Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 79 - Sospensione e interruzione del processoSospensione e interruzione del processo 1. La sospensione del processo è disciplinata dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell'Unione europea. 2. L'interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di procedura civile. L'interruzione del processo è immediatamente dichiarata dal presidente con decreto; il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della segreteria 1. 3. Le ordinanze di sospensione emesse ai sensi dell'articolo 295 del codice di procedura civile sono appellabili. L'appello è deciso in camera di consiglio. [1] Comma modificato dall'articolo 17, comma 7, lettera a), punto 2), del D.L. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2021, n. 113. InquadramentoPer la sospensione e interruzione del giudizio, il Codice rinvia alle disposizioni del codice di procedura civile; il rinvio anche al diritto dell'Unione europea per la sospensione è giustificato dalla ipotesi di sospensione per rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La sospensione del processo consiste nell'arresto temporaneo del processo a causa di un determinato evento e fino alla cessazione di quell'evento. Si ha sospensione propria quando risulti pendente altra causa, la cui decisione risulta essere pregiudiziale rispetto a quella della causa in corso; l'altra causa può essere pendente davanti al giudice civile (c.d. pregiudizialità civile con sospensione facoltativa secondo una parte della giurisprudenza) o davanti allo stesso giudice amministrativo (pregiudizialità amministrativa, ritenuta necessaria). Si ha, invece, sospensione impropria quando nello steso processo si innesta una distinta fase davanti ad altro giudice, come può avvenire in caso di regolamento preventivo di giurisdizione, di regolamento di competenza, di questione di legittimità costituzionale o di questione avente ad oggetto la validità o l'interpretazione di atti comunitari (rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia). Rientrano nel concetto di sospensione impropria in senso lato anche le ipotesi di sospensione per questione di costituzionalità o eurounitaria sollevata da altro giudice (istituto di elaborazione giurisprudenziale che, in assenza di una contraria disposizione normativa, è stato a volte attuato per ragioni di economia processuale, per evitare plurime rimessioni a diverso giudice di identica questione sollevata in altro giudizio, anche se in questi casi si privano le parti del giudizio di sospeso di potersi difendere davanti al giudice ad quem. L'interruzione del processo consiste nell'arresto dello stesso a causa di un determinato evento che compromette l'effettività del contraddittorio (morte o perdita della capacità della parte; morte o impedimento del difensore). Le ordinanze di sospensione emesse ai sensi dell' articolo 295 del codice di procedura civile sono appellabili e l'appello è deciso con il rito camerale. La sospensione del processo amministrativoLa sospensione del processo amministrativo è disciplinata attraverso un rinvio alle corrispondenti norme processual-civilistiche (artt. 295 e 296 c.p.c.), a parte il richiamo al diritto dell'U.E. per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La sospensione costituisce comunque una vicenda anomala del processo e determina una pausa nel suo svolgimento, dilatando la durata dello stesso; è quindi un fenomeno accidentale e anormale in quanto allontana il conseguimento tipico del fine del processo che è la pronuncia di un provvedimento di merito (Menchini-Renzi, 762). Il codice di procedura civile distingue tra sospensione necessaria ( art. 295 c.p.c.: Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa) e sospensione facoltativa su istanza di parte ( art. 296 c.p.c.: Il giudice istruttore, su istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi, può disporre, per una sola volta, che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a tre mesi, fissando l'udienza per la prosecuzione del processo medesimo). Mentre la sospensione necessaria del processo di cui all' art. 295 c.p.c., al quale rinvia l'art. 79, comma 1 ricorre nel caso di pendenza di una causa pregiudiziale, il successivo art. 296 richiede per la sospensione facoltativa l'istanza di tutte le parti in causa; si tratta di disciplina che costituisce espressione del principio della ragionevole durata del processo, alla cui realizzazione devono cooperare le parti ed il giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 2 comma 2. La cause di sospensione del processo sono tassative e infatti anche l' art. 79 fa rinvio al c.p.c., ad altre leggi e al diritto dell'U.E. Il richiamo deve quindi essere esteso ad ogni altra ipotesi di sospensione prevista dal c.p.c. o da altre leggi; ad esempio, l' art. 337, comma 2, c.p.c. prevede che quando l'autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è impugnata; si tratta di una sospensione facoltativa, diversa da quella prevista dall' art. 295 c.p.c., che è necessaria. Infatti, l'ampiezza del rinvio operato dall'art. 79, comma 1, alla sospensione del processo come disciplinata dal c.p.c. comporta l'applicabilità, nel processo amministrativo, dell'intera gamma delle disposizioni riguardanti la materia, dunque non solo dell'art. 295 cit. (espressamente richiamato dall'art. 79, comma 3, cit.), ma anche dell' art. 624, comma 1, c.p.c. (secondo cui «Se è proposta opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 e 619, il giudice dell'esecuzione, concorrendo gravi motivi, sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza»), ovvero dell' art. 337, secondo comma, c.p.c. (secondo cui «Quando l'autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è impugnata»), e di ogni altra disposizione compatibile in forza del rinvio operato dall'art. 39, posto che non si ravvisano ostacoli logico giuridici a tale estensione (Cons. St. V, n. 806/2015; Cons. St. IV, n. 5185/2018, che, in applicazione dell'art. 337, comma 2, c.p.c. sospende il processo fino alla definizione di altro giudizio pendente davanti allo stesso Consiglio di Stato e relativo ad una impugnazione ordinaria, Cons. St. V, n. 8901/2020). Una volta assodata l'applicabilità al processo amministrativo delle norme processuali civilistiche disciplinanti l'istituto della sospensione del processo, si pongono le ulteriori questioni concernenti l'individuazione dei presupposti e dell'ambito applicativo dell'art. 337 cit., dei suoi rapporti con l'art. 295 cit., del regime degli atti processuali rilevanti in materia di sospensione. L'essenza del principio sancito dall'art. 337, secondo comma, cit., sta nell'eventualità che sulla questione pregiudiziale sia già stata pronunciata una sentenza; se tale sentenza passa in giudicato, il giudice della questione pregiudicata dovrà adeguarsi ad essa, ma, se è impugnata, il giudice della questione pregiudicata può sospendere il processo in attesa della pronuncia sull'impugnazione. Tuttavia, trattandosi di una facoltà, il ‘secondo giudice' può anche non disporre la sospensione, nel qual caso non è detto che debba necessariamente conformarsi alla decisione impugnata, sia perché potrebbe ritenere non sussistente l'influenza effettiva della sentenza sulla questione al suo esame e sia perché, anche indipendentemente da ciò, potrebbe valutare liberamente la probabilità che la sentenza invocata possa essere confermata e l'opportunità della sospensione. In definitiva, a differenza dell'art. 295 cit., la previsione in esame prevede una causa di sospensione facoltativa fondata sulla generica influenza di una decisione che assume una mera «autorità di fatto». L'autorità della cui invocazione tratta l'art. 337, secondo comma, è soltanto quella che riguarda il modo di decidere questioni risolte in altre cause; la differenza tra le due ipotesi, pertanto, è che nella prima ( art. 295 c.p.c.), occorre una pregiudizialità in senso tecnico — giuridico, nel secondo caso ( art. 337 c.p.c.), è sufficiente una pregiudizialità in senso meramente logico. Inoltre, poiché la ragione fondante dell'art. 295 cit. è quella di evitare il rischio di conflitti di giudicati e tale disposizione fa esclusivo riferimento alla pregiudizialità in senso proprio, la correlazione deve sussistere solo fra giudizi pendenti in primo grado. Da quanto sopra esposto discende che l'art. 337, secondo comma, è applicabile non solo quando è impugnata con un mezzo di impugnazione straordinario una sentenza già passata in giudicato, ma anche in caso di impugnazione ordinaria; in tal caso, se il giudizio pregiudicante è stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato solo ai sensi dell'art. 337, secondo comma, cit. e non ai sensi dell' art. 295 c.p.c., pure se la sentenza di primo grado la cui autorità è invocata appartiene ad un altro ordine giurisdizionale, dovendosi anche in tal caso identificare il rilievo di una sentenza oggetto di impugnazione, pronunciata nell'esercizio di una specifica giurisdizione, con riguardo al bene della vita del quale si discute davanti all'altro giudice; la mera connessione tra due processi non determina anche l'esistenza di un obiettivo rapporto di pregiudizialità giuridica il quale ricorre solo quando la definizione di una controversia costituisca l'indispensabile antecedente logico - giuridico dell'altra, l'accertamento del quale debba avvenire con efficacia di giudicato (Cons. St. V, n. 806/2015; Cons. St. IV, n. 1040/2022). Altre leggi che prevedono la sospensione del processo sono l' art. 23, l. 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» che disciplina la sospensione del processo per questione di costituzionalità; l' art. 14, d.lgs. 22 giugno 2007, n. 109, recante «Misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l'attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale, in attuazione della direttiva 2005/60/CE» (che prevede che «Qualora nel corso dell'esame del ricorso si evidenzi che la decisione dello stesso dipende dalla cognizione di atti per i quali sussiste il segreto dell'indagine o il segreto di Stato, il procedimento è sospeso fino a quando l'atto o i contenuti essenziali dello stesso non possono essere comunicati al tribunale amministrativo. Qualora la sospensione si protragga per un tempo superiore a due anni, il tribunale amministrativo può fissare un termine entro il quale il Comitato è tenuto a produrre nuovi elementi per la decisione o a revocare il provvedimento impugnato. Decorso il predetto termine, il tribunale amministrativo decide allo stato degli atti.»). La Corte costituzionale ha precisato che è inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice che abbia deciso tutti i motivi di ricorso, respingendoli, con la conseguenza che, all'atto della rimessione della questione, la sua potestas iudicandi si era già esaurita (Corte cost., n. 22/2023). Per la sospensione del processo per pregiudiziale comunitaria v. l'art. 267 del Trattato Unione europea e l' art. 42, l. 24 dicembre 2012, n. 234, recante «Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea». Si è posto il problema della c.d. doppia pregiudizialità, quando vi è una pluralità dei rimedi giurisdizionali esperibili nei confronti di leggi nazionali in potenziale contrasto con il diritto europeo e con quello costituzionale interno (c.d. doppia pregiudizialità; v. Corte cost. 67/2022); in questi casi è stata ritenuta prevale l'esigenza di certezza del diritto volta ad assicurare erga omnes la tutela del diritto azionato mediante ordinanza di q.l.c. davanti alla Corte costituzionale, da preferirsi al rinvio della questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE (Cons. St., I, parere, n. 1449/2023, sul diritto fondamentale alla parità di genere e non discriminazione nell'accesso al lavoro). In dottrina si classificano i casi di sospensione nelle seguenti casistiche generale: i) sospensione su accordo delle parti ( ex art. 296 c.p.c.); ii) sospensione per contemporanea pendenza di altro giudizio amministrativo (sempre che non sia possibile disporre la riunione) o di altro giudizio civile o penale, quando sussista tra i diversi processi un rapporto di pregiudizialità (ciò è stato esteso anche al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica); iii) sospensione per incidente di falso (v. art. 77) o per questioni relative allo stato o alla capacità delle persone (riservate ex art. 8, comma 2, alla cognizione del giudice civile, riguardo alle quali è reclusa al g.a. anche la cognizione incidenter tantum. Tra le ipotesi di sospensione impropria, figurano: i) la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione; ii) la questione di legittimità costituzionale, iii) il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea; iv) la rimessione della questione interpretativa all'Adunanza Plenaria (Apicella, 609; Menchini-Renzi, 763). La sospensione prevista dall' art. 295 c.p.c., richiamato dall'art. 79 è consentita solo per la c.d. pregiudizialità tecnica (o necessaria). Questa sussiste quando una controversia (pregiudiziale) costituisca l'indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata, in ragione del fatto che il rapporto giuridico della prima rappresenta un elemento costitutivo della situazione sostanziale dedotta nella seconda, per cui il relativo accertamento si imponga nei confronti di quest'ultima con efficacia di giudicato, al fine di assicurare l'uniformità di decisioni (ex multis: Cass., S.U. ord. n. 14060/2004, Cass., S.U., n. 408/2000, Cass., S.U., n. 3354/1994; Cass. I, ord. n. 16995/2007, Cass. n. 1741/2006, Cass. III, ord. n. 27426/2009, Cass. n. 12233/2007, Cass. n. 13950/2005; Cass. sez. lav., n. 1285/2006; Cass. VI, ord. n. 17235/2014, Cass. n. 1865/2012, Cass. n. 26469/2011, Cass. n. 3059/2011; Cons. St. IV, n. 5662/2014, Cass. n. 39/2013; Cass. V, n. 806/2015, Cass. VI, n. 1386/2012). Come chiarito dal Consiglio di Stato ( Cons. St. IV, n. 2483/2014 e Cons. St. IV 2484/2014), la pregiudizialità necessaria si pone tra rapporti giuridici diversi, collegati in modo tale per cui la situazione giuridica della causa pregiudiziale si pone come elemento costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del distinto rapporto dedotto nella causa dipendente, la cui esistenza è dunque necessariamente presupposta dalla prima. Il rapporto di pregiudizialità in senso tecnico è pertanto configurabile quando il petitum della domanda pregiudiziale costituisce al contempo la causa petendi o, per converso fatto paralizzante (impeditivo, modificativo, estintivo), della domanda dedotta nella causa dipendente (al riguardo, nella citata ordinanza delle Sezioni unite della Cassazione n. 14060 del 27 luglio 2004 si è fatto l'esempio della qualità di erede del creditore rispetto alla domanda di pagamento del prezzo oggetto del contratto di compravendita stipulato dal defunto; in senso conforme la medesima Suprema Corte si è espressa in una fattispecie analoga, nell'ordinanza Cons. St. II, n. 3936/2008; ed ancora nell'ordinanza della medesima Sezione 5 dicembre 2002, n. 17317, la quale ha confermato la sospensione di un giudizio promosso per il riconoscimento di diritti derivanti da titolo, in ragione del fatto che in separato giudizio era stata dedotta l'inesistenza o la nullità assoluta del medesimo titolo). In estrema sintesi, il nesso di pregiudizialità-dipendenza intercorre tra distinti rapporti giuridici quando l'esistenza di uno dipende dall'esistenza o inesistenza dell'altro ed in base a ciò il fondamentale principio di unità dell'ordinamento giuridico impone la conformità tra giudicati. Nei casi di cui all'art. 295 c.p.c. sussiste un obbligo per il giudice di sospendere il processo, allorché egli ravvisi la sussistenza del rapporto di pregiudizialità di un'altra controversia rispetto alla causa devoluta alla sua cognizione (Cons. giust. Amm. Reg. Sic., n. 867/2023, secondo cui il giudice di primo grado non può legittimamente confidare nell'appellabilità delle proprie sentenze per differire a fasi processuali successive la verifica del definitivo esito delle cause pregiudiziali, giacché ogni sentenza correttamente resa deve essere ex se passibile di passare in giudicato senza la pendenza di ulteriori condizioni ancora da verificare). Al di fuori di questa ipotesi la sospensione non è obbligatoria, perché come debitamente evidenziato dalla Suprema Corte nella più volte citata ordinanza del 27 luglio 2004, n. 14060, essa determina l'arresto del processo dipendente per un tempo indeterminato «e certamente non breve (...) fino al passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudiziale (...) onde evitare il rischio di conflitto tra giudicati» (par. 5.1 della parte «in diritto»), così dilatando i tempi della decisione finale del giudizio e le aspettative ad una sua rapida definizione che le parti che si oppongono alla sospensione legittimamente possono vantare. Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che quando tra due giudizi esiste un rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza, anche non passata in giudicato, non è applicabile la sospensione necessaria di cui all'art. 295 c.p.c., qualora la causa pregiudicante penda in grado di appello; in tale situazione può trovare applicazione solo l'art. 337, comma 2, c.p.c., in forza del quale il giudice di merito può disporre la sospensione del processo se davanti a lui una delle parti invochi l'autorità di una sentenza a sé favorevole, che non sia ancora definitiva. Infatti, l'art. 337, comma 2, c.p.c., pone al giudice l'alternativa di tenere conto dell'autorità della sentenza invocata senza alcun impedimento derivante dalla sua impugnazione o dalla sua impugnabilità, o di sospendere il processo nell'esercizio del suo potere discrezionale, in attesa della definizione del giudizio pregiudicante; in caso di impugnazione ordinaria, il giudice del secondo processo - ove non ritenga di disporne la sospensione - dovrà limitarsi a riconoscere alla predetta sentenza una autorità di mero fatto (Cons. St. V, n. 5657/2024). L'ordinamento processuale interno, ivi compreso quello amministrativo, conosce la c.d. sospensione impropria del giudizio, adottabile dal giudice qualora in altro giudizio sia stata sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma applicabile nel primo ( Cons. St. Ad. plen. , ord. 28/2014). Come infatti puntualizzato nella pronuncia ora richiamata, questa statuizione sospensiva produce a sua volta effetti di economia dei mezzi processuali e di ragionevole durata del processo, evitando che la Corte Costituzionale sia nuovamente investita della medesima questione già sollevata nell'altro giudizio ed il conseguente rischio prolungare la durata del giudizio di costituzionalità, e di riflesso di quello a quo. (anche se in questo modo si privano le parti della possibilità di far valere le loro difese davanti alla Corte Costituzionale). Nel processo amministrativo trova ingresso la c.d. sospensione impropria del giudizio principale per la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma, applicabile in tale procedimento, ma sollevata in una diversa causa, atteso che non si rinviene nel sistema della giustizia amministrativa (arg. ex artt. 79 e 80) una norma che vieti una tale ipotesi di sospensione, né si profila una lesione del contraddittorio allorquando le parti, rese edotte della pendenza della questione di legittimità costituzionale, non facciano richiesta di poter interloquire davanti al giudice delle leggi sollecitando una formale rimessione della questione; tale esegesi, inoltre, è conforme sia al principio di economia dei mezzi processuali che a quello di ragionevole durata del processo, in quanto, da un lato, si evitano agli uffici, alle parti ed alla medesima Corte costituzionale dispendiosi adempimenti correlati alla rimessione della questione di costituzionalità e, dall'altro, si previene il rischio di prolungare la durata del giudizio di costituzionalità (e di riflesso di quello a quo); il termine per la prosecuzione del giudizio sospeso è quello sancito dall'art. 80, comma 1, per tutte le ipotesi di sospensione del processo amministrativo (90 giorni): tale termine decorre dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte cost. (T.A.R. Puglia (Lecce) I, n. 3674/2015). Tuttavia, è stato precisato che la sospensione impropria costituisce oggetto di una facoltà del giudice, per l'esercizio della quale egli deve avere appunto riguardo alle conseguenze sulla durata e sull'esito del giudizio di cui è chiesta la sospensione (Cons. St. V, n. 640/2016, che ha escluso la pregiudizialità di un giudizio davanti alla Cedu). Una critica alla prassi della sospensione impropria è stata espressa incidentalmente dalla Corte costituzionale, che ha rilevato che deve escludersi la sussistenza di una discrezionale facoltà del giudice di sospendere il processo fuori dei casi tassativi di sospensione necessaria «per mere ragioni di opportunità» e ha stigmatizzato la prassi della cosiddetta “sospensione impropria” che nella sostanza consiste nell'adozione di un provvedimento di sospensione difforme da univoche indicazioni normative (Corte cost., n. 218/2021). Al riguardo, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St. Ad. Plen. n. 4/2024 ) ha precisato che: a) nel processo amministrativo la sospensione del processo è disciplinata - ai sensi dell'art. 79, comma 1, c.p.a. - dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell'Unione europea; a sua volta il c.p.c., come interpretato dal diritto vivente della Corte di cassazione, nella lettura datane dalla Corte costituzionale, non contempla la sospensione del processo per ragioni di opportunità; b) la c.d. sospensione impropria “in senso lato” del processo, ossia disposta, in un dato giudizio, nelle more della soluzione, in un diverso giudizio, di un incidente di costituzionalità, o di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato avente carattere pregiudiziale anche nel giudizio de quo, costituisce, al pari della c.d. sospensione impropria “in senso stretto” (ossia disposta nel giudizio in cui viene sollevata questione di costituzionalità o questione pregiudiziale eurounitaria) una sospensione necessaria ai sensi dell'art. 295 c.p.c., per la definizione di una questione avente carattere “pregiudiziale”, avuto riguardo alla portata “normativa” delle decisioni della Corte costituzionale e della CGUE, e al valore di precedente parzialmente vincolante delle pronunce dell'Adunanza Plenaria; c) la sospensione impropria “in senso lato” va adottata previo contraddittorio ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a. e solo se le parti o almeno una di esse non chiedano di poter interloquire davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria, nel qual caso va disposta una nuova rimessione (con conseguente sospensione impropria “in senso stretto” nelle prime due ipotesi); d) un effetto equivalente a quello sub (c) può essere conseguito mediante una sospensione sull'accordo delle parti ex art. 296 c.p.c.; una sospensione ai sensi dell'art. 296 c.p.c. è inoltre adottabile allorché la questione rilevante nel giudizio de quo sia analoga, ma non identica, a quella già pendente davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria; in ogni caso, la sospensione ex art. 296 c.p.c. va disposta nel rispetto dei relativi presupposti normativi, tenendo conto che il termine massimo di durata della sospensione, ivi previsto, non è né perentorio né elemento indefettibile della fattispecie, e va modulato caso per caso sulla scorta di una valutazione prognostica circa il tempo necessario per la definizione della questione pregiudiziale pendente in diverso giudizio; e) le esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, sottese alla c.d. sospensione impropria “in senso lato” possono essere soddisfatte, oltre che con la sospensione ex art. 295 c.p.c. (o 296 c.p.c.), anche a mezzo del rinvio dell'udienza a data fissa (o eccezionalmente a data da destinarsi) o della cancellazione della causa dal ruolo, nel rigoroso rispetto dei relativi presupposti normativi; f) nella fisiologica applicazione delle vigenti norme processuali, se il processo subisce una stasi per attendere la definizione di una questione di costituzionalità, di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all'Adunanza Plenaria pendente in un diverso giudizio, attraverso, alternativamente, gli istituti della sospensione ex art. 295 c.p.c., della sospensione ex art. 296 c.p.c. senza indicazione della data della nuova udienza, della sospensione ex art. 296 c.p.c. con indicazione della data della nuova udienza, del rinvio dell'udienza a data fissa o, eccezionalmente, a data da destinare, della cancellazione della causa dal ruolo: (i) nella prima e seconda ipotesi le parti hanno l'onere di presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo ai sensi dell'art. 80, comma 1, c.p.a.; (ii) nella terza e quarta ipotesi il processo prosegue, senza impulso di parte, all'udienza indicata nell'ordinanza di sospensione o nel verbale di udienza che dispone il rinvio o comunque fissata d'ufficio; (iii) nella quinta ipotesi il processo prosegue se la parte presenta istanza di fissazione di udienza entro il termine di perenzione ordinaria; g) ove venga adottata un'ordinanza di sospensione impropria “in senso lato” senza l'audizione e/o il consenso delle parti, tale ordinanza, se non contestata con i rimedi che l'ordinamento appresta, onera le parti di presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo ai sensi dell'art. 80, comma 1, c.p.a.; h) ove l'ordinanza di sospensione del processo non fissi già la data dell'udienza di prosecuzione, il termine di cui all'art. 80, comma 1, c.p.a., entro cui le parti devono presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo, a seguito di qualsivoglia ipotesi di sua sospensione senza indicazione della nuova data di udienza, ha natura di termine perentorio; i) la perentorietà di tale termine va ribadita anche ove si traduca, nell'inerzia delle parti, in un ostacolo di fatto all'applicazione del diritto eurounitario, perché (i) il diritto eurounitario riconosce l'autonomia processuale degli Stati membri a condizione del rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, (ii) il diritto eurounitario non impedisce la previsione di termini processuali perentori, purché proporzionati e non discriminatori, e (iii) il termine di cui all'art. 80, comma 1, c.p.a., alla luce della giurisprudenza eurounitaria, è proporzionato, non discriminatorio, e la complessiva disciplina contenuta nell'art. 80 c.p.a. non è ambigua . L'applicazione dell'istituto della sospensione necessaria del processo — ex art. 79— presuppone che la decisione della controversia dipenda dalla definizione di altra causa, richiede cioè non un mero collegamento tra due emanande statuizioni, ma un vincolo di presupposizione, per cui l'altro giudizio, oltre a essere effettivamente pendente e a coinvolgere le stesse parti, deve investire una questione di carattere pregiudiziale, cioè un indispensabile antecedente logico-giuridico, la soluzione del quale sia determinante, in tutto o in parte, per l'esito della causa da sospendere (T.A.R. Puglia (Lecce) I, n. 1242/2012). L'istituto della sospensione del giudizio in secondo grado non può essere negato ogniqualvolta la sospensione miri ad attendere una qualunque forma di decisione pregiudiziale, anche del giudice penale, in considerazione del fatto che il comma 3 dell'art. 79 concede l'appello sulle ordinanze di sospensione, ma ad esclusione, ove applicabile, della sospensione ex art. 296 c.p.c., ossia su concorde istanza delle parti, di solito per scopi conciliativi in itinere, e dunque senza alcun tipo di proiezione o «praeiudicium decisorio» che è invece tipico di ogni ipotesi di pregiudizialità-dipendenza fra distinti processi (Cons. St. VI, n. 3907/2012). La sospensione del processo è obbligatoria solo quando sia stata presentata la querela di falso e il nuovo codice di procedura penale non ha riprodotto la previgente regola della necessaria pregiudizialità dell'azione penale rispetto al processo amministrativo, ispirandosi, al contrario, alla tendenziale autonomia dei giudizi. Tale nuovo assetto dei rapporti tra i due processi ha dato luogo alla modifica dell' art. 295 c.p.c., il quale, nel testo novellato, è stato interpretato nel senso che si possa disporre la sospensione del processo solo nel caso in cui debba essere risolta una controversia dalla cui definizione dipenda la decisione della causa, con la conseguente necessità di verificare, nel concreto, la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità tra le due cause, idoneo a giustificare l'applicazione del citato art. 295 c.p.c.T.A.R. Trentino Alto Adige (Trento) I, n. 156/2012. Durante la fase di sospensione non possono essere compiuti atti del processo e tutti i termini sono interrotti ( art. 298 c.p.c.). Segue. Sospensione e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del giudice amministrativoI rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamenti interni sono il frutto dei rapporti tra Corte di Giustizia e giudici interni e in particolare, giudici costituzionali e giudici interni di ultima istanza. Le linee guida del processo di integrazione europea sono state tracciate dalla Corte di Giustizia, anche se poi i singoli Stati membri hanno scelto strade — anche diverse — per adeguarsi ai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo. Per quanto concerne le modalità attraverso cui si attua la prevalenza del diritto comunitario, direttamente applicabile o con effetti diretti, la Corte di Giustizia ha delineato un sistema caratterizzato dal sindacato diffuso da parte di tutti i giudici interni, che diventano «giudici comunitari» al fine di verificare l'eventuale contrasto tra norme interne e norme comunitarie e di disapplicare le prime, avvalendosi in caso di dubbi interpretativi del rinvio pregiudiziale alla Corte ai sensi dell'art. 267 (ex art. 234) del Trattato. Il meccanismo del rinvio pregiudiziale costituisce lo strumento, che ha maggiormente contribuito allo sviluppo del diritto dell'Unione Europea; si tratta di un meccanismo fondamentale, che ha per oggetto di fornire ai giudici nazionali lo strumento per assicurare un'interpretazione e un'applicazione uniformi del diritto dell'Unione europea in tutti gli Stati membri. La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull'interpretazione del diritto dell'Unione europea (rinvio per interpretazione) e sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni, dagli organi e organismi dell'Unione (rinvio per esame di validità). La Corte si pronuncia sull'interpretazione o sulla validità del diritto dell'Unione, cercando di dare una risposta utile per la definizione della controversia, ma spetta al giudice del rinvio trarne le conseguenze disapplicando eventualmente la norma nazionale di cui trattasi. Il procedimento pregiudiziale è dunque improntato ad uno spirito di autentica cooperazione tra Corte e i giudici nazionali, i quali contribuiscono reciprocamente all'elaborazione della decisione avendo quale fine ultimo l'esigenza di garantire l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione Europea. In definitiva, il meccanismo del rinvio pregiudiziale mira alla realizzazione di molteplici obiettivi: i) garantisce l'uniformità nell'applicazione giudiziale del diritto dell'Unione; ii) contribuisce a completare i mezzi diretti di controllo di legittimità sugli atti dell'UE (fornendo così una protezione giurisdizionale a quei ricorrenti la cui legittimazione attiva a proporre ricorso d'annullamento è limitata); iii) assicura una forma, ancorché indiretta, di controllo sulla compatibilità col diritto dell'Unione degli atti interni (Domenicucci) L'attivazione dello strumento del rinvio pregiudiziale è facoltativa, tranne che per i giudici interni di ultima istanza (organo giurisdizionale nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno), che sono tenuti a rivolgersi alla Corte con il rinvio pregiudiziale, salvo le deroghe introdotte dalla giurisprudenza comunitaria. Ai sensi dell'art. 267 Trattato UE, dell'art. 23 del protocollo sullo statuto della Corte di giustizia e dell'art. 3 comma 1 l. n. 204 del 1958, i giudici nazionali di ultimo grado sono tenuti, qualora sorgano delle questioni interpretative in ordine ai trattati dell'Unione europea, a disporre il rinvio alla Corte di giustizia con trasmissione del fascicolo. Di conseguenza, qualora il giudice di ultimo grado ravvisi nella controversia una questione interpretativa già pendente ed al vaglio della Corte di giustizia, è tenuto non soltanto a sospendere il processo ex art. 79 c.p.a. e 295 c.p.c., ma anche a disporre il rinvio con trasmissione del fascicolo. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 8 febbraio 2011, n. 127, ciò anche a prescindere da una apposita istanza di parte in tal senso (Cons. St. III, n. 4585/2014). Con sentenza n. 2242 del 2015 le Sezioni Unite della Cassazione hanno evidenziato che in tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, «il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l' art. 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea, neppure sotto il profilo dell'osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea». A tale regola generale fa tuttavia eccezione «l'ipotesi estrema» in cui la decisione del Consiglio di Stato risulti in un aprioristico diniego di tutela, ossia si fondi su una interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo (accesso che invece sarebbe consentito secondo l'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia). (Cass. S.U., n. 3915/2016; Cass. S.U.,n. 2242/2015). Tuttavia, la stessa Cassazione ha sollevato questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, interrogandola sulla compatibilità con il diritto europeo degli artt. 111, comma 8, Cost., 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, c.p.c. e 110c.p.a., nella parte in cui sono interpretati dalla giurisprudenza nazionale nel senso di non consentire il ricorso per cassazione dinanzi alle sezioni unite, per motivi inerenti alla giurisdizione, sotto il profilo del cosiddetto difetto di potere giurisdizionale, per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia UE.o nella parte in cui sono interpretati dalla giurisprudenza nazionale nel senso di non consentire il ricorso per cassazione dinanzi alle sezioni unite per motivi inerenti alla giurisdizione, sotto il profilo del cosiddetto difetto di potere giurisdizionale, delle sentenze del Consiglio di Stato che omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla stessa Corte di Giustizia (Cass., S.U., n. 19598/2020). Al riguardo, si rileva che la finalità del rinvio pregiudiziale appare quella di mettere in discussione, per il tramite della Corte di giustizia, l'ordinamento costituzionale italiano, che prevede – al pari di quello francese – il sistema della doppia giurisdizione. Tentativo che si è infranto sulla decisione della Corte di Giustizia sul caso Randstad, che ha affermato che il diritto dell'U.E. non osta a una disposizione del diritto interno di uno Stato membro che produce l'effetto che i singoli non possono contestare la conformità al diritto dell'Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato membro nell'ambito di un ricorso dinanzi all'organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Resta, infatti, estraneo a questioni di compatibilità comunitaria ogni aspetto attinente al riparto di giurisdizione interno agli stati membri, in quanto ciò che rileva è che il diritto processuale nazionale consenta, di per sé, agli interessati di proporre un ricorso dinanzi ad un giudice indipendente e imparziale e di far valere in modo effettivo dinanzi ad esso una violazione del diritto dell'Unione, restando poi impregiudicata la facoltà dei singoli che siano stati eventualmente lesi dalla violazione del loro diritto a un ricorso effettivo, a causa di una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, di far valere la responsabilità dello Stato membro interessato, purché siano soddisfatte le condizioni previste dal diritto dell'Unione a tal fine, in particolare quella relativa al carattere sufficientemente qualificato della violazione di detto diritto (CGUE, grande sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia s.p.a.). V. il commento all'art. 110. Al riguardo si rileva che il Consiglio di Stato ha fatto un corretto uso della c.d. giurisprudenza Cilfit, che ha reso meno rigido l'obbligo del rinvio per i giudici di ultima istanza, i quali non sono tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull'esito della lite), se la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o se comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso(e il contesto eventualmente nuovo non sollevi alcun dubbio reale circa la possibilità di applicare tale giurisprudenza), o se la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Cons giust. CE 6 ottobre 1982, C 283/81, Cilfit; per una applicazione da parte del Consiglio di Stato, vedi: Cons.St. IV, n. 938/2017; Cons. St. VI n. 4874/2014; Cons. St. IV, n. 5542/2013; Cons. St. IV, n. 435/2005; Cons. St. V, n. 6566/2004; Cons. St. VI, n. 1885/2000. E' stato precisato che il procedimento istituito dall'articolo 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell'Unione a questi necessari per la soluzione della controversia che essi sono chiamati a dirimere - ha escluso di poter pronunciare in presenza di questioni puramente ipotetiche o non obiettivamente necessarie al giudice nazionale, o comunque senza un collegamento sufficiente con l'oggetto della causa (Corte giust. UE, 30 giugno 2020, C-723/19, richiamata da Cons. St., IV, n. 750/2021; Cons. giust. amm. reg. Sicilia n. 371/2021ha evidenziato i rischi di un “abuso del rinvio pregiudiziale”). Il giudice interno non può essere esonerato dall'obbligo del rinvio per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell'ambito del medesimo procedimento nazionale, ma, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d'irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (Corte giust. ce , 6 ottobre 2021, causa C-561/2019, che ha ribadito che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell'Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all'interpretazione corretta di tale disposizione; successivamente a tale sentenza v. Cons. St. IV,ord. n. 2545/2022 e Cons. St. VI, n. 2066/2022). In coerenza con tali principi la Corte di Giustizia ha affermato che l'articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto in-terno può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione e risolverla sotto la propria responsabilità laddove la corretta interpretazione del diritto dell'Unione si imponga con un'evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio. L'esistenza di una siffatta eventualità deve essere valutata in base alle caratteristiche proprie del diritto dell'Unione, alle difficoltà particolari relative alla sua interpretazione e al rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all'Unione europea. Tale giudice nazionale non è tenuto a dimostrare in maniera circostanziata che gli altri giudici di ultima istanza degli Stati membri e la Corte adotterebbero la medesima interpretazione, ma deve aver maturato la convinzione, sulla base di una valutazione che tenga conto dei citati elementi, che la stessa evidenza si imponga anche agli altri giudici nazionali in parola e alla Corte (Corte Giust. UE, 15 dicembre 2022, C-144/22; 27 aprile 2023, C-482/2022 ). Il Consiglio di Stato è legittimato a porre questioni pregiudiziali ex art. 234, del Trattato ai sensi dell'art. 267 (ex 234) del Trattato quando emette un parere nell'ambito di un ricorso straordinario. Il Consiglio di Stato costituisce una giurisdizione ex art. 177 del Trattato anche quando emette un parere nell'ambito di un ricorso straordinario, dovendosi a tal fine considerare le modalità d'intervento del Consiglio di Stato nell'ambito di tale specifico procedimento. Alla luce dei criteri stabiliti dalla Corte di giustizia per definire la nozione di «giurisdizione» (origine legale dell'organo, il suo carattere permanente, l'obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l'organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente), si è rilevato che il ricorso straordinario è un ricorso amministrativo contenzioso, che il soggetto il quale si proponga di ottenere l'annullamento di un atto amministrativo italiano può scegliere tra due rimedi, il ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale al Tribunale amministrativo regionale, entrambi dotati delle comuni caratteristiche giurisdizionali fondamentali e ciascuno alternativo rispetto all'altro. Inoltre, sia il ricorso straordinario sia il ricorso amministrativo giurisdizionale ordinario prevedono un contraddittorio e garantiscono l'osservanza dei principi d'imparzialità e di parità fra le parti. Infine, è un organo permanente, imparziale e indipendente poiché i suoi membri, tanto nelle sezioni consultive quanto in quelle giurisdizionali, offrono garanzie legali d'indipendenza e d'imparzialità e non possono far parte contemporaneamente delle due sezioni (Corte giust. ce16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96, in Racc. 1997, I-5621). Il riconoscimento del Consiglio di Stato quale giurisdizione anche in tale funzione rappresenta un importante passo nel senso dell'avvicinamento tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale (avvicinamento proseguito con la modifica dell' art. 14 del d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, operata dalla legge n. 69/2009, con cui è stata eliminata possibilità di decisione difforme rispetto al parere del Consiglio di Stato ed è stata prevista la possibilità di sollevare questione di costituzionalità da parte del Consiglio di Stato in sede di espressione del parere su ricorso straordinario). La Corte di Giustizia ha fatto riferimento proprio agli elementi dell'indipendenza dell'organo chiamato ad esprimere il parere, dell'obbligatorietà del parere da rendere in un procedimento basato sul contraddittorio, dell'attività di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo. Non essendo poi la decisione resa su ricorso straordinario suscettibile, in caso di alternatività, di ulteriore rivisitazione giurisdizionale, si deve altresì ritenere che, a norma del trattato, il Consiglio anche in tal caso costituisca una giurisdizione superiore, non solo facoltizzata ma tenuta alla rimessione dei dubbi ermeneutici di matrice comunitaria innanzi alla Corte di Giustizia. La particolare posizione di indipendenza del Consiglio di Stato in sede consultiva è in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che ha escluso che la compresenza di funzioni consultive e giurisdizionali in capo ad organi di giustizia amministrativa sia in sé incompatibile con l' art. 6 della Cedu, ed in particolare con il diritto di ciascuno ad un giudice «indipendente ed imparziale» (Corte Edu, 9 novembre 2006, Sacilor-Lormines c. Francia; 6 maggio 2003, Kleyn c. Olanda). Sotto il profilo statistico, le domande pregiudiziali rappresentano mediamente circa la metà dell'intero contenzioso pendente dinanzi alla Corte di Giustizia: delle 8.710 domande pregiudiziali formulate (dal 1952) fino al 2014 (su un totale di 19.429 cause promosse) 1.279 provengono da giudici italiani, di cui 130 dalla Corte di Cassazione, 2 dalla Corte costituzionale, 107 dal Consiglio di Stato e 1.040 da altri organi giurisdizionali (statistiche pubblicate sul sito web della Corte: www.curia.europa.eu). Il Consiglio di Stato ha, quindi, contribuito allo sviluppo del diritto dell'Unione europea con oltre cento rinvii pregiudiziali e il dato dimostra una propensione dei giudici amministrativi di ultima istanza ad utilizzare l'istituto (il numero di rinvii — se rapportato alle cause esaminate — è percentualmente maggiore di quello effettuato dalla Cassazione), senza però eccedere. Del resto, il sistema di sindacato diffuso da parte di tutti i giudici interni, che diventano «giudici comunitari» al fine di verificare l'eventuale contrasto tra norme interne e norme comunitarie, presuppone che lo strumento del rinvio pregiudiziale venga utilizzato quando effettivamente sussista il dubbio interpretativo, dovendo invece il giudice interno procedere direttamente alla disapplicazione della norma nazionale contrastante, quando tale dubbio non sussiste, anche in assenza di un precedente comunitario. Sono irricevibili le domande di pronuncia pregiudiziale avanzate da un giudice nazionale per mancata dimostrazione, da parte del giudice del rinvio, di un criterio di collegamento tra il diritto dell'Unione e la disciplina alla base della vicenda procedimentale esaminata (C orte giust . UE, 28 maggio 2020, C-17/20). Va anche segnalato come i rinvii disposti dal Consiglio di Stato si sono concentrati negli ultimi venti anni. Infatti, a fronte del primo rinvio pregiudiziale disposto da un Tribunale amministrativo regionale nel 1975 (in un caso di impugnazione di una delibera del Cip che fissava prezzi massime di vendita dello zucchero, ritenuta poi in contrasto con il diritto comunitario; Rinvio pregiudiziale disposto dal Tar del Lazio con ordinanze del 16 giugno 1975; Corte giust. ce, 26 febbraio 1976, C-88,89,90/75), il primo rinvio da parte del Consiglio di Stato è avvenuto soltanto nel 1991. La fattispecie riguardava le impugnazioni da parte di alcune società operanti nel settore del tabacco, del d.m. 31 luglio 1990, riguardante l'etichettatura dei prodotti del tabacco; questione poi risolta dalla Corte di Giustizia nel senso che gli Stati membri non hanno la facoltà di imporre che sulle unità di condizionamento dei prodotti del tabacco diversi dalle sigarette, la menzionata avvertenza generale copra almeno il 4% della superficie della faccia corrispondente (facoltà poi ammessa solo in base ad una successiva direttiva) e che l'art. 4, n. 2 della direttiva 89/622/Cee prescrive l'apposizione di una sola avvertenza specifica su ogni pacchetto di sigarette e gli Stati membri non hanno la facoltà di prescriverne un maggior numero. Rinvio pregiudiziale disposto dal Cons. St. IV, ord. 27 agosto 1991; Cgce, 22 giugno 1993, C-222/91. Da quel momento, intenso è stato il dialogo tra Consiglio di Stato (e Tribunali amministrativi regionali) e Corte di Giustizia; dialogo che ha condotto alla sottoposizione ai giudici di Lussemburgo di una serie di questioni che hanno rafforzato una applicazione uniforme del diritto dell'Unione europea in tutti gli Stati membri, attraverso l'affermazione di importanti principi da parte della Corte di Lussemburgo e la risoluzione di controversie di estrema importanza. Alcuni esempi sono sufficienti a descrivere la cooperazione tra Consiglio di Stato e Corte di Giustizia. In tema di appalti pubblici, si è registrato un costante dialogo tra giudici nazionali e europei, che ha portato a precisare taluni aspetti salienti della disciplina, come, ad esempio, la distinzione tra appalto di servizi e concessioni di pubblico servizio ( Cgue, 10 settembre 2009, causa C 206/08; 13 novembre 2008, C-437/07 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana; 7 dicembre 2000, C-324/98, Teleaustria c. Telekom Austria), sull'ammissibilità del criterio del prezzo più basso quale criterio esclusivo di aggiudicazione ( Cgue 7 ottobre 2004, C-247/02Sintesi SpA contro Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici), sull'estensione del contraddittorio in sede di giustificazione delle offerte anomale ( Cgue 27 novembre 2001, C-285e 286/99, Impresa Lombardini SpA — Impresa Generale di Costruzioni c. Anas), sull'esclusione automatica in presenza di offerte anomale ( Cgue, 15 maggio 2008, C-147 e 148/06, Secap SpA c. Comune di Torino), A fronte di tale dialogo, il giudice amministrativo si è dimostrato pronto a recepire i principi europei, come formulati in seguito al rinvio pregiudiziale (si veda, ad es., i principi in tema di affidamenti in-house che hanno rappresentato un elemento interpretativo imprescindibile nei giudizi interni sulla questione; cfr. Corte giust. UE, 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal e 11 gennaio 2005C-26/03 Stadt Halle e, a livello interno, Cons. St. VI, n. 5643/2015; Cons. St. II n. 298/2015; Cons. St. V, n. 8970/2009; Cons. St. VI, n. 1513/2007 e Cons. St. VI, 1514/2007). Altre volte, è stato lo stesso Consiglio di Stato a stimolare la formazione di nuovi principi comunitari, come avvenuto per le società miste pubblico — privato, per le quali i giudici di Palazzo Spada avevano già individuato la soluzione poi prevalsa in sede comunitaria, costituita dall'ammissibilità dello svolgimento in unico contesto di una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione (Corte giustizia , sez. III, 15 ottobre 2009, C-196/08, Acoset, su rinvio del T.A.R. Sicilia (Catania), che ha affermato per la prima volta principi già individuati da Cons. St. II, n. 456/2007 e da Cons. St. VI, n. 1555/2009). Quest'ultimo caso dimostra come nel processo di armonizzazione circolare il giudice amministrativo italiano e, in particolare, il Consiglio di Stato non si è limitato ad applicare la giurisprudenza comunitaria, ma ha attivamente contribuito alla sua formazione, offendo soluzioni interne poi riconosciute come valide anche in sede comunitaria. Altre volte, invece, ha suscitato perplessità la posizione assunta dal Consiglio di Stato sulla c.d. verifica dei c.d. «controlimiti », che la nostra Corte Costituzionale si è sempre riservata nell'ipotesi in cui le norme comunitarie dovessero violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inviolabili della persona umana ( Cons. St. n. 184/1984; Cons. St. ord. n. 132 /1990; Cons. St. n. 285/1990; Cons. St. n. 168/1991; Cons. St. n. 509/1885; Cons. St. n. 454/2006); verifica da esercitare attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione (Cons. St. n. 232/1989). Al riguardo, il Consiglio di Stato ha ritenuto, con decisione non condivisibile e da molti criticata, che non sussiste obbligo di rinvio alla Corte di giustizia, per irrilevanza ai fini della definizione della causa, della questione di compatibilità con il diritto comunitario di una norma derivante da una modificazione additiva della Corte costituzionale ai sensi dell' art. 134 Cost., a tutela dei diritti fondamentali (nella specie diritto alla salute), in quanto il giudice nazionale, in presenza di una statuizione della Corte costituzionale che lo vincola alla applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto fondamentale, non può prospettare alla Corte di giustizia un quesito pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione della Corte italiana, incidente nell'area della tutela dei diritti ad essa riservata (Cons. St. V, n. 4207/2005; cfr., in senso critico, V. Capuano, Norme fondamentali del Trattato CE private dell'effetto diretto: la sentenza Admenta, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, 241). Il Consiglio di Stato ha, inoltre dimostrato anche di saper tornare sulle proprie statuizioni: in materia di aiuti di stato era stato fortemente criticato l'orientamento con cui era stato ritenuto che, a differenza di quanto avviene per i regolamenti comunitari ed alcune direttive, l'obbligatorietà delle decisioni della Commissione non ha portata generale ma assume la stessa forza delle direttive rivolte agli Stati non aventi contenuto astratto e ben delineato, e quindi, come tali, non direttamente applicabili; ne conseguirebbe che esse obbligano lo Stato destinatario a realizzare il risultato pratico indicato nel caso di specie, secondo gli strumenti propri del singolo ordinamento, senza che l'amministrazione, di propria iniziativa possa annullare un atto legittimamente emanato sulla base di una legge tuttora operante, ancorché ritenuta dalla Commissione in contrasto con una direttiva C.E. (Cons. St. VI, n. 30/1989). Tale principio è stato poi rimeditato ed è stato affermato che le decisioni della Commissione sono «obbligatorie in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati» e che, una volta intervenuta una decisione della Commissione di incompatibilità di un aiuto, o di un sistema di aiuti, con il Trattato il solo strumento per rimuovere quello che è un atto amministrativo comunitario dotato di esecutività è il ricorso alla Corte di Giustizia. Ne consegue che il divieto, imposto allo Stato membro interessato, di dare attuazione ai progetti d'aiuto non notificati alla Commissione o ritenuti incompatibili dalla Commissione stessa, ha carattere generale ed obbliga il giudice nazionale a far rispettare il divieto ivi contenuto, e nessuna norma interna può farvi ostacolo, risultando del tutto irrilevante la data dell'avvenuta abrogazione delle norme interne incompatibili o il fatto che tale abrogazione non sia intervenuta (Cons. St. VI, n. 465/2002). Da ultimo, l'utilizzo dello strumento della disapplicazione senza necessità di uno specifico rinvio alla Corte di Giustizia ha consentito al Consiglio di Stato di ritenere che il reato di immigrazione clandestina, previsto dall'art. 14 comma 5-ter, t.u. 25 luglio 1998 n. 286, non può più ritenersi ostativo ai fini della procedura di emersione dal lavoro irregolare dei cittadini extracomunitari dopo la direttiva U.E. n. 115 del 2008 che, anche se non recepita, è di immediata applicazione e ha determinato l'abolizione del suddetto reato ( Cons. St. Ad. plen., n. 7/2011, che ha in questo modo esteso alla procedura di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari i principi affermati da Cgue 28 aprile 2011, in causa C-61/11). Il rapporto tra giurisdizioni nazionali e giudice comunitario può determinare qualche possibile conflitto, ad esempio nei casi di procedimenti complessi in cui la determinazione finale delle istituzioni dell'U.E. è preceduta da atti delle autorità nazionali. In questi casi, la Corte di Giustizia ha affermato che gli organi giurisdizionali nazionali non possono esercitare un controllo di legittimità sugli atti di avvio, preparatori o di proposta non vincolante adottati dalle autorità nazionali competenti nell'ambito di una procedura conclusa dagli organi dell'U.E. (nella specie, diniego di acquisizione della partecipazione qualificata di una s.p.a. oggetto di valutazione da parte dall'autorità di vigilanza nazionale e successivamente disposto dalla BCE). Nella sostanza, quando opta per una procedura amministrativa che prevede l'adozione da parte delle autorità nazionali di atti preparatori a una decisione finale di un'istituzione dell'Unione che produce effetti di diritto e può arrecare pregiudizio, il legislatore dell'Unione intende stabilire, tra istituzione e autorità nazionali, un meccanismo di collaborazione fondato sulla competenza decisionale esclusiva dell'istituzione dell'Unione e l'efficacia di un tale processo decisionale presuppone necessariamente un controllo giurisdizionale unico, che sia esercitato esclusivamente dagli organi giurisdizionali dell'Unione, solo dopo che sia stata emanata la decisione dell'istituzione dell'Unione che conclude la procedura amministrativa, che costituisce l'unica decisione idonea a produrre effetti di diritto obbligatori in grado di ledere gli interessi del privato (Corte giustizia UE, 19 dicembre 2018, C-219/17 – Silvio Berlusconi, Fininvest; pronuncia originata dal rinvio disposto da Cons. St. VI, ord. n. 1805/2017). Una volta venuto meno il dubbio da cui è scaturito il rinvio pregiudiziale. La domanda di rinvio può anche essere ritirata come, ad esempio, allorquando nel tempo intercorrente dalla avvenuta rimessione nel giudizio principale la questione stessa è già stata risolta dalla Corte di Giustizia (per casi di ritiro v. Cons. St. V, n. 6551/2019 e Cons. St. Ad. Plen., n. 13/2019; vedi anche il commento alla Formula “Memoria con cui si chiede la sospensione del processo e il rinvio pregiudiziale in Corte di Giustizia”). E' stato ritenuto che la formulazione di dubbi interpretativi sul diritto euro-unitario deve essere contenuta nell'atto introduttivo del giudizio, posto che, con essa, l'interessato mira a chiarire il quadro normativo da applicare alla specifica fattispecie di causa ed in base al quale articolare la propria domanda di giustizia (Cons. St. IV, n. 2446/2022). Per il rapporto tra pregiudiziale comunitaria e pregiudiziale costituzionale v. il commento all'art. 1 e in dottrina Lageder e v. Barreca in generale sull'obbligo di rinvio del giudice di ultima istanza. Per il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n. 16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) v. Lipari. Segue. Effetti della sospensioneAi sensi dell' art. 298 c.p.c., richiamato in via generale dall'art. 79, comma 1, dal momento in cui il giudizio è sospeso e per tutta la durata della causa di sospensione, non possono essere compiuti atti del procedimento. Inoltre, sono interrotti i termini in corso, che riprenderanno a decorrere dal giorno dell'udienza fissata per la prosecuzione del giudizio (art. 298, comma 2). Segue. L'appellabilità delle ordinanze di sospensioneIl Codice ha previsto l'appellabilità delle ordinanze emesse ai sensi dell' art. 295 c.p.c., con applicazione del rito camerale. Secondo la dottrina il terzo comma dell'art. 79 limita l'appellabilità delle ordinanze di sospensione a quelle emesse sulla base dell' art. 295 c.p.c., con esclusione di quelle ordinanze di sospensione adottate sulla base dell' art. 296 c.p.c. o che recano la c.d. sospensione impropria (ad es. questione di legittimità costituzionale o rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, o che negano la sospensione (Carpentieri, 499). Non è impugnabile l'ordinanza che dispone la sospensione impropria per pendenza di un giudizio innanzi alla Corte di giustizia Ue nel quale è stata sollevata una questione che rileva anche nel giudizio sospeso (Cons. St. III, n. 8204/2019). Secondo il Consiglio di Stato l'istituto della sospensione del giudizio in secondo grado non può essere negato ogniqualvolta la sospensione miri ad attendere una qualunque forma di decisione pregiudiziale, anche del giudice penale, in considerazione del fatto che il comma 3 dell'art. 79 c. proc. amm concede l'appello sulle ordinanze di sospensione, ma ad esclusione, ove applicabile, della sospensione ex art. 296 c.p.c., ossia su concorde istanza delle parti, di solito per scopi conciliativi in itinere, e dunque senza alcun tipo di proiezione o «praeiudicium decisorio» che è invece tipico di ogni ipotesi di pregiudizialità-dipendenza fra distinti processi (Cons. St. n. 3907/2012). Ciò non esclude tuttavia che la parte possa chiedere la revoca dell'ordinanza di sospensione «impropria» nei casi in cui sia venuto meno il presupposto che l'aveva determinata. La revocabilità delle ordinanze di sospensione impropria non solo non si pone in contrasto con alcuna norma processuale, ma anzi appare funzionale al rispetto del principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2), non ostando a tale possibilità la circostanza che il Codice del processo amministrativo non preveda che le ordinanze di sospensione del giudizio emesse dal Consiglio di Stato siano revocabili, poiché questa mancata previsione non equivale a preclusione (Cons. St. IV, n. 457/2017 e Cons. St. n. 4687/2016, nel caso di sospensione disposta in ragione della pendenza dinanzi alla Corte di Giustizia U.E. della questione pregiudiziale su questione di diritto analoga a quella oggetto della causa, la parte ne chiede la revoca per l'avvenuto mutamento della giurisprudenza interna per effetto di una decisione dell'adunanza plenaria che chiarisce la questione dedotta). Nei casi di appello avverso l'ordinanza di sospensione ex art. 79, comma 3, il giudice in caso di fondatezza annulla con ordinanza la decisione del giudice di sospensione del giudizio e dispone la trasmissione al Tar per la decisione del ricorso (Cons. St. VI, n. 4522/2016). L'interruzione del processo amministrativoL'interruzione del processo consiste nell'arresto dello stesso a causa di un determinato evento che compromette l'effettività del contraddittorio e, quindi, l'istituto dell'interruzione è proprio diretto a garantire l'integrità del contraddittorio e che eventi che colpiscono la parte o il suo difensore possano minare l'effettivo esercizio del diritto di difesa. Come per la sospensione, l' art. 79 rinvia al codice di procedura civile anche per la disciplina dell'interruzione (artt. 299 – 305 c.p.c.); si tratta di un rinvio semplice senza il limite di compatibilità previsto dal previgente art. 24 della l. Tar («in quanto applicabili»). Rimane parimenti operante nel processo amministrativo il generale principio, desunto sempre dalla disciplina del processo civile, in forza del quale il processo non è sospeso se coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente ( art. 299 e 300 c.p.c.). Sulla base delle disposizioni del c.p.c. i casi di interruzione sono: a) morte o perdita della capacità prima della costituzione ( art. 299 c.p.c.); b) morte o perdita della capacità della parte costituita o del contumace ( art. 300 c.p.c.) c) morte o impedimento del procuratore ( art. 301 c.p.c.). Sulla base di tali previsioni, va dichiarato interrotto il giudizio in caso di decesso del difensore di una delle parti, ma non dà luogo a interruzione la morte di uno dei procuratori costituiti per la stessa parte, salvo che essi abbiano l'obbligo di agire congiuntamente. Nel processo amministrativo, la morte del difensore di una delle parti in causa, privandola dello ius postulandi e, quindi, di una adeguata attività difensiva, con connessa estinzione del mandato e della connessa elezione di domicilio comporta, ai sensi degli artt. 301, c.p.c.. e 79 comma 2, c.p.a. e in modo automatico, l'effetto interruttivo del processo, fatta peraltro salva ogni successiva attività delle parti ai fini della riassunzione dello stesso (Cons. St. V n. 3422/2016). Peraltro, non si verifica interruzione del processo ex art. 301 c.p.c. in caso di morte di uno dei difensori ai quali la parte abbia conferito mandato di rappresentarla in giudizio senza obbligo di agire congiuntamente. In tale caso è, infatti, salvaguardata l'esigenza di carattere pubblico, cui l'effetto interruttivo si ricollega, di non privare la parte del ministero del difensore, obbligatorio per legge, mentre l'interesse della parte a fruire di due rappresentanti tecnici è essenzialmente privato e non incide sulle vicende processuali (T.A.R. Sicilia (Catania) III, n. 1802/2009; Cass. I, n. 2577/2003). Un eventuale evento interruttivo, per assurgere a rilevanza nel processo in corso, comunque deve essere rilevato nei modi e nelle forme di cui agli artt. 299 e ss. c.p.c., la cui disciplina è implicitamente richiamata dall' art. 79 comma 2, c.p.a., ossia, previa dichiarazione o notificazione dell'evento ad opera del procuratore costituito per la parte colpita dall'evento interruttivo, la quale è l'unica legittimata a dolersi dell'eventuale irrituale continuazione del processo, nonostante il verificarsi della causa interruttiva, talché la mancata interruzione non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, né essere eccepita dalla controparte. (Riforma T.A.R. Toscana, II, n. 6863/2010). Cons. St. VI n. 5788/2011 Nel caso in cui — a seguito della morte del procuratore costituito in giudizio — il giudizio non sia stato interrotto, solo la parte difesa da detto procuratore è legittimata a dolersi dell'omessa dichiarazione di interruzione, non potendosi far valere in nome proprio un interesse altrui, in virtù del principio generale enunciato dall'art. 81 c.p.c.Cons. giust. amm. Sicilia, 1 ottobre 1996, n. 280. In caso di decesso del difensore della parte, la norma enucleabile dal combinato disposto degli artt. 299 e 301 c.p.c. è univoca nel senso della immediatezza dell'effetto interruttivo, a decorrere cioè dal decesso, e senza alcuna necessità di comunicazioni legali o declaratorie da parte del giudice; se il processo prosegue tutti gli atti successivi sono invalidi e il vizio può essere rilevato in appello (Cons. St. IV, n. 447/2020). L'interruzione del processo per morte di una delle parti può essere dichiarata dal giudice esclusivamente su richiesta del procuratore della parte colpita dall'evento e non anche sulla base della certificazione depositata in atti dell'amministrazione o da altra parte costituita. Cons. St. V, n. 421/1986. Il difensore di una parte non necessaria del giudizio non è legittimato a chiedere l'interruzione del processo per morte del suo assistito. Cons. St.. V, n. 1407/1996, Cons. St., n. 1755/1996. Tale principio, da ultimo ribadito da T.A.R.Veneto, 26 gennaio 2017, n. 97, è stato affermato nel vigore del precedente regime, benché l' art. 24 l.1034/1971 ( l. Tar) non distinguesse tra parti necessarie e parti eventuali del processo. I giudici hanno in particolare ritenuto che il processo non risente di un evento interruttivo che colpisce una parte eventuale, posto che l'istituto dell'interruzione mira ad assicurare che la pronuncia intervenga tra i titolari delle posizioni giuridiche azionate in giudizio (poiché esso non può continuare laddove venga meno il titolare di una di esse e finché non subentri un nuovo titolare). Ma questo principio non può applicarsi laddove l'evento interruttivo colpisca una parte non necessaria del processo come l'interveniente, poiché questi è titolare di una posizione giuridica derivata da una di quelle dedotte principaliter in sede giudiziaria ed è titolare di un interesse di mero fatto che sulle sue posizioni possa ricevere effetti riflessi a seguito della pronuncia giudiziale. Ciò sarebbe peraltro coerente con il fato che l'interveniente non è neppure legittimato a proporre impugnazione avverso un provvedimento di cui subisce effetti riflessi essendo portatore di un interesse legittimo derivato (T.A.R. Toscana 17 marzo 2009, n. 474). Va, inoltre, dichiarata l'interruzione del processo per sopravvenuta incapacità di stare in giudizio, allorché viene dichiarato che parte ricorrente è stata dichiarata fallita, atteso che la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito della disponibilità dei beni e fa subentrare allo stesso, in tutti i rapporti pendenti, anche processuali, il curatore; mentre l'ammissione all'amministrazione controllata non determina la perdita della capacità di stare in giudizio. L' art. 43, ultimo comma, del r.d. n. 267/1942, modificato dall' art. 41, comma 1, d.lgs. n. 5/2006, ha introdotto un nuovo caso d'interruzione del processo (applicabile anche al processo amministrativo, stante la sua portata generale ed il rinvio effettuato dall'art. 79, comma 2, alle norme del codice di procedura civile) conseguente all'apertura del fallimento della parte, che si aggiunge alle ipotesi di cui all' art. 301 c.p.c. (morte o impedimento del procuratore) ed all' art. 299 c.p.c. (morte o perdita della capacità della parte prima della costituzione); si tratta di un'ipotesi di interruzione automatica del processo, che si verifica cioè senza la necessità di alcuna dichiarazione o presa d'atto non appena viene dichiarato il fallimento di una delle parti; il termine per effettuare la riassunzione del processo decorre dal verificarsi dell'evento interruttivo (dichiarazione di fallimento) per la parte che ne è colpita, ovvero dalla sua conoscenza per l'altra parte. (T.A.R. Lombardia (Brescia) I, 26 giugno 2014 n. 708). Ai sensi dell' art. 199 c.p.c., la messa in liquidazione coatta amministrativa di una società determina la perdita della sua capacità di stare in giudizio atteso che, a norma dell' art. 200, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, detto stato comporta, tra l'altro, la cessazione delle funzioni dell'assemblea e degli organi amministrativi e di controllo della società medesima e, comunque, l'attribuzione al commissario liquidatore, e non più, quindi, alla persona fisica che la rappresentava fin quando era in bonis, della capacità di stare in giudizio nelle controversie anche in corso; conseguentemente, ai sensi degli artt. 299 e 300 comma 2, c.p.c., cui rinvia l'art. 79 comma 2 la perdita della capacità della parte dichiarata in udienza dal suo procuratore (o da essa notificata alle altre parti), comporta l'interruzione del processo, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo, si costituiscano volontariamente, ovvero l'altra parte provveda a citarli in riassunzione. Cons. St. V, n. 1437/2014. Ai sensi dell' art. 300 c.p.c. la comunicazione dell'avvenuto decesso del proprio assistito va fatta dal difensore o tramite notificazione alle altre parti o con dichiarazione in udienza, e quindi non anche con il mero deposito di dichiarazione presso la segreteria dell'ufficio giudiziario antecedentemente all'udienza e senza poi confermare in udienza l'evento con dichiarazione. Inoltre, il decesso della parte costituita in giudizio determina l'evento interruttivo del giudizio solo dal momento in cui è dichiarato all'altra parte (senza che possa avere alcuna rilevanza la conoscenza stragiudiziale dell'evento). Cons. St. VI, n. 536/1986, il sopravvenuto decesso di una parte in causa comporta l'obbligo per il giudicante di dichiarare l'interruzione del processo a far tempo dalla data in cui il procuratore, a mezzo del quale la parte si era costituita, ha reso la relativa dichiarazione Cons. St. IV n. 3110/2014. Ai sensi degli artt. 299 e 300 c.p.c., l'interruzione del processo per morte di una delle parti deve esser disposta ipso jure nel caso in cui la parte deceduta non si sia costituita in giudizio, mentre se la costituzione sia stata effettuata l'interruzione presuppone la dichiarazione del decesso da parte del procuratore costituito; peraltro, deve aversi riguardo alla costituzione nelle singole fasi del processo, e in particolare se essa sia o meno avvenuta anche nel giudizio di appello, non potendosi ritenere che la costituzione in primo grado sia valida, a tali fini, anche per le ulteriori fasi del processo; pertanto, nel caso di decesso di parte costituita in primo ma non in secondo grado, il giudizio deve considerarsi automaticamente interrotto senza necessità di apposite dichiarazioni. Cons. St. IV, n. 960/1980, Cons. St. 1147/1980. Ai sensi dell' art. 79 c.p.a., l'interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di procedura civile; di conseguenza l'interruzione del processo per la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, sopravvenuta prima della costituzione in giudizio, determina «ipso iure» l'interruzione del processo, rilevabile d'ufficio dal giudice, conformemente al dettato dell' art. 299 c.p.c.; invece la perdita della capacità della parte costituita in giudizio non determina l'automatica interruzione del processo, dovendo l'evento interruttivo essere dichiarato in udienza o notificato alle altre parti, secondo il regime giuridico apprestato dall' art. 300 c.p.c.T.A.R. Marche (Ancona) I, 5 maggio 2014 n. 482. Secondo Cons. giust. Amm. Reg. Sic. n. 692/2022, in applicazione dell'art. 328, commi 1 e 3, c.p.c., la morte della parte dopo la pubblicazione della sentenza e durante il termine per impugnarla: a) è causa di interruzione del solo termine breve di impugnazione di cui all'art. 325 c.p.c.; b) è causa di proroga di tre mesi del termine lungo di impugnazione, solo se la morte si verifica dopo il decorso della prima metà del termine lungo di impugnazione ossia dal quarto al sesto mese del termine lungo di sei mesi. A seguito della modifica del comma 2 dell'art. 79, apportata dall'articolo 17, comma 7, lettera a) punto 2) del D.L. 9 giugno 2021, n. 80, conv. con modif. in l. 6 agosto 2021, n. 113, l'interruzione del processo è immediatamente dichiarata dal presidente con decreto e il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della segreteria. Si introduce in questo modo la possibilità che l'interruzione del processo sia dichiarata con provvedimento monocratico presidenziale con l'evidente fine di semplificare un adempimento formale ed evitare la necessità di dover fissare una udienza di discussione per un processo da interrompere necessariamente. Segue. Eventi interruttivi e parti pubblicheNel processo amministrativo possono essere frequenti i casi di estinzione di un ente con successione a titolo universale di altro ente. Prima dell'entrata in vigore del Codice, l' art. 24 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 prevedeva, tra l'altro, che «la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti private o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza produce l'interruzione del processo secondo le norme degli articoli 299 e seguenti del codice di procedura civile, in quanto applicabili». L'orientamento costante della giurisprudenza amministrativa riteneva che il chiaro riferimento degli eventi interruttivi alle «parti private» determinasse l'esclusione dal campo di applicazione della norma delle «parti pubbliche» (tra gli altri, Cons. St. VI, n. 4553/2010, Cons. St., n. 5069/2009; Cons. St. n. 4928/2006, Cons. St., n. 5069/2009; Cons. St., n. 4928/2006). Sulla base del pregresso orientamento, la soppressione e l'estinzione di un ente pubblico in pendenza di giudizio amministrativo determinava soltanto un fenomeno di successione nel rapporto processuale e non comportava l'interruzione del processo, così come la perdita dello «ius postulandi» da parte dell'Avvocatura dello Stato, per effetto del trasferimento delle competenze ad altro ente (per il quale non opera il patrocinio dell'avvocatura erariale), non costituiva causa di interruzione del processo, non essendo riconducibile né alla previsione dell' art. 24 l. n. 1034 del 1971, né a quella dell' art. 301 c.p.c. che prevedono l'interruzione in caso di impedimento di natura materiale ovvero giuridico-formale del difensore, non dipendente dalla sua volontà, con la conseguenza che l'Avvocatura doveva rimanere in giudizio fino a quando non veniva sostituita. L'art. 79, comma 2, stabilisce che «l'interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di procedura civile». Gli articoli 299 e ss. c.p.c. disciplinano le conseguenze che derivano nel processo dalla «morte» oppure dalla «perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza». L'orientamento costante della Corte di Cassazione è nel senso che «la soppressione ex lege di un ente pubblico con la successione allo stesso di un altro ente (...) dà luogo ad un fenomeno equiparabile alla morte o alla perdita della capacità di stare in giudizio della persona fisica» (così tra le tante, Cass. I, n. 18306/2007). Ne consegue che rientra nel campo di applicazione delle norme processuali civili anche il fenomeno successorio tra pubbliche amministrazioni. L'integrale rinvio operato dall' art. 79 al Codice di procedura civile comporta, pertanto, che le regole in esso stabilite, così come interpretate, sono applicabili al processo amministrativo, il che implica che hanno rilevanza, a differenza di quanto previsto dalla normativa previgente, fenomeni interruttivi riferiti anche alle «parti pubbliche» (Cons. St. VI, n. 2384/2012). L' art. 299 c.p.c. dispone che se gli eventi interruttivi si verificano «prima della costituzione in cancelleria o all'udienza davanti al giudice istruttore il processo è automaticamente interrotto salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l'altra parte provveda a citarli in riassunzione». L'espressione «all'udienza davanti al giudice istruttore» non va intesa nel senso che l'evento interruttivo si può verificare sino all'udienza anche se la parte si è già costituita. È la costituzione nel processo civile che può avvenire «fino alla prima udienza», fermo restando le decadenza già maturate ( art. 171, secondo comma, cod. proc. civ.). In altri termini, i fattori di interruzione anche in questi casi devono verificarsi comunque prima della costituzione. Quando ricorrono questi presupposti la produzione dell'effetto interruttivo è conseguenza automatica, senza necessità di comunicazioni o notificazioni, della verificazione degli eventi. Se detti eventi si verificano, invece, «nei riguardi della parte che si è costituita a mezzo di procuratore», l' art. 300 c.p.c. prevede che «questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti». L'applicazione di queste norme nel processo amministrativo implica — per quanto l'art. 79 dispone l'applicazione integrale delle norme del Codice di procedura civile — un necessario adattamento limitatamente alle diverse modalità di costituzione previste. Nel processo amministrativo, infatti, la prima udienza viene fissata dal giudice con la conseguenza che il Codice del processo amministrativo ha coerentemente stabilito che il ricorrente e le parti intimate si debbano costituire in giudizio entro termini perentori (artt. 45 e 46) senza consentire la possibilità di una loro costituzione sino all'udienza di discussione. L'impianto complessivo e la ratio giustificativa dei meccanismi che presiedono al funzionamento delle vicende interruttive, pur con gli indicati adattamenti, comunque non mutano: se l'evento si realizza prima della costituzione, che si ribadisce deve avvenire secondo le modalità prefigurate dal codice del processo amministrativo, l'effetto interruttivo è automatico, se, invece, si realizza dopo la costituzione la produzione dell'effetto produttivo è subordinata alla dichiarazione del difensore (Cons. St. VI, n. 2384/2012, che ha escluso l'effetto interruttivo in quanto la verificazione dell'evento interruttivo era avvenuta, prima dell'udienza di discussione ma pur sempre dopo la costituzione in giudizio e l'intervenuta estinzione dell'ente avrebbe dovuto essere oggetto di una espressa dichiarazione da parte del difensore, invece mancante con conseguente prosecuzione del processo tra le parti originarie). L'applicazione dei suddetti principi è stata, tuttavia, limitata e l'istituto dell'interruzione è stato ritenuto non applicabile in assenza di una successione a titolo universale e in presenza di una semplice successione nelle funzioni tra due autorità. In particolare la giurisprudenza ha ritenuto che la soppressione dell'Avcp nel corso del presente giudizio e l'attribuzione dei relativi compiti e delle relative funzioni all'Anac (ai sensi dell' art. 19, commi 1 e 2, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114) non dà luogo all'interruzione del processo ai sensi dell'art. 79, venendo in rilievo non già un'ipotesi di successione a titolo universale, nel senso proprio del termine, tra due soggetti distinti, bensì il diverso fenomeno di una c.d. 'successione nel munus', di pretta natura pubblicistica, connotata dal passaggio di attribuzioni fra amministrazioni pubbliche accompagnato dal trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche sia dei rapporti amministrativi pendenti, ma senza una vera soluzione di continuità tra l'ente che si estingue e l'ente che subentra, con conseguente insussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'istituto dell'interruzione del processo (v. in tal senso, con specifico riferimento alla soppressione dell'Avcp ed all'attribuzione delle relative funzioni all'Anac, Cons. St. VI, ord. n. 4630/2014; VI, Cons. St. n. 322/2015; Cons. St. n. 2466/2015). In senso conforme, è stato affermato che non danno luogo ad interruzione del processo ai sensi dell' art. 299 c.p.c., richiamato dall'art. 79. le situazioni, corrispondenti a mero riassetto di un apparato organizzativo necessario della p.a. — quale è l'apparato pubblico previdenziale — in rapporto al quale può configurarsi non successione a titolo universale nel senso proprio del termine, ma una successione nel munus: fenomeno di natura pubblicistica, concretizzato nel passaggio di attribuzioni fra amministrazioni pubbliche, con trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche che dei rapporti amministrativi pendenti ma senza una vera soluzione di continuità e, quindi, senza maturazione dei presupposti dell'evento interruttivo. Di tale natura deve ritenersi il passaggio di tutti i rapporti attivi e passivi dell'Inpdap all'Inps, con decorrenza 1 gennaio 2012, a norma dell'art. 21 d.l. 6 dicembre 2011 n. 201 (« Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici »), conv. dalla l. 22 dicembre 2011 n. 214 (Cons. St. VI, n. 3369/2014). In tali ipotesi di “successione nel munus”, non sussistono dunque i presupposti dell'evento interruttivo, utili ai fini processuali e, in pendenza dell'azione, il processo continua, salva la possibilità dell'Amministrazione subentrante di costituirsi autonomamente in giudizio (T.A.R. Catanzaro (Calabria), II, 13 luglio 2017, n. 1107). Rinuncia al mandato e cancellazione dall'alboL'interruzione del processo amministrativo è prevista in caso non solo di morte, radiazione o sospensione del procuratore delle parti, ma più in generale di qualunque impedimento, materiale, ma anche giuridico formale, all'esercizio della difesa della parte, ivi compresa la volontaria cancellazione dall'albo. Con riferimento alla cancellazione volontaria dall'albo, superando un orientamento che in passato non era uniforme nel riconoscere a tale ipotesi valenza interruttiva, va dato atto che le recenti posizioni si caratterizzano per ammettere, anche in tal caso, la ricorrenza dei presupposti di cui all' art. 301 c.p.c. (Cons St. n. 1177/2017; Cons St. III, n. 925/2016) Il giudice osserva che, sebbene la tesi opposta sia stata anche recentemente affermata dalla Cassazione (cfr. Cass. I, n. 12376/2014; Cass. III, n. 22756/2013), non può non essere tenuto in considerazione che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell' art. 301, comma 1, c.p.c., censurato in riferimento all' art. 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non include la cancellazione volontaria dall'albo del procuratore tra le ipotesi di interruzione del processo, proprio affermando che il giudice a quo aveva trascurato l'esistenza di un orientamento opposto, espresso in sede di composizione di contrasto giurisprudenziale (Corte cost., n. 147/2008). Pertanto, tra il primo orientamento, che sottolinea la volontarietà della cancellazione, ai fini dell'assimilabilità alle ipotesi di revoca della procura o rinuncia ad essa previste dall' art. 301, comma 3, c.p.c., ed il secondo, che si muove nella prospettiva della tutela della parte comunque rimasta priva di difesa, il Collegio ritiene preferibile aderire a quest'ultimo, in quanto maggiormente coerente con il principio costituzionale del diritto alla difesa in giudizio (così come statuito anche da Cons. St. IV, n. 4323/2009). Precedenti in questo senso: costituisce legittima causa di interruzione del processo la comunicazione fatta nel corso del giudizio dal procuratore in ordine alla sua volontaria cancellazione dall'albo degli avvocati, in quanto tale vicenda, di per sé sola non assimilabile alle ipotesi d'interruzione ai sensi dell' art. 301 c.p.c. che invece concernono situazioni indipendenti dalla volontà del procuratore —, se afferisce alla parte appellante, impone al giudice adito di disporre l'interruzione, nell'impossibilità di ordinare all'appellato (rimasto vittorioso in primo grado e quindi non interessato alla prosecuzione del giudizio d'appello) la notificazione di atti d'ulteriore impulso dell'iter processuale, per evitare che l'appellante si trovi menomato nel suo diritto di difesa nel giudizio d'appello, non potendosi in tal caso assimilare tale cancellazione ai casi di revoca o di rinuncia alla procura che, ai sensi dell' art. 85 c.p.c., non hanno effetto fino all'avvenuta sostituzione del difensore. Cons. St. V, n. 5899/2000. Contra: La comunicazione fatta nel corso del giudizio dal procuratore di una delle parti circa la sua volontaria cancellazione dall'albo degli avvocati non è causa di interruzione del processo nel quale egli si sia costituito, in quanto tale ipotesi non è assimilabile a quelle previste dall' art. 301 c.p.c., che consistono in eventi indipendenti dalla volontà del procuratore (morte, radiazione, sospensione), ma a quelle previste dal comma 3 dell'articolo medesimo (revoca e rinuncia alla procura), che si ricollegano ad un comportamento volontario; peraltro, la cancellazione dall'albo su richiesta, sebbene sia espressione di un comportamento volontario, tuttavia determina la decadenza dall'ufficio di procuratore e di avvocato e, incidendo sullo ius postulandi del difensore, implica la mancanza di legittimazione di costui a compiere ed a ricevere atti processuali, con la conseguenza che il giudice deve disporre il rinnovo delle notificazioni fatte presso il detto procuratore. Cons. St. IV, n. 15/1998. La rinuncia al mandato da parte del difensore del ricorrente non determina, invece, l'interruzione né la sospensione del giudizio amministrativo pendente, essendo priva di effetti sino all'effettiva motivazione del difensore. La dichiarazione di rinuncia al mandato non è causa di interruzione del processo mentre la revoca e la rinuncia alla procura non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore (T.A.R. Lazio (Roma) III n. 12785/2016). La rinuncia al mandato da parte del difensore, nel processo amministrativo, è regolata dall' art. 301, ultimo comma, c.p.c. che esclude la revoca e la rinuncia alla procura ad litem come cause di interruzione del processo, senza che, con ciò, venga leso il diritto alla difesa in giudizio, sancito dall' art. 24, comma 2, Cost., poiché la rinuncia al mandato, in quanto atto ricettizio, deve essere portata a conoscenza del mandante, in modo e tempo tali che quest'ultimo possa provvedere, altrimenti non produce effetto (Cons. St. IV, n. 109/1979). Ai sensi dell' art. 85 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù dell'art. 39 il difensore può sempre rinunciare alla procura, ma la rinuncia non ha effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore; in effetti la rinuncia al mandato alla lite del difensore del ricorrente non determina effetti interruttivi né sospensivi del processo e non impedisce il passaggio in decisione del ricorso, in quanto ai sensi del predetto art. 85 gli stessi difensori sono tenuti a svolgere la loro funzione fino alla loro sostituzione (Cons. St. V n. 4791/2013; Cons. St. VI n. 4853/2012). BibliografiaApicella, L'incidente di falso nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 776 ss.; Apicella, Articoli 77,78,79,80 c.p.a., in Quaranta, Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano, 2011, 627 ss.; Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1960; Auletta, Morte dell'amministratore di società e interruzione del processo, in Giur. it., 1952, I, 2;Barreca, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea e l'obbligo di rinvio del giudice nazionale di ultima istanza, in sito Giustizia amministrativa.it, dicembre 2021; Branca, Sospensione del processo. 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