Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 1 - Oggetto della delega al Governo e procedure per l'esercizio della stessa

Fabrizio Di Marzio

Oggetto della delega al Governo e procedure per l'esercizio della stessa

 

1. Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con l'osservanza dei principi e criteri direttivi di cui alla medesima legge, uno o più decreti legislativi per la riforma organica delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e della disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla legge 27 gennaio 2012, n. 3, nonché per la revisione del sistema dei privilegi e delle garanzie.

2. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1 il Governo tiene conto della normativa dell'Unione europea e in particolare del regolamento (UE) n. 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2015, relativo alle procedure di insolvenza, della raccomandazione 2014/135/UE della Commissione, del 12 marzo 2014, nonché dei principi della model law elaborati in materia di insolvenza dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL); cura altresì il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, e adottando le opportune disposizioni transitorie.

3. I decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Essi sono successivamente trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, entro il sessantesimo giorno antecedente la scadenza del termine per l'esercizio della delega, per l'espressione dei pareri delle rispettive Commissioni parlamentari competenti per materia e per gli aspetti finanziari, da rendere entro il termine di trenta giorni, decorso inutilmente il quale i decreti possono essere comunque emanati. Il termine per l'esercizio della delega è prorogato di sessanta giorni quando il termine per l'espressione del parere delle Commissioni parlamentari scade nei trenta giorni antecedenti la scadenza del termine di cui al comma 1 o successivamente.

Inquadramento

In data 11 ottobre 2017, è stata approvata dal Senato  la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19 ottobre 2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254.

I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa.

Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto.

Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma.

Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni.

In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa.

In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo.

Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine).

Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente.

Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione.

Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione.

Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182- septies l.fall.).

Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005).

Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi).

Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario.

Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle  procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge.

In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale).

 

Il diritto della crisi e dell’insolvenza come ‘diritto speciale’.

Si dice che il diritto della crisi d'impresa sia un diritto ‘speciale'.

Il riferimento alla specialità acquista senso rapportando questo settore al diritto privato generale, quale contesto più ampio nel quale si trova ad essere collocato secondo il classico rapporto che lega specie a genere.

La poderosa attività legislativa che investe incessantemente il grande corpo del diritto privato ha favorito la tipizzazione di dettagli un tempo impensati oppure lasciati alle puntualizzazioni della giurisprudenza, favorendo per conseguenza il delinearsi di settori fortemente caratterizzati da sistemi disciplinari peculiari, utili a separarli dal contesto più generale del diritto privato.

Anche l'affinarsi della riflessione teorica e delle prassi operative hanno giocato un ruolo fondamentale nella edificazione dei settori specifici del diritto privato, noti come diritti speciali.

Nessuno oggi potrebbe ragionevolmente negare l'esistenza dei diritti speciali. Ciò invece di cui si discute è il rapporto che comunque continua a legare diritti speciali e diritto privato generale. A fronte di visioni maggiormente radicate nella tradizione, e rispettose dei canoni classici di lettura del rapporto tra genere e specie - per cui la autonomia dei diritti speciali non si spinge fino alla negazione del rapporto di dipendenza razionale con il diritto privato generale - si pongono letture diverse volte ad estremizzare il concetto di autonomia dei diritti speciali, presentati come sistemi autonomi tendenzialmente dotati di tutto quanto occorre per il loro funzionamento.

La questione è talmente avvertita da riproporsi all'interno dello stesso diritto privato generale, nella dialettica che si instaura tra parte generale e parti speciali (è sufficiente ricordare il dibattito che, a tal riguardo, si svolge in materia contrattuale).

Le conseguenze di certe posizioni teoriche si manifestano negativamente nella prassi. Chi infatti opera nei diritti speciali confida eccessivamente nel carattere di autonomia del singolo microsistema trascurando di considerarlo all'interno del sistema più generale in cui trova ragione.

Credo che l'esempio più eclatante sia dato proprio dal diritto della crisi d'impresa.

Del resto la materia si presta all'effetto, essendo costituita da una molteplice intersezione di elementi di natura civilistica, processualistica, societaria. Assistiamo così a soluzioni interpretative extravaganti. Per limitare gli esempi ai casi più significativi, ricordo le soluzioni interpretative sugli effetti verso i terzi degli accordi contrattuali, svolte in barba alla norma di principio costituita dall'art. 1372 c.c., e le numerosissime proposte in tema di trattamento dei creditori nei concordati: elaborate da dottrina e giurisprudenza con disattenzione alla regola fondamentale della parità di trattamento di tutti i creditori, fatte salve le cause legittime di prelazione, espressa dall'art. 2741 c.c.

Il modo in cui oggi molti pensano a questo diritto è pertanto eccessivamente disinvolto rispetto ai condizionamenti dogmatici, se così vogliamo dire, del diritto privato generale. E per parlar più francamente, disinvolto rispetto alle regole del diritto privato che, non essendo derogate dal diritto speciale, si impongono anche in tale ambito. E ciò benché molti non se ne avvedano.

Cosicché molte ricostruzioni in voga del diritto della crisi d'impresa si mostrano quasi sempre disallineate rispetto ad una coerente ricostruzione teorica.

Per conseguenza, i casi dubbi sono risolti con interpretazioni non di rado affrettate, dove spesso l'emozione vince sulla ragione.

Si giunge, per questa via, a ritenere plausibili offerte concordatarie in cui si liquida il patrimonio ma solo parzialmente, sottraendone dunque una porzione alle legittime pretese dei creditori; oppure si comprimono i diritti dei creditori prelatizi trattandoli come creditori chirografari (non rispettando cioè le prerogative connesse alla garanzia ed attribuendo a tali creditori diritto di voto).

Trascurato il metro generale per risolvere le questioni, i problemi rischiano di apparire senza soluzione.

Un diritto speciale veramente autonomo dovrebbe mostrare una certa massa critica di concetti effettivamente autonomi, originatisi e consistenti all'interno del settore di riferimento. Se così non fosse, mancherebbe una base teorica apprezzabile per poter discutere, in senso non semplicemente empirico ma impegnativamente teorico, di autonomia del diritto speciale nel senso di tenue relazione (e sostanziale irrelazione) con il diritto privato generale.

A mio modo di vedere nel diritto fallimentare non vi è neppure un concetto effettivamente autonomo. Le idee portanti, gli architravi su cui tale diritto si basa, sono tutti di importazione. Derivano cioè del diritto privato generale, sono assorbiti nel diritto autonomo e qui relativamente peculiarizzati, secondo le necessità dello specifico settore disciplinare.

Basti pensare, per l'evidenza del caso, al concetto-base del diritto fallimentare, ossia all'insolvenza. L'art. 5 l. fall. si limita a descrivere il concetto di insolvenza, secondo la concettualizzazione presupposta nel codice civile, dove i riferimenti all'insolvenza abbondano e dove quest'ultima è elemento di fattispecie delle figure raggruppabili nei cosiddetti poteri del creditore di autotutela del credito, di decisivo rilievo anche nel settore fallimentare. Come conto di esporre brevemente di seguito, aver trascurato e trascurare il chiaro cordone ombelicale che attraverso questo concetto tiene legati diritto fallimentare e diritto privato è storicamente foriero di gravissime incertezze sulla consistenza concettuale dell'insolvenza, sui confini esterni di tale stato rilevante, sui rapporti che corrono tra insolvenza e crisi di impresa nel caso in cui lo stato di impotenza a pagare colpisca non semplicemente un debitore civile bensì un imprenditore.

Questa osservazione preliminare non è stata considerata dal legislatore delegante che – come si vedrà nel corso del lavoro - sotto la spinta delle interpretazioni ora riferite, costruite su un sentimento di emergenza, ha sostanzialmente tagliato i ponti tra diritto privato generale e diritto dell'insolvenza, esponendo il diritto di settore (privo di reale autonomia dogmatica) ad una crisi di razionalità.

Adesso è il momento del legislatore delegato: che dovrà decidere in che misura considerare, a sua volta, l'indicazione di metodo esposta.

Degno di nota è che obiettivo della riforma è la ristrutturazione “organica” (per usare le parole della legge delega) della disciplina delle procedure concorsuali: la quale difficilmente può conseguirsi trascurando le strutture costitutive del diritto privato.

Uno sguardo alla raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014 (2014/135/UE)

Conviene introdurre il discorso con qualche cenno alla raccomandazione sulla armonizzazione del diritto europeo, di cui il legislatore delegato deve tenere conto secondo quanto disposto dall'art. 1, comma 2 (tralasciando invece di dire del progetto di direttiva sull'insolvenza attesa la sua natura, allo stato, di semplice programma normativo, in cui peraltro è condivisa e puntualizzata la linea di pensiero contenuta nella raccomandazione).

Nella finalità, coltivata anche in interventi precedenti, di procedere alla armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di insolvenza, si auspicano i caratteri di un futuro diritto europeo della crisi d'impresa, da replicare con varianti di portata secondaria nei diritti interni.

Gli obiettivi, dichiarati con il consueto linguaggio semplificato del legislatore comunitario, sono di consentire una efficace ristrutturazione alle “imprese sane in difficoltà finanziaria”, e di concedere una “seconda opportunità” agli “imprenditori onesti che falliscono”, con tutte le conseguenze positive che ne derivano in termini di promozione degli investimenti, dell'occupazione e di rafforzamento del mercato interno.

Il quadro è volutamente parziale. La Commissione si disinteressa delle procedure di insolvenza (incentrate sullo stato di definitiva decozione del debitore), che considera solo sotto il profilo della seconda opportunità da riservare agli imprenditori falliti. Si concentra, invece, sulla prospettiva della ristrutturazione.

Va tuttavia precisato che il provvedimento limita la propria attenzione al fenomeno della difficoltà finanziaria. Ossia, alla condizione usualmente descritta come “crisi finanziaria”, o, per usare una espressione giuridica familiare nel contesto tedesco e nel contesto italiano, come ‘pericolo di insolvenza'. Si prende di mira, pertanto, lo stadio antecedente a quello della insolvenza vera e propria, come tale definitiva ed irreversibile. Questa seconda limitazione del campo di azione si manifesta anche sotto il profilo tipologico: poiché la raccomandazione tratta esclusivamente le crisi di natura finanziaria, deve ritenersi estranea alle crisi che coinvolgono profili industriali.

Tutto ciò potrebbe giustificarsi sulla scorta di considerazioni empiriche circa la praticabilità delle soluzioni di ristrutturazione: di improbabile successo in condizioni difficili come quelle determinate da crisi di natura industriale. Genera tuttavia perplessità. Porre al centro del quadro normativo la difficoltà finanziaria ed escludere dall'intervento programmato la crisi industriale determina la conseguenza di un orizzonte eccessivamente ridotto per i nuovi diritti armonizzati. Quei diritti dovrebbero infatti essere progettati come diritti dell'insolvenza imprenditoriale; ma una simile finalità, se presa sul serio, non potrebbe perseguirsi trascurando le crisi industriali. È proprio in esse, evidentemente, che si manifestano le criticità di maggiori in tema di attività d'impresa. Cosicché lasciar fuori dall'orizzonte dei casi da sottoporre a soluzione le crisi industriali comporta – in negativo - di misconoscere in misura importante la realtà stessa dell'impresa (che non potrebbe essere esaurientemente descritta guardando esclusivamente da una angolatura di analisi finanziaria).

In positivo, la più chiara ed importante conseguenza di questo approccio (egualmente esiziale) è la sopravvalutazione del rapporto obbligatorio che lega il debitore ai propri creditori. In effetti, l'intera raccomandazione si articola nell'ambito di questa tradizionale relazione, lasciando sullo sfondo gli altri rilevanti interessi in gioco, prima fra tutti la salvaguardia dei posti di lavoro. Così la tutela dei livelli occupazionali è citata soltanto per argomentare gli effetti positivi - e riflessi - prodotti dalle ristrutturazioni su una platea di interessati diversa e più ampia di quella delimitata all'interno del rapporto obbligatorio.

La soggettivizzazione dell'attività d'impresa ottenuta per questo verso traspare negli stessi obiettivi dichiarati: la ristrutturazione efficace delle imprese sane ma in difficoltà finanziaria e la seconda opportunità agli imprenditori onesti ma sfortunati (che, se falliti, vanno riabilitati). Quest'ultimo obiettivo, di consentire nuove opportunità ai falliti, getta luce sul primo: consentire la ristrutturazione delle imprese sane. Entrambe le finalità sono codificate e sviluppate nella logica del rapporto obbligatorio: delle relazioni che il debitore (prima in crisi finanziaria, poi insolvente e fallito) instaura con i suoi creditori.

Sul versante della ristrutturazione, la raccomandazione prospetta ipotesi normative secondo il criterio della proposta di ristrutturazione formulata dal debitore ai propri creditori. Sulla scorta del modello statunitense dell'automatic stay è previsto che il debitore, conservando la direzione dell'impresa, possa avvalersi di un provvedimento del giudice di sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali e della procedura di insolvenza eventualmente richieste da taluni creditori. La tregua è funzionale alla predisposizione di un piano di ristrutturazione finanziaria teso ad evitare l'insolvenza.

Si avverte di prestare attenzione alla necessità di evitare rischi di abuso della procedura. Perciò il piano deve essere idoneo ad impedire l'insolvenza del debitore e a garantire la redditività dell'impresa. Deve essere sottoposto alla approvazione dei creditori che rappresentano la maggioranza richiesta dal diritto interno. In ogni caso, tale piano è vincolante anche per i creditori dissenzienti. Per ottenere e legittimare questo effetto, il piano deve essere sottoposto ad omologazione giudiziale.

Al giudice è riservato conseguentemente un ruolo di controllo di legalità della procedura; restano invece escluse dalla competenza giudiziaria attività di natura gestoria o amministrativa della procedura di ristrutturazione. In particolare, il giudice può nominare un mediatore per assistere debitore e creditori nei negoziati. Invece per sorvegliare l'attività del debitore e dei creditori e tutelarne i legittimi interessi (e così pure gli interessi meritevoli di tutela vantati da terzi), sempre il giudice può nominare un supervisore del negoziato.

Si raccomanda anche una efficace informazione dei creditori sui contenuti del piano, e la previsione della possibilità per costoro di opporsi alla omologazione dello stesso.

In considerazione della realtà dell'impresa, e dunque della necessità di assicurare la continuità aziendale in contesti di crisi, è prestata una qualche attenzione ai nuovi finanziamenti (intesi in senso molto ampio, essendovi compresa la vendita di determinate attività a opera del debitore e la conversione dei debiti in capitale). I nuovi finanziamenti sono raccomandati come sottratti sia ad azioni di invalidità che ad azioni revocatorie. Fatte salve le ipotesi di frode, i protagonisti di simili operazioni dovrebbero essere salvaguardati da conseguenze di natura penale.

Sul versante della liquidazione (fallimento), si raccomandano termini snelli e condizioni efficaci per la riabilitazione degli imprenditori, al fine di concedere loro una seconda opportunità di azione sul mercato (anche qui si segue un modello statunitense, il fresh start).

L'impressione che si trae dalla raccomandazione è innanzitutto sulla conformità al diritto italiano in vigore, diviso - in merito alle operazioni di ristrutturazione - tra contratti sulla crisi di impresa e concordato preventivo (risorse fondate entrambi su piani attestati di ristrutturazione), e completato da una procedura fallimentare attenta alle sorti dell'impresa (esercitabile dal curatore fallimentare in via provvisoria, o in alternativa da terzi per mezzo di contratti di affitto e di vendita) e in qualche misura anche preoccupata della esdebitazione del fallito.

Ma, proprio la riflessione sulle insufficienze del nostro diritto interno (dalle polemiche sugli abusi nei concordati alle denunce di inefficienza della legge, la cui applicazione non scongiura i dissesti e nemmeno i suicidi degli imprenditori in rovina) inducono più di qualche perplessità sulla consistenza del disegno comunitario e sulla bontà delle idee che lo sorreggono.

In linea con una tradizione vecchia di oltre settecento anni il fenomeno dell'insolvenza imprenditoriale (che colpì prima il mercante medievale, poi il commerciante borghese e infine l'imprenditore novecentesco) è disciplinato nello schema concettuale del debito: della relazione che lega indissolubilmente, a meno che intervenga l'adempimento o il perdono (l'esdebitazione), il debitore ai suoi creditori e questi a quello.

Il (macroscopico) fenomeno dell'impresa è considerato soltanto secondariamente, e sfugge in ampia misura ai nostri legislatori. La rete, fittissima e intricata, di interessi che si confrontano all'interno dell'impresa e che consentono di definire la posizione di quest'ultima nel contesto, anch'esso relazionale, del mercato, è sostanzialmente misconosciuta nel diritto attuale e resta misconosciuta nel diritto prospettico sulla crisi di impresa.

Cosicché le ristrutturazioni del debito tempestive ed efficaci si raccomandano perché, giocate nel rapporto fra debitore e creditori variamente sorvegliato da organi pubblici, possano produrre indirettamente riflessi positivi nei confronti di altri soggetti gravemente coinvolti: non ultimi i lavoratori. In tal senso resta emblematico il § 1 dell'Insolvenzordnung, che stabilisce la finalità della legislazione sull'insolvenza nella realizzazione dell'interesse dei creditori e soltanto secondariamente, e nei limiti di compatibilità con l'affermazione di tale primario interesse, nella tutela di ulteriori istanze e prerogative comunque coinvolte nell'impresa (come la salvaguardia dei livelli occupazionali).

Su queste suggestioni ha operato il legislatore delegante.

Bibliografia

Di Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017

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