiente a sorreggere quest'ultimo l'eventualità o l'ipotesi di una lesione) e della concretezza (l'interesse a ricorrere va valutato con riferimento ad un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del ricorrente) (Cons. St., III , n. 5732/2021; T.A.R. Campania, VIII, n.1335/2021).

Inoltre, la giurisprudenza reputa sufficiente a radicare l'interesse al ricorso la sussistenza di un interesse di carattere strumentale, inteso nel senso di interesse ad ottenere la caducazione del provvedimento amministrativo al fine di rimettere in discussione il rapporto controverso e di eccitare il nuovo (o il non) esercizio del potere amministrativo in termini potenzialmente idonei ad evitare un danno ovvero ad attribuire un vantaggio (Cons. St. VI, n. 1371/2002; T.A.R. Puglia (Bari) III, 8 novembre 2016, n. 1262).

L'interesse a ricorrere deve dunque essere collegato al conseguimento di un vantaggio specifico, concreto ed immediato, e non ad una lesione ipotetica e futura.

È univocamente affermato che l'interesse a ricorrere deve essere concreto ed attuale, e non meramente potenziale (Cons. St. III, n. 2074/2017), dovendo essere ancorato ad una utilità concreta che l'istante si propone di trarre dal giudizio (Cons. St. III, n. 1678/2017).

Peraltro, l'interesse al ricorso sussiste non solo nel caso in cui dall'annullamento dell'atto impugnato derivi un diretto ed immediato vantaggio, ma anche nel caso in cui il vantaggio sia successivo ed eventuale, sicché il richiesto annullamento sia strumentale ad una ulteriore attività dell'amministrazione da cui il ricorrente possa ottenere un risultato positivo (Cons. St. V, n. 2878/2008).

L'utilità può essere rappresentata, per il ricorrente, anche qualora l'effetto conformativo della pronuncia richiesta possa determinare un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale (ad esempio, in relazione al successivo riesame, in autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento) (Cons. St. III, 10 aprile 2017, n. 1678;TarVeneto I, 15 marzo 2017, n. 273; T.A.R. Campania (Napoli) VII, 15 maggio 2013, n. 2518).

L'atto impugnato deve in ogni caso produrre un vulnus al ricorrente. Infatti, pur in presenza di atti illegittimi, non è consentito ricorrere al giudice per il mero ripristino della legalità (Cons. St. IV, n. 1192/2017). Analogamente nel caso in cui gli atti impugnati non hanno intrinseca attitudine lesiva, potendo solo eventualmente innescare l'avvio di un procedimento che potrebbe concludersi con una determinazione pregiudizievole (T.A.R. Piemonte II, 5 aprile 2017, n. 452).

In ambito urbanistico-edilizio, il criterio della vicinitas (inteso come elemento fisico-spaziale indice di collegamento tra un determinato soggetto e il territorio o l'area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti dell'atto contestato) non basta di per sé a radicare l'interesse al ricorso, dovendo valutarsi caso per caso se sussiste una utilità ulteriore, al mero ripristino della legalità, che il ricorrente mira a conseguire con la sua azione (cfr. Cons. St., II, n. 2737/2024; Cons. St. II, n. 700/2024; Cons St. II, n. 738/2023). Tale requisito può essere oggetto che di precisazione e prova nel corso del processo, qualora la sua sussistenza fosse posta in dubbio dalle controparti o rilevata d'ufficio dal giudice (Cons. st., Ad. Plen. n. 21/2022).

L'accertamento dell'effettivo interesse a ricorrere è immanente e doveroso per tutto il processo e lo stesso deve essere apprezzato in relazione ai possibili esiti satisfattori (ripristinatorio, restitutorio o risarcitorio, oltre la rinnovazione della procedura), che l'ordinamento processuale amministrativo oggi appronta — coerentemente al principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale.

Nei casi di ricorsi avverso atti pianificatori, la sussistenza di un interesse a ricorrere deve essere apprezzata con riferimento ad un concreto esito derivante dalla riedizione del procedimento, dovendosi ritenere carente l'interesse al ricorso qualora il motivo tenda ad ottenere la adozione di un nuovo atto sulla base di una nuova pianificazione urbanistica dell'area il cui svolgimento ed esiti sono del tutto incerti, qualificandosi l'interesse rispetto a scelte urbanistiche futuro come ‘di mero fatto' e non tutelabile (Cons. St, II, n. 3258/2024).  

Nei casi di contenzioso relativo alle procedure di gara, il bene della vita disputato in lite consiste, in un processo che è a connotazione soggettiva, appunto nell'essere parte effettiva del contratto d'appalto ma che, per effetto degli atti amministrativi contestati, è invece attribuito ad altri: non già nel veder rispettate inter alios le forme di una contesa il cui esito resta comunque ad altrui vantaggio. In questo rito, considerato l'avanzato sistema speciale di mezzi ora offerti dalla legge processuale al ricorrente, l'annullamento giudiziale non costituisce più un bene in sé, ma un tramite per produrre immediatamente un'utilità effettiva e non meramente virtuale. Sicché — ai fini della valutazione di concretezza e attualità dell'interesse a ricorrere, che deve essere serio e reale, non virtuale né emulativo — l'annullamento deve risultare prodromico ad utilità ulteriori: o alla rinnovazione del procedimento quanto a protagonisti, per modo di restituire al ricorrente l'opportunità di ottenere il bene della vita conteso; o alla reintegrazione del ricorrente nella posizione procedimentale o al subentro nella posizione contrattuale da cui è stato indebitamente pretermesso (ovvero all'esclusione o alla soccombenza di chi gli è stato preferito) per attribuirgli la stessa opportunità o senz'altro il bene; o a un ristoro monetario stimato equivalente alle opportunità concretamente perdute (chances) e a quanto egli dimostri aver speso per partecipare alla selezione (c.d. interesse negativo). La connotazione soggettiva dello speciale processo amministrativo in tema di contratti pubblici dà azione in giustizia solo a chi può addurre, in ragione dei detti profili, un interesse effettivo dall'annullamento dell'atto amministrativo. Perciò preclude un'azione di accertamento di illegittimità dell'azione amministrativa che prescinda da un interesse soggettivo (Cons. St., V, n. 1373/2017).

 In questo senso, nell'ambito delle procedure di selezione preordinate alla formazione di graduatorie di merito, si è ritenuto che gravi sulla parte ricorrente non limitarsi a dedurre vizi demolitori dell'atto (parte destruens), ma anche ad indicare la esatta misura della modificazione in melius della propria posizione in graduatoria che il ricorrente si attende dall'accoglimento delle proprie censure. Ciò è strumentale in particolare alla verifica dell'interesse a ricorrere in capo all'autore di una domanda di tutela giurisdizionale dinnanzi agli organi della G.A. (T.A.R., Roma, III, 1 febbraio 2019, n. 1295; T.A.R. Catanzaro (Calabria), II  20 novembre 2017 n. 1780).   

In applicazione di tali principi, nel caso di procedure di gara, la giurisprudenza amministrativa è consolidata nel ritenere che l'impresa che non partecipi alla gara non può contestare la relativa procedura e l'aggiudicazione in favore di imprese terze, perché la sua posizione giuridica sostanziale non è sufficientemente differenziata ma riconducibile a un mero interesse di fatto. Conseguentemente, si è ritenuto che i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato.

Non sussiste l'interesse a ricorrere avverso gli atti di una procedura concorsuale se l'interessato non ha presentato domanda di partecipazione (Cons. St., V, n. 1736/2019; Cons. St. III, n. 2507/2016; Cons. St. III, n. 491/2015; Cons. St. VI, n. 6048/2014; T.A.R. Lazio (Roma) III, 12 gennaio 2017, n. 466). 

Alla regola appena enunciata fanno dunque eccezione le ipotesi in cui gli atti di cui si lamenta l'illegittimità non consentono al ricorrente di partecipare. Ad esempio, qualora si contesti che la gara sia mancata o, specularmente, che sia stata indetta o, ancora, si impugnino clausole del bando immediatamente escludenti, o, infine, clausole che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendano impossibile la stessa formulazione dell'offerta (v.. T.A.R., Perugia,I, 9 dicembre 2019, n. 627, che ha ritenuto escludente la clausola del bando che prevede un importo a base di gara insufficiente alla copertura dei costi, in quanto rappresenta un fattore ostativo alla partecipazione).

Ciò vale in tutti quei casi in cui la lex specialis della gara presenti caratteristiche tali da rendere oggettivamente difficoltosa un'esatta ponderazione dell'offerta, allora essa assume carattere immediatamente lesivo della sfera delle possibili candidate, venendo a costituire, quindi, oggetto di legittima impugnativa da parte delle stesse (Cons. St. V, n. 4679/2001), e ciò anche in mancanza di partecipazione alla gara, poiché la legittimazione del soggetto che contrasta immediatamente il bando di gara (in relazione alle sue clausole escludenti), senza partecipare al procedimento, ha una giustificazione logica evidente, direttamente collegata alla affermazione giurisprudenziale dell'onere di sollecita impugnazione di tale atto lesivo, senza attendere l'esito della selezione. In tali circostanze, la certezza del pregiudizio determinato dal bando rende superflua la domanda di partecipazione e l'adozione di un atto esplicito di esclusione ( Cons. St.  Ad. plen. , n. 4/2011). Così, nel caso in cui si voglia contestare l'illegittimità dell'adozione di un determinato criterio di valutazione delle offerte, il concorrente che si ritiene danneggiato dalla scelta di siffatto criterio, deve impugnare immediatamente la documentazione di gara nella parte in cui lo prevede, senza attendere l'esito della gara (Cons. St. III, n. 2014/2017  che ha ritenuto ammissibile l'immediata impugnazione del bando in un caso di censura del criterio del prezzo più basso adottato nel bando; in termini, v. T.A.R. Lazio (Roma) II-ter, 7 agosto 2017, n. 9249, in senso contrario,  T.A.R. Puglia (Bari), n. 1109/2017).  Sul punto, il Consiglio di Stato (Cons. St. III, n. 5138/2017) ha rimesso all'Adunanza Plenaria la questione relativa all'onere di immediata impugnazione del bando di gara anche in caso di contestazione vertente sull'adozione da parte della stazione appaltante del criterio del prezzo più basso in luogo di quello del miglior rapporto qualità prezzo. In particolare, la sezione remittente si interroga sulla possibilità che le modifiche normative intervenute con l'adozione del codice dei contratti pubblici impongono agli operatori di impugnare immediatamente tutte le clausole attinenti le regole formali e sostanziali di svolgimento della procedura di gara e gli altri atti attinenti alle fase della procedura che precedono l'aggiudicazione, con la sola esclusione delle prescrizioni generiche e incerte, il cui tenore eventualmente lesivo è destinato ad emergere solo in seguito all'adozione dei provvedimenti attuativi (si rinvia, per un maggior approfondimento, al commento sub art. 120 c.p.a.).

 L'Adunanza Plenaria, con decisione del 26 aprile 2018 (Cons. St., Ad. plen., n. 4/2018) ha ribadito il principio per cui, in mancanza di partecipazione alla gara, l'operatore  non è legittimato a contestare le clausole di un bando di gara che non rivestano nei suoi confronti portata escludente, da intendersi come quelle che “quelle che con assoluta certezza gli precludano l'utile partecipazione.” Queste dovranno essere necessariamente impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall'operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura. Tale conclusione si poggia in particolare sulla considerazione che, avuto riguardo alla clausola del bando relativa al criterio di aggiudicazione (ma il ragionamento è riferibile a tutte quelle clausole priva di una immediata portata escludente, l'impresa difetti di un interesse ad agire, inteso nel senso di una lesione concreta ed attuale della propria sfera giuridica. Infatti, l'operatore del settore che non ha partecipato alla gara sarebbe portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione (ciò al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di una nuova gara), ma tale preteso interesse “strumentale” avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica e non sostanzierebbe quell'“interesse” differenziato necessario a sostenerne la legittimazione.

Al fine di stabilire la ricorrenza della portata escludente, rileva la distinzione tra una mera non convenienza economica e la “oggettiva insostenibilità economica” delle condizioni del bando di gara. Solo in tale ultimo caso, in via eccezionale, potrà riconoscersi l'interesse ad agire anche a chi non ha partecipato alla procedura (Cons. St., V, n.  284/2021).

Sul punto, con posizione di maggiore apertura, è stato ritenuto che anche norme della lex specialis che prevedrebbero per gli operatori attività antieconomiche e sottocosto possono essere impugnate da un soggetto non partecipante alla gara, purché tale circostanza sia adeguatamente dedotta e allegata dalla impresa ricorrente (cfr. T.A.R. Lazio, V, 27 aprile 2023, n. 7254; T.A.R. Campania, I, 12 giugno 2023, n. 1344, quest'ultima si segnala per aver esperito un'apposita verificazione sul profilo della antieconomicità delle clausole di gara).

Una situazione di carenza di interesse è stata ravvisata anche in relazione al soggetto che è stato legittimamente escluso dalla gara, il quale risulta privo di legittimazione e/o carente di interesse con riferimento alla deduzione di vizi relativi alle ulteriori fasi della procedura concorsuale; infatti l'accoglimento del ricorso avverso l'aggiudicazione definitiva non comporterebbe l'aggiudicazione dell'appalto in suo favore. Anche in una prospettiva di riedizione della gara (e dunque di interesse strumentale, e non c.d. finale, vale a dire al conseguimento dell'appalto) la legittima esclusione dalla gara priva il concorrente della disponibilità di interessi qualificati  (Cons. St. V, n. 937/2021; Cons. St. V, n. 3913/2017 ; T.A.R. , Roma , II , 25 gennaio 2022,n. 841).

Bibliografia

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