Decreto legislativo - 2/07/2010 - n. 104 art. 116 - Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi

Maurizio Santise

Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi

 

1. Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi , nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad almeno un controinteressato. Si applica l'articolo 49. Il termine per la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti è di trenta giorni 1.

2. In pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all'amministrazione e agli eventuali controinteressati. L'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio.

3. L'amministrazione può essere rappresentata e difesa da un proprio dipendente a ciò autorizzato.

4. Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità 2.

5. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai giudizi di impugnazione.

 

Note operative

Tipologia di azione Termine Decorrenza
Ricorso proposto contro diniego di accesso o contro accesso consentito a terzi 30 giorni Data di comunicazione o piena conoscenza dell'atto impugnato, ovvero, dalla formazione del silenzio sull'istanza di accesso.

Inquadramento

Il giudizio in materia di accesso trova la sua disciplina sostanziale nella l. 241/1990 (articoli 22 e ss.), nel d.lgs. n. 33/2013 (cd. decreto trasparenza) e la sua disciplina processuale nell'art. 116, che è collocato nel libro IV, dedicato al giudizio di ottemperanza e ai riti speciali, nell'art. 133, comma 1, lett. a), n. 6), che prevede la giurisdizione esclusiva in tema di accesso, nonché nell'art. 87, che prevede lo svolgimento del giudizio in camera di consiglio.

Quest'ultimo richiamo comporta che tutti i termini processuali sono dimezzati, salvo quelli della notifica ricorso introduttivo in primo grado. La celerità del giudizio è dimostrata anche dall'atto che lo conclude che è rappresentato dalla sentenza in forma semplificata.

È un giudizio particolarmente efficace che si conclude con un ordine di esibizione dei documenti che corrisponde ad una vera e propria condanna all'adempimento.

Secondo una certa ricostruzione si tratterebbe addirittura di una fattispecie di giurisdizione, non solo esclusiva, ma estesa al merito, atteso il potere del giudice di sostituirsi all'amministrazione e stante i poteri riconosciuti al giudice amministrativo (DeNictolis, 1799).

Inoltre, la previsione della giurisdizione esclusiva comporta l'esperibilità di tutti i mezzi di prova previsti per tale tipo di giurisdizione.

La sentenza di accoglimento, quindi, non si limita a disporre l'annullamento dell'atto o, in caso di inerzia, ad accertare l'obbligo dell'amministrazione a consentire l'accesso, ma deve contenere sempre la condanna dell'amministrazione a esibire i documenti entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni.

Il giudizio sull'accesso, applicabile all'accesso documentale e a quello civico, rappresenta lo strumento per attuare il principio di trasparenza.

L'estensione di tale giudizio anche all'accesso civico (semplice e generalizzato), che sottende situazioni giuridiche a titolarità diffusa non specificamente collegate ad un interesse diretto concreto e attuale, comporta che tale tipo di giudizio tenda verso una connotazione di natura oggettiva, perché diretto ad accertare la legittimità del provvedimento rispetto alle regole di trasparenza, più che a tutelare il singolo.

La trasparenza

L'esigenza di conoscere l'attività della p.a. ha una lunga storia nel nostro ordinamento, tant'è vero che già nel 1908 Turati affermava che «la casa della Amministrazione dovrebbe essere di vetro» (Turati).

Dopo più di un secolo tale auspicio si è avverato, almeno secondo la Commissione speciale del Consiglio di Stato che, chiamata a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo recante «Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza», ha evidenziato che, in considerazione delle recenti novità legislative che hanno introdotto il cd. F.O.I.A. (Freedom of information act), il nostro sistema tende ormai sempre di più verso un'accessibilità totale delle informazioni (Cons. St., Comm. Spec., Parere 24 febbraio 2016, n. 515).

La trasparenza è, quindi, considerata come la precondizione per ricostruire e rafforzare il rapporto di fiducia tra cittadini e poteri pubblici, un valore-chiave, immanente nell'ordinamento, modo d'essere tendenziale dell'organizzazione dei pubblici poteri, parametro cui commisurare l'azione delle figure soggettive pubbliche, al fine di trovare il giusto punto di raccordo tra esigenze di garanzia e di efficienza nello svolgimento dell'azione amministrativa (Cons. St., Comm. Spec., Parere 24 febbraio 2016, n. 515).

In quest'ottica la trasparenza diventa, quindi, un punto di confluenza dei principi generali cui tradizionalmente deve ispirarsi l'azione amministrativa (buon andamento, imparzialità, principio di legalità sostanziale, partecipazione democratica) e da cui derivano molteplici istituti (come quelli partecipativi).

La trasparenza è divenuto ormai un principio irrinunciabile della corretta azione amministrativa tesa a perseguire un interesse pubblico, inteso coma causa dell'atto o del potere amministrativo, che non può più essere rigidamente predeterminato e imposto, ma è individuato all'esito di un processo di formazione che coinvolge tutte le componenti della comunità: l'assenza di predeterminazione dell'interesse pubblico rende, quindi, doveroso rendere visibile il modo di formazione dell'interesse medesimo e gli atti ad esso sottesi.

La trasparenza è di due tipi, a seconda dei soggetti coinvolti. Quella orizzontale riguarda i rapporti tra p.a. ed amministrati; la trasparenza verticale è invece quella propria del rapporto intercorrente tra due p.a., ed è correlata ad una concezione originariamente gerarchica dell'Amministrazione, vista come struttura piramidale in cui l'autorità superiore deve sempre essere in grado di controllare l'operato di quelle subordinate. Secondo l' art. 22, comma 5, l. n. 241/1990, nei rapporti tra Amministrazioni non si applica l'istituto dell'accesso, essendo lo scambio di informazioni retto dal principio della leale cooperazione istituzionale.

Così descritta, la trasparenza consente di realizzare l'aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile, come strumento ordinario e primario di riavvicinamento del cittadino alla pubblica amministrazione.

Un unico reale limite incontra la trasparenza, secondo la Sezione consultiva del Consiglio di Stato: le posizioni giuridicamente tutelate dell'individuo. Rileva, quindi, il principio di proporzionalità nell'uso e nel trattamento dei dati.

La trasparenza prima della legge n. 241/1990

Fino al 1990 ha, tuttavia, trovato applicazione la regola del segreto in senso soggettivo: era vietato l'accesso a tutti gli atti della p.a. Tale regola era prevista dall' art. 15 del d.P.R. n. 3/1957 ( T.U. impiegati civili dello Stato), il quale poneva un divieto per gli impiegati pubblici di diffondere informazioni sull'attività amministrativa, quando ciò avesse potuto produrre un danno alla p.a. o a terzi. Qualche eccezione nel senso della accessibilità dei documenti amministrativi era prevista solamente da alcune normative settoriali.

Questa situazione era ritenuta incompatibile con la Costituzione sotto diversi profili La segretezza degli atti rendeva impenetrabile la p.a., con il risultato di mettere in discussione la sua imparzialità, pur imposta dall' art. 97 Cost., e di rendere incompiuta la previsione contenuta nell' art. 98 Cost. secondo la quale «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». I cittadini non avevano possibilità di compiere un controllo democratico sull'esercizio dei pubblici poteri, perché non avevano possibilità di prendere informazioni sullo stesso, pur essendo il diritto all'informazione garantito dall' art. 21 Cost. Senza contare che una più consapevole partecipazione dei cittadini alla attività amministrativa, che solo la conoscenza degli atti della p.a. può garantire, avrebbe consentito l'altro obiettivo posto dall' art. 97 Cost., quello del buon andamento dell'attività amministrativa, nel senso di una più meditata ponderazione dell'interesse pubblico.

L'intervento della legge n. 241/1990

Accogliendo queste critiche, la legge n. 241 ha condotto un'ampia operazione di trasparenza della p.a., all'interno della quale si inseriscono gli istituti della partecipazione del cittadino al procedimento, della comunicazione di avvio dello stesso, della motivazione dei provvedimenti, e il diritto di accesso, che viene generalizzato, sul modello della disciplina già esistente in Svezia e in numerosi paesi europei (come, ad esempio, la Germania).

L'intervento legislativo ha infatti ribaltato il tradizionale rapporto tra segretezza ed ostensibilità degli atti amministrativi a favore di quest'ultima, che è diventata la regola. Il fondamento dell'istituto è stato visto nel principio di pubblicità, sancito dall' art. 1 della l. 241/1990. Nel fare ciò la l. n. 241/1990 non ha del tutto eliminato la segretezza degli atti della P.A., ma l'ha ridotta, accogliendone una nozione di tipo oggettivo: solo in casi particolari è vietato l'accesso, in ragione della tipologia di interessi, finalità e atti coinvolti.

La trasparenza non è totale anche per un altro motivo, legato all'esigenza di evitare che l'accesso contrasti con il buon andamento dell'attività amministrativa. Infatti la l. n. 241/1990, per evitare intralci all'operato delle P.A., attribuisce il diritto di accesso non a qualsiasi cittadino, ma solo a colui che sia titolare di un interesse particolarmente qualificato, escludendo espressamente che l'accesso possa essere preordinato «ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni». Dunque l'accesso «che nasce, in sé, per garantire la trasparenza della azione pubblica ed il controllo democratico da parte dei cittadini vede ridimensionato il suo ruolo di meccanismo anche di trasparenza, per divenire essenzialmente strumento di diretta tutela del singolo e, non già solo mediatamente ed incidentalmente ma ormai accidentalmente, di garanzia dell'interesse collettivo alla correttezza dell'azione amministrativa.

Successivamente poi, come visto, il legislatore si è orientato per l'accessibilità totale delle informazioni, introducendo, affianco al diritto di accesso documentale, l'accesso civico.

La natura giuridica del diritto di accesso previsto dalla legge n. 241/1990: l'accesso documentale

La l. n. 241/1990 ha definito quello all'accesso come un diritto. Simile definizione è rintracciabile anche nel regolamento di attuazione ( d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184), nel codice della privacy (artt. da 7 a 10), e nella l. n. 142/1990 (oggi artt. 10 e 43 TUEL). Nonostante la lettera della legge, è stato negato che quello all'accesso sia un diritto soggettivo, perché si tratterebbe di un interesse legittimo. Il legislatore si sarebbe dunque espresso in modo atecnico, al solo fine di porre enfasi su di una situazione giuridica di rilievo costituzionale.

Secondo la tesi dell'interesse legittimo, a fronte dell'interesse ad accedere del privato, la P.A. è dotata di un potere autoritativo di tipo discrezionale. L'Amministrazione, nel provvedere sull'istanza di accesso con atto motivato, opererebbe una valutazione comparativa degli interessi coinvolti: quello di cui è portatrice la p.a., quello dell'istante ed eventualmente quello del controinteressato.

La posizione dell'interessato all'accesso è dunque regolata da una normativa di settore che ne garantisce il soddisfacimento «nell'ambito del contestuale e coessenziale soddisfacimento dell'interesse pubblico» (Cons. StatoAd. plen., n. 16/1999).

Lo stesso art. 22 comma 1 l. n. 241/1990 afferma che l'accesso è volto a «favorire la partecipazione» e ad assicurare «l'imparzialità e la trasparenza» dell'azione amministrativa, dunque a perseguire interessi pubblici.

Nell'esercizio del potere autoritativo di cui è dotata, la p.a. può decidere discrezionalmente di consentire, negare o anche differire l'accesso. Inoltre, nell'esercizio di questo stesso potere, la P.A. può introdurre ulteriori ipotesi di esclusione dall'accesso mediante regolamenti.

Inoltre, il sistema processuale predisposto per la tutela dell'accesso (oggi disciplinato dall'art. 116) consiste in un giudizio impugnatorio con previsione di un termine di decadenza per stigmatizzare le determinazioni in tema di accesso. Il legislatore prevede infatti che avverso il provvedimento di diniego all'accesso (anche per silentium) l'interessato debba agire mediante tempestiva impugnazione entro il termine di decadenza di 30 gg.

Secondo altro orientamento, quello all'accesso è un diritto soggettivo. Infatti, a fronte della richiesta dell'interessato, la p.a. non adotta un provvedimento nell'esercizio di un potere autoritativo di tipo discrezionale.

La p.a. può assumere una duplice veste, quella di detentrice di documenti e quella di autorità procedente nel procedimento cui i documenti pertengono. Solo in questa seconda veste la P.A. è dotata di un potere amministrativo volto alla cura di un interesse pubblico concreto.

Così «di fronte alla richiesta di accesso l'autorità agisce non nell'area del potere di cui è attributaria nella sua attività finale, ma in un settore di attività strumentale quella relativa alla conservazione di documenti in cui l'interesse tutelato in via primaria e diretta è quello dell'aspirante all'accesso» (Baccarini, 1040).

A fronte della istanza di accesso, l'Amministrazione si limita a verificare, in positivo, la sussistenza della situazione legittimante del richiedente e, in negativo, la non ricorrenza degli ostacoli tassativi di cui all' art. 24 l. n. 241/1990. L'obbligo di ostensione sorge ex lege, e non in virtù della determinazione favorevole della p.a., che è solo il frutto di una attività paritetica di tipo dichiarativo. Dunque la p.a. non può negare l'accesso per motivi di opportunità, dovendo rigidamente attenersi alla compiuta disciplina legislativa.

Nemmeno il potere di differimento è di tipo discrezionale. La P.A. si limita a controllare l'esattezza dell'adempimento dell'obbligo di ostendere, secondo esigenze temporali obiettivamente valutabili. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che la legge n. 15/2005 ha riscritto il comma 4 dell' art. 24 della legge n. 241/1990, eliminando la valutazione della p.a. circa l'«impedimento o grave ostacolo all'azione amministrativa», per subordinare il differimento dell'accesso agli stessi presupposti del rifiuto.

Si ritiene poi non dirimente la considerazione che quello all'accesso sarebbe un interesse legittimo per il solo fatto che la sua azionabilità in giudizio è sottoposta ad un termine decadenziale. Infatti nel nostro ordinamento ci sono svariate ipotesi di diritti soggettivi il cui esercizio è assoggettato al rispetto di un termine breve, di natura decadenziale.

Al contrario, il giudizio sull'accesso disciplinato oggi dall'art. 116, lungi dal mostrare la natura di interesse legittimo dell'accesso (come affermato dal Cons. St.,Ad. plen.n. 16/1999), depone per la tesi del diritto soggettivo.

L'oggetto del giudizio sull'accesso consiste nel rapporto che si instaura tra P.A. e soggetto richiedente, perché il giudice verifica la spettanza o meno del diritto di accesso, piuttosto che la sussistenza o meno di vizi di legittimità di un atto amministrativo.

La determinazione impugnata non costituisce l'oggetto del giudizio, ed anzi in un certo senso il giudice ne compie una sorta di disapplicazione (Caianiello, 205).

Anche i poteri decisori del giudice depongono nel senso della tesi del diritto soggettivo, perché il giudice ha il potere di condannare la p.a. a un facere consistente nell'esibizione dei documenti richiesti (actio ad exibendum).

In questo senso sembrerebbe poi deporre la l. n. 80/2005 (che ha modificato l' art. 25, comma 5, l. n. 241/1990) che ha espressamente qualificato come esclusiva la giurisdizione del g.a. in materia di accesso.

La tesi del diritto soggettivo discenderebbe, inoltre dal fatto che l'accesso è diretta emanazione della libertà di informazione, che, come detto prima, è un diritto sociale di rilevanza costituzionale. Le modifiche apportate dalla legge n. 15/2005 all'art. 22 della legge n. 241, fanno dell'accesso un principio generale dell'ordinamento, inerente ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell' art. 117, comma 2, lett. m) Cost. L'accesso viene dunque ricondotto alla categoria dei diritti civili e sociali.

Secondo una tesi intermedia sostenuta in dottrina (Occhiena, 510), quello all'accesso può essere tanto un diritto soggettivo quanto un interesse legittimo, a seconda della situazione concreta. Così si ha un diritto ad accedere ad un documento contenente solamente dati personali del richiedente, mentre si ha interesse legittimo ad accedere ad un documento contenente dati che riguardano terzi. Per l'accesso endoprocedimentale, esercitato cioè nel corso del procedimento dai soggetti che vi partecipano, ci sarebbe sempre un interesse legittimo.

Altra dottrina (Carpentieri) precisa che quando l'accesso può essere esercitato in via informale, oppure nei casi in cui la verifica dell'ammissibilità dell'accesso si presenta come del tutto vincolata, quello all'accesso è un diritto soggettivo, dal momento che la posizione di vantaggio è tutelata direttamente dalla legge, senza la mediazione del potere amministrativo; quando invece vi sono interessi contrapposti e contrastanti con l'accesso, che la p.a. deve comparare, quello all'accesso è un interesse legittimo, perché il permesso della p.a. è un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario.

Tale dibattito, tuttavia, è destinato a stemperarsi.

L'art. 116, comma 1, innovando rispetto alla l. n. 241/1990, ha espressamente previsto che il ricorso debba essere notificato ad almeno un controinteressato, con la conseguenza che in mancanza il ricorso è inammissibile.

In relazione alla natura del termine di trenta giorni entro il quale proporre ricorso avverso il provvedimento di diniego (anche per silentium), l'adunanza plenaria si è pronunciata con le sentenze n. 6 e 7. Pur non prendendo posizione sulla natura giuridica dell'accesso, ha affermato la natura decadenziale e perentoria del termine di 30 giorni per impugnare il diniego. Se tale termine è spirato inutilmente, non si può consentire la sua sostanziale elusione mediante l'impugnazione di un nuovo diniego adottato a seguito di richiesta identica alla prima, diniego che sarebbe meramente confermativo del precedente. Ciò equivarrebbe a porre nel nulla la previsione legislativa, a fronte di un impianto normativo sostanziale e processuale che tende a dare assoluta certezza al problema della sussistenza del diritto di accesso (anche a tutela del controinteressato).

L'Adunanza Plenaria conclude affermando che è possibile impugnare il nuovo diniego solo se la seconda richiesta sia stata motivata in base a fatti diversi, non importa se sopravvenuti o meno, perché solo in questo caso il secondo diniego non sarebbe meramente confermativo del precedente. Tale soluzione, peraltro, potrebbe essere giustificata anche dal c.p.a. che solo in relazione al giudizio sul silenzio inadempimento espressamente prevede all'art. 30, comma 2, che è fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.

Neanche le successive Adunanze plenarie n. 19/2020 e 4/2021 hanno preso posizione sulla natura giuridica del diritto di accesso.

In conclusione si può dire che il giudizio sull'accesso vede la convergenza di interessi giuridicamente rilevanti che spesso si contrappongono (interesse all'accesso, alla riservatezza e al segreto).

Si tratta di situazioni giuridiche soggettive che attribuiscono al titolare poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante.

Ne consegue che il giudizio a natura impugnatoria consente, nello stesso tempo, la tutela dell'accesso agli atti coniugando l'esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati (Romano, 939).

La legittimazione attiva all'accesso.

L'interesse di chi intende accedere deve essere qualificato secondo quanto previsto dall'art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241, che indica come interessato colui che ha «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso»

Il diritto di accesso è una situazione giuridica autonoma e strumentale rispetto ad una sottostante situazione giuridicamente tutela. L'accesso non fornisce una utilità finale, ma una utilità strumentale ad un'altra posizione giuridica che a sua volta produce una utilità finale. Questa utilità, per così di- re intermedia, consiste in informazioni volte a capire se e come gli atti oggetto di accesso possano incidere sulla situazione sottostante.

In giurisprudenza c'è una massima ricorrente, secondo la quale la legittimazione all'accesso va riconosciuta «a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto» (Cons. St. VI, n. 1492/2011).

Nella nozione di situazione giuridicamente tutelata rientrano diritti soggettivi, interessi legittimi ed interessi collettivi. Nel corso degli anni la giurisprudenza vi ha fatto progressivamente rientrare altre situazioni meno significative, ma in grado di consentire al titolare di partecipare ad un procedimento o ad un processo. Possono dunque legittimare all'accesso anche una aspettativa di diritto, un interesse procedimentale, o un interesse amministrativamente protetto. In questo senso, l'Adunanza Plenaria ha affermato che «La disciplina dell'accesso agli atti amministrativi non condiziona l'esercizio del relativo diritto alla titolarità di una posizione giuridica tutelata in modo pieno [] essendo sufficiente il collegamento con una situazione giuridicamente riconosciuta anche in misura attenuata» ( Cons. St.Ad. plen., n. 7/2012).

Con riguardo alla legittimazione agli associati dellaSiae ad accedere ai documenti interni dell'ente, l'Adunanza Plenaria ha affermato che «Il generico interesse dell'associato alla prudente e corretta amministrazione del patrimonio, dalla quale dipende il soddisfacimento delle posizioni attive che si collegano al suo status, assume nella fattispecie un connotato di palpabile concretezza, in relazione alle criticità collegabili ad una perdita finanziaria». Stanti queste premesse, l'associato «in quanto titolare di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, deve essere considerato soggetto «interessato», ai sensi dell' art. 22 comma 1, lett. b), della l. n. 241/1990 (come modificata dall' art. 15 della l. n. 15/2005) ( Cons. St.Ad. plen., n. 7/2012).

L'Adunanza Plenaria non riconosce, tuttavia, in tale ipotesi, l'accesso al Codacons e all'Associazione per la tutela degli utenti, dell'informazione, della stampa e del diritto d'autore perché la mala gestio del patrimonio che si è manifestata nell'affare Lehman Brothers non può avere alcuna incidenza sui servizi rivolti agli utenti: «la vasta ed indifferenziata platea dei consumatori e utenti del diritto d'autore, che le appellanti intendono rappresentare, non può ricevere alcun nocumento da decurtazioni del patrimonio della Siae né giovarsi in alcun modo del recupero di capitali venuti meno per effetto di investimenti pregressi, cui, invece, è legittimamente interessato il singolo associato... Le associazioni appellanti possono certamente farsi promotrici di iniziative tese ad assicurare legalità dell'azione amministrativa anche nei confronti della Siae, quanto all'esercizio delle attività di interesse pubblico che ad essa competono, ma risultano sprovviste di una posizione differenziata e qualificata che dia titolo ad accedere agli atti riguardanti la gestione del patrimonio, di cui può beneficiare solo la base associativa.

In relazione alla possibilità di accedere agli atti relativi al rapporto di lavoro delle società a partecipazione pubblica, l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha evidenziato che il diritto di accesso sia esercitabile anche da parte dei dipendenti della società Poste Italiane s.p.a. ma solo in relazione ai settori di autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro), ovvero alle prove selettive per l'assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti attinenti l'auto-organizzazione degli uffici [...], quando gli stessi incidano negativamente sugli interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario (Cons. St. VI, n. 13/2016).

Discorso diverso deve essere fatto per l'accesso in materia ambientale che ha trovato un primo riconoscimento nell' art. 14, comma 3, della l. n. 349/1986 e che, allo stato, è disciplinato dal d.lgs. n. 195/2005. Quest'ultima norma introduce un regime di pubblicità tendenzialmente integrale in cui la legittimazione ad agire prescinde dalla posizione giuridica soggettiva vantata e dall'esistenza di un interesse.

L'accesso agli atti di diritto privato della P.A.

L' art. 22 comma 2 della legge n. 241/1990 prevede l'accesso anche agli atti di diritto privato della p.a. Tuttavia il legislatore è pervenuto a questo approdo solo nel 2005, avallando l'orientamento risultato maggioritario in giurisprudenza.

Inizialmente quest'ultima si era mostrata restia ad ammettere l'accesso nei confronti di una attività, quella di diritto privato, che non sembrava rientrare negli obiettivi di trasparenza ed imparzialità della legge n. 241 e dell'istituto dell'accesso. Si riteneva che tali obiettivi fossero da perseguire solo quando la p.a. agisse in veste di autorità, di modo che il diritto di accesso operasse come una sorta di contrappeso alla supremazia dell'Amministrazione. Quando invece la p.a. agisse su di un piano paritetico, non solo non sarebbero venuti in rilievo quegli obiettivi, ma si sarebbe corso il rischio, garantendo l'accesso, di porre la p.a. in una posizione di sfavore rispetto ai privati. Ad esempio, consentendo ad un privato la conoscenza degli atti della p.a. controparte di un processo, si sarebbe violato il principio costituzionale di parità delle parti processuali.

Successivamente la giurisprudenza si è aperta al riconoscimento del diritto di accesso nei confronti dell'attività di diritto privato della P.A. L'attività amministrativa, si è detto, è sempre volta alla cura degli interessi pubblici, sia quando l'Amministrazione esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, sia quando persegue le proprie finalità istituzionali mediante moduli di diritto privato (Cons. St. n. 82/1997). La funzionalizzazione dell'attività amministrativa al pubblico interesse fa sì che la p.a. debba sempre comportarsi secondo i canoni costituzionali di buon andamento ed imparzialità, qualsiasi sia il modulo prescelto. L'accesso è lo strumento per verificare che ciò avvenga. Sarebbe contraddittorio non garantire l'accesso proprio quando la p.a. agisce con moduli di diritto privato, perché è proprio in questi casi che aumenta il rischio che la p.a. non sia imparziale. Infatti il diritto privato non impone un principio di necessario procedimento per la formazione della volontà della p.a. (salvi ad esempio i casi in cui il legislatore la obblighi a seguire procedure di evidenza pubblica per addivenire ad un contratto).

L'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nel 1999 (sentenze nn. 4 e 5 del 22 aprile) ha, peraltro, evidenziato che l'accesso va garantito nei confronti di tutti gli atti della P.A., pubblicistici o privatistici che siano. Infatti per tuttivalgono quelle esigenze imposte dall' art. 97 Cost. di trasparenza ed imparziale perseguimento del pubblico interesse, esigenze che l'accesso mira a garantire.

Queste conclusioni sono state riprese nel 2005 dal legislatore, il quale ha riformulato l' art. 22 l. n. 241/1990 indicando come documenti amministrativi accessibili quelli «concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».

Accesso, rapporto di lavoro e società a partecipazione pubblica.

Questione connessa a quella appena esaminata è se sia legittimato ad accedere un dipendente di una società a partecipazione pubblica ai documenti relativi al suo rapporto di lavoro.

L'adunanza plenaria del Consiglio di Stato interviene con sentenza del 28 giugno 2016, n. 13, ritenendo che il diritto di accesso sia esercitabile anche da parte dei dipendenti della società pubblica (nella specie, Poste Italiane s.p.a.), ma solo in relazione ai settori di «autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro), ovvero alle prove selettive per l'assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti attinenti l'auto-organizzazione degli uffici [], quando gli stessi incidano negativamente sugli interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario».

L'adunanza plenaria giunge a tale soluzione all'esito di una valutazione sistematica dell'istituto dell'accesso e della nozione di p.a.

Il primo rappresenta un «principio generale dell'attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza» ( art. 22, comma 2, legge n. 241/1990) che si applica, ai sensi degli artt. 22, comma 1, lett. e) e 29, comma 1, l. n. 241/1990 «a tutti i soggetti di diritto pubblico e diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario».

Con riguardo alla nozione di p.a. rileva, secondo l'adunanza plenaria, la nozione di organismo di diritto pubblico, cui si applica pacificamente la normativa in tema di accesso, in quanto si tratta di enti, anche privati, cui sono attribuite prerogative pubblicistiche che impongono l'estensione della normativa in tema di accesso. Del resto, l'accesso, come visto, è espressione del principio di trasparenza, cui si collega anche la necessità, per tali enti, della procedura ad evidenza pubblica.

L'organismo di diritto pubblico comporta, secondo l'Adunanza Plenaria, l'ingresso nella nozione funzionale di Stato, che consente di superare la teoria del contagio per accedere alla teoria che le norme pubblicistiche debbano essere applicate ai soggetti privati solo limitatamente all'attività di pubblico interesse.

In quest'ottica, secondo l'adunanza plenaria, non è possibile estendere la normativa sull'accesso a tutto il rapporto privato di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane s.p.a., ma solo alla parte rilevante ai fini pubblicistici.

Non può negarsi che il rapporto di lavoro implichi lo svolgimento di un attività strettamente connessa e strumentale alla quotidiana gestione del servizio pubblico e che possa configurare una disparità di trattamento l'attuazione di modalità differenziate di tutela del predetto interesse a seconda che si tratti di utenti o di lavoratori. In quest'ottica non può, inoltre, prescindersi dal d.lgs. n. 33/2013 e al recente rafforzamento del principio di trasparenza, cui ha contribuito anche il d.lgs. n. 97/2016, che ha introdotto il F.O.I.A.

L' art. 1, comma 35, della legge delega n. 190/2012 estende il principio di trasparenza anche ai concorsi e alle prove selettive per l'assunzione di personale, nonché alle progressioni in carriera: norme che si applicano anche alle società partecipate dalle pp.aa. e dalle loro controllate limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea.

La stessa norma ha modificato l' art. 1 comma 1-ter, l. n. 241/1990 che ha inserito tra i principi generali dell'attività amministrativa l'assicurazione che i soggetti privati preposti all'esercizio dell'attività amministrativa forniscano un livello di garanzie non inferiore a quello cui sono tenute le pp.aa.

In questo quadro normativo, secondo l'adunanza plenaria, appare legittimo circoscrivere l'accesso agli atti solo alla parte di rapporto di lavoro di «autonoma rilevanza pubblicistica (e non di quotidiana gestione del contratto di lavoro), ovvero alle prove selettive per l'assunzione del personale, alle progressioni di carriera e a provvedimenti attinenti l'auto-organizzazione degli uffici [], quando gli stessi incidano negativamente sugli interessi dei lavoratori, protetti anche in ambito comunitario»

L’accesso agli atti dell’anagrafe tributaria: Cons. Stato, Ad. plen., n. 19/2020

Con sentenza 25 settembre 2020, n. 19, l’Adunanza plenaria ha chiarito che le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti comunque acquisiti dall’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, e inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso documentale difensivo, che può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile, nonché dalla previsione dall’esercizio dei po- teri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia.

Il tema involge quello del rapporto tra l’istituto dell’accesso difensivo di cui all’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990 e le norme processuali che disciplinano l’acquisizione dei documenti amministrativi nel processo civile (sia secondo le previsioni generali, ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 c.p.c., sia secondo le previsioni speciali nei procedimenti in materia di famiglia, ai sensi del combinato disposto degli artt. 492-bis c.p.c. e 155-sexies disp. att. c.p.c.).

La logica difensiva è costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario o addirittura strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari, per la cura o la difesa dei propri interessi.

L’accesso difensivo è costruito come una fattispecie ostensiva autonoma, caratterizzata da una vis espansiva capace di superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi e caratterizzata, al tempo stesso, da una stringente limitazione, ossia quella di dover dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto o la sua stretta indispensabilità, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari.

La conoscenza dell’atto non è diretta a consentire al privato di partecipare all’esercizio del pubblico potere, ma rappresenta il tramite per la cura e la difesa dei propri interessi giuridici, la necessità o la stretta indispensabilità della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica finale, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico, ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica finale controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio; la delibazione è condotta sull’astratta pertinenza della documentazione rispetto all’oggetto della res controversa.

Da un punto di vista sistematico, nella distinta prospettiva dei due sistemi processuali, e cioè quello processualcivilistico e quello amministrativistico, la situazione legittimante all’accesso è autonoma e distinta da quella legittimante l’impugnativa giudiziale (in particolare, dall’azione di annullamento nel processo amministrativo) e dal relativo esito, con la conseguenza che il diritto di accesso difensivo non è riducibile a un mero potere processuale. Ciò vale anche rispetto al giudizio civile, in cui l’azione volta a far valere la pretesa sostanziale è autonoma rispetto a quella volta a reperire la documentazione utile a sostenere le allegazioni difensive. Ne discende che – come sottolineato anche nella giurisprudenza civile – il diritto di accesso cd. difensivo ex l. n. 241/1990 è strumentale alla difesa di una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento ed è azionabile dinanzi al giudice amministrativo, a prescindere dalla circostanza che la situazione giuridica finale si configuri come diritto soggettivo o interesse legittimo, e che quindi rientri nell’ambito di giurisdizione del giudice amministrativo e di quello ordinario.

L’Adunanza plenaria, con sentenza del 18 marzo 2021, n. 4, ha, peraltro, chiarito che in materia di accesso difensivo si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a

non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241/1990.

Emerge quindi nitida la differenza tra l’accesso agli atti e gli strumenti di acquisizione probatoria previsti dal codice di rito civile. L’accesso difensivo ha una duplice natura giuridica, sostanziale e processuale: sostanziale perché l’accesso è, come visto, una situazione strumentale per la tutela di una situazione giuridica finale (Cons. St. Ad. plen.,. n. 6/2006); processuale perché il legislatore ha previsto un’espressa azione contro l’eventuale illegittimo diniego o silenzio (art. 116 c.p.a.). Viceversa, gli strumenti di acquisizione probatoria, sia quelli generali di cui agli artt. 210, 211 e 213 c.p.c., sia quelli particolari di cui agli artt. 155-sexies disp. att. c.p.c. e 492-bis c.p.c., si muovono esclusivamente sul piano e all’interno del processo; sono assoggettati alla prudente valutazione del giudice; eventuali rigetti non sono autonomamente impu- gnabili o ricorribili, potendo gli eventuali vizi dell’istruttoria rilevare come motivi di impugnazione della sentenza.

Accesso e strumenti di acquisizione probatoria previsti dal codice civile devono quindi essere interpretati in una logica di concorrenza e cumulabilità, non di alternatività, anche perché lo spirito che ha animato l’ordinamento in tutto questo ampio lasso di tempo è stato quello di far progredire gli istituti di garanzia, trasformandoli o prevedendone di nuovi.

I limiti al diritto di accesso: il diritto alla riservatezza.

L art. 24 l. n. 241/1990 prevede l'esclusione del diritto di accesso per alcuni casi in cui esso va a scontrarsi con fondamentali interessi di rilievo costituzionale.

Il comma 1 indica le ipotesi di esclusione tassativa, con riferimento alle quali la P.A. non ha alcuna discrezionalità, essendo costretta a rigettare la richiesta di accesso. La lett. a) pone quali limiti il segreto di Stato e le altre tipologie di segreto o di divieto di divulgazione individuate dalla legge o mediante regolamento. Alle lett. b) e c) è previsto che rimangono ferme le particolari norme che regolano l'accesso nei confronti degli atti dei procedimenti tributari e dei procedimenti per l'adozione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e programmazione. Viene infine previsto il divieto di accesso nei confronti di documenti contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a procedimenti di selezione (lett. d).

Il comma 2, dell'art. 24 prevede che le singole Amministrazioni individuino con proprio regolamento le categorie di atti escluse dall'accesso e rientranti nei casi previsti al comma precedente.

Il comma 6, dell'art. 24 elenca cinque settori con riferimento ai quali mediante regolamento governativo si può prevedere che determinati documenti siano sottratti all'accesso. Si parla di limiti facoltativi all'accesso, ma in verità l'adozione del regolamento è obbligatoria, mentre facoltativa è solo la scelta di quali documenti sottrarre all'accesso e quali no. I settori sono quelli della sicurezza e difesa nazionale, della politica monetaria e valutaria, dell'ordine pubblico, della contrattazione collettiva nazionale di lavoro, della riservatezza. Con riferimento a quest'ultima, l'art. 24 comma 6, lett. d) esclude l'accesso «quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono».

Il dibattito giurisprudenziale si è, però, accesso in relazione al diritto alla riservatezza che ha rilievo costituzionale, al pari di quello all'accesso. Il suo fondamento viene rinvenuto nell' art. 2 Cost., nonché nell' art. 21 Cost., che garantisce la libertà di pensiero, intesa non solo come diritto ad esprimere le proprie opinioni, ma anche come diritto a non vedere divulgati fatti riguardanti la propria sfera individuale.

I documenti cui l'interessato abbia intenzione di accedere potrebbero contenere dati riguardanti soggetti terzi, i quali sono controinteressati a che gli stessi non vengano diffusi.

Accesso e riservatezza sono allora stati definiti come separati in casa, nel senso che «condividono una stessa casa in cui ciascuno svolge vita separata e indipendente, salvo che per un area comune; e che in quest'area comune possono coesistere solo come entità contrapposte, e cioè limitandosi a vicenda e quindi vivendo in perpetua dialettica tra loro» (Giacchetti, 464). Attualmente, all'esito di una lunga evoluzione legislativa, il conflitto tra accesso e privacy viene risolto in base al combinato disposto degli artt. 59 e 60 del codice della privacy e dell'art. 24, comma 1, lett. d) e comma 7, della l. n. 241/1990:

Per i dati personali di tipo ordinario, l' art. 59 d.lgs. n. 196/2003- codice della privacy — rinvia alla legge n. 241, la quale all'art. 24, comma 6, lett. d) prevede proprio la riservatezza quale limite all'accesso, contemplando subito dopo al comma 7 un controlimite: «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». Viene dunque sancita ope legis la prevalenza dell'accesso in funzione difensiva rispetto alla riservatezza. Il richiedente deve solamente allegare nella propria istanza la necessità di tutelare un interesse giuridicamente rilevante, e la p.a. non può che concedere l'accesso, senza poter valutare la fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l'interessato potrebbe proporre sulla base di quei documenti, e senza poter operare alcuna valutazione discrezionale o alcun bilanciamento tra opposti interessi, perché la scelta in favore dell'accesso è stata fatta a monte dal legislatore.

L' art. 59 del codice della privacy rinvia alla legge n. 241 anche per quel che riguarda i dati personali sensibili e giudiziari. L'accesso a tali dati è consentito, secondo il comma 7 dell'art. 24 legge n. 241, solo quando strettamente indispensabile. Ciò significa che la richiesta di accesso deve essere particolarmente motivata, e che la P.A. dovrà operare un bilanciamento tra l'interesse dell'accedente e quello del soggetto controinteressato alla riservatezza dei dati che lo riguardano. La P.A. potrà dunque negare l'accesso, oppure consentirlo con modalità che non vadano ad incidere sulla riservatezza del terzo, ad esempio schermando il suo nome o riportando degli omissis nel documento che verrà esibito all'accedente. Si tratta, peraltro, di una soluzione in linea con il principio di proporzionalità.

L' art. 60 codice della privacy prevede che l'accesso ai dati personali sensibilissimi (cioè quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale del terzo) è possibile solo se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso è di rango almeno pari all'interesse del terzo, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. Il comma 7 dell'art. 24 della legge n. 241 per i dati sensibilissimi rinvia proprio all'art. 60, e prevede inoltre la condizione di stretta indispensabilità già vista al punto precedente.

È escluso l'accesso a documenti contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale di soggetti terzi, nell'ambito di procedimenti selettivi ( art. 24, comma 1, lett. d) l. n. 241/1990). In questa ipotesi non sembra dunque possibile alcun bilanciamento: la privacy prevale sull'accesso per volontà di legge

Si veda sul punto, Cons. St. IV, 2 maggio 2017, n. 1999, secondo cui i dati relativi alla salute non possono essere sottratti all'accesso quando la loro conoscenza è necessaria a tutelare un diritto fondamentale di cittadinanza, qual è quello al lavoro, pur nell'ambito e nei limiti propri di un giudizio, e tale tutela, che riceve protezione preminente dall'ordinamento per espressa previsione normativa ( art. 24 Cost.), prevale su altri eventuali interessi contrapposti; di conseguenza deve ritenersi che nei rapporti fra riservatezza e accesso, la prima in generale recede quando l'accesso alla documentazione amministrativa sia funzionale alla tutela ed alla difesa di propri fondamentali interessi giuridici, quale il diritto al lavoro.

Nello stesso senso, T.A.R. Sicilia (Catania) III, 28 marzo 2017, n. 660, secondo cui l'art. 60 del d.lg. n. 196/2003 prevede che quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, esso è consentito se la situazione che si intende tutelare con l'istanza di accesso ai documenti sia di rango almeno pari ai diritti dell'interessato (cd. pari rango), o consista in un diritto della personalità, o in altro diritto o libertà fondamentale. La norma, perciò, prescrive un bilanciamento tra gli interessi in conflitto che deve avvenire in concreto, verificando se il diritto che si intende far valere o difendere attraverso l'accesso sia di rango almeno pari a quello alla riservatezza. Nel caso di specie il richiedente l'accesso, essendo stato superato da altro concorrente con punteggio inferiore in graduatoria (graduatoria d'istituto dei docenti), ma collocato in posizione poziore in virtù della precedenza exl. n. 104/1992, agisce a tutela del proprio diritto al lavoro: detto diritto va ritenuto, per costante giurisprudenza, di rango almeno pari a quello alla riservatezza dei dati riguardanti la salute della predetta controinteressata, con il corollario della necessità di garantire l'accesso alla documentazione richiesta. Deve poi aggiungersi che il sacrificio delle esigenze di tutela della riservatezza appare altresì giustificato, nella fattispecie in esame, dalla circostanza che i documenti di cui viene chiesta l'ostensione sono stati utilizzati per ottenere un beneficio, con sacrificio degli interessi dei propri colleghi.

Cons. St.V, n. 2530/2022 ha riconosciuto la legittimazione all'ostensione dei documenti amministrativi recanti il nominativo dell'agente accertatore, oggetto dell'istanza di accesso, allorché lo stesso intenda procedere penalmente contro l'accertatore. Non assume rilievo opporre all'ostensione la necessità di assicurare la privacy dell'agente accertatore, atteso che non si rinvengono nell'ordinamento disposizioni normative che tutelano nella fattispecie il diritto alla riservatezza, a fronte della necessità, nel bilanciamento di appositi interessi, di garantire l'esercizio del diritto di difesa, posto che l'attività accertativa svolta dall'agente verbalizzante, nella specie il controllore del treno, incaricato di un pubblico servizio, impone anche la sottoscrizione degli atti redatti, non ravvisandosi un diritto all'anonimato di tale pubblico dipendente.

L'ambito applicativo del giudizio in materia di accesso

Il rito speciale di cui all'art. 116 ha ricevuto recentemente un'estensione dell'ambito applicativo.

Tradizionalmente è il rito che si applica nelle controversie relative all'accesso documentale; con il d.lgs. n. 33/2013 è divenuto anche lo strumento per consentire forme di accesso più ampie, come l'accesso civico e quello generalizzato connesse all'inadempimento degli obblighi di trasparenza.

Segue. L'accesso documentale: rinvio.

L'accesso documentale è quello previsto dalla l. n. 241/1990 ed ha una dimensione individuale perché può essere chiesto da tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso ( art. 22, comma 1, lett. b, l. n. 241/1990). È, peraltro, escluso espressamente che l'accesso possa essere preordinato «ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni».

Dunque l'accesso «che nasce, in sé, per garantire la trasparenza della azione pubblica ed il controllo democratico da parte dei cittadini... vede ridimensionato il suo ruolo di meccanismo anche di trasparenza, per divenire essenzialmente strumento di diretta tutela del singolo e, non già solo mediatamente ed incidentalmente ma ormai accidentalmente, di garanzia dell'interesse collettivo alla correttezza dell'azione amministrativa» (Carloni, 580).

Secondo l' art. 23 della l. n. 241/1990: «Il diritto di accesso di cui all'articolo 22 si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi». L' art. 2 del d.P.R. n. 184/2006 specifica che può trattarsi dell'«autorità competente a formare l'atto conclusivo», ossia deputata a concludere il procedimento con l'adozione del relativo provvedimento, ovvero dell'autorità competente a «detenerlo stabilmente» e che, in alcuni casi, può coincidere con la prima.

La l. n. 205/2000 ha modificato l' art. 22 legge n. 241/1990, chiarendo cosa si debba intendere per p.a.: «tutti i soggetti di diritto pubblico, e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario».

Vengono quindi in considerazione le amministrazioni in senso classico, le società qualificabili come pubbliche, le imprese pubbliche, le società in house.

Il legislatore equipara alla p.a. i soggetti privati, limitatamente allo svolgimento di attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario. Viene qui utilizzata una logica, quella delle «geometrie variabili», che è propria del diritto comunitario. In pratica non viene in rilievo la natura del soggetto, ma il tipo di attività svolta. Va ad esempio garantito l'accesso agli atti delle procedure di evidenza pubblica indette da soggetti privati in esecuzione di un obbligo normativo, trattandosi di attività a caratterizzazione pubblicistica.

Sul diritto di accesso in generale si rinvia ai paragrafi precedenti.

Segue. L'accesso civico «semplice».

Nel corso degli ultimi anni il legislatore ha previsto una serie di obblighi per le P.A. di pubblicare determinati documenti, dati ed informazioni. Il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, oltre a riordinare tutti gli obblighi già esistenti, ne ha previsti di nuovi, predisponendo al contempo modalità omogenee di pubblicazione.

La forma prescelta dal legislatore per garantire la trasparenza è stata quella della pubblicazione sui siti internet istituzionali, ritenendo che sia l'unica, tra quelle praticabili, idonea a realizzare quelle esigenze di trasparenza e controllo diffuso che animano il Decreto-trasparenza.

A questo obbligo corrisponde il diritto, secondo l'art. 2, di «chiunque» di accedere ai siti internet contenenti le pubblicazioni, direttamente ed immediata-mente, senza necessità cioè di autenticazione ed identificazione. Si può allora affermare che «nel sistema delineato (e a differenza che nel Foia), l'obbligo di pubblicità preesiste e prescinde da una richiesta di parte» (Ferraro-Gambacurta, 153).

Le amministrazioni sono spinte nella direzione della trasparenza anche perché sottoposte alla possibilità di esercizio del diritto di accesso civico (art. 5): se infatti la p.a. non adempie agli obblighi legislativi (anche diversi da quelli previsti nel Decreto-trasparenza) di pubblicazione di documenti, dati ed informazioni, «chiunque» ha il «diritto» di richiederli. Dunque l'obiettivo della pubblicità può essere raggiunto o, in ipotesi fisiologica, mediante la pubblicazione o, in ipotesi patologica, mediante l'esercizio dell'accesso civico (che a sua volta, come detto, sollecita la pubblicazione).

La richiesta di accesso non deve essere motivata. Inoltre essa è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza dell'amministrazione obbligata alla pubblicazione (che di norma coincide con il responsabile della prevenzione della corruzione), il quale si pronuncia sulla stessa.

L'amministrazione, entro trenta giorni dalla richiesta, deve rispondere con provvedimento espresso e motivato e procedere alla pubblicazione nel sito del documento, dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale. Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il collegamento ipertestuale.

Nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni.

L'art. 2-bis, come modificato dal d.lgs. n. 97/2016, individua le p.a. sottoposte all'obbligo, facendo un rinvio all' art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, e prevede l'applicabilità del decreto trasparenza, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, alle società in partecipazione pubblica come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell' articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici.

Il principio di trasparenza, delineato dal d.lgs. 33/2013, si applica, quindi, anche al fenomeno delle società a partecipazione pubblica ma con intensità e gradi differenti.

L'art. 2-bis così recita:

1. Ai fini del presente decreto, per "pubbliche amministrazioni" si intendono tutte le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi comprese le autorita' portuali, nonche' le autorita' amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione.

2. La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica anche, in quanto compatibile:

a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali;

b) alle societa' in controllo pubblico come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124. Sono escluse le societa' quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124;

c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalita' giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attivita' sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalita' dei titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni.

3. La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attivita' di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, alle societa' in partecipazione pubblica come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalita' giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attivita' di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici.

Il principio di trasparenza si applica, quindi, oltre che alle p.a., in maniera integrale, anche alle società a controllo pubblico, indicate dal Tusp, e agli enti di diritto privato di notevole dimensioni, in cui vi è, comunque, un'influenza dominante dello Stato, perché l'attività è finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo è designata da pubbliche amministrazioni.

A queste ipotesi si affiancano quelle delle società partecipate ma non in controllo pubblico e degli enti di diritto privato che non sono partecipati dallo Stato ad p.a. in tali casi l'applicazione del principio di trasparenza è problematico perché si tratta di società che possono operare ne libero mercato e potrebbero essere danneggiate dall'applicazione del principio di trasparenza.

Per tali motivi la legge prevede, in relazione agli enti previsti dall'art. 2 bis, comma 3, la duplice condizione che l'applicabilità del principio di trasparenza sia compatibile con la natura di questi enti e comunque limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, secondo una formulazione che ricalca l'art. 29 l. 241/1990.

Come è stato chiarito nelle relative Linee Guida Anac (Determinazione n. 1134 del 8/11/2017) le società in house rientrano nella nozione delle società a controllo pubblico.

Il diritto di accesso civico si applica alle predette società nei limiti dell'art. 2 bis. In particolare, nel bilanciamento degli opposti interessi si dovrà dare particolare attenzione agli interessi economici e commerciali di una persona fisica e giuridica ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.

 

Il legislatore prevede, all'art. 5 comma 5, del Decreto-trasparenza che la tutela del diritto di accesso civico è disciplinata dalle disposizioni di cui al Codice del processo amministrativo. L'art. 116, che dunque si applica anche al rito per la tutela dell'accesso civico, è stato appositamente modificato, prevedendo la possibilità che il giudice condanni la P.A. alla pubblicazione di documenti, dati ed informazioni.

La disciplina sostanziale, quindi, si salda a quella processuale.

L'azionamento giudiziale del diritto di accesso civico non è una vera e propria azione popolare, perché la legittimazione a ricorrere non spetta al quisque de populo, ma solo a colui che abbia avanzato la richiesta di accesso, rimasta inevasa. Il rimedio in esame non può nemmeno essere assimilato alla c.d. class action pubblica di cui al d.lgs. n. 198/2009, alla quale sono legittimati solo i soggetti che abbiano subito una «lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi» ( art. 1, comma 1, d.lgs. n. 198/2009).

È tuttavia vero che il ricorso giurisdizionale in materia di accesso civico non è volto a dare tutela all'interesse di un singolo, ma a realizzare l'interesse pubblico alla trasparenza (da raggiungere mediante l'ordine rivolto dal giudice alla p.a. di adempiere all'obbligo legislativo di pubblicazione). Sotto questo versante l'azione in esame si avvicina ad una azione popolare correttiva, che mira al ripristino della legalità dell'azione amministrativa, alla quale tutti hanno interesse.

L'azione a tutela dell'accesso civico si avvicina inoltre alla class action pubblica, la quale, benché a legittimazione ristretta, mira a «ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio» (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 180/2009), mira dunque ad un interesse collettivo ed indifferenziato, quello ad una amministrazione esente da disfunzioni ed inefficienze.

In questo senso la dottrina ha affermato che l'accesso civico può essere «ricondotto alla figura dei diritti pubblici di libertà, ove per essa si intenda il libero poter conoscere degli atti mediante cui ciascuna amministrazione esercita le pubbliche funzioni che rientrano nella propria sfera di competenza» (Cumin).

Segue. L'accesso civico «generalizzato».

Il d.lgs. n. 97/2016, primo decreto attuativo della l. n. 124/2015, ha introdotto una nuova versione dell'accesso civico, incorporandola nel d.lgs. n. 33/2013, in parte introducendo nuove disposizioni (artt. 5-bis e 5-ter) e in parte modificando le disposizioni già esistenti (in particolare l'art. 5).

Il risultato è una sorta di rivoluzione in tema di trasparenza che vede modificare il suo tradizionale modo di essere.

Viene introdotto, per la prima volta, un vero e proprio diritto alla richiesta di accesso ad atti inerenti alla pubbliche amministrazioni per qualunque fine e senza necessità di motivazioni. Superando le perplessità che erano maturate nella prima versione dell'accesso civico, ora la disclosure non è più limitata a quelle informazioni riguardo alle quali il richiedente sia titolare di un interesse diretto concreto e attuale (ex l. n. 241/1990), né per le quali siano previsti obblighi di pubblicazione (art. 5, comma 1).

Come ha sottolineato la Commissione Speciale del Consiglio di Stato, il d.lgs. n. 97/2016 ha aggiunto alla trasparenza di tipo «proattivo», ossia realizzata mediante la pubblicazione obbligatoria sui siti web di determinati enti dei dati e delle informazioni indicati dalla legge, una trasparenza di tipo «reattivo», cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati. Si è passati, quindi, dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere (from need to right to know): il F.O.I.A. viene, quindi, definitivamente introdotto nel nostro ordinamento e realizza quella che la sezione consultiva del Consiglio di Stato definisce una rivoluzione copernicana che consente di evocare la nota immagine, cara a Filippo Turati, della Pubblica Amministrazione trasparente come una «casa di vetro» (parere 24 febbraio 2016, n. 515).

Il diritto di accesso civico generalizzato si configura come diritto a titolarità diffusa, similmente al diritto di accesso civico disciplinato dall'art. 5, comma 1, potendo essere attivato «da chiunque» e non essendo sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente (comma 3) e senza che sia necessaria un'espressa motivazione.

Diversamente dall'accesso civico semplice, non presuppone obblighi di pubblicazione, ma è espressione di una libertà che incontra, quali unici limiti, da una parte, il rispetto della tutela degli interessi pubblici e/o privati indicati all'art. 5-bis, commi 1 e 2, e dall'altra, il rispetto delle norme che prevedono specifiche esclusioni (art. 5-bis, comma 3).

Non può, quindi, sostenersi che l'accesso civico di cui all'art. 5, comma 1, sia stato sostanzialmente sostituto dall'accesso generalizzato, in quanto il primo costituisce un rimedio alla mancata osservanza degli obblighi di pubblicazione imposti dalla legge, sovrapponendo al dovere di pubblicazione, il diritto del privato di accedere ai documenti, dati e informazioni interessati dall'inadempienza.

Né può ritenersi superato anche il diritto di accesso previsto dalla l. n. 241/1990 che presuppone un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso ed è precluso qualora si voglia sottoporre l'amministrazione a un controllo generalizzato; il diritto di accesso generalizzato, oltre che quello «semplice», è riconosciuto, invece, proprio «allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e al fine di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.

Nell'accesso documentale la tutela può consentire un accesso più penetrante e invasivo rispetto agli interessi dei controinteressati, diversamente dall'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità, ma più esteso, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni.

Possono, quindi, sussistere ipotesi residuali in cui sarà possibile, ove titolari di una situazione giuridica qualificata, accedere ad atti e documenti per i quali è invece negato l'accesso generalizzato.

Secondo l'Anac, laddove l'Amministrazione, con riferimento agli stessi dati, documenti e informazioni, abbia negato il diritto di accesso exl. n. 241/1990, motivando nel merito, cioè con la necessità di tutelare un interesse pubblico o privato prevalente, e quindi nonostante l'esistenza di una posizione soggettiva legittimante ai sensi della l. n. 241/1990, per ragioni di coerenza sistematica e a garanzia di posizioni individuali specificamente riconosciute dall'ordinamento, si deve ritenere che le stesse esigenze di tutela dell'interesse pubblico o privato sussistano anche in presenza di una richiesta di accesso generalizzato, anche presentata da altri soggetti (Schema linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all' art. 5 comma 2, d.lgs. n. 33/2013 predisposto dall'Anac in attuazione dell' art. 5 bis comma 6, d.lgs. n. 33/2013, in anticorruzione.it).

Il d.lgs. n. 97/2016 ha innovato anche in relazione alle modalità di esercizio dell'accesso civico generalizzato, cercando di garantire un contraddittorio procedimentale ai controinteressati sulla falsariga dell'accesso documentale.

Fatti salvi i casi di pubblicazione obbligatoria, per i quali vedi quanto già osservato sopra, l'amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, deve comunicarla a eventuali controinteressati individuati, ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 2. Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso. A decorrere dalla comunicazione ai controinteressati, il termine di cui al comma 6 è sospeso fino all'eventuale opposizione dei controinteressati. Decorso tale termine, la pubblica amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione.

Raccogliendo i suggerimenti del Consiglio di Stato in sede consultiva, è previsto al comma VI che il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati. Non viene, quindi, riprodotto il silenzio rigetto previsto dalla l. n. 241/1990. In caso di accoglimento, l'amministrazione provvede a trasmettere tempestivamente al richiedente i dati o i documenti richiesti. In caso di accoglimento della richiesta di accesso civico nonostante l'opposizione del controinteressato, salvi i casi di comprovata indifferibilità, l'amministrazione ne dà comunicazione al controinteressato e provvede a trasmettere al richiedente i dati o i documenti richiesti non prima di quindici giorni dalla ricezione della stessa comunicazione da parte del controinteressato. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall'articolo 5-bis.

Dubbi sono sorti sull’applicabilità della disciplina dell’accesso civico generalizzato alla specifica materia dei contratti pubblici, in quanto il d.lgs. n. 50/2016 prevede un’espressa disciplina all’art. 53. Si sono, quindi, diffusi due orientamenti interpretativi: da un lato, in una logica di specialità della disciplina contenuta nel codice dei contratti pubblici, si è ritenuto esclusa dall’accesso civico tutta la materia dei contratti pubblici per effetto dell’eccezione assoluta contenuta nell’art. 5-bis, comma 3, che esclude l’accesso civico nel caso in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di spe- cifiche condizioni, modalità o limiti”.

Interpretazione opposta ha, invece, ritenuto, in una logica di reciproca integrazione, applicabile la disciplina all’accesso civico generalizzato anche alla materia dei contratti pubblici.

Quest’ultima ricostruzione è stata fatta propria dall’Adunanza plenaria (10/2020) che sposa una lettura unitaria del terzo comma dell’art. 5-bis, “evitando di scomporla e di trarne con ciò stesso dei nuovi, autonomi l’uno dagli altri, limiti, perché una lettura sistematica, costituzionalmente e convenzionalmente orientata, impone un necessario approccio restrittivo (ai limiti) secondo una interpretazione tassativizzante”.

Esentare dall’accesso generalizzato interi ambiti di materie per il sol fatto che esse prevedano casi di accesso limitato e condizionato, compresi quelli regolati dalla l. n. 241/1990, vorrebbe dire che “il principio di specialità condurrebbe sempre all’esclusione di quella materia dall’accesso, con la conseguenza, irragionevole, che la disciplina speciale o, addirittura, anche quella generale dell’accesso documentale, in quanto e per quanto richiamata per relationem dalla singola disciplina speciale, assorbirebbe e “fagociterebbe” l’accesso civico generalizzato”.

Si tratterebbe di una soluzione che sconfesserebbe il concorso delle forme di accesso, documentale e civico generalizzato, come anche previsto dall’art. 5, comma 11, d.lgs. n. 33/2013, che mantiene ferme «le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241».

In linea generale, precisa l’Adunanza plenaria, “il rapporto tra le due discipline generali dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato e, a sua volta, il rapporto tra queste due discipline generali e quelle settoriali – si pensi, tra le più importanti, all’accesso civico di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 267/2000 e a quello ambientale di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 195/2005 – non può essere letto unicamente e astrattamente, secondo un criterio di specialità e, dunque, di esclusione reciproca, ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione, in quanto la logica di fondo sottesa alla reazione tra le discipline non è quella della separazione, ma quella dell’integrazione dei diversi regimi, pur nelle loro differenze, in vista della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo che rifugge in sé da una segregazione assoluta ‘per materia’ delle singole discipline”.

L’Adunanza plenaria fornisce, dunque, un criterio interpretativo per comprendere la portata e il senso di tali limiti: l’interprete deve verificare, caso per caso, e non per interi ambiti di materia, se il limite previsto dal legislatore sia radicalmente incompatibile con l’esercizio dell’accesso civico generalizzato.

L’Adunanza plenaria ritiene applicabile la disciplina dell’accesso documentale, e dell’accesso civico, anche alla fase di esecuzione del contratto, perché “L’attuazione in concreto dell’offerta risultata migliore, all’esito della gara, e l’adem- pimento delle connesse prestazioni dell’appaltatore o del concessionario devono dunque essere lo specchio fedele di quanto risultato all’esito di un corretto confronto in sede di gara, perché altrimenti sarebbe facile aggirare in sede di esecuzione proprio le regole del buon andamento, della trasparenza e, non da ultimo, della concorrenza, formalmente seguite nella fase pubblicistica anteriore e prodromica all’aggiudicazione”.

Ne consegue, dunque, che “è ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241/1990, e una conseguente legittimazione, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e quindi allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale”.

La natura del giudizio in materia di accesso

Anche se non c'è concordia sul punto, l'orientamento prevalente sostiene che il giudizio sull'accesso abbia natura impugnatoria, come è dimostrato dalla circostanza che le determinazioni in tema di silenzio o il silenzio formatosi sull'istanza di accesso documentale devono essere impugnati in un termine perentorio.

La giurisprudenza amministrativa ha evidenziato che la mancata impugnazione nel termine di legge del diniego di accesso a documenti amministrativi non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo sia riconoscibile un carattere meramente confermativo del primo (Cons. St. V, n. 1275/2016).

Sulla natura del termine per impugnare la determinazione espressa o tacita sul silenzio, la giurisprudenza amministrativa ha ribadito che riveste natura decadenziale il termine di trenta giorni per proporre impugnazione avverso il diniego o il silenzio sulla istanza di accesso ai documenti amministrativi di cui all'art. 116; da essa deriva che la mancata impugnazione del silenzio-rigetto serbato su una istanza di accesso preclude poi la reiterabilità dell'istanza stessa e la conseguente impugnazione del successivo comportamento omissivo laddove quest'ultimo silenzio sia meramente confermativo del primo e a tale regola si può ovviare solo se la nuova domanda consegue a fatti nuovi e sopravvenuti e in relazione a ciò l'Amministrazione abbia proceduto ad eseguire un'apposita istruttoria e/o attività valutativa (T.A.R. Umbria I, n. 259/2016).

Nello stesso senso si è sostenuto che il termine di 30 giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio significativo, previsto dall'art. 116 per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni dell'amministrazione sull'istanza di accesso, è a pena di decadenza. Ne consegue che la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego, laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; viceversa, quando il cittadino reiteri l'istanza di accesso in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell'istanza originaria o prospetti in modo diverso la posizione legittimante all'accesso ovvero l'amministrazione proceda autonomamente ad una nuova valutazione della situazione, è certamente ammissibile l'impugnazione del successivo diniego, perché a questo non può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo (T.A.R. Calabria (Catanzaro), II, 11 settembre 2015, n. 1467).

Questa soluzione era stata accolta già da due sentenze dell'adunanza plenaria (Cons. St. n. 5/2006 e Cons. St. 6/2006) che, pur sostenendo la natura impugnatoria del giudizio, non avevano chiarito la qualificazione della situazione soggettiva sottesa. L'adunanza plenaria si è limitata a sostenere che si tratta di una situazione essenzialmente strumentale, come è dimostrato dalla circostanza che la legge stabilisce un termine di decadenza per la proposizione dei ricorsi.

Sulla stessa scia interpretativa si è poi posta l’Adunanza plenaria n. 19/2020.

Anche i TT.AA.RR. sono assestati sulla stessa impostazione.

T.A.R. Campania VI, n. 7709/2021, ha confermato la natura strumentale del diritto di accesso che ex se non garantisce l'acquisizione o la conservazione di beni della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il conseguimento di utilità finali. È strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti (diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in posizione ancillare. Deve essere correlata - in modo diretto, concreto e attuale - ad altra situazione giuridicamente tutelata. Non si tratta, dunque, di una posizione sostanziale autonoma, ma di un potere di natura procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni stricto sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo. E tuttavia una tale natura strumentale non può mai essere intesa nel senso di limitare l'accesso ai casi in cui vi sia un giudizio in corso, ovvero sia ancora giuridicamente possibile avviare un'azione giudiziaria.

La questione sulla natura impugnatoria o meno del giudizio sull'accesso è sempre stata collegata a quella della natura giuridica del diritto di accesso, su cui si veda il punto 5).

La teoria che il diritto di accesso, nelle tre forme di accesso documentale, accesso civico semplice e generalizzato, sottenda una posizione giuridica soggettiva corrispondente all'interesse legittimo (nella lettura che ne fece l'ad.pl. 2 giugno 1999, n. 16) non può essere più seguita, in quanto il legislatore, specie con le ultime riforme in tema di trasparenza, ha elevato tali posizioni a diritti pubblici di libertà. In questo senso, va, peraltro, la previsione della giurisdizione esclusiva del g.a.

Tale previsione è stata interpretata come la dimostrazione che, nel caso di specie, l'accesso ai documenti amministrativi è oggetto di un diritto soggettivo di cui il giudice amministrativo conosce in giurisdizione esclusiva. Il giudizio ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso, piuttosto che la verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità dell'atto amministrativo. Infatti, il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (T.A.R. Sicilia (Palermo), I, 28 gennaio 2016, n. 275).

La pronuncia del giudice non ha contenuto costitutivo, ma di accertamento e di condanna.

Sul punto la dottrina sembra concorde (Romano, 968).

La richiesta di accesso in pendenza di giudizio

Il comma 2 prevede che in pendenza di un giudizio, il ricorso in tema di accesso può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all'amministrazione e agli eventuali controinteressati. L'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale o con la sentenza che definisce il giudizio.

Dubbi sussistono sull'impugnabilità di tale ordinanza.

La giurisprudenza distingue tra ordinanze che si pronunciano sul ricorso in relazione ai presupposti inerenti l'accesso in quanto tale e ordinanze che lo respingono considerando i documenti richiesti non utili ai fini del giudizio in corso. Nel primo caso l'ordinanza è qualificata come avente natura decisoria ed è, quindi, appellabile; nel secondo caso l'ordinanza ha natura meramente istruttoria e non è appellabile autonomamente (Cons. St. n. 4068/2010).

Anche la dottrina si è mostrata favorevole alla impugnabilità di tale tipo di ordinanza che è ritenuta a carattere decisorio. In particolare, è stato evidenziato che, differentemente dal regime previgente, il c.p.a. non qualifica l'ordinanza istruttoria; in particolare, la circostanza che l'istanza incidentale di accesso può essere definita con la sentenza che definisce il giudizio induce a ritenere che essa abbia natura decisoria e sia, quindi, appellabile (Paolantonio, 527).

L'ammissibilità della tutela cautelare

In ordine alla possibilità di esperire la tutela cautelare nel giudizio in materia di accesso ai documenti amministrativi, pur se non vi è uniformità di impostazione, si può registrare, comunque, una certa convergenza verso la soluzione favorevole.

All'argomento contrario, fondato sulla circostanza che il rito particolarmente celere in tema di accesso non giustificherebbe una tutela cautelare, si oppone l'argomento, che appare insuperabile, secondo cui la tutela cautelare costituisce elemento essenziale di ogni tipo di giudizio, ai sensi dell' art. 24 Cost.

In questo senso si pone la giurisprudenza in uno dei pochi precedenti in materia (Cons. Stato 5152/2004; T.A.R. Lazio n. 3641/2013).

In questo senso sembra porsi anche la dottrina (De Nictolis, 1808; Fiorenzano, 1129)

Bibliografia

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