Comparsa di risposta per Responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale (Balduzzi Gelli-Bianco)InquadramentoIl medico ospedaliero citato per il risarcimento dei danni derivanti ad un paziente in conseguenza di un intervento chirurgico, eccepisce l'insussistenza della propria responsabilità e quindi infondatezza della domanda, in quanto formulata dall'attore sulla scorta di un titolo contrattuale, alla luce della riconosciuta natura aquiliana della responsabilità e chiede, in ogni caso, di poter chiamare in causa la propria compagnia di assicurazione. FormulaTRIBUNALE DI .... R.G....GIUDICE....UDIENZA.... COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA CON CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO [1] PER la Dott.ssa .... , nata a ...., il ...., C.F. .... [2], rappresentata e difesa, per mandato in calce/a margine del presente atto dall'Avv. ...., C.F. ...., presso il cui studio elettivamente domicilia in ...., via .... Si dichiara di voler ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax .... ovvero all'indirizzo PEC .... [3] - convenuta - CONTRO il Sig. .... rappresentato e difeso dall'Avv. .... - attore – NONCHE' Azienda Ospedaliera di ...., in persona del legale rapp.te p.t., con l'Avv. .... - convenuto - FATTO Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. [4] notificato il .... (documento 1), il Sig. .... conveniva in giudizio dinanzi l'intestato Tribunale l'Azienda Ospedaliera di ...., nonché la comparente Dott.ssa .... affinché fosse accertata la loro responsabilità in ordine a tutti i danni subiti a seguito dell'intervento chirurgico effettuato in data .... che avrebbe lasciato postumi consistenti in un deficit funzionale del pollice della mano sinistra e anomala cicatrizzazione delle ferite post-chirurgiche. A sostegno della domanda l'attore sosteneva che in data ...., si recava presso l'U.O.S.D. di Day Surgery e Chirurgia Ambulatoriale del P.O. di ...., al fine di essere sottoposta ad intervento di asportazione di verruche dalla mano sinistra. Effettuato l'intervento, nelle settimane successive gli residuava un deficit di estensione della mano sinistra, oltre che delle anomale cicatrici nei punti esatti in cui erano state asportate le verruche con l'intervento chirurgico. Pertanto, a seguito della predetta sintomatologia, in data .... il Sig. .... si recava dal proprio ortopedico di fiducia, il quale gli diagnosticava un deficit dell'estensione del pollice della mano sinistra derivante da esiti di ferita da ustione. Sosteneva poi che nonostante avesse scrupolosamente adempiuto le prescrizioni impartite dallo specialista, nei mesi successivi residuavano non solo i postumi di deficit funzionale di estensione del pollice della mano sinistra, ma anche una anomala cicatrizzazione delle ferite post-operatorie, tanto che la stessa in data .... si recava presso l'ambulatorio ortopedico di ...., dove i sanitari le diagnosticavano un deficit di estensione del primo dito della mano sinistra, dimettendola poi con prescrizione di RMN. Sulla scorta di tali allegazioni chiedeva l'accertamento della responsabilità contrattuale dei convenuti e la relativa condanna al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, che quantificava in complessivi Euro ...., come dal perizia medica di parte. Con ricorso ex art. 696-bis c.p.c. l'istante aveva adito l'intestato Tribunale al fine di ottenere la nomina di un CTU che, previo esperimento del tentativo di conciliazione, accertasse la natura e l'entità delle lesioni subite nonché il nesso di causalità tra l'evento lesivo e la condotta medica, imprudente imperita e negligente, con la relativa quantificazione del danno. Tuttavia il tentativo di conciliazione non aveva prodotto alcun effetto. [5] La convenuta, costituendosi in giudizio con il presente atto, eccepisce e contesta tutto quanto riportato nel ricorso perché infondato, in fatto e in diritto, osservando quanto segue, e dichiarando, in via preliminare, di voler chiamare in causa il terzo sotto indicato ai sensi dell'art. 106 c.p.c. DIRITTO Tanto premesso al punto che precede, sempre in via preliminare e nonostante l'evidente infondatezza della domanda, si chiede di essere autorizzati alla chiamata in causa, ex art. 106 c.p.c., della compagnia di Assicurazioni .... con la quale aveva stipulato polizza numero...., per la copertura dei rischi derivanti dall'espletamento dell'attività medica (documento 2). La chiamata in causa della compagnia è pertanto finalizzata a far sì che, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attorea, la medesima tenga indenne la convenuta del risarcimento del danno da corrispondere. Nel merito la domanda è infondata in fatto e diritto. Come si chiaramente si evince dall'atto introduttivo, controparte chiede genericamente l'accertamento della responsabilità del medico e della struttura ospedaliera, qualificandola come contrattuale, così come previsto dagli artt. 1218 e 2236 c.c. A tal riguardo, va rilevato che ai sensi dell'art. 7 comma 1 l. n. 24/2017, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvale dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose. Il comma 3 della medesima disposizione invece sancisce che l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi del c.c. art. 2043, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Anche nella vigenza della precedente disciplina c.d. legge Balduzzi (d.l. n. 158/2012, convertito in l. n. 189/2012) la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria era chiaramente qualificata extracontrattuale. L'articolo 3, comma 1, della medesima disposizione legislativa stabiliva infatti che il medico nello svolgimento della propria attività e nell'attenersi alle linee guida e buone pratiche resta comunque responsabile l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. Orbene, sulla scorta di quanto testé rilevato è chiaro che nei confronti della Dott.ssa .... non può rinvenirsi alcuna ipotesi di responsabilità contrattuale, ma eventualmente, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda risarcitoria, è configurabile la sola fattispecie di cui all'art. 2043. Ciò determina inevitabilmente che, in capo all'attore, vige l'onere di provare il fatto storico, il nesso di causalità ed i danni dal medesimo patiti. Tali elementi, non risultano in alcun modo provati da parte avversa, di tal guisa che la domanda, oltre che infondata in fatto ed in diritto, è priva di validi elementi probatori a sostegno. Si contesta, dunque, anche la pretesa risarcitoria dell'attor, vuoi con riguardo alla fondatezza dei profili di pregiudizio, vuoi per le voci di danno e la misura delle somme rivendicate. Invero, la perizia di parte allegata risulta errata e comunque ai fini della quantificazione non conforme alla disciplina da ultimo prevista con la cd. legge Gelli. L'art. 7, comma 4, della l. n. 27/2017 stabilisce che il danno conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell'esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al d.lgs. n. 209/2005.
Tutto ciò premesso la convenuta, come sopra rappresentata, difesa e domiciliata, rassegna le seguenti CONCLUSIONI Voglia l'Ecc.mo Tribunale adito, rigettata ogni avversa istanza, domanda ed eccezione, così provvedere: - in via preliminare, fissarsi ai sensi dell' art. 269 c.p.c., altra udienza per consentire la chiamata in causa del terzo, compagnia Assicurativa .... in persona del legale rapp.te p.t., con sede legale in ...., via ....; - nel merito rigettare la domanda attore perché priva di ogni fondamento sia in fatto che in diritto; - nel merito ed in via subordinata, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attrice, dichiarare il terzo chiamato in causa, tenuto a rimanere indenne la convenuta del risarcimento del danno da corrispondere. Con vittoria di spese ed onorari ed attribuzione in favore del procuratore antistatario. IN VIA ISTRUTTORIA Si chiede di essere ammessi alla prova contraria sulle circostanze di fatto ex adverso articolate con gli stessi testi indicati da controparte e con i seguenti propri testi: 1) Sig. .... residente in ....; 2) Sig. .... residente in .... Si chiede nominarsi CTU medico Legale al fine di accertare la natura dei danni patiti dall'attore e per la relativa quantificazione. Si allegano i documenti 1), 2), 3), 4) e 5) indicati nella narrativa del presente atto, riservandosi di produrne altri con le memorie di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la concessione dei cui termini sin da ora viene richiesta. Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA [1] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., dalla l. n. 111/2011). [2] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla l. n. 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3 bis, d.P.R. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014. [3] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla l. n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ....ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». [4] Cfr. art. 8 comma 3, legge 8 marzo 2017, n. 24. [5] Cfr. art. 8 comma 1 l. n. 24/2017. CommentoEvoluzione giurisprudenziale della responsabilità della struttura e del medico: cenni. Secondo un orientamento, a dir poco, consolidato, il rapporto intercorrente tra paziente, da un lato, e struttura sanitaria e personale medico infermieristico o tecnico sanitario dall'altro presenta una indubbia natura contrattuale. Il riconoscimento della figura del cd. contratto atipico di spedalità ha, infatti, consentito di ricondurre anche la responsabilità dell'ente sanitario, a prescindere dalla natura pubblica o privata dello stesso, nell'ambito dell'art. 1218 c.c. L'accettazione del paziente nella struttura comporta, in particolare, la conclusione di un contratto dal quale discende per la struttura sanitaria l'insorgenza di un'obbligazione complessa (tra le molte pronunce v. Cass. III, n. 24791/2008; Cass. III, n. 8826/2007), che non attiene soltanto alle prestazioni mediche stricto sensu, ma ricomprende anche prestazioni extra mediche, quali ad es. la messa a disposizione del personale medico e paramedico, la fornitura di medicinali, l'impiego dei necessari mezzi di sorveglianza degli impianti e dei locali nonché quelle cd. alberghiere. L'ulteriore approdo della giurisprudenza ha, poi, svincolato la responsabilità della struttura dalla necessaria ricorrenza di una responsabilità concorrente del medico (v. in particolare Cass. S.U., n. 577/2008, Cass. S.U., n. 9556/2002), per affermare ipotesi autonome di responsabilità sussistenti laddove la struttura sia inadempiente rispetto alle obbligazioni sulla stessa gravanti. La teorica della responsabilità del medico dipendente affonda le proprie radici nella figura del cd. contatto sociale, tale da attribuire natura contrattuale al rapporto intercorrente tra medico e paziente (Cass. n. 589/1999), e ciò in virtù dell'affidamento riposto dal malato nella professionalità del medico, attestata dall'abilitazione alla professione e della conseguenziale insorgenza in capo al professionista di una serie di obblighi di comportamento e di protezione nei riguardi del paziente. Cosicché, il medico dipendente di una struttura sanitaria viene a trovarsi nella medesima posizione del medico libero professionista che concluda un contratto d'opera intellettuale con un paziente. Rilevanti le implicazioni in punto di grado di diligenza esigibile e di onere della prova. La responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti lo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata. In particolare, per apprezzare il corretto adempimento di un'obbligazione professionale occorre fare riferimento alla condotta posta in essere dal debitore, la quale deve risultare informata al criterio di diligenza ex art. 1176 comma 2 c.c. La diligenza del buon professionista si specifica nei profili della perizia, esigendo l'osservanza di regole d'arte e nozioni tecniche peculiari, nonché l'uso di strumenti materiali normalmente adeguati in relazione all'attività esercitata: secondo la giurisprudenza, il grado di perizia richiesto può subire variazioni a seconda della specializzazione posseduta dal professionista nel caso concreto, con il doppio limite della non assimilabilità di tale diligenza a quella minore richiesta ad un generico debitore e della non inquadrabilità della responsabilità professionale in quella oggettiva (in tal senso cfr. Cass. II, n. 3492/2002). La responsabilità del professionista subisce un'attenuazione in base all'art. 2236 comma 2 c.c., sebbene con i criteri indicati dalla giurisprudenza che precisa come la limitazione di responsabilità ai casi di dolo o colpa grave vada circoscritta al verificarsi di quei casi clinici che richiedono una preparazione nettamente superiore a quella media, ovvero che coinvolgano problemi non ancora risolti o non sufficientemente scrutinati dalla scienza medica (in tal senso, v. Cass. III, n. 10297/2004), non potendo invece operare nei casi di negligenza o imprudenza (tra le molte v. Cass. III, n. 2042/2005). In punto di onere probatorio, la progressiva evoluzione giurisprudenziale ha consentito il superamento del regime probatorio cd. a doppio binario (basato cioè sul distinguo tra obbligazioni di mezzi e di risultato - per approfondimenti, v. formula su obbligazioni di mezzi e di risultato - e tra operazioni routinarie e difficile esecuzione). Si è, infatti, affermato che, qualora il creditore agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento, egli ha l'onere di provare soltanto la fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione dell'inesattezza o dell'inadempimento, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere di provare l'avvenuto adempimento: detti principi (cd. vicinanza della prova) applicati alla responsabilità medica implicano che, a prescindere dalla natura dell'intervento, il paziente ha l'onere di provare soltanto il contratto (ovvero il contatto sociale) e l'aggravamento o insorgenza della patologia, allegando l'inadempimento del debitore astrattamente idoneo a produrre il lamentato danno (Cass. n. 577/2008 cit.). Nessuna rilevanza è, poi, attribuibile all'art. 2236 c.c. in punto di riparto dell'onere probatorio, atteso che la detta norma rileva quale mera regola di valutazione della condotta diligente del professionista: sarà, dunque, il medico a dover provare la particolare difficoltà della prestazione, mentre sul paziente incomberà l'onere di dimostrare quali siano state le modalità di esecuzione non idonee. Il distinguo tra interventi di facile e difficile esecuzione spiegherà rilievo in punto di nesso di causalità (per cui v. formula su nesso di causa), tal che laddove la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non potrà ritenersi operante alcuna presunzione relativa all'esistenza del nesso di causa (gravando sul paziente l'onere di provare come il fattore produttivo del danno sia da individuarsi nell'erronea esecuzione della prestazione professionale. La responsabilità medica nel decreto Balduzzi L'art. 3 della l. n. 189/2012 (di conversione del cd. decreto Balduzzi, d.l. n. 158/2012) introduce la prima norma sulla responsabilità del medico, disciplinando la “responsabilità professionale dell'esercente la professione sanitaria”. Trattasi di norma espressamente riguardante il solo giudizio penale che, tuttavia, ha suscitato un vivace dibattito tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza relativo al richiamo ivi contenuto all'art. 2043 c.c. Il primo comma dell'art. 3, introducendo una causa di giustificazione in ambito penale in tutti quei casi in cui l'esercente la professione sanitaria abbia effettuato la prestazione seguendo linee guida e buone pratiche, dichiara che “in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile”. Il legislatore ha così introdotto in ambito penale una limitazione di responsabilità per le condotte che si connotano di colpa lieve, mantenendo ferma in ambito civile la responsabilità del professionista, riferendosi tuttavia al solo art. 2043. La dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate sulla valenza della disposizione, in particolare dividendosi tra quanti hanno ritenuto che il legislatore avesse inteso modificare la natura della responsabilità del medico e quanti, invece, hanno interpretato la norma in modo da escludere l'applicazione del regime extracontrattuale (nella giurisprudenza di merito, nel primo senso v. Trib. Arezzo 14 febbraio 2013 mentre nel secondo v. Trib. Varese 26 novembre 2012, ove si sottolinea che il riferimento alla lex aquilia, posto all'interno di un comma relativo alla responsabilità penale del sanitario, non può essere in grado di modificare il regime di responsabilità applicabile, atteso che l'art. 3 si limita a richiamare solamente l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.; una diversa lettura è stata fornita da Trib. Torino 26 febbraio 2013, secondo cui la norma dell'art. 3 e la natura extracontrattuale della responsabilità del medico si applicano da quel momento in poi ai casi relativi alla responsabilità del medico dipendente pubblico e della struttura nella quale questo soggetto svolge la sua attività, dovendo il risarcimento essere liquidato ai sensi dell'art. 2043 c.c., e non più ai sensi dell'art. 1218 c.c.; in Trib. Milano 14 giugno 2014 si legge invece che tale articolo non può disciplinare tutte le ipotesi di responsabilità civile del professionista sanitario, posto che, nel caso della struttura, la responsabilità continua ad essere contrattuale, così come analogamente contrattuale è quella del professionista con il quale il paziente stipuli un contratto d'opera, mentre l'art. 2043 c.c. sarebbe destinato ad operare qualora sia assente un contratto concluso con il medico – dipendente o collaboratore di una struttura sanitaria; Trib. Brindisi 18 luglio 2014 ipotizza invece un concorso tra azione contrattuale ed extracontrattuale, tal che sarebbe lasciata al paziente la scelta del rimedio esperibile in caso di danno da malpractice medica). In ordine poi al risarcimento del danno, il decreto Balduzzi prevede la relativa predeterminazione attraverso il rinvio ai criteri dettati dagli artt. 138 e 139 del CAP per i risarcimenti derivanti da sinistri della circolazione stradale. La responsabilità medica nella Legge Gelli. Dalle prime letture delle nuove norme proposte dalla dottrina si ricava una valutazione complessiva di aggravamento della responsabilità della struttura a beneficio di una deresponsabilizzazione dell'esercente la professione sanitaria: si richiede, infatti, alle strutture ed al SSN la costruzione di modelli organizzativi effettivamente idonei a prevenire ed evitare l'errore (venendo così ad espandersi lo spazio per l'addebito di responsabilità cd. di posizione, tal che il verificarsi dell'errore implica autonomamente imputabilità in quanto espressione di un vizio del modello organizzativo). Quanto alla natura della responsabilità del medico, l'art. 7 della novella legislativa è destinato a chiudere definitivamente ogni dibattito in precedenza suscitato dalla legge Balduzzi, creando un regime binario, tale da assoggettare a responsabilità contrattuale soltanto i soggetti (strutture e medici liberi professionisti) che dispongano di un pieno governo del proprio rischio e delle risorse strutturali destinate allo svolgimento di un'attività sanitaria a favore dei "propri" pazienti ed a responsabilità aquiliana i medici dipendenti o, più in generale, tutti coloro i quali, a diverso titolo, svolgano la loro attività all'interno di una struttura od in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, operando "per conto terzi” (art. 7, comma 3). L'attenzione viene, dunque, spostata dal soggetto che ha commesso il fatto a quello che ha il governo dei fattori che hanno agevolato o reso possibile l'incidente. La regola aquiliana non si applica, tuttavia, alla responsabilità del medico che, pur operando all'interno di una struttura, abbia agito in forza di un rapporto contrattuale fiduciario con il paziente; di converso, anche il professionista convenzionato con il SSN, impegnerà, da un lato, la responsabilità del Servizio Sanitario medesimo (in linea con l'orientamento giurisprudenziale elaborato da Cass. III, n. 6243/2015) senza, tuttavia, rispondere a titolo contrattuale (almeno secondo quanto sembrerebbe potersi desumere dall'art. 7 comma 3). Quanto alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private, nulla sembra variare rispetto al passato, venendo riaffermata la loro responsabilità contrattuale ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. per le condotte colpose o dolose degli "esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti". Alla stregua della novella legislativa, è bene evidenziare che, qualora il paziente decida di agire contro la struttura, facendo leva sulle agevolazioni dell'inquadramento contrattuale della relativa responsabilità, l'esercente autore della condotta materialmente dannosa potrà essere chiamato a rispondere in proprio, e in via di "rivalsa", soltanto se in dolo o colpa grave; nella diversa ipotesi in cui il paziente decida di agire contro il solo medico/esercente, quest'ultimo potrebbe rispondere senza limiti (e quindi per l'intero, a prescindere dalla retribuzione) ed anche per colpa lieve. La l. n. 24/2017 ha, dunque, introdotto, all'art. 9 la rivalsa della struttura sanitaria verso il medico responsabile del danno che essa abbia risarcito, esperibile soltanto laddove il medico sia passibile di responsabilità per dolo o colpa grave. La facoltà di rivalsa può esercitarsi nell'ambito del giudizio nel quale medico e struttura siano stati convenuti; in mancanza, la rivalsa può esercitarsi entro l'anno e sempre che la struttura abbia assolto gli obblighi risarcitori verso il paziente danneggiato (comma 2 art. 9). Quale ulteriore limitazione, la norma ha stabilito un tetto parametrato alla entità del trattamento retributivo goduto dal sanitario (comma 5 art. 9), in modo tale da tutelare il medico dal rischio di essere privato di capacità reddituali necessarie per il sostentamento proprio e dei propri familiari. Giova evidenziare che la S.C. ha avuto modo di pronunciarsi di recente in ordine all'azione di rivalsa come disciplinata nel regime anteriore a quello introdotto alla l. n. 24/2017, affermando importanti principi che, opportunamente, andranno vagliati anche alla luce della novella legislativa. La Corte ha in particolare affermato che, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all'utilizzazione di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un'eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione (in tal senso cfr. Cass. III, n. 28987/2019). Viene affermata la «impredicabilità di un diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico, in quanto, diversamente opinando, l'assunzione del rischio d'impresa per la struttura si sostanzierebbe, in definitiva, nel solo rischio d'insolvibilità del medico così convenuto dalla stessa; per ritenere superata la presunzione di divisione paritaria "pro quota" dell'obbligazione solidale evincibile, quale principio generale, dagli artt. 1298 e 2055, c.c., non basta, pertanto, escludere la corresponsabilità della struttura sanitaria sulla base della considerazione che l'inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato. Sarà dunque onere del "solvens" dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico ma anche la derivazione causale dell'evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un'ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni». Dunque, ove le strutture non forniscano la prova in ordine all'assorbente responsabilità del medico intesa come “grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile "malpractice", i danni riconoscibili ai pazienti dovranno essere ripartiti al 50% (in misura paritaria). Ciò posto, è bene evidenziare che con riferimento alla legge Balduzzi ed alla legge Gelli - Bianco la Corte, in altra recente pronuncia, ne afferma a chiare lettere la non retroattività (il riferimento è a Cass. III n. 28994/2019). In assenza di specifica disposizione transitoria le norme devono ritenersi applicabili unicamente alle fattispecie successive alla loro entrata in vigore: non si pone «una problematica affine a quella della successione di leggi nel tempo, perché non v'è una successione di discipline normative diverse dettate dal legislatore (venendo in rilievo sempre e comunque la medesima disciplina di ordine legale, ossia quella recata dal codice civile in tema di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale); né è possibile configurare un siffatto rapporto diacronico tra il “diritto vivente” e l'intervento legislativo». Per quanto concerne la specifica tematica della rivalsa, Il limite imposto dalla l. n. 24/2017 alle azioni di rivalsa nei confronti del medico strutturato – esercitabili solo in caso di dolo o colpa grave e, in quest'ultimo caso, per un risarcimento non superiore al triplo della retribuzione – dovrà essere “conciliato” con la regola di cui alla sentenza sopra citata (la Cass. III, n. 28987/2019 cit.) della ripartizione paritaria e presuntiva di responsabilità fondato sul criterio del rischio di impresa della struttura. Alla stregua dei principi sopra enunciati, restano aperte le seguenti problematiche: 1) se l'accertamento della colpa grave elida, sempre e comunque, l'applicazione di quel principio di corresponsabilità solidale, rendendo integralmente esperibile la rivalsa, sia pur entro i nuovi limiti (triplo della retribuzione) normativamente stabiliti (regola questa valevole anche per il comparto delle strutture sanitarie private, il cui diritto di rivalsa è stato introdotto proprio dalla l. n. 24/2017); 2) in che termini l'esercente strutturato possa agire in regresso nei confronti della struttura, post legge Gelli, laddove sia stato aggredito in proprio da un paziente che intenda agire soltanto nei suoi confronti. Si segnala sul punto e di recente Cass. III, n. 11098/2020 ove si precisa che sebbene la struttura presso la quale il paziente sia ricoverato risponda della condotta colposa dei sanitari, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della stessa, tuttavia ciò non incide automaticamente sul rapporto di manleva derivante dalla polizza stipulata tra la medesima struttura e la compagnia di assicurazione, tanto più ove il contratto escluda espressamente la copertura assicurativa per l'operato di medici non dipendenti della detta struttura. La recente legge delega n. 3/2018 in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della Salute ha introdotto delle modifiche alla l. n. 24/2017 con specifico riferimento al limite quantitativo della rivalsa: in particolare, all'art. 9, comma 5, terzo periodo, le parole: «pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo» sono sostituite dalle seguenti: «pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo»; all'art. 9, comma 6, primo periodo, le parole: «pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo» sono sostituite dalle seguenti: «pari al triplo del valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo»; In particolare: Covid e responsabilità sanitaria L'attuale momento storico e l'emergenza sanitaria vissuta dal Paese a causa dell'epidemia da Covid-19 impongono una disamina del problema della responsabilità configurabile in capo agli operatori sanitari e alle strutture ospedaliere in seguito ad eventi avversi per la salute dei pazienti coinvolti nella detta epidemia. Molteplici le fattispecie di responsabilità astrattamente ipotizzabili in questo ambito: un errore diagnostico, configurabile per non avere correttamente e tempestivamente individuato il virus sulla base del quadro clinico del paziente; un errore terapeutico, relativo quindi all'esecuzione dei trattamenti finalizzati a guarire il malato; un errore o un'omissione attinenti al contenimento del Covid-19, nel senso dell'adozione delle misure precauzionali (isolamento del paziente, sanificazione ambientale, disinfezione degli strumenti medici riutilizzabili, utilizzo di camici, mascherine e occhiali protettivi, ecc.) atte ad evitare che lo stesso si diffonda contagiando altre persone. La disciplina, della quale supra si è dato ampiamente conto (in punto di qualificazione della responsabilità e relativo regime) non dovrebbe lasciare eccessivi spazi per un'affermazione di responsabilità del personale sanitario per eventi avversi verificatisi in occasione del trattamento di pazienti affetti da Covid-19: trattasi di patologia nuova, tal che appare piuttosto improbabile l'eventualità che si possa imputare al personale sanitario di non avere conformato la propria condotta ai parametri indicati dall'art. 5 l. Gelli Bianco, posto che non vi sono farmaci testati di certa efficacia contro il virus, né linee guida terapeutiche condivise e consolidate nella comunità scientifica né buone pratiche clinico-assistenziali. Questo elemento, unito alla considerazione della situazione di emergenza che ha colpito la stragrande maggioranza delle strutture ospedaliere del Paese, dovrebbe, secondo parte della dottrina, implicare la ricorrenza di quella «speciale difficoltà» della prestazione alla quale l'art. 2236 c.c. ricollega la delimitazione della responsabilità del medico ai soli casi di dopo o colpa grave. Diverso potrebbe essere il discorso in caso di errore o di un ritardo diagnostico, posto che l'infezione da SARS-CoV-2 è riconoscibile da sintomi sufficientemente noti – benché poco specifici – ed accertabile con metodologie di ricerca del morbo di principio affidabili, ed ancora nel caso di mancata adozione degli accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all'interno dell'ospedale, posto che la concreta adozione di tali misure di prevenzione appare di per sé connotata da un quoziente di difficoltà e di aleatorietà sensibilmente inferiore rispetto a quello che caratterizza la somministrazione della terapia ai pazienti affetti dal morbo. Pure in questa ipotesi, peraltro, secondo accreditata dottrina, le probabilità che si arrivi effettivamente ad affermare la responsabilità del personale medico dovrebbero essere significativamente ridotte, quantomeno nella maggioranza dei casi atteso che: 1. la situazione emergenziale in cui i medici si trovano molto spesso ad operare potrebbe far assumere alle prestazioni di cui si discute quei profili di speciale difficoltà che normalmente non possiedono, così facendo ricadere il caso concreto nell'orbita di applicazione dell'art. 2236 con conseguente limitazione della responsabilità dell'operatore; 2. osterebbe all'affermazione di responsabilità l'impossibilità di identificare con precisione il singolo soggetto (o i singoli soggetti) cui ascrivere il comportamento che ha effettivamente causato l'evento avverso (sono i c.d. danni anonimi). Deve a questo punto darsi conto degli emendamenti proposti in sede di conversione in legge del decreto “Cura Italia” (d.l. n. 18/2020 conv. in l. n. 27/2020), ben vero ritirati prima della discussione del provvedimento in Senato. A destare interesse sono innanzitutto gli emendamenti 1.0.4 e 16.2, i quali miravano a introdurre nel decreto, tramite – rispettivamente – un nuovo art. 1-bis e un nuovo art. 16-bis, una disciplina della materia sotto molto aspetti affine e fondamentalmente imperniata attorno a tre principi: a) la delimitazione della responsabilità civile per eventi avversi causati dall'epidemia, tanto delle strutture sanitarie quanto degli operatori, ai casi di dolo e colpa grave; b) la precisazione secondo cui la colpa grave consiste nella palese (o macroscopica) e ingiustificata violazione dei principi basilari della professione sanitaria o dei protocolli o dei programmi predisposti per fronteggiare l'emergenza in atto; c) l'ulteriore puntualizzazione che richiedeva di valutare la gravità della colpa considerando la situazione organizzativa e logistica della struttura in relazione alla novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, il numero di pazienti su cui è necessario intervenire e la gravità delle loro condizioni anche in relazione alle risorse umane e materiali disponibili, la necessità di rimodulazione del sistema di erogazione delle prestazioni ospedaliere, la peculiare attività di professionisti fuori sede estranei all'organizzazione e l'eventuale eterogeneità della prestazione resa in emergenza rispetto al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore, la necessità di prendere in carico pazienti di altre strutture con percorsi di cura eterogenei. Secondo accreditata dottrina, una siffatta disciplina potrebbe costituire, con riguardo alla responsabilità individuale del personale sanitario, una sorta di “concretizzazione” di risultati invero già ricavaili dall'applicazione dell'art. 2236 c.c. La decaduta proposta di intervento legislativo destava, poi, ulteriori (e anche maggiori) perplessità quando rapportata alla responsabilità delle strutture sanitarie, in quanto l'espresso riferimento all'elemento soggettivo del dolo o della colpa appare difficilmente conciliabile con la ricostruzione in termini oggettivi della responsabilità per “difetto di organizzazione” degli enti nosocomiali (per cui v. formula FCRC 105). Si occupava della responsabilità del personale sanitario, senza fare alcun riferimento a quella delle strutture, anche l'emendamento 13.2, che tramite l'inserimento di alcuni ulteriori commi all'art. 13 del decreto prevedeva che, salvo sempre i casi di dolo o colpa grave, per tutta la durata dell'emergenza epidemiologica gli esercenti le professioni sanitarie non rispondano civilmente quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o essi abbiano agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l'integrità del paziente; anche in questo ambito si aggiungeva, poi, che la valutazione della gravità della colpa dovrebbe tenere conto della proporzione tra le risorse e i mezzi disponibili e il numero di pazienti da curare, nonché delle tipologie di prestazione svolta per fronteggiare l'emergenza rispetto al tipo di specializzazione posseduta. Un altro emendamento che vale la pena menzionare è il 13.0.1, nel quale si proponeva l'introduzione di un nuovo art. 13-bis che avrebbe previsto, tra le altre cose, la delimitazione ai soli casi di dolo del professionista sanitario dell'esperibilità dell'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa prevista dall'art. 9 della Legge Gelli-Bianco. È opportuno ricordare che tale norma già circoscrive la proponibilità dell'azione in discorso ai casi di dolo o colpa grave con l'obiettivo di fare sì che il carico risarcitorio dei danni da medical malpractice rimanga maggiormente in capo alle strutture piuttosto che gravare sul personale medico: l'emendamento in esame, quindi, avrebbe spinto ancora più in là questo ragionamento con riguardo alla responsabilità derivante dal trattamento di pazienti affetti da Covid-19. |