Legge - 19/10/2017 - n. 155 art. 5 - Accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati di risanamento

Fabrizio Di Marzio

Accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati di risanamento

1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, al fine di incentivare gli accordi di ristrutturazione dei debiti, i piani attestati di risanamento e le convenzioni di moratoria nonché i relativi effetti, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) estendere la procedura di cui all'articolo 182-septies del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, all'accordo di ristrutturazione non liquidatorio o alla convenzione di moratoria conclusi con creditori, anche diversi da banche e intermediari finanziari, rappresentanti almeno il 75 per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee;

b) eliminare o ridurre il limite del 60 per cento dei crediti previsto nell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ove il debitore non proponga la moratoria del pagamento dei creditori estranei, di cui al primo comma del citato articolo 182-bis, né richieda le misure protettive previste dal sesto comma del medesimo articolo;

c) assimilare la disciplina delle misure protettive degli accordi di ristrutturazione dei debiti a quella prevista per la procedura di concordato preventivo, in quanto compatibile;

d) estendere gli effetti dell'accordo ai soci illimitatamente responsabili, alle medesime condizioni previste nella disciplina del concordato preventivo;

e) prevedere che il piano attestato abbia forma scritta, data certa e contenuto analitico;

f) imporre la rinnovazione delle prescritte attestazioni nel caso di successive modifiche, non marginali, dell'accordo o del piano.

Inquadramento

In data 11  ottobre 2017, è stata approvata dal Senato la legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza: l. n. 155 del 19.10.2017, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 2017, n. 254.

I principi e i criteri direttivi di cui si compone il testo normativo delineano un disegno abbastanza preciso dei cardini su cui è destinato ad articolarsi il nuovo diritto della crisi di impresa.

Il carattere dettagliato del testo giustifica il tentativo di ricostruire, sin d'ora, un quadro di insieme in cui possa essere già ricompreso il diritto che verrà posto.

Vorrei iniziare con il ribadire i limiti del diritto della crisi d'impresa, e quale avrebbe potuto essere la prospettiva della riforma.

Più volte ho sostenuto che l'insufficienza di questo diritto, per come oggi si presenta, dipende soprattutto da alcune ragioni di fondo, trascurate nei vari tentativi di ammodernamento della legislazione di settore degli ultimi dieci anni.

In primo luogo, va considerata la vetustà dell'impianto normativo del c.d. diritto comune. La legge fallimentare del 1942 (semplicemente novellata a più riprese, ma mai abrogata) risponde ad una impostazione risalente alla codificazione commerciale francese del 1807: di matrice statalista, caratterizzata da un pesante sospetto verso la figura del fallito; orientata esclusivamente all'affermazione di interessi pubblici e subordinatamente alla tutela dei creditori (specie dei creditori garantiti); scarsamente attenta alla conservazione dell'impresa.

In questa ottica furono disciplinati nelle legislazioni storiche istituti quasi dovunque abbandonati, come il concordato preventivo e il fallimento. Ossia la procedura di stigmatizzazione dell'insolvenza dell'imprenditore (il fallimento) e la procedura in prevenzione della stessa e delle gravi conseguenze personali connesse (il concordato preventivo): istituti intrinsecamente inidonei a recare un diritto effettivamente nuovo.

Parimenti, bisognerebbe seriamente considerare l'insuperata opinabilità del c.d. diritto amministrativo della crisi di impresa (liquidazioni coatta e soprattutto amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi): certamente preoccupato della salvaguardia dell'impresa, ma sottratto al controllo giudiziario e determinato non da logiche di mercato ma da preoccupazioni di natura amministrativa e politica (secondo una soluzione non riscontrabile negli ordinamenti di civiltà affine).

Nemmeno dovrebbe sottovalutarsi l'inadeguatezza degli strumenti attualmente fruibili: concordato preventivo, fallimento, amministrazione straordinaria. È sufficiente riflettere che nessuna di queste procedure è stata effettivamente pensata per regolare strategie di corporate restructuring, bensì esclusivamente per la composizione della debitoria dell'imprenditore insolvente.

Il perdurante pregiudizio verso il debitore è anche testimoniato dall'assenza – nonostante i recenti tentativi del legislatore – di efficaci strumenti di esdebitazione.

Come pure dimostra il notevole insuccesso pratico della procedura di sovraindebitamento, in assenza di strumenti legislativi idonei a stabilire un confine netto tra dolo e sfortuna, c'è spazio esclusivamente per soluzioni di compromesso, che rendono difficilmente praticabile l'obiettivo dell'esdebitazione.

Questo stato di cose impedisce di salvaguardare non soltanto la legittima aspettativa dei debitori onesti di avere una seconda occasione sul mercato; ma anche il fascio di interessi inglobati nel fenomeno della continuità aziendale. In primo luogo la salvaguardia dei posti di lavoro secondo compatibilità di mercato; inoltre, la tutela dalle ripercussioni della crisi aziendale di realtà come distretti, indotti e reti, in cui sono coinvolti i fornitori dell'impresa (privi di reale tutela nell'ordinamento italiano, dal che il fenomeno dei c.d. fallimenti a catena); infine, la tutela degli interessi dei finanziatori istituzionali secondo strategie non di mero recupero ma di sostegno a più solidi rapporti di credito (anche attraverso l'adozione di più efficaci protocolli di merito creditizio). Aspetto, quest'ultimo, fondamentale in sistemi incentrati sul finanziamento bancario alle imprese (tanto che in Francia è prevista al riguardo un'apposita procedura di insolvenza, mentre da noi vige esclusivamente la disciplina dell'art. 182 septies l.fall.).

Si imporrebbe dunque un ripensamento generale delle strutture della decisione sulla crisi d'impresa (ancora stabilite in Italia secondo il criterio della semplice alternativa tra decisione del tribunale o della p.a. e decisione dei creditori). Potrebbe allora elaborarsi una riforma organica delle procedure concorsuali in linea con le soluzioni accolte nei paesi dell'Europa continentale: attraverso il modello della procedura unica aperta a esiti di ristrutturazione o in alternativa di liquidazione (operante in Germania dal 1996), oppure attraverso la pluralità di modelli di ristrutturazione e di liquidazione a seconda della gravità della crisi aziendale (operante in Francia, compiutamente, dal 2005).

Con maggior precisione, può osservarsi che sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno della insolvenza societaria. Mentre in altre esperienze, come quella inglese, la corporate insolvency costituisce oggetto di legislazione e studio appositi, il diritto italiano non conosce, se non per semplici norme di dettaglio o di rinvio, regole sull'insolvenza societaria. Questo fatto determina evidentemente gravi difficoltà di coordinamento tra diritto fallimentare e diritto societario. A risentirne sono le possibilità di superamento della crisi: giacché la continuità aziendale presuppone la prosecuzione dell'attività societaria in armonia con le peculiarità del diritto fallimentare e attraverso una precisa disciplina di raccordo (il c.d. diritto societario della crisi).

Proseguendo su questa linea, sarebbe inoltre auspicabile considerare, per le crisi compatibili con la continuità aziendale, soluzioni operative in sistemi anglosassoni: come la figura dell'administration (istituto operante in Inghilterra), in cui l'obiettivo di corporate restructuring è perseguito secondo modelli di corporate governance: in breve, sostituendo all'organo amministrativo della società un amministratore giudiziario.

Quanto a interventi di minor raggio, sarebbero da rimeditare in radice: il sistema revocatorio (eccessivamente ridimensionato, con grave danno per la distribuzione equa delle perdite nel ceto creditorio); il sistema dei finanziamenti all'impresa in crisi (oggetto di una disciplina alquanto disorganica); il sistema dell'esdebitazione delle persone fisiche (pregiudicato dalle inefficienze delle  procedure di sovraindebitamento introdotte negli ultimi anni); il sistema dei reati fallimentari, corrispondente alla originaria struttura della legge fallimentare, ampiamente superata anche secondo la fisionomia attuale di quella legge.

In funzione preventiva, dovrebbero poi essere introdotte norme sulla responsabilità degli amministratori per violazione di doveri gestori di ristrutturazione (e non semplicemente di doveri sulla conservazione dell'integrità patrimoniale).

Insolvenza, poteri di autotutela del credito, contratto

La principale novità del decennio di riforme che ci stiamo lasciando alle spalle ha riguardato la composizione contrattuale della crisi di impresa e dell'insolvenza del debitore.

L'insolvenza non è tra le cause di invalidità del contratto ma costituisce presupposto per l'esercizio dei poter di autotutela del credito. A fronte dell'insolvenza del debitore (che, nella visione patrimonialistica propria del codice civile, ha visto ridurre la propria consistenza patrimoniale, oppure non ha fornito al creditore garanzie sufficienti) il creditore può agire in autotutela, secondo i classici strumenti previsti nel codice civile (dalla decadenza dal beneficio del termine [art. 1186] all'eccezione di insicurezza [art. 1461], alla liberazione del fideiussore [1953], ecc.). Se decide di concedere ulteriore fiducia al debitore, proseguendo nell'attività contrattuale, si espone alle conseguenze del sistema revocatorio (art. 2901 c.c. e art. 66 s. l.fall.).

Cosicché il debitore insolvente ha l'esigenza di rafforzare la fiducia del proprio creditore circa la tenuta del rapporto obbligatorio sia da un punto di vista interno (con riguardo all'adempimento dei crediti) che da un punto di vista esterno (con salvaguardia degli atti posti in essere dall'azione revocatoria esperibile dagli altri creditori). Se riesce in questa difficile impresa, scongiura l'insuccesso nel rapporto guadagnando una condizione di ulteriore permanenza sul mercato.

Tutto si gioca sul sentimento di fiducia che, messo in pericolo dalla sopravvenuta insolvenza, come può produrre l'apertura di una procedura concorsuale se non rimediato, così se viene ricostituito con sufficiente intensità, può recuperare l'imprenditore al mercato.

Il meccanismo, di matrice ordoliberale, funziona allo stesso modo in tutti i sistemi di mercato. L'inconveniente maggiore è dato dalla ricaduta irrazionale delle conseguenze positive e negative del tentativo contrattuale di superamento dell'insolvenza. Il creditore avrà avuto ragione di mantenere fiducia verso la controparte contrattuale divenuta insolvente se quest' ultima adempirà alle proprie obbligazioni e se nessun terzo creditore (o curatore fallimentare) promuoverà vittoriosamente azioni revocatorie. In breve, se il debitore avrà superato lo stato di insolvenza.

Qualora ciò non accadesse, la perdurante decozione impedirebbe il regolare adempimento e comunque cagionerebbe le azioni revocatorie a danno del creditore partecipe dell'accordo e destinatario dell'esecuzione dello stesso.

L'atteggiamento più razionale del creditore la cui partecipazione viene richiesta in contratti di risanamento, è allora di rifiutare la partecipazione, e di limitarsi ad osservare come vanno le cose. Se il debitore, coinvolgendo altri creditori, porta a compimento l'attività di ristrutturazione recuperando la solvenza, ciò avvantaggerà anche il creditore rimasto estraneo (il quale si gioverà, a sua volta, dell'adempimento). In caso contrario, per l'insuccesso della ristrutturazione e il permanere dello stato di insolvenza, il creditore rimasto estraneo potrà tutelarsi con l'esercizio delle azioni revocatorie.

Il riequilibrio del sistema richiederebbe che il creditore rimasto estraneo così come si avvantaggia dell'esito positivo della ristrutturazione, egualmente deve partecipare alle perdite determinate dall'insuccesso dell'operazione. In questo modo non sarà aprioristicamente conveniente rimanere alla finestra; il più delle volte, al contrario, converrà prendere una posizione chiara e partecipe al tentativo di ristrutturazione. 

La soluzione della esenzione dall'azione revocatoria, in caso di successivo fallimento, dei contratti e degli atti unilaterali attuativi di piani di risanamento seri e credibili (e come tali certificati da un esperto indipendente) ristabilisce la simmetria tra esternalità positive e negative.

Questo meccanismo, di notevole intelligenza, si fonda sulle dinamiche del consenso contrattuale, espressivo della fiducia di mercato. Poiché la permanenza sul mercato dipende dalla fiducia dei partner negli affari e nei contratti, favorire un ordine razionale di costi e benefici della decisione contrattuale consente una selezione ragionevole circa la permanenza degli operatori economici sul mercato. Se il debitore riesce a convincere i propri creditori della qualità del programma di ristrutturazione, ottiene perciò stesso la loro fiducia e, dunque, la loro collaborazione. In tal modo l'insolvenza viene superata. Se il debitore non riesce a recuperare la fiducia perduta, permane nell'insolvenza ed è destinato ad una procedura concorsuale.

La novità rispetto al passato non è data dall'utilizzo del contratto nelle strategie di superamento della crisi d'impresa: giacché la pratica del diritto fallimentare ha sempre fatto ricorso a questo tipo di soluzioni. La novità è invece data dalle discipline legali sopravvenute: che offrono opportunità fino a ieri sconosciute.

Per cogliere il valore della novità è bene ribadire talune considerazioni di base su cosa debba intendersi per ‘contratti', e dunque in cosa essi di distinguano dai concordati (pur usualmente ritenuti contratti).

Chiarimento preliminare. Contratti vs. concordati

Nei contratti sulla crisi d'impresa presupposto della contrattazione è l'insolvenza dell'imprenditore: ossia la incapacità di adempiere regolarmente le obbligazioni assunte (cfr. art. 5 l. fall.). Funzione della contrattazione è il superamento di questa incapacità: e dunque il recupero di solvenza. L'operazione di recupero di solvenza è detta ‘ristrutturazione dei debiti'.  In breve: funzione - o, più tradizionalmente, causa -  del contratto può essere di comporre la crisi d'impresa attraverso la ristrutturazione del debito. In questa funzione l'accordo è perseguito e concluso in figure variamente denominate, ma concernenti in ogni caso contratti sulla crisi d'impresa.

Alcune di esse, catalogabili sotto la tradizionale (ma approssimativa) etichetta di ‘concordato stragiudiziale' (alla quale è preferibile l'espressione ‘accordi stragiudiziali'), consistono in semplici contratti, stipulati dal debitore da un lato e dai creditori dall'altro e si descrivono compiutamente attraverso le regole generali del codice civile sui contratti.

Altre si qualificano per la speciale disciplina, aggiuntiva a quella codicistica sui contratti, contenuta nella legge fallimentare. Questa disciplina aggiuntiva è dettata, in primo luogo, in considerazione del programma aziendale di ristrutturazione che esprime l'esposta funzione del contratto (si tratta della figura dei piani attestati di risanamento: art. 67, comma 3, lett. d), l. fall.); essa è posta in considerazione, inoltre, della procedura omologatoria che può interessare l'accordo raggiunto tra debitore e creditori sulla base del piano aziendale (si tratta della figura degli accordi di ristrutturazione dei debiti: art. 182 bis l. fall.).

È importante avere presente che non realizzano contratti sulla crisi d'impresa i concordati (come, nella legge fallimentare, il concordato fallimentare e il concordato preventivo). I concordati, infatti, consistono non in semplici atti di autonomia privata, ma in vere e proprie procedure concorsuali, benché di natura negoziale (procedure ‘negoziali' nel senso di procedure fondate non su regole meramente pubblicistiche – come è per la procedura fallimentare – ma sopra regole di autonomia privata: articolate, nel caso, sulla deliberazione maggioritaria dei creditori relativamente alla proposta di concordato).

Dunque, pur accomunati nella matrice costitutiva rinvenibile nei princìpi e nelle regole della autonomia negoziale, ‘contratto' e ‘deliberazione' si differenziano per un elemento, estrinseco al ‘contratto' ma pur implicato nella struttura della deliberazione': l'ambito giuridicamente rilevante in cui quest'ultima attività si svolge. Se si volesse indulgere a semplificazioni massime, potrebbe dirsi che mentre il contratto è atto di volontà invece la deliberazione è un procedimento negoziale in cui è organizzata un'azione collettiva (dei soggetti deliberanti); pertanto la deliberazione, a differenza del contratto, è determinata da regole di natura procedurale.

La tradizionale e perdurante concezione dei concordati - preventivo e fallimentare - come contratti tra debitore fallendo o fallito da un lato e massa dei suoi creditori dall'altro, proprio perché infondata, ha contribuito a occultare la natura riposta dei concordati: che si spiega ricorrendo non alla figura contrattuale ma alla figura della deliberazione. Così come capita per l'accordo, funzione della deliberazione a maggioranza è la composizione, preventiva o successiva al fallimento, della crisi d'impresa. Come il contratto anche la deliberazione a maggioranza in materia patrimoniale trova la propria legittimazione e giustifica la tutela del sistema giuridico dall'essere espressione della autonomia negoziale. Diversamente dal contratto, tuttavia, questa legittimazione non si mostra piena e incondizionata, ma subordinata a precise regole contestuali oltre che al principio della comunanza di interessi in cui versa un gruppo di soggetti: comunanza di interessi o costituita da tali soggetti per contratto (così nelle società, nelle associazioni e nei consorzi) oppure determinata da fatti esterni e indipendenti (come possono essere la crisi d'impresa, il fallimento del debitore e la proposta di un concordato).

Come accade solitamente, la ristrutturazione dei debiti può essere formalizzata in un piano aziendale posto alla base sia di contratti sulla crisi d'impresa (accordi stragiudiziali, piani attestati, accordi di ristrutturazione dei debiti), sia di concordati deliberativi (concordato preventivo e fallimentare, ma anche concordato nella amministrazione straordinaria delle imprese c.d. ‘grandissime'). Queste strutture della decisione condizionano diversamente le possibilità della ristrutturazione.

Poiché i concordati si risolvono in procedure concorsuali, essi sono determinati dal rispetto della regola della parità di trattamento dei creditori. L'offerta che il debitore formula nel concordato, sottoponendola alla approvazione della maggioranza dei creditori aventi diritto di voto (i creditori chirografari), è offerta non del tutto libera, ma condizionata dal rispetto della regola sulla parità di trattamento. Secondo questa regola fondamentale a tutti i creditori (chirografari) deve essere offerto lo stesso trattamento, fatte salve le cause di prelazione (pegno, ipoteca, privilegi): le quali legittimano i creditori titolari di crediti così garantiti (creditori prelatizi) a un trattamento preferenziale nei limiti del valore del bene su cui grava la garanzia. 

Nella ristrutturazione dei debiti programmata in un piano pensato per costituire base di un contratto sulla crisi di impresa la struttura della decisione non determina alcun tipo di condizionamento. La proposta di accordo è infatti indirizzata individualmente a ciascun creditore, ed è calibrata con riguardo allo specifico rapporto obbligatorio, pure essendo quest'ultimo considerato nel contesto della generale strategia di superamento della crisi della impresa e dunque di recupero dello stato di solvibilità del debitore.

 

Accordi stragiudiziali, piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione dei debiti

Poiché nel contratto la struttura della decisione si esaurisce nel consenso del singolo creditore sulla proposta contrattuale a lui rivolta, il contenuto della proposta è del tutto libero. La tutela del diritto di credito è infatti assicurata dall'esercizio della libertà contrattuale del creditore: che potrà rifiutare la proposta, prospettare una controproposta oppure accettare la proposta con ciò legittimando in pieno la conformazione del rapporto obbligatorio secondo quanto convenuto.

La necessità del consenso del creditore per la conformazione del credito esclude la necessità di ogni regola limitativa dello spazio determinativo della proposta fondata sulla preoccupazione di controllarne gli effetti rispetto al creditore che non ritiene di aderire alla proposta medesima.

Sotto una prima angolatura, la proposta non soffre limiti contenutistici di sorta, potendo il debitore liberamente determinarne il contenuto nei limiti imposti dalla legge (cfr. art. 1322 c.c.). Per tale ragione l'art. 182 bis, comma 1, l. fall. si limita a disporre che il debitore può proporre ai propri creditori un accordo di ristrutturazione dei debiti: limitandosi ad un generico riferimento alla tipologia dell'accordo (discriminata secondo la funzione: ristrutturazione dei debiti) senza attardarsi in elencazioni, nemmeno di natura meramente esplicativa, sui possibili contenuti della proposta.

Questa amplissima libertà di contenuto si estende ben oltre la specifica area tematica del credito impagato; in particolare, la proposta di accordo può anche essere integrata da profili diversi la cui connessione con il rapporto obbligatorio può essere preesistente o anche essere stabilita nella proposta medesima (pertanto, la ristrutturazione del singolo debito può essere calibrata in considerazione della relazione economica intercorrente tra debitore e creditore e degli sviluppi che la stessa può subire).

La conseguenza più evidente di tale libertà contenutistica è nella possibilità - del tutto esclusa nel caso di concordato - che la proposta concerna anche l'assunzione di obbligazioni o di responsabilità da parte del creditore (come discende dalla stipula di un contratto preliminare o dalla acquisizione di una partecipazione in una società di persone o dall'assunzione della funzione amministrativa in una società di capitali). 

La proposta resta pertanto assoggettata alle regole generali sulla liceità, validità ed efficacia degli atti unilaterali a contenuto patrimoniale e dei contratti, senza che il diritto della crisi di impresa fornisca regole aggiuntive ed ulteriormente limitative.

Una fondamentale regola sulla efficacia del contratto - e integrativa del suo stesso concetto - è nell'art. 1372 c.c.: sulla forza di legge del contratto tra le parti e sulla tendenziale inefficacia dello stesso rispetto ai terzi. Tale regola si trova specificata nell'art. 182 bis, comma 1, l. fall., laddove si prevede che l'accordo deve essere idoneo ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei: ossia dei creditori che non hanno acconsentito allo stesso.

Se il paradigma contrattuale non pone limiti alle operazioni di ristrutturazione dei debiti, deve comunque segnalarsi come alcune strutture contrattuali offrano rispetto ad altre un determinato ventaglio di opportunità.

Ciò è dovuto al fatto che accanto alla generale modalità contrattuale realizzata sul mercato con esclusiva ottemperanza alle regole del codice civile (la quale è integrata dai c.d. accordi stragiudiziali) si pongono contratti conclusi in considerazione di regole aggiuntive stabilite nel diritto della crisi di impresa.

Queste regole possono essere distinte in due categorie, tra di loro combinabili: regole sostanziali e regole procedurali. Le prime concernono il piano aziendale, ossia la formalizzazione della strategia di ristrutturazione in un piano sottoposto alla attestazione di un revisore legale in possesso dei necessari requisiti richiesti dalla legge. Nella attestazione dovrà darsi conto dell'esito positivo di una duplice verifica: sulla veridicità dei dati aziendali utilizzati nel piano; sulla fattibilità del piano medesimo (ossia sulla astratta razionalità e pratica realizzabilità delle operazioni descritte nel piano e integranti nel loro complesso il programma di ristrutturazione) (cfr. artt. 67, comma 3, lett. d), 182 bis, comma 1, l. fall.).

Evidentemente, ogni operazione di ristrutturazione seriamente intesa presuppone una strategia formalizzata in un programma; le regole descritte aggiungono una fase di controllo sulla qualità della operazione programmata sia sotto il profilo della attendibilità del dato aziendale che sotto il profilo della pratica realizzabilità del programma. L'attestazione rilasciata dal professionista indipendente fonda un ragionevole affidamento sulla realizzabilità del piano legittimando sotto tale profilo l'esecuzione dell'accordo da parte del debitore e dei creditori. Qualora il programma dovesse volgere all'insuccesso, sono stabilite regole protettive degli atti posti in esecuzione: resi opponibili ai terzi attraverso una regola di esenzione dall'azione revocatoria fallimentare (cfr. ancora art. 67, comma 3, lett. d), l.fall.).

Le regole processuali concernono il procedimento di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti basato sul piano attestato ora descritto. La sottoposizione dell'accordo di ristrutturazione e del piano posto alla base della procedura di omologazione consente la preventiva verifica giudiziale, nel contraddittorio con tutti gli interessati, della condivisibilità del percorso di ristrutturazione. Ne discende, sotto il profilo degli effetti protettivi, una più sicura ed intensa tutela dall'azione revocatoria in caso di fallimento del debitore (cfr. art. 67, comma 3, lett. e), l.fall.).

L'utilizzo della regola sostanziale inserisce il contratto di ristrutturazione nello schema qualificato del (contratto attuativo di un) piano attestato di risanamento, alla quale figura sono connessi gli effetti esentativi sopra ricordati; la sottoposizione del c.d. piano attestato (e degli accordi attuativi) in una procedura di omologazione determina la qualificazione dello stesso come accordo di ristrutturazione dei debiti con gli ulteriori vantaggi protettivi sopra descritti.

La condizione di corretto funzionamento di questa dinamica è data dalla libertà dei creditori di decidere se concedere o meno fiducia al debitore. Ecco perché si rivelò pessima la decisione del legislatore di fiaccare i poteri di autotutela del credito nel corso delle trattative per il contratto di ristrutturazione (art. 182 bis, terzo comma, l.fall.). Se il creditore non è libero di aggredire il debitore, nemmeno può esprimere un consenso genuino alla ristrutturazione.

La versione in vigore degli accordi di ristrutturazione dei debiti si mostra perciò particolarmente inetta agli scopi sperati. Contrattare con creditori messi spalle al muro proprio durante le trattative corrisponde ad affermare la logica del contratto negandola al contempo.

Negli ultimi anni, con l'introduzione dell'art. 182-septies l.fall. e con la variazione di disciplina dei cosiddetti accordi di sovraindebitamento, questi istituti sono rimasti contrattuali solo nel nome.

Non solo risulta fortemente condizionato il consenso di chi partecipa all'accordo (giacché, come i creditori estranei, subisce la paralisi dei poteri di autotutela del credito), ma vale pure la regola - contraria al concetto di contratto - dell'estensione degli effetti di simili accordi nei confronti di chi è rimasto rispetto ad essi terzo. Questi contratti hanno forza di legge non solo per le parti (come pleonasticamente afferma l'art. 1372 c.c.) ma anche nei confronti dei terzi. Perciò, non sono contratti. Si tratta, invece, di figure embrionali e imperfette di concordato preventivo, in cui il consenso di ciascun creditore vale non in se stesso ma nella somma che definisce una maggioranza legale. Vale cioè - perché questo è - come un voto.

Intermezzo: attività d’impresa, pianificazione, soluzione della crisi

I riferimenti finora addensatisi intorno al concetto di ‘pianificazione' suggeriscono qualche riflessione aggiuntiva, dedicata alla conveniente introduzione del tema del piano aziendale di risanamento nel sistema del diritto dell'insolvenza imprenditoriale.

Una certa attenzione legislativa al fatto della pianificazione della attività - quale quella testimoniata dal legislatore recente - può realizzare una vera e propria svolta concettuale nel diritto della crisi di impresa. Regole sulla pianificazione della attività sono, infatti, possibili soltanto dal momento in cui il legislatore acquista una reale coscienza dell'attività di impresa assumendola in ampia misura nel discorso legislativo.

Questo risultato potrebbe apparire agli occhi di chi non pratica il diritto di impresa quasi scontato. Se una certa branca del diritto si occupa dell'impresa, quale stupore potremmo nutrire per regole attente ad una essenziale modalità esplicativa di quella realtà economica?

Invece, le cose stanno in tutt'altro modo, giacché la stessa scienza economica in generale, ed economico-aziendale in particolare, è un fenomeno storicamente non risalente, mentre le discipline civilistiche hanno radici millenarie.

Ho detto della sordità del legislatore alle esigenze dell'impresa. Ho pure segnalato che l'intero diritto dell'insolvenza e del fallimento si sviluppa sulla base concettuale dell'obbligazione e dell'attuazione coattiva di tale rapporto. Per una fonte legittima (contratto o altro atto o fatto fonte di obbligazione ex art. 1173 c.c.), sussiste una relazione economica tra debitore e creditori; il primo è obbligato al pagamento; il secondo ne ha diritto; ed ha a disposizione strumenti per la realizzazione coattiva dell'adempimento. L'intero sistema delle procedure esecutive si fonda su tale assunto di base. Si tratta, ovviamente, di una visione estremamente semplificata che riduce il rapporto dialettico al confronto tra debitore e creditori.

E tuttavia, nel caso in cui fonte del debito, dal punto di vista economico, è l'attività di impresa, è proprio quella attività a divenire oggetto del trattamento giuridico che definisce tutti gli interessi coinvolti in quell'attività. La decisione giuridica sul destino dell'impresa - realizzata attraverso l'attuazione giudiziaria del diritto positivo - travolge non solo l'interesse del debitore e dei suoi creditori, ma anche tutti gli interessi ulteriormente implicati e coinvolti: primo tra tutti gli interessi dei lavoratori. Lo schema concettuale del rapporto obbligatorio non riesce a restituire, nella sua semplicità, una simile complessità. Ne discende che le regole del diritto, storicamente sedimentatesi su tale rapporto, determinano una decisione accidentale sui destini dell'impresa assunti da taluni soltanto dei portatori di interessi sull'impresa, ossia il debitore e i creditori. Basti pensare alla struttura del concordato preventivo in cui è disciplinata la decisione collettiva dei creditori su una mozione presentata dal debitore.

Per questo stato di cose, la decisione sul debito travolge l'impresa e determina, per conseguenza, una decisione sui destini di quella. La crisi di legittimazione che da anni affligge il diritto della crisi d'impresa dipende proprio da questa inadeguata struttura della decisione sulla insolvenza dell'imprenditore.

Le norme sulla pianificazione segnalano, invece, con un evidente mutamento di rotta, l'emersione del fenomeno dell'impresa nel diritto rilevante. L'adempimento del debito di impresa è proposto sulla base di una pianificazione aziendale volta a rendere compatibile la prosecuzione dell'attività con i pagamenti dovuti ai creditori, oppure ad organizzare la cessione dell'attività a terzi nell'interesse dei creditori; o infine a congegnare la liquidazione degli asset e la cessazione dell'attività sempre nell'interesse dei creditori.

Con le regole sulla pianificazione, l'attività è stata assorbita in maniera molto importante nella considerazione del legislatore.

I piani attestati di risanamento (e i contratti attuativi)

L'art. 5 comma 1, detta principi e criteri direttivi finalizzati ad incentivare gli accordi di ristrutturazione dei debiti, le convenzioni di moratoria e i piani attestati di risanamento.

La novità del concetto di ‘pianificazione' ha determinato iniziali e perduranti difficoltà applicative. Le vecchie mentalità dei giuristi faticano ad adeguarsi alla realtà attuale. Mi riferisco all'equivoco insito nella figura dei piani attestati di risanamento. La previsione dell'art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. sulla esenzione da azione revocatoria di atti esecutivi di piani attestati secondo legge è stata da subito letta come introduttiva di un nuovo strumento per la soluzione della crisi d'impresa.

Questo strumento è stato individuato nel piano attestato. Quando i giuristi si sono preoccupati di classificare la figura, hanno sussunto il piano attestato nella fattispecie generale degli atti unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale (art. 1324 c.c.). In tal modo hanno qualificato in termini giuridici una realtà, invece, di natura esclusivamente economico-aziendale. Il che non deve stupire l'economista, che, invece, mai sarebbe caduto in tale equivoco, essendo a perfetta conoscenza della pianificazione della attività di impresa in tutte le manifestazioni della stessa: pianificazione di start up; business plan; piani industriali e anche piani di turnaround e di ristrutturazione del debito.

La stessa lettera della legge è foriera di equivoco laddove parla di esenzione della revocatoria di atti “esecutivi” di piani attestati, quasi che questi ultimi costituissero vere e proprie fonti del diritto, mentre gli atti e i negozi giuridici realizzati consequenzialmente alle previsioni di piano ne fossero il portato esecutivo.

Molto diversamente, gli atti e i contratti realizzati sulla base di un piano aziendale non danno ad esso esecuzione, ma realizzano nel mondo del diritto l'attuazione della strategia di impresa formalizzata nel piano. Il piano aziendale costituisce il progetto che rende la produzione giuridica dell'impresa non occasionale e non realizzata, semplicemente, in un momento di crisi, ma appositamente in quel momento e al fine di giungere ad una soluzione di superamento della crisi.

Comprendere fino in fondo la natura esclusivamente economico-aziendale del piano attestato, distinguere da questo la relazione del professionista abilitato per legge che certifichi la veridicità del dato aziendale e la fattibilità del piano medesimo; tenere infine concettualmente separati dal prodotto economico (piano aziendale) e dalla relazione tecnica (attestazione) gli atti giuridici posti in essere in attuazione del piano (atti unilaterali e contratti) è il primo fondamentale passo verso la consapevolezza della nuova dimensione assunta dalla impresa nel diritto degli atti e delle procedure concorsuali.

Veniamo alla delega.

L'art. 5, comma 1, lett. e), detta regole sul piano attestato confondendo ancora una volta un programma aziendale con un atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale. Ecco la delega: prevedere che il piano attestato abbia forma scritta, data certa e contenuto analitico.

La forma costituisce elemento del contratto ai sensi dell'art. 1325 n. 4 c.c. Il contenuto consiste nel regolamento contrattuale, e ha il suo nucleo nell'oggetto disciplinato nell'art. 1325 n. 3 c.c. La data certa è regolata per i contratti dall'art. 2704 c.c. circa la sua opponibilità ai terzi (la quale presuppone l'autenticazione notarile, la registrazione della scrittura, la morte o la sopravvenuta impossibilità fisica del sottoscrittore, e così via).

Il piano aziendale non è evidentemente un atto unilaterale nel senso che, al pari di altri testi non giuridici (come romanzi, poesie, saggi ecc.), non subisce una classificazione in ambito giuridico bensì in ambiti culturali diversi (letterali, scientifici e così via). Nel nostro caso il piano aziendale è un prodotto della pratica aziendalistica (così come dimostrazioni, modelli e teoremi lo sono delle scienze logiche, economiche e matematiche).

Dire che un piano aziendale deve avere data certa equivale a dirlo del teorema di Pitagora. Dire che quel piano deve avere contenuto analitico equivale ad imporre il dettaglio ad una dimostrazione matematica. Imporre la forma scritta al piano aziendale non è diverso dall'imporla ad una poesia.

Se però noi dicessimo che i contratti e gli atti unilaterali tra vivi, essi sì istituti del diritto positivo, posti in attuazione di programmi di ristrutturazione, sono soggetti alla forma scritta a pena di nullità e debbono essere redatti con data certa e dotati di un contenuto sufficientemente dettagliato, diremmo qualcosa di meno implausibile. Prescindendo dalla direttiva sul contenuto, difficilmente recuperabile alla razionalità, si capisce che un contratto suscettibile di essere sottoposto ad azione revocatoria e più in generale opponibile ad una procedura concorsuale debba essere analizzabile quale documento avente data certa.

Forse in sede di redazione della regola il legislatore delegato recupererà l'errore, attribuendo la disciplina non al programma aziendale ma all'atto giuridico di attuazione. Se, invece, il legislatore si intestardirà nel dettare regole giuridiche sull'atto aziendale, compirà un'operazione equivalente a quella di imporre un determinato metro alle poesie o certe caratteristiche descrittive minime alle scene di un romanzo.

L'adeguatezza di un piano di ristrutturazione dipende dal soddisfacimento di criteri redazionali non giuridici ma aziendalistici, allo stesso modo di come il metodo seguito per la realizzazione del piano nulla ha a che fare con il metodo giuridico, trattandosi invece ancora di metodo aziendale (come pure testimonia il vademecum redazionale elaborato dal Consiglio nazionale dei commercialisti).

Infine è appena il caso di avvertire che ogni tentazione di sussumere il piano aziendale nella realtà degli atti giuridici, arricchendo così il novero degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, sarebbe frustrata dalla impossibilità di far funzionare il piano come fonte di obbligazione. Ciò in quanto l'obbligazione ha una struttura logica necessitata: consiste in una promessa assunta in forma di impegno. Un progetto nulla ha a che fare con tutto ciò.

Accordi di ristrutturazione dei debiti. Dal "contratto" al "concordato"

L'art. 5, comma 1, lett. a), incarica il delegato di estendere la procedura dell'accordo di ristrutturazione con gli intermediari finanziari (art. 182-septies l. fall.) agli accordi di ristrutturazione non liquidatori o alle convenzioni di moratoria conclusi con uno o più gruppi omogenei di creditori rappresentanti almeno il settantacinque per cento dei crediti.

 Va premesso che l'accordo di ristrutturazione con gli intermediari finanziariha natura, piuttosto che contrattuale, concordataria (secondo le considerazioni prima svolte in ordine alle differenze sostanziali che corrono tra contratti da un lato e concordati dall'altro).

L'art. 182 septies, comma 1, l.fall.all.  stabilisce, infatti, che nel caso in cui la metà dell'indebitamento è verso banche o intermediari finanziari, questi ultimi possono essere raggruppati - per scelta del debitore -  in classi omogenee, di modo che il consenso maggioritario (pari al settantacinque per cento dei crediti) sia sufficiente per l'applicazione del c.d. 'accordo' anche ai creditori dissenzienti appartenenti alla medesima classe. Invece, restano fermi i diritti dei creditori diversi.  È chiarito che nei limiti del rapporto con le banche, all'accordo non si applicano gli artt. 1372 e 1411 c.c.

La particolarità di questo istituto è nella natura composita. Rispetto ai creditori non bancari, l'accordo di ristrutturazione funziona come un contratto: vale solo per coloro che prestano il consenso. Rispetto ai creditori finanziari raggruppati in classi, l'accordo funziona come un concordato: ottenuto il voto favorevole per una maggioranza qualificata di crediti, il trattamento si estende ai dissenzienti. Per questo effetto è necessario che la classe voti su un trattamento eguale per tutti, secondo la regola del concorso. Si ha, in conclusione, un innesto concordatario nell'ambito di un contratto di ristrutturazione. Pertanto, la figura complessiva si compone di un piano aziendale di risanamento che presuppone un'attuazione in parte di stampo contrattuale in parte di matrice concordataria.

Precisa l'art. 182 septies , comma 6, l.fall. che questa disciplina si applica anche ad una convenzione di moratoria al pagamento dei debiti conclusa dal debitore con gli intermediari finanziari. Raggiunta l'adesione di creditori rappresentanti il settantacinque per cento dei crediti, la mozione del debitore si applica anche ai creditori dissenzienti.

L'accordo di ristrutturazione in oggetto e la moratoria, introdotti appena due anni fa, non hanno conosciuto una significativa applicazione né hanno sortito effetti positivi. La scarsa pratica ha pure contenuto l'evidenziarsi dei numerosi elementi critici insiti in strutture così peculiari: date dalla somma fra istituti, il contratto e il concordato, compatibili come l'acqua e l'olio.

Appare, perciò, veramente azzardata la scelta di generalizzare il modello a tutti i casi in cui sia possibile organizzare la maggioranza dei creditori in una o più classi omogenee, come, tuttavia, prevede la delega.

Per questa soluzione, ciò che poteva mitigare la peculiarità della presenza nel nostro ordinamento dell'art. 182 septies l.fall., ossia la sua applicazione esclusivamente alle insolvenze di natura finanziaria (dovute ad una inefficiente strutturazione della finanza di impresa piuttosto che a cause industriali, commerciali, o di organizzazione societaria) è destinato a scomparire, con l'effetto di generalizzare l'esperienza del contratto-concordato senza ulteriori argini oltre l'omogeneità della debitoria.

Se appare comprensibile che, in caso di omogeneità della debitoria, sia preferibile la soluzione concordataria (la decisione maggioritaria si giustifica proprio rispetto alla comparabilità della situazione in cui si trovano aderenti e dissenzienti rispetto al problema dell'insolvenza del comune debitore), non si capisce tuttavia per quale ragione debba sopravvivere un addentellato contrattuale, al prezzo di escogitare una figura ibrida di difficile gestione pratica e di nessuna utilità concreta rispetto a un concordato.

 Quanto agli accordi di ristrutturazione proposti a ceti creditori non omogenei, l'art. 5, comma 1, lett. b), incarica il delegato di eliminare o ridurre il limite del sessanta per cento previsto dall'art. 182 bis,  comma 1, l.fall., quale condizione di omologabilità dell'accordo se il debitore non chiede la moratoria del pagamento dei creditori estranei né misure protettive. Il principio, che è già in forma di regola, mira a favorire la diffusione di accordi di ristrutturazione ‘puri', ossia interamente contenuti nella logica del contratto. Quando il debitore si affida esclusivamente al consenso dei suoi creditori senza chiedere il blocco dei poteri di autotutela del credito né dilazioni per il pagamento dei creditori garantiti (che, evidentemente, non prestino consenso alla dilazione medesima), viene ridotta o eliminata la soglia minima del sessanta per cento della debitoria coinvolta nell'accordo.

La regola si mostra condivisibile laddove tende ad incentivare la conclusione di accordi di ristrutturazione secondo la logica del consenso, ossia nel modo dogmaticamente più giustificato rispetto al sistema. In tali accordi il binario procedurale sarà limitato esclusivamente alla procedura di omologazione, non essendo necessario coinvolgere il tribunale nella fase delle trattative: che, pertanto, sono destinate a realizzarsi sul mercato.

Che in tutti gli altri casi il ‘tasso contrattuale' degli accordi sia destinato a scemare è ulteriormente dimostrato dall'art. 5, comma 1, lett. c), sulla assimilazione della disciplina delle misure protettive degli accordi a quella prevista per il concordato preventivo. Questa semplificazione tradisce anche la comunanza di natura tra talune fattispecie di accordi di ristrutturazione (quelli con divisione dei creditori in classi in primo luogo ma poi anche gli altri per cui sarà destinata a valere la soglia del sessanta per cento di consensi) e la procedura di concordato preventivo.

Anche in tal senso appare illuminante il principio sub lett. d) - riferito a tutte le ipotesi di accordo di ristrutturazione - sull'estensione degli effetti dell'accordo ai soci illimitatamente responsabili alle medesime condizioni previste nel concordato preventivo.

Il principio sub lett. f) è dedicato alla manutenzione delle soluzioni contrattuali della crisi di impresa. Si stabilisce di imporre la rinnovazione delle attestazioni nel caso di successive modifiche non marginali dell'accordo o del piano.

La formulazione del principio risente della ambiguità concettuale già segnalata, che può rendere difficoltosa la distinzione tra piano e contratto. Invece, dovrebbe essere chiaro che ogni soluzione della crisi di impresa prevede una pianificazione aziendale a cui segue una attuazione giuridica. Quest'ultima può essere contrattuale, e realizzata interamente sul mercato (contratti attuativi di piani attestati); sempre contrattuale ma procedimentalizzata (accordi di ristrutturazione, al netto degli innesti concorsuali) o infine concordataria (concordato preventivo). Poiché il piano, per la sua natura progettuale, ha per oggetto eventi e condotte futuri, deve essere suscettibile di aggiustamenti progressivi. Quando l'intervento si mostra rilevante, l'utilità della relazione attestativa di supporto al piano si riduce proporzionalmente; diviene, pertanto, necessario il rilascio di una nuova attestazione.

Tutto ciò vale sul piano aziendale. Circa i contratti attuativi, l'effetto di riadeguamento al piano può essere realizzato solo attraverso la rinegoziazione delle pregresse condizioni. Sarebbe pertanto utile che il legislatore delegato, appropriandosi della distinzione concettuale tra programma aziendale sottostante e contratto attuativo, disciplini anche la rinegoziazione di quest'ultimo in corrispondenza alla modificazione del piano. In mancanza, si riproporrà anche in questo delicato settore il problema della argomentabilità dell'obbligo legale di rinegoziazione (fondato sulla buona fede contrattuale) tutte le volte che le parti degli accordi non abbiano previsto una clausola apposita. 

Conclusioni

Possiamo concludere che la delega sui piani attestati di risanamento non solo non porta chiarezza ma amplia le ambiguità in cui è avvolto l’istituto più innovativo dell’esperienza di riforma. Concentrare l’attenzione sul piano attestato trattandolo come un atto unilaterale tra vivi cancella ogni possibilità di comprendere e disciplinare la realtà, questa sì giuridica, dei contratti attuativi del piano.

Temo, pertanto, che si perderà un’occasione importante per dare adeguata disciplina ai contratti per il superamento della crisi di impresa in attuazione di un piano di risanamento.

Taluni problemi, relativi al profilo funzionale, alla struttura negoziale, alla dinamica di invalidità, inefficacia e inadempimento che si innesca tra i vari contratti attuativi avrebbero potuto anche essere oggetto di disciplina. Invece rimarranno affidati alla ricostruzione dell’interprete: la quale non sarà certo favorita dall’equivoco sulla natura giuridica del piano.

È non di meno facile prevedere che l’intero dibattito sulle soluzioni contrattuali della crisi di impresa, se vorrà essere pertinente all’oggetto, resterà confinato ai contratti attuativi dei piani attestati. La figura degli accordi di ristrutturazione dei debiti, già rimodellata negli ultimi anni attraverso l’arricchimento dell’impalcatura procedurale entro cui gli accordi vanno esperiti, assumerà ulteriormente la nuova fisionomia di concordati preventivi semplificati: e, perciò, non di contratti ma di vere e proprie procedure concorsuali.

Bibliografia

Di Marzio, La riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2017

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