Comparsa di costituzione e risposta con chiamata in causa del terzo per mancato consenso informatoInquadramentoCon la comparsa di costituzione e risposta la compagnia di assicurazione del medico evocata direttamente in giudizio dal paziente che assume l'avvenuta violazione dell'obbligo di informazione da parte del sanitario eccepisce l'insussistenza dei danni lamentati concludendo per il rigetto della domanda e chiede, in ogni caso, di poter chiamare in causa il medico per esperire l'azione di rivalsa in caso di condanna al risarcimento dei danni. FormulaTRIBUNALE DI _____ R.G. _____GIUDICE _____UDIENZA _____ COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA CON CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO 1 PER l'Assicurazione _____, C.F. 2 /P.I. _____, in persona del legale rapp.te p.t., con sede legale in ...., rappresentata e difesa, per mandato in calce/a margine del presente atto dall'Avv. _____, C.F. _____, presso il cui studio elettivamente domicilia in _____, via _____ Si dichiara di voler ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax _____, ovvero all'indirizzo PEC _____ 3. -convenuto- CONTRO il Sig._____, rappresentato e difeso dall'Avv._____ -attore- FATTO Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c.4 notificato il _____, l'attrice conveniva in giudizio la comparente, quale compagnia assicurativa dell'Azienda Ospedaliera di _____, per sentirla condannare al risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dell'obbligo del consenso informato, inteso come privazione della libertà di autodeterminazione del paziente. In punto di fatto specificava che in data _____, la stessa si era recata presso il P.O. per essere sottoposto ad un intervento chirurgico. Il medico lo aveva informato ed aveva ottenuto il suo consenso, in merito ad una “asportazione di una cisti ovarica”, ma poi, sulla base di un referto istologico che aveva indotto una diagnosi di adenocarcinoma, ne aveva eseguito uno completamente diverso, e ben più radicale, consistente in “una laparotomia, una isterectomia totale, una anessectomia bilaterale, una appendicectomia ed omentectonia”, senza informare la paziente ed ottenerne un nuovo consenso a questo specifico riguardo. Nonostante, l'intervento in questione fosse stato eseguito in modo ineccepibile ed avesse altresì determinato la guarigione della paziente, la Sig. .... chiedeva l'accertamento della responsabilità contrattuale dell'Azienda Ospedaliera di ...., con la consequenziale condanna della medesima al risarcimento dei danni, che quantificava in complessivi Euro .... Con ricorso ex art. 696-bis c.p.c. l'istante aveva adito l'intestato Tribunale al fine di ottenere la nomina di un CTU che, previo esperimento del tentativo di conciliazione, accertasse la natura e l'entità delle lesioni subite nonché il nesso di causalità tra l'evento lesivo e la condotta medica, imprudente imperita e negligente, con la relativa quantificazione del danno. Tuttavia il tentativo di conciliazione non aveva prodotto alcun effetto. 5 La convenuta, costituendosi in giudizio con il presente atto, eccepisce e contesta tutto quanto riportato nel ricorso perché infondato, in fatto e in diritto, osservando quanto segue, e dichiarando, in via preliminare, di voler chiamare in causa il terzo sotto indicato ai sensi dell'art. 106 c.p.c. DIRITTO 1. In via preliminare e nonostante l'evidente infondatezza della domanda, si chiede di essere autorizzati alla chiamata in causa, ex art. 106 c.p.c., del medico-chirurgo, Sig. ...., nato a ...., il ...., residente in ...., via ...., che ha eseguito l'operazione di cui sopra. La chiamata in causa del medico-chirurgo è finalizzata a far sì che, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attorea, il medesimo tenga indenne la convenuta del risarcimento del danno da corrispondere. Nel merito si chiede rigettarsi la domanda risarcitoria, poiché infondata in fatto e diritto. Al riguardo, si rileva che l'obbligo del “consenso informato”, gravante sulla struttura e sul medico, ha natura contrattuale in quanto è funzionale al corretto adempimento della prestazione professionale, pur essendo autonomo da esso. Si tratta quindi di un'obbligazione “tipica” del contratto stipulato dalla struttura sanitaria ovvero di un obbligo comunque inerente a quel “contatto sociale” che la giurisprudenza pone a fondamento delle obbligazioni che gravano sul medico operante. Considerati i limiti e le finalità, è opportuno evidenziare che la giurisprudenza qualifica in termini di inadempimento contrattuale l'omessa acquisizione del consenso del paziente ovvero l'acquisizione di un consenso viziato da un'informazione insufficiente, così gravando il paziente stesso, in quanto parte “adempiente”, del solo onere di allegarlo ed onerando il medico della prova contraria, in merito al fatto di aver invece esattamente adempiuto all'anzidetta obbligazione. Tanto doverosamente premesso, va evidenziato che sostenere, come fa controparte, che “il c.d. danno evento” cagionato dall'omessa acquisizione di un valido consenso consista proprio nello “stesso estrinsecarsi dell'intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso” (ovvero affermare che “il danno-evento in questione risulta dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva”) implica una pericolosa confusione concettuale, suscettibile di indurre ad una errata convinzione che l'inadempimento stesso della suddetta obbligazione integri una ipotesi di danno risarcibile. Pertanto, va chiaramente affermato che quel che è risarcibile sono solo i danni-conseguenza di un determinato evento dannoso 6. Nel caso specifico, pertanto, l'effettuazione di un atto medico in assenza del necessario “consenso informato” del paziente, di per sé sola, non integra un danno risarcibile, mentre tali sono solamente le conseguenze pregiudizievoli che l'atto medico non assentito abbia concretamente cagionato. Invero, la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia, non essendovi alternativa all'intervento chirurgico prescelto ed essendo stato lo stesso condotto con esito pienamente positivo, consistente nella totale guarigione della paziente. Di tal che alcuna conseguenza dannosa, meritevole di trovare ristoro, è rinvenibile in merito al caso de qua. Tutto ciò premesso la convenuta, come sopra rappresentata, difesa e domiciliata, rassegna le seguenti CONCLUSIONI Voglia l'Ecc.mo Tribunale adito, rigettata ogni avversa istanza, domanda ed eccezione, così provvedere: — in via preliminare, fissarsi ai sensi dell'art. 269 c.p.c., altra udienza per consentire la chiamata in causa dei terzi, ovvero del medico-chirurgo, Sig. ...., nato a ...., il ...., residente in ...., via ...., che ha eseguito l'operazione; — nel merito rigettare la domanda attrice perché priva di ogni fondamento sia in fatto che in diritto; — nel merito ed in via subordinata, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attrice, dichiarare il terzo chiamato in causa, tenuto a manlevare la convenuta del risarcimento del danno da corrispondere. Con vittoria di spese ed onorari ed attribuzione in favore del procuratore antistatario. IN VIA ISTRUTTORIA Si chiede di essere ammessi alla prova contraria sulle circostanze di fatto ex adverso articolate con gli stessi testi indicati da controparte e con i seguenti propri testi: 1) Sig. ...., residente in ....; 2) Sig. ...., residente in .... Si allegano i documenti 1), 2), 3), 4) e 5) indicati nella narrativa del presente atto, riservandosi di produrne altri con le memorie di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la concessione dei cui termini sin da ora viene richiesta. Luogo e data .... Firma Avv. .... PROCURA [1] [1] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con modif., dalla l. 15 luglio 2011, n. 111). [2] [2] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. n. 193/2009 conv. con modif. dalla l. n. 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3 bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014. [3] [3] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla l. n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà». [4] [4] Ai sensi della l. n. 24/2017, art. 8, comma 3: «Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all'articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile». [5] [5] Ai sensi della l. n. 24/2017, art. 8, comma 1: «Chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell'articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente». [6] [6] Cass. III, n. 12205/2015. CommentoFondamento Il consenso informato rappresenta «espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico» (Corte cost. n. 438/2008), venendo a costituire legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, in assenza del quale - e fuori dai casi di trattamento obbligatorio o di quelli in cui vi sia uno stato di pericolo - esso è certamente illecito anche se compiuto nell'interesse del paziente (v. Cass. III, n. 2854/2015 nonché Cass. III, n. 21748/2007). Il consenso informato è il frutto della sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello alla autodeterminazione e quello alla salute; costituendo l'autodeterminazione un diritto diverso rispetto alla salute, dalla relativa violazione sorge l'obbligo di risarcire il danno, a prescindere da un'eventuale colpa del professionista nell'esecuzione della prestazione sanitaria: cfr. in tal senso, la più recente giurisprudenza di legittimità, che afferma la risarcibilità del danno derivante dalla violazione del diritto all'autodeterminazione, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna lesione della salute (così v. ad esempio, Cass. III, n. 12205/2015, Cass., n. 16543/2011); per l'orientamento contrario v. infra. La giurisprudenza inserisce l'obbligo di informazione tra quelli nascenti dal contratto di spedalità, attribuendo al medico la responsabilità, in caso di omissione o incompletezza, per il solo fatto che l'informazione avrebbe consentito al paziente di scegliere se autorizzare o meno il trattamento proposto: l'informazione si inserisce all'interno di quel rapporto di “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, che offre a quest'ultimo la possibilità di accettare quel che di non gradito potrebbe accadere; solo ove compiutamente informato, il paziente è posto in condizione di accettare preventivamente il possibile esito spiacevole, con la conseguenza che il suo eventuale turbamento psichico non sarà collegabile a evenienze non previamente riferite. L'eventuale correttezza dell'atto medico non assume rilevanza: infatti, se, in presenza di esiti peggiorativi dell'intervento, il medico è chiamato a risarcire al paziente quella «condizione di spirito» data da«manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili», di fronte ad un atto medico, non solo necessario ma anche risolutivo della patologia, la violazione del diritto di autodeterminazione è comunque suscettibile di autonomo risarcimento, anche in assenza di un danno alla salute; l'eventuale esito positivo dell'atto medico, eseguito ma non consentito, potrà semmai assumere rilevanza ai fini della quantificazione del danno sofferto dal paziente (Cass. n. 12205/2015 cit.; si veda, più di recente, Cass. civ. III n. 17022/2018 secondo cui l'omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario - fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d'urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà - determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest'ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c.). Sul piano processuale si rivela interessante un recente arresto della S.C., la quale nel ribadire la netta distinzione tra la domanda di risarcimento del danno da mancato consenso informato rispetto alla domanda risarcitoria per colpa medica, fa salva la possibilità per il danneggiato di esperire una nuova azione per ottenere il risarcimento del danno da violazione del consenso informato anche laddove una sentenza passata in giudicato abbia respinto la domanda risarcitoria fondata sull’errore medico: il riferimento è a Cass. III, n. 8756/2019 ove si afferma che, in caso di mancata corretta informazione, l’ingiustizia del fatto sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa proprio del deficit di informazione non è stato messo in condizione di dare il proprio assenso al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle implicazioni, tal che la domanda relativa al mancato consenso informato giammai risulterà coperta dal giudicato intervenuto nell’azione giudiziale relativa alla colpa professionale, posto che «la questione relativa al consenso informato non costituisce affatto un ‘antecedente logico necessario’ rispetto alla questione concernente la corretta esecuzione dell’intervento chirurgico»). Il contenuto dell'obbligo informativo; il divieto del consenso presunto Affinché l'obbligo informativo si possa considerare assolto, l'informazione deve essere fornita in un determinato momento storico, deve essere completa da un punto di vista contenutistico e, infine, deve essere seguita da un consenso (o dissenso) personale, inequivoco, attuale, effettivo e consapevole (così v. Cass. III, n. 4211/2007). In relazione al tempo dell'informazione, il Codice di Deontologia medica all'art. 33, primo comma, sancisce che «il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un'informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura»: l'informazione deve essere, dunque, fornita previamente rispetto a qualsiasi ingerenza del medico sul corpo del paziente; ad es., prima delle stesse analisi, da cui possa scaturire una diagnosi fausta come infausta (Cass. III, n. 16574/2012), prima dell'inizio della terapia, nel corso della stessa e nella successiva fase di convalescenza (così v. Cass. III, n. 24109/2013). Quanto al contenuto, la Corte costituzionale ha stabilito che le informazioni finalizzate al consenso «devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, comma 2, Cost.» (Corte cost. n. 438/2008 cit.): il medico deve fornire un'informazione completa ma, nel contempo, essenziale, dovendo l'operatore sanitario contemperare l'esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remota eventualità (esito anomalo non causalmente riconducibile all'intervento secondo l' id quod plerumque accidit), decida di non sottoporsi anche ad un banale intervento (in tal senso v. Cass. III, n. 14639/2004). Inoltre, il consenso deve sempre essere effettivo, ossia “reale”, e mai “presunto” (v., tra le altre, Cass. Civ. III, n. 2177/2016; Cass. III, n. 20984/2012): la completezza dell'informazione deve, cioè, prescindere dall'istruzione, dal livello di intelligenza o dal grado di cultura generale del paziente, dovendo essere completa e corretta anche nel caso in cui il paziente sia un soggetto provvisto di competenze in campo medico (è il caso del paziente medico o del paziente avvocato; v. anche Cass. III, n. 4030/2013). Il consenso deve, altresì, risultare in modo univoco dal modulo sottoscritto dal paziente, che non deve essere generico (in tal senso v. Cass. III, n. 23328/2019; Cass. III, n. 21235/2012), dovendo indicare tutte le informazioni di cui sopra e, soprattutto, il tipo di intervento cui ci si intende sottoporre. L'attualità esige che il medico, allorché sia trascorso un lasso di tempo apprezzabile dalla manifestazione del consenso, al momento in cui deve essere effettuato il trattamento programmato, si adoperi per ottenere nuovamente l'assenso del paziente previa, se necessario, l'apertura di una nuova fase informativa. Si segnala che la S.C. ha avuto modo di affermare come non risulti più operante il rifiuto di sottoporsi ad una determinata terapia, dato al momento del ricovero, se, in una circostanza successiva, la prestazione si renda necessaria a causa di un pericolo effettivo di vita; ciò in base a quanto stabilito dalla convenzione di Oviedo, ratificata dalla l. n. 145/2001, art. 9 (cfr. Cass. III, n. 23676/2008). Trattandosi di un atto personalissimo, la determinazione deve provenire esclusivamente dal soggetto direttamente coinvolto nel rapporto terapeutico, senza potersi ammettere alcun meccanismo di sostituzione della volontà. Tale regola è soggetta a deroga solo se il paziente è sprovvisto della capacità di agire ed è, quindi, soggetto a potestà genitoriale o tutela. Nel primo caso, il consenso va richiesto ad entrambi i genitori, in quanto esercitanti la patria potestà, o, in caso di separazione, al coniuge affidatario; laddove costoro siano stati privati della suddetta potestà o siano defunti, ad esprimere il consenso sarà il tutore. Se, malgrado la minore età, il paziente dimostri di essere “emancipato”, critico e volitivo sarà necessario anche il suo consenso (tale atto di autodeterminazione può superare, in caso di contrasto, l'opinione contraria del rappresentante legale, solo però con l'assenso del giudice tutelare e salvo che si verta in un caso di «trattamento necessario ed indifferibile»). Nel secondo caso, il trattamento sanitario effettuato nei confronti dell'incapace è lecito solo nella misura in cui il rappresentante legale lo abbia autorizzato. Il consenso informato nella l. n. 219/2017 La recente l. n. 219/2017 (entrata in vigore il 31 gennaio 2018) ha provveduto a normare le tematiche oggetto del presente commento. In base all'art. 1, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito, se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge: il consenso informato, luogo ideale ove si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza ed autonomia professionale del medico, viene, dunque, a rappresentare nelle intenzioni del legislatore il fulcro della relazione di cura e fiducia tra medico e paziente. Di estrema rilevanza, in detto contesto, il riferimento ad una possibile relazione “allargata”, laddove il paziente lo desideri, che coinvolga, cioè, anche i suoi familiari (ivi compresi le parti dell'unione civile o i conviventi ovvero ulteriori persone di fiducia del paziente). Sotto il profilo contenutistico, in linea con la prevalente giurisprudenza della quale si è ampiamente dato conto supra, l'informazione che il sanitario è tenuto a fornire al paziente deve essere completa, aggiornata e comprensibile e riferirsi alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici, ai rischi degli accertamenti o trattamenti sanitari a compiersi nonché alle possibili alternative e conseguenze del rifiuto del trattamento. Il diritto del paziente alla informazione viene inteso anche nella sua accezione negativa, quale volontà, cioè, di non ricevere informazioni, ovvero di indicare i familiari o persone di fiducia incaricate di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece (in tal caso, il rifiuto o la rinuncia e l'eventuale indicazione di un incaricato a riceverle dovranno essere menzionati nella cartella clinica e nel fascicolo elettronico). Il consenso è, altresì, revocabile in qualsiasi momento, anche laddove comporti l'interruzione del trattamento: laddove il paziente esprima la rinuncia ovvero il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza, il medico sarà tenuto a prospettare al paziente ed ai suoi familiari (ove il paziente acconsenta) le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, svolgendo ogni azione di sostegno al paziente (anche per il tramite di centri di supporto psicologico). Vale evidenziare che il successivo art. 2 della novella prevede l'obbligo per il medico di adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche se rifiuti i trattamenti, con un'appropriata terapia del dolore e l'erogazione delle cure palliative di cui alla l. n. 38/2010. Il paziente, dunque, ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche, anche laddove tale rifiuto possa causarne la morte. Tuttavia, il dissenso alle cure mediche deve essere espresso, inequivoco ed attuale, non potendo ritenersi sufficiente ad esonerare il medico dall’onere di intervenire, il dissenso manifestato ex ante, in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, rivelandosi, al contrario, necessaria una manifestazione di volontà negativa ex post, dopo che il paziente sia stato informato sulle proprie condizioni di salute e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure (v. Cass. Civ. III n. 23676/2008). Sul punto, si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione che affronta il delicato tema del rapporto tra diritto all’autodeterminazione terapeutica ed esercizio della libertà religiosa, nel peculiare caso, più volte attenzionato dai giudici di legittimità, del rifiuto del paziente Testimone di Geova all’emotrasfusione. Il riferimento è a Cass. Civ. III n. 29469/2020 ove si afferma che il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione, pur avendo manifestato il consenso per un diverso trattamento sanitario che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione, anche in caso di pericolo di vita (nel caso di specie, la decisione impugnata, di rigetto della domanda risarcitoria e restitutoria di quanto corrisposto a titolo di opera professionale dalla paziente, sottoposta allo scrutinio della Corte trovava la propria ratio nella presunta inesistenza di un espresso rifiuto dell’emotrasfusione manifestato dalla paziente, ritenendo il giudice di secondo grado che l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa comportasse assenso per tutte le fasi mediche successive, ivi inclusa l’emotrasfusione praticabile in caso di pericolo di vita. Di avviso avverso è la Corte, secondo cui il consenso manifestato limitatamente ad un dato intervento chirurgico non comporta ex se consenso all’emotrasfusione, alla luce del diritto all’autodeterminazione del paziente e dell’incoercibilità del credo religioso). La struttura sanitaria pubblica o privata è chiamata a garantire con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l'informazione necessaria ai pazienti e l'adeguata formazione del personale. L'art. 3 disciplina, poi, le modalità di prestazione del consenso per minori e soggetti incapaci, valorizzando, in particolare, la possibilità per detti soggetti di esprimere comunque la propria volontà in merito alle cure che devono ricevere (tal che l'informazione dovrà essere resa in modo da essere per gli stessi comprensibile). In attuazione del principio di autodeterminazione, la facoltà di scelta se e come curarsi compete non solo al paziente capace di autodeterminazione autonoma (art. 1), ma pure a quello incapace (minori, interdetti, inabilitati e persone sottoposte ad amministrazione di sostegno), che, laddove fisicamente o psichicamente impedite, possono esprimersi tramite i rispettivi legali rappresentanti (art. 3), previa valorizzazione delle relative volontà, capacità decisionali, valori, principi etici, morali ed esistenziali, secondo un trend interpretativo inaugurato dalla giurisprudenza di merito in materia di amministrazione di sostegno (Trib. Modena 28 giugno 2004). Con specifico riferimento alla tematica della prestazione del consenso/dissenso alle cure per i soggetti incapaci, giova segnalare che la Corte Costituzionale con sentenza del 13/06/2019, n. 144, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità dell'art. 3, commi 4 e 5 legge 219 del 2017 sollevate dal Giudice Tutelare del Tribunale di Pavia con riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, sul presupposto che “l'art. 3 legge 219/2017 non ha disciplinato le modalità di conferimento, all'amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario, le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ.”. “L'art. 3 si limiterebbe a regolare il caso in cui l'amministrazione di sostegno sia stata disposta per proteggere una persona che è sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il consenso informato a detti trattamenti. Di conseguenza, è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al Giudice Tutelare al momento della nomina dell'amministratore di sostegno”. Al riguardo, si segnala il d.l. 1/2021 denominato “Ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19” che, all’art. 5, disciplina le modalità di manifestazione del consenso al trattamento sanitario del vaccino anti-Covid 19 da parte di soggetti incapaci ricoverati presso le RSA. Si tratta di un intervento normativo di particolare importanza, per certi versi obbligato, stante la situazione epidemiologica corrente e la necessità di tutelare l’autodeterminazione di soggetti “fragili” quali sono gli ospiti delle RSA, taluni dei quali versanti in situazioni di incapacità tali da precluderne l’idoneità a prestare un consenso libero ed informato al trattamento sanitario. I richiami che la disposizione menzionata fa alla legge n. 219 del 2017 inducono a ritenere che essa continui a rappresentare la norma di riferimento in materia di consenso informato, tranne che per gli incapaci naturali nei cui confronti è stata introdotta una disciplina ad hoc, differente dalla precedente. Invero, se con la L. 219/2017 il legislatore ha ritenuto che, in situazione di emergenza individuale, avrebbero potuto provvedere alla manifestazione del consenso nell’interesse dell’incapace il medico e i componenti dell'equipe sanitaria, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla, l’art. 5 D.l 1/2021 attribuisce al direttore sanitario della RSA la funzione di amministratore di sostegno “ad acta”, al solo fine della prestazione del consenso. Se la struttura sia sprovvista di un direttore sanitario o di un responsabile medico, le funzioni di amministratore di sostegno sono svolte dal direttore sanitario della ASL territorialmente competente sulla struttura o da un suo delegato. Di regola, in base all’art. 1 della legge 219 del 2017 nella relazione di cura sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo. Per i pazienti delle RSA incapaci e privi di rappresentanza, il direttore sanitario deve sentire il coniuge, la parte dell’unione civile ovvero il convivente o, in difetto, il parente più prossimo entro il terzo grado. Diversamente, l’amministratore di sostegno nominato non è tenuto a sentire i familiari, sebbene, specie nel caso di amministratore estraneo all’ambiente familiare, potrà valutare caso per caso (ad esempio, nel caso di familiari presenti e accudenti) l’opportunità di sentirli. Inoltre, l’art. 5 del D.l. 1/ 2021 prevede il ricorso al giudice tutelare nel caso di ricoverato non capace di intendere o di volere e su iniziativa del direttore sanitario: quando il coniuge o i parenti prossimi entro il terzo grado esprimano dissenso alla vaccinazione (ricorso facoltativo ai sensi dell’art. 3 comma 5 della legge n. 219 del 2017); quando sia stato impossibile sentire i parenti in quanto irreperibili o indisponibili. In tale ultima evenienza, il direttore sanitario dovrà comunicare il consenso al giudice, anche tramite pec, insieme alla documentazione attestante lo stato di incapacità naturale, l’idoneità del trattamento vaccinale a tutelare la salute della persona ricoverata e la irreperibilità o indisponibilità del coniuge o dei parenti prossimi. In quest’ultimo caso il giudice, entro quarantotto ore dal ricevimento della detta comunicazione, convalida il consenso o lo nega, con decreto immediatamente esecutivo da comunicarsi, entro le successive quarantotto ore, a mezzo di posta certificata, al direttore sanitario della struttura ove il paziente è ricoverato. Spirato il predetto termine, senza che sia stato comunicato il decreto da parte del giudice tutelare, il consenso si intende ex se convalidato, potendo procedersi alla vaccinazione, non avendo alcun effetto il provvedimento del giudice tutelare comunicato tardivamente. Il comma 10 dell’art. 5 prevede due ulteriori ipotesi di ricorso al giudice tutelare: in caso di rifiuto alla somministrazione del vaccino (probabilmente ad opera del personale sanitario a ciò deputato) ed in ipotesi di mancato consenso del direttore sanitario ai sensi del comma 5, dunque quando siano irreperibili i familiari. In tale ultima evenienza, l’azione è esperibile proprio dai familiari ritenuti prima facie irreperibili o indisponibili, e che tali non erano. Tale facoltà compete, infine, pure a quanti siano divenuti incapaci di autodeterminazione e perciò siano “incapaci”, sempre che in precedenza «abbiano espresso le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» tramite «disposizioni anticipate di trattamento»(DAT) (art. 4): con l'introduzione del c.d. testamento biologico, la legge n. 219 evita ogni discriminazione tra il malato capace e quello che non lo sia, per effetto di malattia psichiatrica o per altro motivo. Nella scrittura privata contenente le DAT l'interessato esprime le proprie caratteristiche identitarie, i propri valori, opinioni, interessi, la propria filosofia di vita, la propria laicità o, a seconda, religiosità; può, altresì, facoltativamente indicare un fiduciario che «lo rappresenti nelle relazioni col medico e la struttura sanitaria», che ne diviene fondamentale alter ego nelle relazioni medico-sanitarie. Le DAT sono vincolanti per «il medico che è tenuto al rispetto» di esse (art. 1, comma 6 e art. 4, comma 5),salvo che le stesse appaiano «palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente», ovvero, laddove «sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» (ai sensi dell’art. 38 del Codice di Deontologia Medica “il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritte e datate da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale. La dichiarazione anticipata di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l’espressione di volontà attuali. Il medico, nel tenere conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto e ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria. Il medico coopera con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente giudizio previsto dall’ordinamento e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili”). Per potere disattendere le DAT il medico deve acquisire “l'accordo” (ovvero il consenso) del fiduciario; in presenza di “conflitto” (col fiduciario) insorto sull'applicabilità delle condizioni di esenzione delle DAT, ovvero, sulla corretta interpretazione delle disposizioni medesime, è previsto l'intervento dirimente del giudice tutelare (art. 4, comma 5, parte finale), su ricorso dei soggetti legittimati. La decisione è data con decreto motivato (art. 43 att. c.c.), decreto sempre reclamabile (art. 45 att. c.c.). Come per il testamento, anche la persona che “dispone” dei trattamenti sanitari che la possono concernere tramite DAT, deve farlo in modo formale (ovvero, atto pubblico o scrittura privata autenticata); nondimeno, il legislatore del 2017 ha previsto anche la possibilità di consegnare le DAT «personalmente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza», oppure, «presso le strutture sanitarie» che siano dotate dei necessarie supporti informativi a norma del comma 7), che mirano a rendere le DAT ampiamente accessibili. La legge n. 219 ammette, altresì che le DAT siano espresse tramite “videoregistrazione”,o mediante l'utilizzo di altri «dispositivi che consentano alle persone con disabilità di comunicare» (art. 4, comma 6), ad es., valendosi del puntatore oculare utilizzato dai tetraplegici. Le DAT sono sempre suscettibili di revoca o modifica, per il tramite di un contrarius actus che sia, cioè, dotato della medesima forma di quello che si intende revocare o modificare: nondimeno, il comma 6 (dell'art. 4) disciplina le ipotesi in cui il malato sia affetto da patologie gravemente invalidanti che, per effetto dell'inesorabile decorso patologico, abbiano ridotto la capacità e l'abilità della persona, impedendole di procedere alla revoca formale delle iniziali disposizioni (in tal caso si ammette la modifica/revoca di esse «con dichiarazione verbale raccolta dal medico, con l'assistenza di due testimoni»). Sul punto, giova richiamare la pronuncia n. 242/2019 nell’ambito della quale la Corte Costituzionale affronta la sensibile tematica del suicidio assistito nel cd. “caso Cappato”, in particolare nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. promosso dalla Corte d’Assise di Milano. In quell’occasione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, in presenza di specifiche e determinate condizioni (casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli), agevoli l’esecuzione del suicidio, frutto di libera ed autonoma determinazione del malato. Rileva tale decisione alla luce del valore normativo che il Giudice delle Leggi riconosce alla legge sul consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento. In particolare, osserva la Corte, come in taluni casi la scelta del paziente di accogliere la morte potrebbe essere stata assunta sulla base della legislazione vigente attraverso il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e la richiesta di sottoposizione alla sedazione profonda. Invero, la L. 219/2017, approdo legislativo che ha recepito le conclusioni cui era giunta la giurisprudenza ordinaria (v. Caso Welby ed Englaro) nonché le indicazioni della Corte Costituzionale sul consenso informato, riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, compresi i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5). Inoltre, la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, finalizzate ad alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 al comma 2 stabilisce, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda e continua in associazione con la terapia del dolore, atta ad alleviare sofferenze insensibili ai trattamenti sanitari. La Corte, dunque, valorizza il diritto all’autodeterminazione del paziente, diritto fortemente pregiudicato e compresso dall’assoluto divieto del suicidio, il quale impone al paziente di ricorrere all’unica modalità possibile per liberarsi dalla sofferenza, cioè l’aiuto al suicidio. Il risarcimento del danno da violazione del consenso informato Partendo dal presupposto che, tra le obbligazioni cui il sanitario è tenuto contrattualmente, in virtù del contenuto complesso della prestazione, vi è anche l'obbligo informativo, la relativa violazione comporta inadempimento ex art. 1218 c.c. Quanto al medico ospedaliero, la responsabilità da contatto sociale è destinata a lasciare il posto, in ragione della recente novella legislativa (l. n. 24/2017), all'affermazione della responsabilità aquiliana, conseguendone che è nell'ambito dell'art. 2043 c.c. che andrà inquadrata anche la responsabilità da violazione dell'obbligo informativo (v. per approfondimenti formula su responsabilità del medico contrattuale o extracontrattuale dalla legge Balduzzi alla legge Gelli). Nella giurisprudenza di legittimità, il consenso informato viene saldamente ancorato alla responsabilità da inadempimento: tra le molte, v. Cass., n. 20894/2012 cit., Cass. III, n. 11005/2011; Cass., n. 2847/2010 cit.; Cass. III, n. 20806/2009. Le conseguenze sono note: prescrizione decennale e non quinquennale e ripartizione dell'onere probatorio a favore del paziente (sarà dunque il professionista a dover provare di aver acquisito un consenso consapevole dal cliente preceduto da una corretta informazione (così v. Cass. III, n. 7027/2001, ove, in motivazione, si evidenzia la contrarietà all'art. 24 Cost. dell'opposta scelta di addossare l'onere della prova - negativa - al paziente che si concreterebbe in una violazione del principio di vicinanza della prova). Quanto alla risarcibilità del danno, si profilano due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità: 1) la responsabilità del medico per violazione del consenso informato sussiste, a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento, esclusivamente in presenza di due condizioni: a) ricorra l'inadempimento dell'obbligo informativo circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente è stato sottoposto; b) si sia verificato un aggravamento della situazione del paziente ovvero l'insorgenza di nuove patologie in seguito alla terapia e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa; all'infuori di queste condizioni, non sorge alcun diritto al risarcimento del danno (in tal senso v. Cass. III, n. 5444/2006, Cass. III, n. 14638/2004); 2) la responsabilità del medico in caso di violazione dell'obbligo informativo sussiste a prescindere dall'esito della prestazione terapeutica; il fondamento di tale orientamento si rinviene in una importante pronuncia della Cassazione in cui si afferma che «qualora il medico ometta di informare il paziente sulle caratteristiche e sui rischi di un intervento chirurgico e questo non riesca per circostanze indipendenti da colpa del chirurgo, quest'ultimo potrà essere condannato a risarcire il danno patito dal paziente, vale a dire il peggioramento delle sue condizioni di salute, soltanto ove il paziente alleghi e dimostri che, se fosse stato compiutamente informato circa i rischi dell'intervento, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi, residuando, altrimenti, la risarcibilità del danno-conseguenza, ricollegabile alla sola lesione del diritto all'autodeterminazione»; in sostanza, la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni conseguenza: il danno alla salute ed il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione “in se stesso”(v. così Cass. III, n. 11950/2013). Il primo è il danno che il paziente subisce in seguito all'attività terapeutica rispetto alla quale non ha prestato il proprio assenso ed è risarcibile esclusivamente qualora il malato, anche mediante presunzioni dimostri che, se fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato quel determinato intervento e, con esso, le relative conseguenze invalidanti (v., in tal senso, Cass. III, n. 2998/2016, secondo la quale «in tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute»; la risarcibilità del secondo, invece, «può essere riconosciuta anche se non sussista lesione della salute o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione del diritto all'autodeterminazione (perché l'intervento o la terapia sono stati scelti ed eseguiti correttamente), sempre che siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in sé stesso considerato (così la cit. Cass. n. 11950/2013). In base a questo secondo orientamento, l'attività compiuta dal medico in assenza di consenso informato va risarcita in re ipsa e in ogni evenienza, anche se l'intervento è obbligato, senza alternative, e persino nel caso in cui l'esito dello stesso sia pienamente positivo, in assenza di alcun danno alla salute del paziente (v. Cass. III, n. 5590/2015; Cass. III, n. 5590/2015 che configura a carico del sanitario, e, di riflesso, della struttura per cui egli agisce, una responsabilità per violazione dell'obbligo del consenso informato, in sé e per sé, a prescindere dal fatto che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno, che esso abbia dato esito positivo o meno; «ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica»). Di recente, la S.C. è intervenuta per dare continuità all’orientamento sopra riportato sub 1) ed al fine di creare una sorta di decalogo delle fattispecie risarcitorie configurabili (e non) allorché sia violato l’obbligo della informazione in campo sanitario. Con la sentenza Cass. n. 28985/2019, la III Sezione della Corte di Cassazione ha chiarito che due sono le tipologie di danni configurabili: a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente - sul quale grava il relativo onere probatorio - se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti); b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, suscettibile di essere riconosciuto ogni qualvolta, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (ex multis Cass. civ., 2854/2015; Cass. civ., n. 24220/2015; Cass. civ., n. 24074/2017; Cass. civ., n. 16503/2017; Cass. civ., n. 7248/2018). Si potranno, dunque, profilare le seguenti ipotesi: 1) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che abbia cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni "hic et nunc": in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale; 2) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che abbia cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente; 3) omessa informazione in relazione ad un intervento che abbia cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute -da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l'intervento non sarebbe stato eseguito- andrà valutata in relazione alla eventuale situazione "differenziale" tra il maggiore danno biologico conseguente all'intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto; 4) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto; 5) omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli abbia tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna ulteriore indicazione circa l'esistenza di test assai più attendibili, quali l'amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente - salva possibilità di provata contestazione della controparte”. Sul piano processuale, ai fini della risarcibilità del danno, sarà indispensabile l’allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, posto che il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica è destinato ad incidere sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione -perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell'obbligo informativo preventivo- e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale. Il paziente dovrà, quindi, provare il fatto positivo (il rifiuto che sarebbe stato opposto al medico) e tanto anche in base al principio della vicinanza della prova: detta prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell'operazione, non potendosi configurare, "ipso facto", un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l'impredicabilità di danni “in re ipsa” nell'attuale sistema della responsabilità civile”. Non potrà dunque prescindersi dalla prova che la condotta di quest’ultimo, se correttamente informato, sarebbe stata differente ovverosia avrebbe rifiutato la terapia medica. Difatti l’omessa informazione assume, di per sé, un carattere neutro sul piano eziologico in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa consenso-dissenso. L’allegazione dei fatti dimostrativi del dissenso costituisce elemento integrante dell’onere della prova che grava sul soggetto che propone la domanda di risarcimento (così Cass. civ. sez. III ord. 26.5.2020 n. 9887: nella fattispecie, la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato la domanda tesa a ottenere il preteso ristoro dei danni a cagione del presunto errore commesso dal medico nell’acquisizione del consenso informato da parte del paziente. Il sanitario aveva informato il paziente che l’intervento avrebbe sì fermato il processo degenerativo ma vi era il rischio connesso – e accettato dal paziente – della perdita del 30% della funzionalità dell’articolazione del polso; tuttavia, a seguito dell’eseguito intervento, la perdita della funzionalità si è verificata in misura maggiore rispetto a quanto indicato. A dire del Giudice di merito la domanda non poteva essere accolta in quanto le conseguenze nefaste erano leggermente più gravi di quanto prospettato dal personale sanitario). In punto di onere probatorio, soltanto nel caso in cui l'oggetto della contestazione sia la lesione del diritto alla salute spetterebbe al paziente, dopo aver allegato la violazione dell'obbligo di informazione, dimostrare che, ove compiutamente informato, avrebbe rifiutato l'intervento, mentre, laddove sia lamentata la violazione del diritto di autodeterminarsi, la prova di aver minuziosamente informato il paziente, in ordine ai possibili accertamenti diagnostici, dev'essere fornita dal soggetto tenuto ad informare il paziente, ossia il professionista, il quale - altrimenti - è chiamato a risarcire il danno eventualmente cagionato per aver violato il diritto del paziente alla autodeterminazione. In particolare, nel caso in cui la detta prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l'ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, se correttamente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda a un esito infausto prevedibile “ex ante” nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell'accertamento del danno, graverà sul paziente l'onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento (così Cass.III n. 24074/2017). Nondimeno, ai fini della risarcibilità di un danno occorrerà che venga allegato e provato da parte dell'attore un pregiudizio non patrimoniale derivante dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in sé considerato e sempre che detto pregiudizio superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non integri mero disagio o fastidio (in tal senso si veda Cass. III, n. 20885/2018). Occorre segnalare che la giurisprudenza di merito pare, tuttora, restia a riconoscere il risarcimento del danno per la mera violazione dell'obbligo di informazione (tra le altre v. Trib. Pisa 17.5.2010; v. invece Corte di Appello di Firenze del 10.2.2009, ove viene riconosciuto il risarcimento per violazione del consenso informato determinato come danno biologico nella misura di 15 punti percentuali riconosciuti per gli esiti cicatriziali e funzionali, ovvero Trib. Milano 9.2.2009 ove il difetto di informativa rileva come aggravante della colpa medica. È appena il caso di evidenziare che la domanda di risarcimento del danno da violazione del consenso informato e quella da colpa medica per errore nella esecuzione di un intervento chirurgico integrano pretese tra loro autonome ed indipendenti tal che la prima, se non proposta ab origine, viene considerata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità quale domanda nuova rispetto all'altra, ponendosi in essere una alterazione dell'oggetto sostanziale dell'azione e dei limiti della controversia (v. in tal senso Cass. III n. 24072/2017 che evidenzia come, nel caso di specie, ci si trovi al cospetto non di una emendatio bensì di una vera e propria mutatio libelli). Si segnala da ultimo Cass. civ. sez. III, 7 ottobre 2021, n. 27268: nella fattispecie, il Tribunale di Napoli aveva rigettato la domanda di risarcimento danni, proposta da un paziente in seguito alle lesioni subito durante un intervento chirurgico eseguito presso una struttura sanitaria. La Corte d'Appello locale aveva confermato la pronuncia del Tribunale, sottolineando come «nessun inadempimento potesse essere addebitato ai sanitari della ASL appellata, giacchè, come chiarito dalla CTU, l'infezione post-operatoria non era ascrivibile ad una condotta imperita, negligente o imprudente dei sanitari – trattandosi di complicanza prevedibile ma non prevenibile - i quali gli avevano comunque prescritto una idonea terapia antibiotica, invitandolo altresì ad un controllo post-operatorio per la verifica della ferita chirurgica». La Corte di Cassazione afferma che sebbene l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura e del risanamento del soggetto – non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori “concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all'omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose; inoltre, qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell'individuazione della causa “immediata” e “diretta” (ex art. 1223 c.c.) di tale danno – conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva. In particolare: il consenso informato nella chirurgia estetica Nell'ambito della chirurgia estetica, l'unica fonte di legittimazione e fondamento dell'atto medico è il consenso validamente prestato dal paziente. Invero, secondo le affermazioni della dottrina e della giurisprudenza, il chirurgo estetico intervenendo su di un corpo sano è tenuto ad un obbligo informativo più pregnante rispetto a quello degli altri medici: il chirurgo estetico deve prospettare al paziente la possibilità di conseguire un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico che si ripercuota anche favorevolmente nella vita professionale ed in quella di relazione (cfr. Cass. III, n. 12830/2014), sicché, rappresentando il miglioramento delle condizioni estetiche il risultato auspicato dal paziente, il sanitario non potrà non tenerne conto nel momento informativo al fine di consentire al paziente una piena e consapevole valutazione in ordine all'opportunità di sottoporsi o meno al trattamento di chirurgia estetica; inoltre, il sanitario dovrà informare il paziente dei rischi di peggioramento delle condizioni estetiche esistenti. La mancanza del consenso fa sì che l'operato del medico sia contra jus a prescindere dalla riuscita dell'intervento: il carattere non necessario dell'atto e l'assenza di consenso rendono, infatti, responsabile il chirurgo estetico di tutte le conseguenze negative (con esclusione di quelle eccezionali ed imprevedibili). L'omessa informazione in ordine al possibile peggioramento dell'aspetto estetico poi, di fatto, verificatosi, permette di presumere che il paziente, come qualsiasi persona normale e razionale, non avrebbe acconsentito al trattamento. Pertanto, al difetto di una puntuale informazione e alla presenza di un inestetismo più grave di quello da curare consegue, ordinariamente, la responsabilità del professionista, rivelandosi superfluo, secondo la prevalente giurisprudenza, l'accertamento delle «determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato» - accertamento, invece, indispensabile per addossare la responsabilità al medico nei trattamenti necessari. Secondo la S.C., le particolarità del risultato, auspicato dal paziente, e l'istinto presente in ogni essere umano di conservazione dello stato di salute attuale, consentono di eliminare l'indagine a cui è tenuto il giudice sul possibile decorso degli eventi, attribuendo al sanitario la responsabilità del danno derivatone (Cass. n. 7027/2001 cit.) e venendosi a configurare, come la dottrina, ha avuto modo di affermare, un'ipotesi di dissenso presunto ed una conseguente responsabilità paraoggettiva del medico il quale sarebbe responsabile anche quando il paziente avrebbe accettato di correre il rischio sottoponendosi comunque al trattamento. Con due recenti sentenza, Cass. III n. 9806/2018 e Cass. III n. 9807/2018 la S.C. ha avuto modo di ribadire, proprio nell'ambito della chirurgia estetica, che qualunque persona riceva un trattamento sanitario ha diritto ad essere adeguatamente informato sulle caratteristiche dell'intervento che si accinge a ricevere, sui rischi dello stesso e sugli esiti successivi alla pratica chirurgica che dovrà essere adottata nel caso specifico (trattavasi, nella sentenza n. 9806 del caso di un paziente che lamentava di non essere stato adeguatamente informato sulla cicatrice “spuntata” dopo un intervento di chirurgia estetica per rimuovere il tatuaggio; la Corte ivi sottolinea che l'onere di adeguata informazione non deve solo riguardare le modalità di esecuzione dell'intervento prescelto, ma anche dettagli non trascurabili come gli esiti cicatriziali che ne possano derivare; nella sentenza n. 9807 la Corte era chiamata a valutare la corretta condanna di un'azienda sanitaria per un intervento chirurgico importante e invasivo praticato su un giovane, senza che allo stesso fossero stati elencati tutti i rischi del trattamento particolarmente complesso: ivi si è sottolineato che “il paziente vanta la legittima pretesa di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze dell'intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso che la nostra Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”. |