Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 104 - Nuove domande ed eccezioniNuove domande ed eccezioni
1. Nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall'articolo 34, comma 3, né nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio. Possono tuttavia essere chiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa. 2. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 3. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati. InquadramentoPer domande e eccezioni nuove l'art. 104 ha codificato per il processo amministrativo la regola dell'inammissibilità di cui all' art. 345 c.p.c., ma sono consentite domande relative a interessi e accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché al risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa. Anche la regola della inammissibilità in appello dei nuovi mezzi di prova era mutuata, comprese le eccezioni alla regola, dall' art. 345 c.p.c. (va, infatti, ricordato che l'art. 345 c.p.c. è stato modificato in senso ulteriormente restrittivo per l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello a seguito dell'emanazione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 che, limitando l'attività istruttoria in fase di appello civile, ha precluso la possibilità di acquisire nuove prove reputate indispensabili dal collegio ai fini della decisione. Tale modifica, tuttavia, non si riverbera sul processo amministrativo, in quanto l'art. 104, pur ricalcando il contenuto del previgente art. 345 c.p.c., contiene una autonoma ed espressa disciplina delle nuove prove in appello senza richiamare l'art. 345 c.p.c., la cui novella risulta quindi ininfluente nel processo amministrativo). Sono inoltre ammessi i motivi aggiunti in appello per dedurre nuovi vizi degli atti già impugnati in primo grado, qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano tali vizi; non possono essere impugnati con motivi aggiunti in appello nuovi provvedimenti. Nuove domande in appelloSulla base della disciplina previgente nel processo amministrativo in appello già non era consentita la proposizione di domande nuove (divietoius novorum), né di eccezioni nuove (tranne quelle rilevabili di ufficio su cui non si è formato il giudicato interno). Va ricordato che l'art. 101, comma 2 stabilisce che si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello. Ai sensi dell'art. 104,comma 1, nel giudizio di appello non possono essere proposte domande nuove e, se proposte, devono essere dichiarate inammissibili (Cons. giust.amm. Sicilia, sez. giurisd. n. 1365/2010). È anche inammissibile la proposizione in appello di domande subordinate, non proposte nel ricorso in primo grado ( Cons. St.Ad. plen.n. 7/2012 nella specie, è stata dichiarata inammissibile la domanda subordinata, proposta nel giudizio di appello alla sentenza che ha respinto il ricorso avverso il diniego di accesso ai documenti, di conoscere i soli estremi degli atti oggetto di istanza di ostensione). Si è posto il problema se debba intendersi domanda nuova la deduzione di un dubbio di costituzionalità a fondamento dell'azione. È stato rilevato che la questione di legittimità costituzionale nel giudizio amministrativo deve essere esaminata tenendo presente la causa petendi ed il petitum, che caratterizzano la domanda spiegata dal ricorrente in primo grado; pertanto, l'esame in questione deve non solo fare riferimento, nel giudizio impugnatorio di legittimità, ai vizi denunciati con il ricorso che delimita il thema decidendi, ma anche alla domanda in concreto proposta, che in omaggio al principio del divieto dei nova in appello recepito dall'art. 104 comma 1, non può che essere quella descritta nel ricorso proposto in primo grado. In pratica la necessaria corrispondenza tra petitum e decisum fissa i limiti invalicabili, nel cui rispetto deve essere esaminata la rilevanza della questione proposta dalle parti; pertanto, se è vero che non vi è un limite temporale, anche nel giudizio amministrativo di secondo grado per sollevare la questione di legittimità costituzionale, non possono essere ritenute rilevanti questioni che riguardino norme la cui violazione il proponente non abbia ritualmente evidenziato in primo grado e nei limiti imposti all'effetto devolutivo dai principi di specificità e tempestività dei motivi di appello (Cons. St. V, n. 3356/2014). Il divieto diius novorumin appello in relazione a nuove domande trova nel processo amministrativo tre limitate eccezioni, costituite da: a) la possibilità di chiedere l'accertamento dell'illegittimità del provvedimento amministrativo, qualora ai sensi dell'art. 34, comma 3, nel corso del giudizio l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente; b) la possibilità di chiedere per la prima volta in appello accessori e danni maturati dopo la sentenza di primo grado (interessi e della rivalutazione monetaria maturati dopo la sentenza impugnata e il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa); c) i motivi aggiunti in appello, ammissibili solo avverso atti e provvedimenti già impugnati in primo grado e allorché i vizi ulteriori emergano da documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado (art. 104, comma 3). La prima è costituita dal richiamo, contenuto nell'art. 104 all'art. 34, comma 3; si rileva che l'art. 34, comma 3 prevede che quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se c'è interesse ai fini risarcitori; in questo caso, più che una nuova domanda, si tratta della conversione della domanda di annullamento di un atto illegittimo in una domanda di mero accertamento dell'illegittimità del provvedimento, non risultando più utile l'annullamento e potendo essere l'accertamento dell'illegittimità utilizzato a fini risarcitori. Con la seconda eccezione viene consentito chiedere in appello il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza del T.A.R.; con tale disposizione non deve intendersi essere stata ammessa la libera proponibilità in appello di nuove domande risarcitorie; la possibilità di richiesta di risarcimento riguarda solo quei danni successivi alla sentenza del T.A.R. e, quindi, per lo più ipotesi in cui la domanda risarcitoria è stata proposta già in primo grado, con aumento dei danni richiesti in appello. La disposizione va letta alla luce dell'interpretazione fornita dalla Cassazione, secondo cui la domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza è ammissibile in grado d'appello solo se nel giudizio di primo grado sia stata proposta un'azione di danni e gli ulteriori danni richiesti in appello trovino la loro fonte nella stessa causa e siano della stessa natura di quelli già accertati in primo grado. La nuova pretesa, se priva di tali essenziali e restrittivi requisiti, implicando nuove indagini in ordine alle ragioni poste a base della domanda iniziale e ampliamento del relativo «petitum», costituisce inammissibile domanda nuova (Cass. III, n. 5067/2010). Per una prima applicazione nel processo amministrativo v. Cons. St. V, n. 6364/2011. In analogia con quanto previsto dall' art. 345 c.p.c., può quindi essere chiesto in appello il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza impugnata. Di conseguenza, anche nel processo amministrativo non potrà essere proposta per la prima volta in appello una domanda di risarcimento danni nuova, ma potranno essere chiesti ulteriori danni rispetto a quelli chiesti in primo grado, subiti successivamente alla sentenza, sempreché dipendenti dal titolo fatto valere in primo grado. Scopo della disposizione di cui all' art. 345 comma 1, c.p.c. è evitare che la durata del processo si risolva in pregiudizio della parte che ha ragione, la quale, al fine di vedere integralmente riconosciuto il proprio diritto, sarebbe altrimenti costretta, in mancanza della norma, ad introdurre successivi giudizi di numero potenzialmente illimitato. È da credere che l'espressione «dopo la sentenza impugnata» sia da intendere come riferita allo spirare dei termini per il deposito delle conclusionali e repliche, non potendosi certo ammettere, per ovvie ragioni di giustizia, che, nell'arco temporale impiegato dal giudice alla redazione della sentenza ed in quello occorso alla cancelleria per la sua pubblicazione, il danneggiato rimanga privo di tutela (Di Marzio). Ulteriore eccezione è costituita dalla possibilità, entro determinati limiti, di proporre motivi aggiunti in appello (v. oltre). Nuove eccezioni in appelloIl divieto di proposizione di nuove eccezioni riguarda le sole eccezioni non rilevabili d'ufficio. Ad esempio, l'eccezione d'irricevibilità del ricorso di primo grado non può essere dichiarata inammissibile perché sollevata solo in grado d'appello; ed invero l'irricevibilità, attenendo alla regolare instaurazione del rapporto processuale, è assoggettata al rilievo ufficioso ai sensi dell'art. 35, essendo quindi eccettuata dal divieto dello ius novorum contenuto nell' art. 104 comma 1, del medesimo c.p.a., il quale è invece riferibile esclusivamente alle eccezioni in senso proprio non rilevabili d'ufficio (Cons. St. V, n. 5237/2014). Tale principio, ritenuto in passato pacifico, è stato posto in discussione a seguito della giurisprudenza sul giudicato implicito in tema di giurisdizione, codificata dall'art. 9 c.p.a., che stabilisce che nei giudizi di impugnazione il difetto di giurisdizione è rilevabile solo se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che , in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione; al riguardo, è stata sostenuta la complessiva contraddittorietà di una interpretazione del sistema processuale nel senso che esso da una parte “comprimerebbe” la possibilità del rilievo ex officio del difetto di giurisdizione e dall'altra manterrebbe integro il potere di rilievo officioso di presupposti processuali di minore spessore; si è postulata, così, una ricostruzione alternativa, secondo cui, anche nel giudizio di appello, laddove il giudice sia pervenuto alla decisione di merito, si dovrebbe riconoscere l'avvenuta formazione di un “giudicato implicito” preclusivo (anche) del rilievo officioso di problematiche inerenti agli altri presupposti processuali e le condizioni delle azioni. Tale ricostruzione alternativa è stata esclusa dalla Plenaria, che ha ribadito che sussiste il potere del giudice di appello di rilevare ex officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione (Cons. St. Ad. Plen., n. 4/2018). Secondo la Plenaria l'art. 35 (applicabile anche in appello) affida al potere officioso del giudice il rilievo dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione; l'art. 9 ha limitato il principio del giudicato implicito, che ne impedisce il rilievo officioso in appello, alle sole questioni che riguardano la tematica della giurisdizione e l'art. 104 (come previsto per il processo civile dall'art. 345 comma II c.p.c.) rende possibile che nel processo di secondo grado vengano liberamente prospettate “eccezioni rilevabili d'ufficio”. La circostanza che la questione di giurisdizione, nei gradi successivi al primo, sia stata ricondotta al potere dispositivo delle parti ex art. 112 c.p.c. e sottratta al rilievo d'ufficio del giudice, si spiega con una precisa volontà legislativa, con la considerazione che tale contenuta tempistica del rilievo officioso della questione non pregiudica in alcun modo le parti e consente che nei tempi più celeri venga individuato il giudice fornito di giurisdizione senza conseguenze contra ius (mentre precludere al giudice di appello il rilievo officioso dell'assenza dei presupposti processuali o delle condizioni dell'azione condurrebbe a conseguenze negative sul piano del diritto sostanziale, come ad es. la delibazione di un ricorso certamente tardivo, ovvero proposto da un soggetto non legittimato, etc). Passando ad altro profilo, fino all'entrata in vigore del c.p.a. il processo amministrativo era privo di una specifica disciplina dello jus novorum e per orientamento largamente condiviso (Cons. St. Ad. plen., n. 6/1963), la funzione integratrice che si riconosceva ai principi di portata generale enunciati dal codice di procedura civile nei confronti di altri sistemi processuali si esplicava soltanto per aspetti e istituti non specificamente disciplinati. Mentre con riferimento alle domande nuove, la giurisprudenza era concorde nell'affermare la vigenza nel processo amministrativo del divieto di cui all' art. 345, primo comma, c.p.c. ( Cons.St. IV, n. 675/1997; Cons. St. V, n. 222/1999; Cons. St. VI, n. 906/2001; Cons.St. n. 4163/2002; Cons. St. n. 1902/2003), qualche dissenso, invece, si manifesta riguardo all'applicabilità del secondo comma dell'art. 345, relativo all'inammissibilità di nuove eccezioni. Parte della giurisprudenza affermava l'inconciliabilità di tale norma con la disciplina del processo amministrativo in ragione della particolare natura del contenzioso trattato, concernente debiti gravanti sulla pubblica Amministrazione (Cons.St. V., n. 222/1999; Cons. St. n. 349/2001; Cons. St. n. 906/2001; Cons.St. n. 1629/2001). Tesi che assumeva- con riferimento all'eccezione di prescrizione — come suo punto di forza il dato normativo dell' art. 3 r.d.l. 19 gennaio 1939 n. 295 — ai sensi del quale «ove risulti effettuato il pagamento di somma prescritta...» al pubblico dipendente «l'Amministrazione, se non abbia altro mezzo immediato per conseguire il rimborso, può trattenere il pagamento... in genere di qualunque altro credito che venga a maturarsi...» — e ne deduceva che, non essendo consentito all'Amministrazione distogliere il suo patrimonio dal perseguimento del pubblico interesse, non è neppure consentita la rinuncia alla prescrizione, in linea con il dettato dell' art. 2937, comma l, cod. civ., a norma del quale non può rinunciare alla prescrizione chi non può validamente disporre del diritto. La questione venne risolta dalla Adunanza plenaria che ha ritenuto che l' art. 345 comma 2 c.p.c. è applicabile al processo amministrativo, per cui la prescrizione del credito di lavoro del pubblico dipendente non può essere eccepita, per la prima volta, in appello dalla pubblica amministrazione, non valendo il rilievo che non può incorrere in preclusioni la parte che persegua interessi pubblici sia perché si avallerebbe una evidente disparità di trattamento, sia perché l' art. 2938 c.c. — che vieta al giudice di rilevare la prescrizione non opposta ed alla parte, quindi, di eccepirla per la prima volta in appello — è norma di carattere generale riguardante anche i crediti di lavoro del dipendente pubblico quale posizione di diritto soggettivo, specie a seguito della intervenuta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego (Cons. St. Ad plen. n.14/2004). Chiave di volta di tale costruzione argomentativa è l' art. 24 della Costituzione, che sancisce il diritto di «tutti» i soggetti dell'ordinamento e, dunque, di ciascuno, senza alcuna distinzione, di «agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», dichiarando solennemente di siffatta situazione giuridica soggettiva l'inviolabilità in ogni stato e grado del giudizio. Alla stregua del suo dettato, allora, in considerazione del carattere assoluto della formulazione della norma, non limitato da alcun rinvio alla legge ordinaria, e della doverosa lettura di essa alla luce del preminente principio di uguaglianza ( art. 3 Cost.), di cui costituisce manifesta specificazione, la completa parità delle parti nel processo s'impone come valore di rilevanza costituzionale. Ne consegue, non solo la necessità che la norma posta per regolare il processo assicuri detta parità in ogni stato e grado di esso, ma anche l'erroneità di ogni interpretazione di tale norma dalla quale possa evincersi una posizione di privilegio, sul piano processuale, di una parte a discapito delle altre. Era, pertanto, in palese contrasto ogni interpretazione dell'art. 345 c.p.c. che ne estrapoli il secondo comma, per escluderne l'applicabilità al processo amministrativo in funzione della situazione di diritto sostanziale della pubblica Amministrazione. Peraltro, la prescrizione non può riguardare se non diritti soggettivi, vale a dire posizioni giuridiche soggettive alle quali l'ordinamento assicura la tutela più piena e delle quali, alla luce dei principi suddetti, non può giustificarsi un diverso e minor grado di protezione, a seconda del soggetto nei cui confronti siano fatte valere e del giudice alla cui cognizione debbano essere portate. Sostenere che il divieto di cui all' art. 345 secondo comma c.p.c. valga solo per una delle parti in giudizio (quella privata e non per la P.A.) avrebbe significato avallare un'evidente disparità di trattamento, in violazione dei richiamati principi di pienezza della tutela giurisdizionale e di uguaglianza delle parti dinanzi al giudice, di cui agli artt. 24 e 3 della Costituzione. Il Codice ha consolidato tale processo di avvicinamento tra giudizio amministrativo e processo civile, disponendo espressamente che al processo amministrativo di appello si applicano regole corrispondenti a quelle previste dall' art. 345 c.p.c. sia per le nuove domande — con salvezza di quelle aventi ad oggetto accessori maturati dopo la sentenza appellata — sia per le eccezioni non rilevabili d'ufficio. In applicazione al giudizio amministrativo dell' art. 345 comma 2, c.p.c. (nonché, oggi, dell'art. 104), in appello non possono essere proposte eccezioni non rilevabili d'ufficio, per cui non può essere proposta per la prima volta in tale grado di giudizio l'eccezione di prescrizione, in quanto non rilevabile d'ufficio ai sensi dell' art. 2938 c.c. (Cons. St. VI, n. 7753/2010). I nuovi mezzi di prova in appelloPer le nuove prove in appello già prima dell'entrata in vigore del Codice si riteneva applicabile l' art. 345 c.p.c., in base al quale non erano ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenesse indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostrasse di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. In realtà, vi era anche una tesi secondo cui l'effetto devolutivo proprio del ricorso in appello sarebbe tale da devolvere al giudice di appello non il fatto come accertato nel giudizio di primo grado, ma attribuendo al giudice gli stessi poteri spettanti al giudice di primo grado ai fini dell'accertamento del fatto, trattandosi di un giudizio rinnovatorio con potestà istruttoria piena del Consiglio di Stato in sede di appello (Quaranta, 1873). La disciplina, contenuta nell'art. 104, comma 2, sull'ammissione di nuovi mezzi di prova e sulla produzione di nuovi documenti ha risolto ogni dubbio ed è conforme a quella dell' art. 345, comma 3, c.p.c. (vigente al momento di entrata in vigore del Codice): non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (per un caso di documenti ritenuti indispensabili v.Cons. St. V, n. 1768/2017). Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che nel processo amministrativo opera il divieto dello ius novorum sancito dall' art. 345 c.p.c. nella sua interezza, compreso il divieto di nuove produzioni documentali secondo l'interpretazione fornita da Cass. S.U. , n. 8202/2005 e Cass. S.U 8203/2005 (ora recepita nel novellato comma 3 del citato art. 345 c.p.c.), per cui il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove cc.dd. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, al pari delle prove cc.dd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità. I presupposti di ammissibilità delle prove nuove in appello ai sensi dell'art. 104, comma 2, (mancata proposizione o produzione per causa non imputabile alla parte e valutazione di indispensabilità da parte del collegio), devono ritenersi alternativi e non cumulativi sia in base alla lettera della norma sia perché meglio rispondenti al principio dispositivo con metodo acquisitivo che connota il processo amministrativo. Ne consegue che la valutazione di indispensabilità può essere compiuta dal giudice d'ufficio, senza la prova di impossibilità di produzione in primo in grado, qualora le nuove prove possano determinare un positivo accertamento dei fatti di causa, decisivo talvolta anche per giungere ad un completo rovesciamento della decisione cui è pervenuto il giudice di primo grado, salva la valutazione ad altri fini delle eventuali colpe istruttorie della parte in primo grado (Cons. St. VI, n. 6497/2011). Il Consiglio di Stato ha ritenuto l'indispensabilità delle nuove prove prodotte in appello, considerando integrato il requisito ogniqualvolta il nuovo mezzo istruttorio assuma un'influenza causale determinante sull'esito del giudizio, nel senso che esso sia idoneo a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi, in modo da condurre ad un accertamento in fatto che denoti l'ingiustizia della prima decisione e ne rovesci le statuizioni (Cons. St. IV, n. 3378/2010). Possono essere prodotti in appello documenti non depositati in primo grado solo se non era assolutamente possibile farne oggetto di deposito nel giudizio di primo grado ( Cons. St. Ad. plen. n. 10/2012). La ratio dell' art. 345, comma 3, c.p.c., laddove prevede, in deroga al divieto dei nova in appello, l'ammissibilità delle prove indispensabili, esprime l'esigenza di garantire, per quanto possibile, l'aderenza della decisione di gravame alla verità sostanziale, in esplicazione del principio del «giusto» processo, sancito dall' art. 111, comma 1, Cost., la cui attuazione esige anche, se non in primo luogo, la tendenziale aderenza del risultato del processo alla verità sostanziale (in punto di fatto) e al diritto oggettivo sostanziale (in punto di diritto). Nel caso relativo al precedente citato, le nuove prove si riferivano a fatti posti a base di un'eccezione (l'irricevibilità del ricorso per tardività) rilevabile anche d'ufficio, in quanto tale a norma dell' art. 345, comma 2, c.p.c. proponibile — cioè deducibile in fatto ed in diritto — per la prima volta anche in grado d'appello; il Consiglio di Stato ha rilevato che le prove a suffragio dei fatti posti a fondamento di siffatta eccezione anche sotto il profilo in esame potevano essere fornite per la prima volta in grado d'appello, non avendo senso, a pena d'incorrere in una vera e propria contradictio in adiecto, ammettere la proponibilità di un'eccezione e nel contempo vietarne la prova dei fatti costitutivi. Né, infine, nella soluzione indicata è ravvisabile una violazione del diritto di difesa della parte appellata, dovendo le prove essere offerte in limine nello stesso atto d'appello, onde preservare il diritto di replica e/o controprova della controparte. Ad esempio, il provvedimento impugnato e gli atti del procedimento amministrativo relativo, sono per definizione «indispensabili» al giudizio e la mancata produzione da parte dell'Amministrazione non comporta decadenza, sussistendo il potere-dovere del giudice di acquisirli d'ufficio. Pertanto la mancata acquisizione d'ufficio da parte del giudice può essere supplita con i poteri ufficiosi del giudice di appello — atteso che l'art. 46, comma 2, è senz'altro applicabile in grado di appello —, senza che si incontri la preclusione ai nova in appello recata dall'art. 104, comma 2, essendovi per definizione un'indispensabilità, sotto il profilo probatorio, del provvedimento impugnato e degli atti del relativo procedimento. Cons. St. VI, n. 2738/2011. In sostanza, nel giudizio amministrativo d'appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il Collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, in sostanza quando siano tali non solo da influire sul giudizio (proprietà che è insita nel concetto di prova come elemento formante la base del giudizio), ma da trasformare radicalmente l'esito della decisione, in relazione ad almeno una delle domande proposte.. Cons. St. V, n. 6690/2012. In sede di appello sono inammissibili le prove nuove, non prodotte nel giudizio di primo grado, vigendo anche nel processo amministrativo il principio del divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova, sancito, oltre che dall'artt. 345 c.p.c., dall'art. 104 comma 2, c.p.a., che riguarda anche le prove c.d. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, alla pari delle prove costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità, la quale peraltro non va intesa come mera rilevanza dei fatti dedotti, ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l'onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale (Cons. St. V, n. 4623/2015). Una ricostruzione della disciplina delle nuove prove in appello è contenuta in Cons. St., IV, n. 5560/2021 che ha ribadito che: a) per il caso di deroga al divieto dei nova probatori in appello, in cui la parte dimostri di non aver potuto proporre o produrre le prove nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, vengono in luce le seguenti ipotesi: - prova sopravvenuta in quanto prova formata dopo la conclusione del giudizio di primo grado; - prova incolpevolmente conosciuta dalla parte solo successivamente alla conclusione del giudizio innanzi al T.a.r.; - prova che la parte non abbia avuto modo di depositare nel giudizio di primo grado, poiché il giudizio è stato definito con sentenza in forma semplificata ai sensi dell'articolo 60 c.p.a., all'esito della camera di consiglio per la trattazione della domanda cautelare; b) a parte i casi in cui la prova prodotta per la prima volta in appello sia funzionale alla dimostrazione di un fatto concernente una eccezione in rito rilevabile d'ufficio dal giudice (prova sempre ammessa), il potere del giudice di appello di acquisire d'ufficio nuove prove, che ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, è da ritenere esercitabile non sempre e comunque, ma solo se le prove non potevano oggettivamente essere prodotte in primo grado: perché la parte non ne aveva la disponibilità, o perché l'esigenza istruttoria è sorta solo in appello. In ogni caso, il potere istruttorio attribuito al giudice d'appello non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi in primo grado; c) il potere del giudice di appello di acquisire d'ufficio nuove prove, che ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, non è esercitabile quando la lacuna istruttoria è interamente imputabile alla parte, poiché in ossequio al principio dispositivo (anche con metodo acquisitivo), il potere istruttorio d'ufficio del giudice amministrativo può essere esercitato a soccorso della parte che non ha la disponibilità delle prove, ma non a supplenza della parte che, pur avendo la disponibilità delle prove, non le abbia prodotte e non adduca giustificazioni per la sua omissione; d) se la lacuna istruttoria è imputabile ad un'omissione del giudice di primo grado, è ammissibile l'integrazione istruttoria in appello (sfugge totalmente all'ambito di applicazione dell'articolo 104, comma 2, c.p.a. il provvedimento impugnato e gli atti del relativo procedimento amministrativo, in quanto, in questi casi, deve farsi applicazione dell'articolo 46, comma 2, c.p.a., applicabile anche in appello ai sensi del rinvio interno di cui all'art. 38 c.p.a., ed eventuali omissioni del giudice di primo grado, che ometta di provvedere ai sensi dell'articolo 65, comma 3, c.p.a., devono essere sanate nel secondo grado di giudizio). Va rilevato che l' art. 345 c.p.c. è stato modificato in senso ulteriormente restrittivo per l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello a seguito dell'emanazione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 che, limitando l'attività istruttoria in fase di appello civile, ha precluso la possibilità di acquisire nuove prove reputate indispensabili dal collegio ai fini della decisione. Tale modifica, tuttavia, non si riverbera sul processo amministrativo, in quanto l'art. 104, pur ricalcando il contenuto del previgente art. 345 c.p.c., contiene una autonoma ed espressa disciplina delle nuove prove i appello senza richiamare l' art. 345 c.p.c., la cui novella risulta quindi ininfluente nel processo amministrativo. Nel processo civile, a differenza del processo amministrativo, non vige, quindi, più il limite all'inammissibilità consistente nell'indispensabilità del mezzo e cioè la nuova prova dedotta in appello rimane inammissibile quantunque indispensabile (Di Marzio). La giurisprudenza ha confermato tale tesi, affermando che l'art. 104 non possa ritenersi implicitamente abrogato nella parte in cui subordina la produzione di nuove prove alla valutazione della loro indispensabilità (in alternativa alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado), per effetto dell'intervenuta nuova formulazione dell' art. 345 c.p.c., stante l'assoluta autonomia dell'art. 104 (e l'assenza di intervento del legislatore su di esso) rispetto all'art. 345 cit., sì che non può nemmeno ipotizzarsi una sorta di rinvio dinamico del primo a qualunque modifica che del secondo sopravvenga. Né il diverso regime delle nuove prove in grado di appello tra processo civile ed amministrativo, che così ne risulta, pare affetto da vizi di incostituzionalità, stante la non sovrapponibilità dei due processi e delle situazioni soggettive coinvolte (Cons. St. III, n. 4546/2013). È stato rilevato come in tal modo emerge l'assoluta indipendenza dei due sistemi processuali che, pure imperniati sui medesimi principi ispiratori, risultano suscettibili di differenziate discipline applicative (De Luca — Mastrandrea, 921). E’ stata ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 104, comma 2, c.p.a., in quanto il regime della prova nel processo amministrativo anche di appello non limita in alcun modo l’accesso alla tutela giurisdizionale né altera l’equilibrio fra le parti (Cons. St. IV, n. 2057/2022). I motivi aggiunti in appelloAltra deroga alla proponibilità di nuove domande in appello è costituita dalla riconosciuta ammissibilità della proposizione in tale sede di motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi già impugnati. Si risolve così una questione su cui non vi era unanimità in giurisprudenza e i motivi aggiunti in appello possono essere proposti solo per contestare sotto nuovi profili atti già impugnati, ma non anche per impugnare nuovi atti; in tal senso deve essere inteso il riferimento ai «vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati». Anche la relazione al Codice ha chiarito che la disposizione si ispira ai principi di effettività e di concentrazione della tutela e che resta fermo il principio per cui nei confronti degli ulteriori provvedimenti amministrativi emessi o conosciuti nelle more del giudizio di appello va proposto un separato ricorso di primo grado. Ovviamente, i motivi aggiunti sono ammissibili solo se il vizio è emerso a seguito della conoscenza di documenti non prodotti in primo grado. La disposizione è destinata ad assumere un valore interpretativo della previgente disciplina per i giudizi già in corso. Infatti, l' art. 104, comma 3, cod. proc. amm., laddove consente la proposizione di motivi aggiunti in appello «qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati», ha codificato il pregresso orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti in grado d'appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado. Cons. St.. IV, 2011, n. 3662. Deve pertanto escludersi la possibilità di motivi aggiunti in appello avverso atti diversi da quelli impugnati con il ricorso di primo grado, ancorché connessi ovvero impugnati in via meramente derivata. Cons. St. V, n. 3913/2011. La proposizione di motivi aggiunti in grado d'appello è ammissibile al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, evenienza nella quale non ci si trova tanto in presenza di una «domanda nuova», quanto soltanto di un'articolazione della domanda già proposta in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con i detti motivi s'intendano impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado. Cons. St. IV, n. 1187/2013. Per l'ammissibilità dei motivi aggiunti in appello serve non solo che gli stessi riguardino atti già impugnati in primo grado, ma anche che siano basati su documenti - non prodotti nel giudizio davanti al T.a.r. - di cui la parte sia venuta a conoscenza solo nel corso del giudizio di appello e per fatto a lei non imputabile (Cons. St., IV, n. 1276/2021, che ha escluso la ricevibilità di motivi aggiunti proposti all'esito di due accessi concernenti documenti che preesistevano al giudizio di primo grado e che quindi avrebbero potuto essere acquisiti prima). È ammissibile la proposizione in appello di motivi aggiunti al ricorso incidentaleex art. 104 comma 3 del Codice del processo amministrativo con i quali l'aggiudicatario appellato deduca un nuovo motivo di censura avverso l'ammissione alla gara dell'originario ricorrente, emerso dopo la celebrazione del giudizio di prime cure. Infatti, non ci si trova in presenza di una «domanda nuova», ma di un'articolazione della medesima domanda proposta con il ricorso incidentale di primo grado, volta a sostenere che la società, appellante principale, andava esclusa dalla gara. L'art. 104, comma 3, codice processo amministrativo. non viola l' art. 24 Cost. poiché tale norma contempera il tendenziale principio del doppio grado di giudizio con il diritto di difesa, che risulterebbe compresso se non si consentisse di sollevare in appello questioni discendenti dalla tardiva scoperta di documenti fondamentali (Cons. St. VI, n. 2257/2011). BibliografiaDe Luca - Mastrandrea, Appello, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 911; Di Marzio, Art. 345 c.p.c., in Di Marzio (a cura di) Codice di procedura civile, Milano, 2016; Quaranta, L'appello nel sistema dei mezzi di impugnazione delle sentenze dei T.a.r., in Studi per il 150° del Consiglio di Stato, III, Roma, 1981, 1852. |