Ricorso d'urgenza in tema di risarcimento del danno da comportamento integrante concorrenza sleale

Emanuela Musi

Inquadramento

Con il ricorso ex art. 700 c.p.c. un'azienda, lamentando l'adozione da parte di una concorrente sul mercato di un comportamento sleale (nella specie, storno di agenti) chiede al Tribunale l'adozione di un provvedimento di inibitoria che impedisca alla resistente di continuare a porre in essere la condotta di storno nonché agli agenti di svolgere la propria attività di promozione delle vendite per l'azienda concorrente in modo da sviare la clientela in precedenza acquisita.

Formula

TRIBUNALE DI .... [1]

RICORSO EX ART. 700 C.P.C.[2]

PER

la Società ...., in persona del legale rapp.te p.t., C.F. [3] /P.I. ...., con sede legale in ...., via ...., rappresentata e difesa per mandato in calce/a margine del presente atto dall'Avv. ...., presso il cui studio elettivamente domicilia in ...., via .... Si dichiara di volere ricevere tutte le comunicazioni relative al presente procedimento al fax ...., ovvero all'indirizzo PEC .... [4],

CONTRO

Sociatà ...., in persona del legale rappresentante p.t., C.F./P.I. ...., con sede legale in ...., via ....

PREMESSO CHE

— La ricorrente è una società attiva nella vendita e nella commercializzazione di prodotti medicali (doc. 1);

— la convenuta è anch'essa specializzata nella produzione, commercializzazione e distribuzione di integratori alimentari, dispositivi medici e dermocosmetici (doc. 2);

— nell'ambito delle anzidette attività, al fine di promuovere direttamente e indirettamente la vendita dei propri prodotti presso, tra l'altro, le farmacie, parafarmacie e studi medici, la ricorrente si serve di agenti preventivamente da essa stessa formati e qualificati (doc. 3);

— a partire dalla data del ...., la convenuta poneva in essere azioni finalizzate al reclutamento di agenti e procacciatori in forza alla ricorrente. Tale attività illecita di storno di membri della rete vendita della società .... aveva riguardato tutto il territorio nazionale ed aveva avuto esito positivo per un numero di .... agenti e procacciatori (doc. 4);

— invero i suddetti agenti e procacciatori erano stati colti a promuovere le vendite dei prodotti della società convenuta. Inoltre questi ultimi, oltre ad aver svolto attività in concorrenza sleale in vigenza di contratto con la società attrice violavano anche le disposizioni di questo ultimo contratto in tema di patto di non concorrenza post contrattuale (doc. 5). Peraltro gli stessi, con modalità del tutto singolari esercitavano contestualmente, tutti in data .... con comunicazione di identico contenuto (doc. 7), il recesso dai contratti di promozione delle vendite in essere;

— alla luce delle modalità, della frequenza e della sistematicità dell'attività di storno di personale addetto alla vendita, è evidente che la convenuta non abbia posto in essere un comportamento casuale ma espressamente diretto a sottrarre alla società attrice la sua struttura aziendale costruita con investimenti nel tempo e tesa ad arrecare alla stessa un pregiudizio che eccede quello che si sarebbe generato in ipotesi di ordinaria e legittima attività di concorrenza;

— l'attività di storno degli agenti e procacciatori portata avanti e tutt'ora in corso da parte della convenuta ha determinato l'acquisizione illegittima dell'intero bagaglio di conoscenze e relazioni sviluppate dall'attrice nel corso di anni di attività e della stessa trasmesso ai suoi agenti e procacciatori con notevole investimento di costi e di tempo. Oltretutto agli agenti e/o procacciatore è stata consegnata la lista di clienti, la cui elaborazione e redazione è basata su un lunghissimo lavoro di studio e di presenza sul territorio da parte dell'attrice;

— l'insieme degli elementi sopra descritti ed il comportamento tenuto dalla convenuta configura senza ombra di dubbio una ipotesi di concorrenza sleale così come definita dall'art. 2598, n. 3 c.c.; in virtù della previsione normativa sopra indicata nonché della dottrina e giurisprudenza di riferimento, lo storno di agenti e procacciatori si configura come atto di concorrenza sleale ogni qualvolta sia avvenuto secondo modalità tali da non potersi giustificare, alla luce dei principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore di tali atti l'intenzione di danneggiare l'impresa concorrente in misura che eccede il normale pregiudizio che può conseguire ad un isolato caso di passaggio di agente;

— in relazione alla fattispecie verificatasi, nessun dubbio sussiste circa l'attività di storno di agenti e procacciatori da parte della convenuta; in relazione, invece, alla sussistenza del requisito dell'intenzione di danneggiare l'impresa concorrente nei termini sopradetti, c.d. animus nocendi, lo stesso è riscontrabile ogni qualvolta lo storno venga realizzato dal soggetto agente con un atto direttamente ed immediatamente rivolto ad impedire al concorrente di continuare a competere attraverso la sottrazione dell'esclusività di nozioni tecniche, relazionali e delle relative professionalità in modo da privare il concorrente di ciò che ha realizzato alterando significativamente la correttezza della competizione commerciale. Al riguardo secondo la casistica giurisprudenziale gli indici dello storno illecito sono, tra gli altri, la simultaneità del passaggio di un numero rilevante di procacciatori, la loro qualificazione ed utilità per l'impresa concorrente danneggiata, la loro agevole sostituibilità, l'induzione a violare l'obbligo di fedeltà in costanza di rapporto ovvero successivamente - come nel caso di specie - il patto di non concorrenza post contrattuale, il recesso esercitato dai contratti senza osservare il periodo di preavviso, il medesimo settore di operatività assegnato all'agente e al procacciatore stornato, la sottrazione di informazioni acquisite dall'azienda in anni di lavoro sul territorio.

Nel caso di specie ricorrono tutti gli elementi per qualificare il comportamento della convenuta come illecito e ricondurlo ad una ipotesi di concorrenza sleale; in particolare sussiste la simultaneità del passaggio di un numero rilevante di agenti e procacciatori, la particolare qualificazione e utilità degli agenti e procacciatori, l'induzione a violare l'obbligo di fedeltà ed esclusiva in costanza di rapporto nonché il patto di non concorrenza post contrattuale, le modalità di recesso dai rapporti contrattuali in essere, la simultaneità di tale recesso e il mancato rispetto del periodo di preavviso; il medesimo settore di attività assegnato agli agenti e procacciatori stornati; la sottrazione di informazioni aziendali e l'immediata destinazione alla medesima clientela; gli effetti pregiudizievoli subiti dalla impresa “aggredita”.

Alla luce della situazione sopra descritta è evidente come lo storno di agenti e procacciatori da parte della convenuta sia a tutti gli effetti configurabile come un atto illecito di concorrenza sleale in quanto denota, per le specifiche modalità, un disegno doloso ed eccede il normale ricambio di agenti e procacciatori nonché la legittima aspirazione dell'agente stesso a migliorare la propria condizione, traducendosi in un piano di specifica aggressione al complesso dell'organizzazione imprenditoriale della concorrente in uno specifico territorio che determina un effetto di improvvisa disgregazione delle sue capacità commerciali in maniera da oltrepassare l'ambito della normale contesa - anche aggressiva - normalmente ammissibile in un contesto di libera concorrenza. Il comportamento della convenuta, attraverso lo storno di persone, conoscenze, esperienza ed altro, ha consentito a quest'ultima di acquisire tali risorse precedentemente non possedute, così permettendole l'ingresso sul mercato e l'acquisizione di quote dello stesso prima di quanto le sarebbe stato possibile ove avesse potuto contare solo sulla sua situazione e sulle sue capacità.

— con riferimento al fumus boni iuris, appare di tutta evidenza dall'esposizione dei fatti e dalla documentazione allegata, che i comportamenti della convenuta, integrano gli estremi della concorrenza sleale.

— in relazione al periculum, sulla base delle circostanze esposte, l'emissione di un provvedimento di urgenza è necessario in quanto la prosecuzione del comportamento della Società Beta oltre ai danni già causati, continua a costituire minaccia di ulteriori danni gravi ed irreparabili in quanto i diritti di cui si invoca la tutela non sono suscettibili di adeguata riparazione e ristoro successivo. Ed in particolare, la possibile durata del giudizio di merito, la gravità dei danni che nelle more potrebbero residuare in capo alla ricorrente, la loro prevedibile non integrale risarcibilità, la stessa difficoltà di provarne l'esatta consistenza legittimano l 'accesso alle misure cautelari ed in particolare, a quelle di cui all'art. 700 c.p.c.

Inoltre, relativamente all'irreparabilità, la giurisprudenza ha sempre affermato che in materia di concorrenza sleale essa è in re ipsa, non necessitando, perciò, di una prova specifica in considerazione della dinamica e dell'imprevedibilità del mercato. La giurisprudenza si è più volte soffermata sulla circostanza che l'atto di concorrenza sleale provoca uno sviamento di clientela, effetto solo parzialmente reversibile. Infatti la clientela attratta verso altra azienda ben difficilmente ritorna integralmente dall'imprenditore che ha subito lo sviamento” in quanto “gli acquirenti sono indotti a rivolgersi a una, piuttosto che ad un altra fonte di approvvigionamento da molteplici fattori quali l'abitudine, la comodità, la suggestione, la simpatia; in tali condizioni l'imprenditore che subisce la concorrenza sleale sopporta un permanente pregiudizio per l'azienda che è destinato ad accrescersi quanto più ritarda il provvedimento di inibitoria. Trattandosi di diritti lesi dall'inosservanza degli obblighi di fare e di non fare infungibili, è da ritenere che solo la tutela del provvedimento di urgenza potrà evitare quelle conseguenze di carattere irreparabile che si verificherebbero in capo al titolare del diritto minacciato da atti di concorrenza sleale, ove questi dovesse fare affidamento unicamente sulla pronunci a emessa al termine di un giudizio ordinario.

Tutto ciò premesso ed argomentato, la ricorrente, come sopra rappresentata, domiciliata e difesa

RICORRE

al Tribunale di ...., affinché lo stesso voglia, ogni eventuale contraria deduzione e/o eccezione disattesa:

— in via principale, tenuto conto del fatto che l'eventuale convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento nonché spingerla ad una maggiore “aggressività” nei comportamenti illeciti sino all'emissione del provvedimento, emettere, inaudita altera parte, un provvedimento che: a) inibisca alla convenuta, di continuare nel comportamento illecito di storno e reclutamento di agenti e procacciatori di affari che sono o che dovessero, in futuro, essere legati da contratti di agenzia, procacciamento di affari e più in generale di promozione delle vendite alla società attrice su tutto il territorio nazionale; b) inibisca alla convenuta di adibire gli agenti e procacciatori stornati all'attrice a promuovere le vendite dei suoi prodotti per un periodo di .... termine ritenuto congruo per evitare che la convenuta possa utilizzare quanto illegittimamente sottratto alla società attrice in un momento in cui la stessa deve riorganizzare completamente la sua presenza sul territorio; c) inibisca alla convenuta di adibire gli agenti e procacciatori stornati sul territorio nazionale a promuovere le vendite dei suoi prodotti nelle zone ed aree in cui gli stessi svolgevano, prima dell'avvenuto storno, l'attività di promozione delle vendite per un periodo di .... mesi termine ritenuto congruo per evitare che la convenuta possa utilizzare quanto illegittimamente sottratto alla ricorrente in un momento in cui la stessa deve riorganizzare la sua presenza sul territorio;

— in via subordinata, nel caso lo si ritenga necessario, sentite le parti e svolti gli atti di istruzione tenuti opportuni, emettere un provvedimento che: a) inibisca alla convenuta, di continuare nel comportamento illecito di storno e reclutamento di agenti e procacciatori di affari che sono o che dovessero, in futuro, essere legati da contratti di agenzia, procacciamento di affari e più in generale di promozione delle vendite alla società attrice su tutto il territorio nazionale; inibisca alla convenuta di adibire gli agenti e procacciatori stornati all'attrice a promuovere le vendite dei suoi prodotti per un periodo di .... termine ritenuto congruo per evitare che la convenuta possa utilizzare quanto illegittimamente sottratto alla società attrice in un momento in cui la stessa deve riorganizzare completamente la sua presenza sul territorio; c) inibisca alla convenuta di adibire gli agenti e procacciatori stornati sul territorio nazionale a promuovere le vendite dei suoi prodotti nelle zone ed aree in cui gli stessi svolgevano, prima dell'avvenuto storno, l'attività di promozione delle vendite per un periodo di .... mesi termine ritenuto congruo per evitare che la convenuta possa utilizzare quanto illegittimamente sottratto alla ricorrentein un momento in cui la stessa deve riorganizzare la sua presenza sul territorio;

— in ogni caso ordinare, a cura e spese della convenuta la pubblicazione, anche per estratto, dell'emanando provvedimento cautelare sulla pubblicazione bimestrale denominata ....;

1) porre a carico della convenuta una penale di Euro .... per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione dell'emanando provvedimento cautelare e/o di Euro .... per ogni singola violazione dell'emanando provvedi mento cautelare;

Con vittoria di spese competenze ed onorari di giudizio.

IN VIA ISTRUTTORIA

(indicazione dei mezzi istruttori di cui si intende valere): (ESEMPIO)

Si chiede, inoltre, di essere ammesso alla prove per testimoni sulle circostanze indicate in premessa/in punto di fatto, dal numero .... al numero ...., preceduti dalla locuzione “Vero è che”, ovvero sulle seguenti circostanze (formulare i capi di prova preceduti dalla locuzione “Vero che .... ”) .... A tal fine si indicano come testimoni i Sig.ri: 1) Sig. ...., residente in ....; 2) Sig. ...., residente in ....

Si allegano i documenti 1), 2), 3), 4) e 5) indicati nella narrativa del presente atto.

Ai sensi del d.P.R. n. 115/2002 e successive modificazioni, si dichiara che il valore del presente procedimento è pari ad Euro .... e, pertanto, all'atto di iscrizione a ruolo della causa, viene versato un contributo unificato pari ad Euro ....

Luogo e data ....

Firma dell'Avv. ....

PROCURA

[1] La competenza si appartiene al Tribunale ordinario: si segnala tra le altre in argomento Cass. VI, n. 22584/2015, secondo cui “ non sussiste la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa sia quando la domanda miri ad accertare una ipotesi di concorrenza sleale cd. pura (nella quale la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, che esige la valutazione “incidenter tantum” delle privative in gioco), sia nel caso in cui la richiesta risarcitoria sia proposta in ragione od in connessione ad una ipotesi di abuso di dipendenza economica di un'impresa da un'altra, ai sensi dell'art. 9 della l. n. 198/1998, trattandosi di ipotesi - di natura puramente contrattuale - estranea al concetto di abuso di posizione dominante, di cui all'art. 3 della l. n. 287/1990 e, quindi, priva di rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato” (vedasi, altresì, la recente Cass. VI, ord. n. 17161/2019 secondo cui “in base all'art. 134, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 30 del 2005 (cd. "codice della proprietà industriale"), rientrano nella competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 168 del 2003, le domande di repressione di atti di concorrenza sleale o di risarcimento dei danni che si fondano su comportamenti che interferiscono con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale cd. "interferente"), avendo riguardo alla prospettazione dei fatti da parte dell'attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza. Di converso, esulano dalla competenza delle sezioni specializzate le domande fondate su atti di concorrenza sleale cd. "pura", in cui la lesione dei diritti di esclusiva non sia elemento costitutivo dell'illecito concorrenziale”.

[2] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il codice fiscale, oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., dalla l. n. 111/2011).

[3] L'indicazione del codice fiscale dell'avvocato è prevista, oltre che dall'art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv. con modif. dalla l. n. 111/2011, dall'art. 125, comma 1, c.p.c., come modificato dall'art. 4, comma 8, d.l. 193/2009 conv. con modif. dalla l. n. 24/2010. A partire dal 18 agosto 2014, gli atti di parte, redatti dagli avvocati, che introducono il giudizio o una fase giudiziale, non devono più contenere l'indicazione dell'indirizzo di PEC del difensore: v. art. 125 c.p.c. e art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014 conv., con modif., dalla l. n. 114/2014.

[4] L'indicazione del numero di fax dell'avvocato è prevista dall'art. 125 c.p.c. e dall'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. n. 115/2002, modificati dall'art. 45-bis d.l. n. 90/2014, conv. con modif., dalla l. n. 114/2014. Ai sensi dell'art. 13, comma 3-bis, d.P.R. cit., «Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ...ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale .... il contributo unificato è aumentato della metà».

Commento

Il quadro generale: nozione, natura giuridica, funzione

Gli atti di concorrenza sleale, secondo la prevalente dottrina, rientrano nella categoria degli atti illeciti, pur essendo soggetti ad una disciplina speciale rispetto a quella di cui alla clausola generale dell'art. 2043 c.c. (che resta applicabile nei limiti in cui non sia specificamente derogata dalle norme di cui agli artt. 2598 e ss. c.c.); secondo altra opinione, l'atto di concorrenza, non presupponendo né il danno effettivo, né il dolo o la colpa, avrebbe natura diversa ed autonoma dal fatto illecito (in tal senso anche parte della giurisprudenza meno recente, v. Cass. I, n. 2634/1983).

La differenza tra concorrenza lecita e concorrenza sleale è data non dallo scopo perseguito, che di solito è identico, ma dalla natura dei mezzi adoperati, che contribuiscono a qualificare un atto come di concorrenza sleale: la concorrenza sleale deve consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizia e di apprezzamenti sui prodotti e sull'attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale. L'illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né consistere nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, atteso che il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle regole legali della concorrenza (v. Cass. I, n. 6887/1996).

La disciplina della concorrenza sleale (specie con riguardo alla repressione degli atti di confusione) svolge una funzione integrativa rispetto alla tutela accordata all'imprenditore dalle norme che disciplinano i segni distintivi e le invenzioni industriali (v. formula su risarcimento del danno da lesione della proprietà intellettuale ed industriale). Secondo l'orientamento giurisprudenziale pressoché costante, l'azione di violazione del marchio mediante usurpazione o contraffazione ha natura reale (azione di rivendica) ed è posta a tutela del diritto all'uso esclusivo del segno distintivo (diritto assoluto su bene immateriale), mentre l'azione di concorrenza sleale avrebbe carattere personale, potendo essere promossa anche congiuntamente alla prima ove l'attività illecita consistente nella contraffazione del marchio abbia creato confondibilità tra i rispettivi prodotti (Cass. I, n. 16647/2008) invero, la tutela prevista dall'art. 2598 n. 1 concorre con quella di cui agli artt. 2564 e 2567 c.c. integrandola specialmente sul piano risarcitorio (v. Cass. I, n. 10728/1994).

Giova segnalare che, prima dell'entrata in vigore della l. n. 297/1990, le norme a presidio della lealtà concorrenziale venivano invocate al fine di supplire alla carenza di una disciplina nazionale antitrust; dopo l'entrata in vigore della predetta legge, secondo una certa impostazione dottrinaria, la disciplina antitrust assorbirebbe quella degli articoli n esame, escludendo la proponibilità di azioni di concorrenza sleale per le fattispecie ricadenti nell'ambito di applicazione della legge del 1990 (per approfondimenti v. formula su risarcimento del danno da illecito antitrust).

Presupposti e categorie; atti di concorrenza sleale tipici ed atipici

Ai fini della configurabilità di un atto di concorrenza sleale deve ricorrere una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, nonché l'idoneità della condotta di uno dei concorrenti ad arrecare pregiudizio all'altro, pur in assenza di un danno attuale (così v. Cass. I, n. 17144/2009). Ne deriva che un atto di concorrenza sleale ricorre solo laddove entrambi i soggetti, attivo e passivo dell'illecito, rivestano la qualifica di imprenditore e sempre che vi sia l'astratta possibilità di una clientela comune (ad integrare astrattamente la fattispecie è sufficiente il contemporaneo esercizio da parte di più imprenditori di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale potenzialmente comune; v. Cass. I, n. 13882/2001). la sussistenza della comunanza di clientela va valutata anche in prospettiva potenziale, dovendosi in particolare esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi sul piano merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti ovvero di prodotti affini o succedanei rispetti a quelli attualmente offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. La disciplina della concorrenza sleale riguarda sì soltanto imprenditori, ma non necessariamente operanti sullo stesso livello economico o esercenti la stessa attività, essendo sufficiente l'incidenza delle rispettive attività sulla medesima categoria di consumatori (Cass. I, n. 4739/2012).

Secondo un orientamento consolidato, l'imprenditore risponde degli atti di concorrenza sleale compiuti da un terzo nel suo interesse: il collegamento tra il terzo e l'imprenditore, necessario affinché terzo ed imprenditore rispondano in solido per l'illecito, può essere istituito direttamente allo scopo di realizzare il comportamento illecito (è il caso del terzo che operi su istigazione o specifico incarico dell'imprenditore), può consistere in un rapporto in forza del quale il terzo è stabilmente inserito nell'organizzazione economica dell'impresa concorrente, ovvero può trattarsi di rapporti della più diversa natura che vincolano o semplicemente legittimano il terzo a compiere atti tesi a procurare vantaggio ad una determinata impresa (v. Cass. III, n. 6117/2006).

Gli atti di concorrenza sleale si distinguono in tre categorie: atti di confusione, atti di denigrazione, altri atti contrari alla correttezza professionale; le prime due categorie comprendono gli atti tipici di concorrenza sleale, la cui idoneità a danneggiare l'altrui azienda è presunta, gli altri atti invece sono “atipici” e possono essere repressi soltanto se sia data la prova della loro idoneità a danneggiare l'altrui azienda (è il caso di evidenziare che, secondo la prevalente giurisprudenza, il n. 3 dell'art. 2598 c.c. contempla fattispecie diverse da quelle di cui ai nn. 1 e 2: v. Cass. I, n. 17699/2005).

1. Gli atti di confusione (uso di segni distintivi altrui e imitazione servile).

Integrano atti di concorrenza sleale i comportamenti che determinano, per dolo o colpa, la confusione tra prodotti similari o alternativi di imprese diverse con l'effetto di deviare la clientela dalla richiesta e dall'utilizzazione di determinati prodotti in competizione con altri sul mercato. La norma in commento fissa un duplice requisito affinché possa considerarsi sleale l'uso di nomi o segni già impiegati dal concorrente: a) detti nomi devono avere funzione distintiva nell'uso fattone dal primo imprenditore, ovvero ne devono contraddistinguere la presenza sul mercato; b) l'uso con pari funzione dei medesimi nomi o segni da parte dell'imprenditore concorrente deve presentare idoneità a creare confusione tra le attività ed i relativi produttori, ossia a determinare equivoci tra compratori di medie capacità percettive circa la riferibilità dei prodotti all'uno o all'altra impresa (Cass. I, n. 1731/1990).

Integra imitazione servile il comportamento dell'imprenditore che imiti un prodotto la cui forma abbia una valenza individualizzante e distintiva, tale da renderlo originale e così da creare confusione con quello messo in commercio dal concorrente (così v. Cass. I, n. 13918/1999). La tutela contro l'imitazione servile concerne solo le forme arbitrarie e capricciose e non anche quelle che, pur dotate di capacità distintiva, abbiano al contempo carattere funzionale sotto il profilo tecnico (tra le molte v. Cass. I, n. 3967/2004; Cass. I, n. 2578/1998). In particolare, il giudizio di confondibilità va riferito alle doti di competenza ed avvedutezza della clientela cui il prodotto è destinato (così v. App. Milano 16 gennaio 1981). Quanto al regime probatorio, chi agisce ha l'onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa e, pertanto, la priorità della forma che si assume imitata ed il carattere distintivo, non funzionale della stessa. Costituisce atto di concorrenza sleale anche la semplice offerta in vendita e reclamizzazione del prodotto che costituisca imitazione servile di quello altrui; inoltre, la mancata brevettazione, o il suo esaurirsi non fa venir meno il divieto di imitazione servile delle caratteristiche esteriori che servono a differenziare il prodotto di fronte alla clientela cui è destinato, mentre abilita i terzi alla riproduzione degli elementi intrinseci e sostanziali del prodotto altrui (App. Milano 16 gennaio 1981 cit.). Sulla distinzione di tutela tra imitazione servile e contraffazione di brevetto, v. Cass. I, n. 19174/2015 per la quale “mentre l' imitazione servile delle caratteristiche di un prodotto altrui integra gli estremi della concorrenza sleale, a prescindere dall'esistenza di una tutela brevettuale del prodotto imitato, la contraffazione del brevetto non è configurabile in mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa ove l'attività del contraffattore preesista al brevetto stesso”. In ordine alla necessità di provare il danno laddove il prodotto sia anche oggetto di brevetto, v. Cass. I, n. 1000/2013 secondo la quale il danno cagionato dalla commercializzazione in tale ipotesi non è “in re ipsa”, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell'illecito di violazione di privativa rispetto alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno.

Quanto alla tutela esperibile dall'imprenditore leso dalla condotta illecita altrui, consistente nell'appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l'uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall'imprenditore concorrente, sono destinate a concorrere un'azione reale, a tutela dei diritti di esclusiva sul marchio ed un'azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità tra i rispettivi prodotti (in tal senso tra le altre Cass. I, n. 2473/2019).

2. Gli atti di denigrazione e di appropriazione di pregi. Casistica.

In tema di atti di concorrenza sleale, l'art. 2598, n. 3, c.c., costituisce una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente. (Cass. II, n. 18034/2022, ove la la S.C. ha ritenuto illecita l'attività di sviamento della clientela posta in essere da ex dipendenti che, una volta creato un proprio sito per la prestazione di servizi analoghi a quelli forniti mentre il rapporto di lavoro era ancora in corso, dopo aver dato le proprie dimissioni avevano contattato i clienti dell'ex datore di lavoro proponendo offerte personalizzate e sfruttando il vantaggio competitivo che derivava dalla disponibilità delle informazioni carpite alla impresa di provenienza, pur se queste ultime non erano riconducibili alla nozione di "segreto industriale").

La condotta di "appropriazione di pregi", contemplata dall'art. 2598, comma 1, n. 2, c.c., è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l'attitudine di fare indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo (Cass. I, n. 19954/2021).

Non costituisce atto di concorrenza sleale da parte dell'imprenditore il porre in vendita il prodotto altrui con alterazioni o fori nelle confezioni, con conseguenze negative sull'opinione che, del prodotto, si formano i consumatori e sulla reputazione dell'impresa produttrice (Cass. I, n. 4755/1986).

Costituisce atto di concorrenza sleale l'atto di diffida di chi infondatamente afferma di essere titolare di un diritto di brevetto e che la diffusione del prodotto ad opera del diffidato lede tale diritto; altrettanto dicasi per la pubblicazione di atti o provvedimenti giudiziari contenenti inibitorie, qualora la domanda giudiziale venga alla fine rigettata (Trib. Milano 4 luglio 1985). Costituisce atto di concorrenza sleale anche la comunicazione dell'esito favorevole di un procedimento giudiziario, non accompagnata dalla precisazione della natura cautelare del provvedimento ottenuto e della subordinazione della sua efficacia alla prestazione di una cauzione (Trib. Verona 14 giugno 1997). Fra gli atti di denigrazione non rientra, la pubblicità iperbolica del proprio prodotto; rientrano, invece, le notizie vere diffuse in modo subdolo o tendenzioso o comunque scorretto tale da produrre discredito per l'attività del concorrente (App. Firenze 22 giugno 1983). Per la pubblicità ingannevole cfr. formula su pratiche commerciali scorrette.

Gli atti di appropriazione di pregi si distinguono da quelli di confusione in quanto i primi tendono ad ingenerare la convinzione che i prodotti di un'impresa abbiano le stesse qualità di quelli di un'altra, mentre i secondi tendono a confondere l'identità tra i prodotti delle due imprese (Cass. I, n. 1310/1986).

In particolare, lo storno di dipendenti

Tra le fattispecie riconducibili alla categoria di cui all'art. 2598 n. 3, si rivela di particolare interesse quella dello storno di dipendenti ovvero di altri ausiliari dell'imprenditore.

Lo storno di dipendenti o di altri ausiliari e collaboratori di impresa concorrente non costituisce, di per sé, un atto di concorrenza sleale vietato dall'ordinamento. Lo storno (lecito) è espressione dei principi della libera circolazione del lavoro (art. 35 Cost.) e della libertà d'iniziativa economica (art. 41 Cost.): invero, da una parte, vi è l'interesse del lavoratore a migliorare la propria situazione lavorativa (in termini di retribuzione e condizioni di lavoro), dall'altro, l'interesse dell'imprenditore, ad incrementare il profitto, rafforzando la propria posizione concorrenziale sul mercato. In tal senso, non si ritiene generalmente che la mera offerta di migliori condizioni di lavoro o di remunerazioni ai dipendenti dell'imprenditore concorrente, ovvero la semplice constatazione del passaggio di dipendenti o l'instaurazione di una trattativa con i dipendenti di imprese concorrenti, costituiscano atti di concorrenza sleale.

Appare, piuttosto, evidente l'esigenza di bilanciare gli opposti interessi in gioco: quello dell'imprenditore, al quale il dipendente/collaboratore viene sottratto, a mantenere l'integrità della propria azienda; quello del lavoratore a ricercare impieghi più soddisfacenti; quello dell'imprenditore stornante a intraprendere o migliorare la propria attività in concorrenza; bilanciamento che si ottiene attraverso la subordinazione dello storno di dipendenti ad alcuni limiti.

I criteri giurisprudenziali per identificare lo storno illecito sono diversamente individuati a seconda che si aderisca all'orientamento cd. oggettivo, a quello cd. finalistico o a quello finalistico-oggettivo.

L'orientamento oggettivo (o oggettivistico), il più risalente ma avallato, anche di recente dalla S.C., subordina l'illiceità dello storno alla verifica (oggettiva) delle concrete modalità di condotta contrarie alle regole sulla concorrenza tra imprenditori. Il parametro utilizzato dai sostenitori di questa teoria s'incentra, infatti, sull'impiego di mezzi subdoli, sleali, menzogneri o scorretti. L'attenzione è, pertanto, diretta sulle sole concrete modalità dell'attività stornante, prescindendosi dall'elemento soggettivo, ossia dagli scopi che sorreggono gli atti anticoncorrenziali (v. Cass. VI, n. 2439/2012). Secondo quanto afferma certa giurisprudenza, “l'elemento soggettivo non è suscettibile di colorare di illiceità un atto che oggettivamente non sia ingiusto”, come anche il numero di dipendenti stornati non è sufficiente per configurare un'ipotesi di storno illecito (Trib. Milano, 20 novembre 1969). Tratti caratterizzanti dello storno illecito non sono né la dannosità della condotta (attributo connaturato ad ogni atto concorrenziale), né l'intenzione di distruggere l'organizzazione dell'impresa concorrente (c.d. animus nocendi): non costituirebbero parametri idonei per l'identificazione dello storno nemmeno il numero di dipendenti o la loro particolare qualificazione nell'impresa concorrente, giacché l'accaparramento di soggetti dotati di maggiore professionalità ed esperienza fa parte della concorrenza fra imprese. Le modalità scorrette che rendono illecito uno storno di dipendenti sarebbero, invece: la denigrazione del datore di lavoro, la diffusione di notizie allarmanti sulla situazione dell'impresa, l'utilizzo di ex dipendenti o di infiltrati nell'azienda concorrente per la propaganda, l'assunzione così massiccia da assumere carattere oggettivamente emulativo, la repentinità o la segretezza dell'operazione, la promessa di sistemare le pendenze debitorie verso il precedente datore di lavoro, l'incitamento alla violazione degli obblighi verso quest'ultimo ovvero l'assunzione del dipendente per carpire i segreti professionali o industriali o il know how del concorrente (v. Cass., n. 2439/2012 cit.)

L'orientamento finalistico (o teleologico) pone al centro della condotta stornante l' animus nocendi, ossia la specifica intenzione dell'imprenditore stornante di causare, col suo comportamento, la disgregazione o comunque il danneggiamento dell'impresa altrui. Secondo questa impostazione, sostenuta da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito (Cass. I, n. 6682/1987) e da parte della dottrina, non è “sufficiente la mera consapevolezza del soggetto agente dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altrui impresa”, occorrendo anche quello specifico intento di arrecare un pregiudizio all'organizzazione o alla struttura produttiva dell'impresa concorrente. Si parla di “intento di danneggiare l'organizzazione e la struttura produttiva” (Cass. I, n. 6928/1983), di condotta avente “lo scopo di disgregare l'organizzazione rivale [...], cioè dallo specifico intento di danneggiare la struttura produttiva del concorrente” (Cass. I, n. 9827/1994) di “deliberato proposito di disgregare e disorganizzare l'azienda del concorrente” (Trib. Bologna 23 luglio 1980).

L'ultimo orientamento unisce gli elementi oggettivo e finalistico delle due precedenti teorie e ne definisce la interazione. Secondo la Corte “all'animus nocendi non può essere assegnato altro ruolo fuorché quello di individuare (in relazione alle circostanze del caso e, beninteso, su un piano meramente presuntivo), il punto di emersione di detta (obiettiva) difformità: nel senso, cioè, che lo storno di dipendenti in tanto assurge ad atto di concorrenza sleale, ossia difforme dai principi della correttezza professionale, in quanto sia posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare se non presupponendo nell'autore un animus nocendi, ossia appunto l'intenzione di disgregare e disorganizzare l'azienda del concorrente” (Cass. I, n. 125/1974). In altre parole, per la configurazione di uno storno illecito di dipendenti, non si può prescindere dall'animus nocendi dell'imprenditore. Tuttavia, a causa delle difficoltà probatorie che investono l'accertamento di uno stato psicologico, la giurisprudenza ha inteso ricavare questo elemento soggettivo in via presuntiva dalle circostanze obiettive in cui matura lo storno, ossia quei sintomi dell'intenzione di danneggiare l'impresa concorrente. Le singole condotte da cui la giurisprudenza desume lo storno illecito sono le seguenti: 1) il numero di dipendenti stornati e la brevità del lasso temporale negli episodi di storno. Si leggono diverse sentenze, sia di legittimità che di merito, in cui i giudici attribuiscono rilevanza alla quantità di dipendenti che sono oggetto dell'attività di storno di un imprenditore (Cass. I, n. 2996/1980 secondo cui “il reclutamento di personale dipendente dell'imprenditore concorrente si connota di intenzionale slealtà ogni volta che venga attuato con modalità abnormi (per numero e/o qualità dei prestatori d'opera distolti e assunti) sì da superare i limiti di tollerabilità del reclutamento medesimo che, nella sua normale estrinsecazione, è del tutto lecito”. Talvolta l'apprezzamento del numero di dipendenti in concreto stornati è svolto considerando anche quanti dipendenti dell'impresa concorrente siano stati precedentemente contattati: ”[al fine di tale valutazione [sulla violazione dei principi di correttezza professionale, NdA] assumono rilevanza: il numero degli agenti contattati e di quelli effettivamente stornati” (Cass. I, n. 13658/2004). La maggior parte delle sentenze però valuta il numero dei dipendenti (o altri ausiliari) stornati in relazione al numero complessivo del personale addetto a quel determinato settore ovvero all'intera impresa, in tal modo relativizzando la portata illecita della condotta anticoncorrenziale. In tal senso v. Trib. Milano 13 luglio 2004 secondo cui nella concorrenza sleale per storno dei dipendenti, il mero dato numerico dei dipendenti che si assumono stornati deve essere valutato in rapporto al numero complessivo dei dipendenti dell'impresa asseritamente stornata e al numero complessivo dei dimissionari della stessa, così da escludere l'illiceità dello storno di un modesto numero di dipendenti rispetto al numero complessivo di dipendenti dell'impresa stessa (nella fattispecie veniva dedotto lo storno di circa 30 dipendenti su un totale di 80 dimissionari - rappresentanti tra 1/3 e 1/4 del totale. In particolare i giudici riconoscono che l'illiceità dello storno deve ricavarsi dal fatto che la quantità di soggetti stornati comporta (o è idonea a comportare): “una paralisi dell'attività aziendale, come appunto avviene quando è stornata la totalità dei collaboratori ovvero il suo nucleo fondamentale” o un “certo dissesto organizzativo” (App. Milano, 9 ottobre 1998). In sostanza, ciò che viene solitamente richiesto è che lo storno non comporti un danno superiore al normale pregiudizio che ogni impresa può subire in caso di perdita di dipendenti che scelgano di lavorare presso un'altra impresa. Quanto alla rilevanza del lasso temporale entro cui avvengono gli episodi di storno (ovvero tra le dimissioni presentate dai dipendenti stornati al proprio datore di lavoro e la conseguente assunzione nell'impresa stornante), non esiste in giurisprudenza un riferimento temporale fisso entro cui devono avvenire le dimissioni di un certo numero di soggetti affinché si possa parlare di storno illecito. Invero, la brevità del lasso temporale è valutata in relazione alle circostanze del caso concreto; conseguentemente, gli episodi di storno possono avvenire nel giro di: un giorno (Trib. Bologna 21 ottobre 2005), due giorni (Trib. Milano 24 marzo 2006), o un mese (Trib. Torino 8 settembre 2005) o di soli due momenti temporali (Trib. Milano 8 maggio 2002). Non è da trascurare il dato che l'intervallo temporale acquista rilevanza anche con riguardo al numero di soggetti stornati ed alla loro importanza rivestita all'interno dell'impresa vittima dello storno; 2) l'essenzialità o l'utilità del dipendente stornato e la sua non facile e rapida sostituibilità. Osservando, dapprima, l'atteggiamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione, si nota che la particolare qualità di un dipendente è stata assunta ad elemento sintomatico di uno storno illecito sin dalle più risalenti pronunce. Così, ad esempio, la sentenza della I sez. n. 3763/1968, per cui la configurazione dell'atto di concorrenza sleale “è invero necessario non solo che si sottraggano al concorrente elementi indispensabili o quanto meno utili al buon andamento dell'azienda ma altresì che tale illecita sottrazione venga effettuata intenzionalmente, e cioè col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno dell'azienda altrui”. Il dipendente (o collaboratore) stornato deve essere particolarmente qualificato in modo da incidere positivamente sulla vita dell'impresa presso cui lavora. Questa particolare qualificazione ed utilità sono da intendere in senso relativo, ossia in rapporto al concreto impiego del dipendente nell'impresa (Cass. I, n. 5718/1996). Talune pronunce richiedono che il dipendente sia “ essenziale” nell'organizzazione produttiva (Trib. Milano 3 novembre 2004), altre pronunce invece si accontentano che questo sia “quantomeno utile al buon andamento dell'impresa” (App. Milano 21 gennaio 1997). In certe occasioni, i giudici chiariscono che il dipendente stornato con particolari qualità professionali deve essere difficilmente e/o non rapidamente sostituibile, appunto per la posizione da questo rivestita, potendosi creare in tal modo un problema organizzativo per l'impresa che subisce lo storno. In questo modo infatti, l'imprenditore che subisce l'atto illecito perderebbe competitività sul mercato, dovendo rimpiazzare il prezioso dipendente o collaboratore con un dispendio di tempo e di risorse, mentre l'imprenditore stornante acquisirebbe un vantaggio concorrenziale avvalendosi del dipendente stornato particolarmente qualificato (Trib. Milano 4 novembre 2005). Di converso, in assenza di una particolare qualificazione dei soggetti stornati l'impresa stornante non acquisirebbe un considerevole vantaggio concorrenziale a scapito della concorrente; 3) l'acquisto del c.d. know how e dei segreti della concorrente con conseguente vanificazione dei suoi investimenti. L'assunzione di un (ex) dipendente altrui o la ricerca della sua collaborazione al solo fine d'impadronirsi del know how dell'impresa concorrente di provenienza (acquisendo, in tal modo, un rapido vantaggio concorrenziale) integra la fattispecie di storno illecito. “Il nucleo dell'illiceità dello storno di dipendenti è costituito, infatti, proprio dalla volontà di utilizzare le conoscenze tecniche acquisite dai dipendenti stornati presso il precedente datore di lavoro e dall'intento dell'agente di accedere al mercato prima di quanto gli sarebbe stato possibile in base ai propri studi e ricerche” (Cass., n. 6079/1996). Vale evidenziare che l'assunzione di dipendenti allo scopo di sfruttare le conoscenze riservate dell'impresa di provenienza è una circostanza considerata non solamente dai fautori dell'indirizzo intermedio (come sintomo di un animus nocendi sottostante), bensì anche da coloro che propendono per la teoria oggettiva, trattandosi di una modalità stornante contraria ai principi di correttezza professionale. Anzitutto è necessario chiarire il significato ed il contenuto di queste “conoscenze” o “ know how” la cui acquisizione è vietata. Generalmente la giurisprudenza fa riferimento alle conoscenze, notizie o informazioni tecniche o commerciali acquisite ed usate presso l'impresa concorrente, spesso di carattere riservato o segreto: in particolare, i giudici richiamano gli “elenchi ”ragionati” dei clienti, con le loro caratteristiche, i servizi di particolare interesse per ognuno, ecc.” (Trib. Bologna 21 ottobre 2005), le “informazioni sulla clientela, sulle condizioni contrattuali, su progetti di macchinari, da ritenersi riservate” (Trib. Verona 15 ottobre 2006). Risulta, tuttavia, opportuno notare che la giurisprudenza effettua un'importante distinzione sul punto. Non qualsiasi conoscenza di cui è portatore l' ex dipendente è idonea ad assurgere a circostanza da cui si possa presumere l' animus nocendi dell'imprenditore stornante. Solo quelle cognizioni, notizie ed informazioni che costituiscono i “ valori aziendali” dell'impresa vittima di uno storno sono rilevanti; non così quelle conoscenze acquisite nel corso ed a causa del rapporto di lavoro, in quanto divenute ormai parte della personalità del lavoratore. In altri termini, quel know how costituito essenzialmente da segreti aziendali, notizie riservate e costituenti patrimonio di un'impresa, è un elemento da cui evincere uno storno illecito. Non assumono invece rilievo in tal senso il “bagaglio professionale”, le capacità professionali non distinguibili dalla persona del lavoratore. Sulla base di tali elementi, la giurisprudenza giunge alla conclusione per cui l'assunzione di un dipendente altrui o la ricerca della sua collaborazione, non tanto per beneficiare delle sue particolari capacità professionali, quanto per possedere i “ valori aziendali” dell'impresa concorrente di cui egli è portatore, integra senz'altro un'ipotesi di storno illecito di dipendenti (Cass., n. 9386/2012 cit.). Secondo la citata giurisprudenza il conseguimento di quelle conoscenze già maturate e possedute dall'impresa concorrente consente all'imprenditore stornante di ottenere un vantaggio concorrenziale. Infatti, attraverso un simile comportamento (che la giurisprudenza definisce “parassitario”) l'imprenditore, da un lato, risparmia il costo dell'investimento nella ricerca e nella formazione dei propri dipendenti e, dall'altro lato, priva il concorrente del frutto del suo investimento, alterando significativamente la correttezza della competizione (Cass., n. 9386/2012 cit.); 4) la denigrazione del datore di lavoro e la diffusione di notizie allarmanti; 5) altre modalità ritenute scorrette. Oltre ai parametri sinora richiamati ed illustrati, la giurisprudenza evoca ulteriori circostanze oggettive da cui ricavare presuntivamente l' animus nocendi di una condotta stornante. Da tali ulteriori circostanze da sole considerate non viene fatta discendere l'illiceità di uno storno, ma è piuttosto dalla loro interazione che si ricava questa illiceità (anche in combinazione con i criteri precedentemente considerati). Una di queste modalità scorrette spesso richiamata dalla giurisprudenza, soprattutto di merito, riguarda il condizionamento dell'assunzione dei dipendenti alle dimissioni senza il rispetto dell'obbligo di preavviso previsto nel contratto di lavoro o di collaborazione (Trib. Bologna 14 giugno 2004). Il mancato rispetto dell'obbligo di preavviso è considerato dai giudici quale elemento da cui presumere determinati comportamenti scorretti in capo all'imprenditore supposto stornante. Ad esempio, il giudice potrebbe inferire l'intervento del nuovo datore di lavoro a copertura dell'eventuale sanzione che scatta per il dipendente (o ausiliario) che violi siffatto obbligo. In un altro caso, il giudice inferisce l'animus nocendi dell'imprenditore dalle pressioni che quest'ultimo ha esercitato sul dipendente altrui, ed in particolare dall'aver condizionato l'assunzione del dipendente al recesso senza preavviso dal rapporto di lavoro col precedente datore (Trib. Milano 24 marzo 2006). In ogni caso, il giudice, nel compiere la sua valutazione, sarà tenuto a considerare ampiamente tutte le circostanze che rilevano nella vicenda specifica, non soffermandosi solamente a verificare l'integrazione dei parametri più spesso utilizzati per identificare uno storno. Vale considerare, poi, che la più recente giurisprudenza richiede “[a]i fini della sussistenza di uno storno di dipendenti in danno di una società concorrente è necessaria una particolare qualificazione del personale acquisito. In ogni caso, il fatto che l'assunzione del personale sia avvenuta sulla base di una inserzione pubblicitaria, data la pubblicità e la trasparenza della modalità, può far escludere l'illiceità della condotta” (Cass. I, n. 2439/2012).

Quanto sinora argomentato e riferito prevalentemente allo storno di dipendenti è ripetuto dalla giurisprudenza con riguardo allo storno di altri ausiliari o collaboratore dell'imprenditore: la giurisprudenza maggioritaria ammette, infatti, la possibilità che l'atto di concorrenza sleale si diriga non solamente contro i dipendenti di un'impresa, bensì anche nei confronti dei collaboratori od altri ausiliari dell'imprenditore (Cass. n. 13658/2004, Cass. I n. 6079/1996, Cass. I n. 9827/1994).

Di recente, la S.C. è tornata ad occuparsi di fattispecie di storno di dipendenti e/o collaboratori precisando che l'attività distrattiva delle risorse di personale dell'imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l'efficienza dell'organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall'una all'altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un'attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell'ambito dell'organigramma dell'impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all'impresa concorrente (così Cass. I, n. 3865/2020).

Il risarcimento del danno

Le sanzioni previste dall'art. 2600 c.c. presuppongono la ricorrenza del dolo o della colpa e consistono nel risarcimento dei danni e nella pubblicazione della sentenza. È, in particolare, ammissibile la sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni qualora sia stato accertato che gli atti di concorrenza siano soltanto potenzialmente idonei a produrre conseguenze dannose (Cass. I, n. 2360/1972). Il danno, una volta accertato, potrà essere liquidato in via equitativa. Il terzo comma della norma in esame prevede un'inversione dell'onere della prova con riguardo all'elemento psicologico e non, invece con riferimento alla sussistenza degli atti di concorrenza ed alla slealtà della concorrenza medesima. La prova contraria idonea a vincere la presunzione di colpa deve essere particolarmente rigorosa: in particolare, non escludono la colpa né il preventivo accertamento della inesistenza di marchi registrati, ditte, o denominazioni sociali, confondibili con il segno che ci si propone di usare, né il rilascio di un'autorizzazione amministrativa alla diffusione di un messaggio pubblicitario screditante (App. Firenze, 22 giugno 1983).

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