Ancora sulle elusioni dell’art. 163-bis l.fall.
09 Gennaio 2018
I due anni e mezzo di applicazione dell'art. 163-bis l.fall. hanno messo in evidenza una spiccata tendenza degli attori concordatari all'elusione dei principi dettati dalla norma. E' noto come al privato la concorrenza piaccia assai poco, ragion per cui la mera affermazione dell'obbligo di sottoporsi alla competizione per conseguire un risultato deve inesorabilmente misurarsi con gli ineluttabili tentativi di eludere il comando.
L'art. 163-bis l.fall. costituisce senza dubbio una disposizione di rango imperativo ed inderogabile: essa risponde infatti ad un principio di “ordine pubblico economico”, volto da un lato a massimizzare le prospettive di recovery per i creditori, anche prevenendo i possibili occultamenti di attivo (che possono rilevare anche ai sensi dell'art. 173 l.fall.), dall'altro ad assicurare la trasparenza dei comportamenti ricollocativi dei compendi aziendali resi inefficienti dalla crisi, così da favorire al contempo lo sviluppo di un mercato efficiente delle aziende distressed. L'esperienza dei casi che la prassi ha in passato offerto (San Raffaele, La Perla, Magli) ha insegnato infatti che questa regola può migliorare non poco le aspettative dei creditori, minimizzando le perdite prodotte dall'insolvenza; ed il Legislatore ha oramai operato questa scelta con determinazione e convinzione (v. anche l'art. 107 l.fall.), sì da rendere improbabile un cambiamento di rotta. La probabile imminente attuazione della legge delega “Rordorf” (L. n. 155/2017) non dovrebbe infatti mutare tale scenario normativo, che anzi sarà semmai arricchito di nuovi strumenti. La circostanza per cui nella maggior parte dei casi i compendi staggiti siano stati aggiudicati, all'esito della procedura, a soggetto unico offerente, non deve trarre in inganno: l'obbligo per debitore ed aspirante acquirente di sottoporsi al giudizio del mercato incentiva infatti gli attori primari a rendere ostensibile subito la maggior parte del valore che essi attribuiscono all'asset. La casistica ha tuttavia presentato quasi da subito tentativi di “aggiramento” del disposto, dapprima fondati sull'espediente del conferimento dell'azienda in una diversa società, le cui partecipazioni siano poi trasferite al terzo “aspirante” acquirente, al di fuori di qualsiasi competizione. Il tentativo aveva però il fiato corto, perché l'espediente vale solo a trasformare l'asset in partecipazione societaria, la quale tuttavia resta nel patrimonio del debitore concordatario, e quindi può essere oggetto di disposizione e di gara; la giurisprudenza infatti ha giustamente stroncato questi tentativi (v. Trib. Bologna, 6 aprile 2016, Martelli Lavorazioni Tessili). In realtà sarebbe forse possibile per il Giudice, in questi casi, disporre imperativamente il lancio di una procedura competitiva, avente ad oggetto i diritti di opzione nell'aumento di capitale deliberato ai fini del conferimento; amplissima è infatti, come si è visto in un'altra occasione, la sfera di discrezionalità del Tribunale in materia, che può andare ben al di là del contenuto economico e giuridico dell'operazione prospettata.
Ma la prassi si adatta quasi subito ed adotta comportamenti apparentemente più smaliziati: così i debitori “studiano” aumenti di capitale nella stessa società in concordato, destinati ad essere sottoscritti da “terzi” ben individuati, anche mediante compensazione con debiti sorti per titolo di finanziamenti erogati in corso di procedura; oppure i debitori negoziano le proprie partecipazioni nella stessa società, alienandole a terzi durante il concordato, così trasferendo il capitale di comando, e consentendo al compratore la scelta dell'organo di gestione, che del concordato è arbitro (art. 152 l.fall.); oppure prima ancora dell'accesso alla procedura, ma con la chiara finalizzazione dell'acquisto alla predisposizione della futura domanda di concordato. Il tentativo opera palesemente sul piano della forma, apparentemente con successo, atteso che le partecipazioni non fanno parte del patrimonio della società in concordato, sottraendosi così all'applicazione dell'art. 2740 c.c. La sostanza economica tuttavia non si sposta molto dalla variante sopra esaminata: il trasferimento del controllo sugli assets anziché della titolarità sugli stessi sembrerebbe idoneo a frustrare l'art. 163-bis l.f. D'altro canto in questi casi appare difficile (anche se non sempre impossibile) per il Tribunale disporre officiosamente il lancio di una procedura competitiva che “mimi” il trasferimento “privato”. La situazione può presentare aspetti per certi versi paradossali: l'aspirante acquirente che negozi le partecipazioni della società in concordato, direttamente col socio di maggioranza, si sottopone in realtà ad una potenziale competizione, se vi siano altri interessati; ma tale competizione, oltre ad essere eventuale e non trasparente, è destinata ad essere vinta da colui che paghi di più non già ai creditori, bensì proprio al vecchio soggetto economico dell'impresa, non di rado terminale passivo di gravi responsabilità nella nascita o nell'aggravamento della crisi. Successivamente alla chiusura dell'operazione, infatti, il compratore assemblerà un piano concordatario in continuità, presumibilmente diretta, al fine di ridurre il peso dell'indebitamento e rendere l'investimento profittevole; ma è evidente che le risorse destinate al servizio di tale investimento, e funzione del livello di soddisfacimento dei creditori, “scontano” quanto già pagato al vecchio soggetto economico. Dunque prevedibilmente e tendenzialmente vince la gara chi meno paga ai creditori. Da qua il paradosso, aggravato dalla circostanza per cui le partecipazioni della società, per definizione in crisi ma in realtà nei fatti insolvente, dovrebbero avere un valore residuo praticamente nullo. Paradosso reso possibile, ed anzi agevolato, dalla peculiarità del concordato con continuità “all'italiana”, ove la absolute priority rule (APR) è assicurata soltanto in forma parziale ed imperfetta, nei confronti delle pretese del socio che dovrebbero rivestire natura soltanto “residuale”. Si dirà che il compratore deve comunque assicurarsi il voto dei creditori, che dovrà convincere con una proposta seria, altrimenti il concordato non sarà approvato, ed egli perderà ogni investimento; ma in realtà è ben noto come non sia affatto difficile mettere i creditori davanti al fatto compiuto, prospettando loro un'offerta del tipo “prendere o lasciare”, e cautelandosi magari con il venditore delle partecipazioni ad es. tramite la negoziazione di clausole condizionali (non a caso “sterilizzate” dall'art. 163-bis l.fall.). Non sembra casuale nemmeno che la locuzione che abbiamo impiegato “mettere i creditori davanti al fatto compiuto”, ritorni anche nelle fattispecie in materia di abuso del concordato.
Ma è davvero così semplice? E perché allora non confezionare così qualsiasi concordato che abbia ad oggetto compendi aziendali ancora vitali, e suscettibili di essere “rigenerati”? In realtà almeno nei casi in cui si possa dimostrare che la vendita (competitiva) dell'azienda possa assicurare un flusso di ricavi al servizio del debito concordatario maggiore di quanto proposto dal debitore col piano concordatario in continuità, ad es. perché il compendio sia già stato oggetto di una stima “oggettiva”, oppure di una offerta o manifestazione di interesse di terzi “seria”, il sistema probabilmente dispone già degli anticorpi necessari. La legittimazione del piano in continuità, infatti, nasce dalla “tenuta” del test obbligatorio di conformità dello stesso al “miglior soddisfacimento dei creditori” (art. 186-bis lett. b); ma se dal ricollocamento dell'azienda si otterrebbe con ragionevole probabilità più di quanto il proponente offre, quella condizione di ammissibilità non è integrata, e dunque il concordato è inammissibile. Ed anche il giudizio di inerenza del piano al miglior soddisfacimento dei creditori è destinato a permeare il futuro diritto riformato, soprattutto perché conforme al disegno infrastrutturale della Proposta di Direttiva comunitaria del 2016. Persino in quei casi (rari) in cui l'apertura del fallimento (futura liquidazione giudiziale) assicuri in realtà un flusso inferiore, per via della quasi certa dissoluzione nel compendio di rilevanti fonti di reddito, laddove la (sola) cessione in corso di procedura di concordato, in quanto idonea a preservare quei valori immateriali altrimenti destinati a disgregarsi, possa consentire l'attuazione di una soluzione regolativa della crisi ottimale per i creditori, il sistema impone di non dare ingresso alla proposta del debitore. Il debitore infatti non è titolare di un diritto soggettivo alla formulazione di un piano di concordato in continuità diretta: tale “diritto” sussiste, al limite, solo ove il debitore assicuri ai creditori il soddisfacimento integrale delle loro ragioni; diversamente, potranno e dovranno imporsi soluzioni eteronome di regolazione della crisi, insite in un sistema che predilige certamente, nella gerarchia dei valori tutelati, quelli rientranti nello spettro della massa creditoria. La sanzione dunque risiederà nella violazione di legge (art. 163-bis l.fall.), interpretata come norma “materiale”, rilevante per gli effetti del comportamento adottato in collisione con la sua ratio, e non per la forma; oppure nella frode alla legge stessa (art. 1345 c.c.), idonea a colorare di illiceità la “causa concreta” concordataria. Dunque, se il Tribunale non riterrà di poter fare un uso “sapiente” del proprio potere di direzione del procedimento, così mantenendo aperto l' “ombrello” concordatario sino al ricollocamento “forzato” del compendio ai sensi dell'art. 163bis l.f. (una delle sanzioni più classiche individuate dalla letteratura civilistica per la frode alla legge è proprio la applicazione “forzata” della norma elusa), ed eventualmente superando la resistenza del debitore anche facendo uso dei poteri cautelari di cui all'art. 15, comma 8, l.fall., esso sanzionerà la inammissibilità del concordato, aprendo il fallimento in presenza di iniziative dei soggetti legittimati. Il pregiudizio che così verrà cagionato ai creditori costituirà una precisa responsabilità degli organi di gestione della società debitrice, nonché ove possibile dello stesso soggetto economico (artt. 2497, 2476, comma 7, c.c.), per aver propugnato una soluzione regolativa subottimale nella prospettiva di soddisfacimento del ceto creditorio, e così dissonante dal contesto sistematico ordinamentale. Ma in ogni caso il compimento di tali operazioni, chiaramente finalizzate alla predisposizione di una proposta concordataria come sopra descritta, configura altresì un abuso dello strumento concordatario, con lo stesso risultato.
È questo anche il “succo” del recente caso Borsalino “2” (Trib. Alessandria, 14 dicembre 2017), ove il soggetto economico aveva acquisito il controllo sull'intero capitale della società debitrice prima dell'ingresso in concordato, ponendo in essere al contempo ulteriori operazioni negoziali parimenti da porre in correlazione con la sottrazione alla “legge del mercato” (come la previa “estrazione” dal compendio del marchio storico, destinato poi a ricongiungersi coll'azienda per effetto di una programmata fusione postconcordataria, oltre l'orizzonte temporale del piano), ove il Tribunale ha accertato appunto la illiceità della “causa concreta” del concordato. Poco o nulla rileva infatti, a tal fine, la circostanza per cui le operazioni negoziali si siano esaurite, sul piano civilistico dei loro effetti, prima dell'accesso alla procedura: la fenomenologia dell'abuso del concordato infatti non ignora certo situazioni simili, ove la modificazione fraudolenta della situazione presentata ai creditori (posti di fronte ad un vero e proprio aut aut) sia posta in essere prima del deposito del ricorso. La natura “sostanziale” del diritto concorsuale, unitamente alla formazione “pragmatica” dei Giudici chiamati ad applicarlo, sembra dunque idonea a fornire le opportune misure di “salvaguardia” dell'interesse dei creditori. |