Errores in iudicando

21 Febbraio 2018

L'art. 360, n. 3, c.p.c. consente di impugnare con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado per violazione o falsa applicazione di norme di diritto.
Inquadramento

L'art. 360, n. 3, c.p.c. consente di impugnare con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado per violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

In tal modo è possibile veicolare dinanzi alla Corte di cassazione il cd. error in iudicando in iure, onde permettere alla Corte medesima di assolvere alla funzione di giudice supremo della nomofilachia.

L'espressione violazione e falsa applicazione di norme di diritto descrive e rispecchia i due momenti in cui si articola il giudizio di legalità: quello concernente la ricerca e l'interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e quello cosiddetto di sussunzione, supponente la specifica applicazione della norma stessa al caso, una volta che tale norma sia stata correttamente individuata e interpretata (v. Cass. civ., 26 settembre 2005, n. 18782; Cass. civ., 5 marzo 2007, n. 5076).

Dal primo punto di vista è possibile denunziare la violazione di norma di diritto trasponendo immediatamente dinanzi alla Corte la regola di diritto attinente al caso concreto, mediante la negazione o l'affermazione della esistenza della norma e del principio applicato, ovvero mediante la deduzione che la decisione di merito si sia risolta nell'attribuzione alla norma o al principio di un contenuto che non possiede riguardo alla fattispecie delineata.

Dal secondo punto di vista, è possibile verificare se la fattispecie concreta oggetto di giudizio sia stata assunta sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, oppure se dalla norma in relazione alla fattispecie concreta siano state tratte conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (cfr. M. Cantillo, Violazione e falsa applicazione della legge, in La Cassazione civile, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale civile, diretta da A. Proto Pisani, II, Torino, 1998, 1347 e ss.).

Tali concetti sono stati ripetutamente fissati dalla giurisprudenza della Corte Suprema sebbene mediante valutazioni infine per lo più unitarie (o sintetiche) del vizio concretamente denunciato. É stato così affermato che l'errore di diritto può consistere sia nell'erronea individuazione della norma da applicare alla fattispecie concreta, sia nell'erronea applicazione alla detta fattispecie di una norma correttamente individuata e interpretata, fermo che la violazione di norme di diritto ricorre quando vi sia stata la negazione o il fraintendimento di una disposizione di legge esistente o l'affermazione di una norma inesistente, a fronte della falsa applicazione che, invece, suppone che una norma, pur rettamente intesa, sia stata applicata a una fattispecie concreta non corrispondente a quella astratta in essa prevista, ovvero in modo da giungere a conseguenze giuridiche a essa contrarie (per tutte, Cass. civ., 16 luglio 2010, n. 16698).

Le due formule, in cui il vizio di diritto si articola, non servono peraltro a identificare distinte tipologie di errori. Ed è questa la ragione per cui la giurisprudenza è solita esaminare la censura di diritto con metodo sintetico.

La violazione difatti postula sempre (pure) una falsa applicazione e, nel contempo, non ci può essere falsa applicazione senza (anche) violare la norma di cui si discute (v. F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 2003, 59 e ss.).

Pertanto, quando la decisione di merito sia stata censurata ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., il controllo di legittimità non si esaurisce nella verifica di correttezza dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è comunque e sempre automaticamente esteso alla sussunzione del fatto accertato (dal giudice di merito) nell'ipotesi normativa rilevante (cfr. Cass.civ., 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. civ., Sez. Un., 18 gennaio 2001, n. 5).

Da questo punto di vista la distinzione esposta - tra ipotesi implicanti violazione e ipotesi implicanti falsa applicazione di norme di diritto -, se agevole nella sua enunciazione teorica, diviene più labile e di difficile riscontro nella pratica attuazione, e ove cristallizzata in eccessivo schematismo può anzi condurre a risultati non sempre coerenti, soprattutto quando il giudice del merito abbia avuto la necessità di applicare norme dai confini non precisamente definiti, come tipicamente sono le cosiddette norme elastiche.

La norma di diritto come fonte di criteri qualificatori

Mediante l'art. 360, n. 3 c.p.c. è possibile dedurre, dinanzi alla Corte di cassazione, la violazione o la falsa applicazione di qualunque disposizione derivante dalle fonti normative in senso proprio, vale a dire da quelle di cui all'art. 1 delle preleggi.

La rilevanza dei criteri qualificatori, ai fini della censura, dipende dai connotati sostanziali di generalità e astrattezza della norma, oltre che ovviamente dalla classificazione formale.

Possono venire in considerazione, quindi, gli errori di diritto concernenti norme costituzionali, leggi formali ordinarie e atti equiparati, regolamenti, consuetudine e usi (v. già L. Montesano-G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 2, Padova 2001, 1862.).

A seguito della riforma dettata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, è riconducibile al vizio suddetto anche la violazione o la falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi in materia di lavoro: e ciò costituisce il completamento del percorso di riforma che era stato già delineato dall'art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e che aveva esteso il sindacato in iure della Corte Suprema alle violazioni delle norme dei contratti collettivi di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (a proposito dell'estensione, cfr. volendo F. Terrusi, Il ricorso per cassazione nel processo civile, Torino 2004, 66 e ss.).

Viceversa l'omesso accertamento, in sede di merito, della violazione di norme private, interne o regolamentari, denunciata dall'attore per fondare la domanda, è generalmente ritenuto ricorribile per cassazione sotto il distinto profilo del vizio di motivazione, non anche per violazione di legge (Cass. civ., 24 gennaio 2000, n. 749), ovvero sotto il profilo della violazione dei criteri di ermeneutica negoziale.

Un eguale principio è stato affermato da una parte della giurisprudenza a proposito delle disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini o dai collegi professionali.

Si è detto che tali disposizioni, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche delle norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all'art. 12 delle preleggi, ma sono espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini o dei collegi. Sicché, in base a codesto indirizzo, esse ripeterebbero la loro autorità da consuetudini professionali e da norme che i suddetti ordini o collegi emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi, e per regolare la propria funzione disciplinare.

Per tale ragione, un orientamento giurisprudenziale assume che pure le suddette disposizioni vadano interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1362 e ss. c.c., e che col ricorso per cassazione sia denunciabile, ex art. 360, n. 3, c.p.c., giustappunto la violazione o falsa applicazione dei citati canoni, con la specifica indicazione di quelli tra essi in concreto disattesi, ovvero, ex art. 360, n. 5, c.p.c., il vizio di motivazione; vizio peraltro non riscontrabile allorquando si intenda far prevalere sulla logica e coerente interpretazione seguita nel giudizio di merito una diversa opzione ermeneutica patrocinata dalla parte ricorrente (Cass. civ., Sez. Un., 10 luglio 2003, n. 10842. Contra peraltro Cass. civ.,14 luglio 2004, n. 13078).

Il citato orientamento non è pacifico, essendosi più di recente delineata la propensione giurisprudenziale verso una soluzione opposta, in materia, per esempio, di responsabilità disciplinare degli avvocati.

Diverse decisioni si sono nel tempo orientate a dire che le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810). E il principio è stato confermato a proposito delle norme del codice deontologico degli architetti (Cass. civ., 3 marzo 2011, n. 5116).

Queste conclusioni appaiono in effetti maggiormente persuasive, perché l'applicabilità di una regola di condotta a una determinata categoria professionale non ne esclude i connotati di generalità e astrattezza, e quindi non consente di predicarne la natura privatistica. Invero si tratta di norme di condotta obbligatorie per tutti gli iscritti a un albo professionale, integranti il diritto oggettivo ai fini di una ben specificata tipologia di azione, qual è quella discendente dall'illecito disciplinare. Dunque di norme da questo punto di vista universali, o, come anche si dice, universabili (N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958, 230 e ss.). Ché tali sono invero quelle norme giuridiche che postulano criteri di giudizio applicabili in tutti i molteplici casi simili, facenti riferimento a classi di soggetti o a classi di situazioni, più che a regole specifiche di condotta.

Considerando la questione da simile angolo visuale, una maggiore coesione interpretativa si registra con riferimento a distinti contesti regolamentari non egualmente caratterizzati: per esempio comunemente si nega che il sindacato della Corte di cassazione possa essere esteso alle violazioni o false applicazioni dei regolamenti bancari uniformi, ovvero di quelli destinati a regolare i rapporti tra banche che operano in stanza di compensazione.

Le peculiari caratteristiche di tali norme confortano, per differenza, la conclusione sopra esposta.

I rapporti tra banche che operano in stanza di compensazione, regolati dall'art. 2 della "procedura di scambio e regolamento", contenuto in apposita circolare dell'Associazione bancaria italiana (A.b.i.) e applicabile alle aziende di credito in virtù della loro adesione alla convenzione, hanno effettivamente natura privatistica e sono imperniati su vincoli contrattuali (il contratto di riscontro), in forza dei quali gli aderenti si impegnano al pareggiamento globale dei reciproci crediti e debiti che periodicamente si contrappongono nella stanza, in vista di una oggettiva compensazione. Pertanto l'interpretazione, da parte del giudice di merito, di tale tipologia di regolamento è soggetta – essa sì -, in sede di legittimità, a controllo nei limiti della logicità del ragionamento, della adeguatezza della motivazione e della violazione delle regole ermeneutiche (Cass.civ., 14 maggio 2014, n. 10464).

Una coerente linea di demarcazione viene in rilievo per i regolamenti amministrativi e per gli atti normativi cosiddetti secondari.

In linea generale si riconosce che la violazione di regolamenti amministrativi o di atti di normazione secondaria può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove il regolamento abbia, giustappunto, una funzione normativa, vale a dire sia dotato di rilevanza giuridica esterna (Cass. civ., 5 agosto 2005, n. 16547; Cass. civ., 5 ottobre 2007, n. 20898). Si escludono così dall'alveo del sindacato di legittimità le norme regolamentari di tipo meramente organizzativo, come pure le circolari interne alla pubblica amministrazione.

Tutto questo conferma che, salva ovviamente le necessità di discernere caso per caso la situazione dedotta, quel che interessa ai fini dell'art. 360, n. 3, c.p.c. è il riferimento alla norma giuridica come fonte di criteri qualificatori affrancati o affrancabili da riferimenti singolari o specifici, e dunque per questa ragione suscettibile di affermarsi come di applicazione appunto generale e (almeno tendenzialmente) universale.

Il diritto straniero e il diritto comunitario

Nell'alveo dell'errore di diritto denunciabile ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. rientra sicuramente la norma di diritto straniero.

L'interpretazione della legge straniera, al pari di quella nazionale, appartiene alla competenza istituzionale della Corte di cassazione, sicché, ove tale legge si applichi al rapporto controverso, è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge (v. per tutte Cass.civ., 26 ottobre 2015, n. 21712).

Rientrano inoltre pacificamente, nell'ottica del sindacato della cassazione sull'errore di diritto, le fonti comunitarie.

A proposito di tali fonti rileva la verifica di compatibilità del diritto interno con quello comunitario.

Tale verifica non è neppure condizionata, dinanzi alla Corte Suprema, alla deduzione di uno specifico motivo di ricorso.

Come nei casi di ius superveniens o della modifica normativa determinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative questioni possono essere conosciute anche d'ufficio, salva la necessità di nuovi accertamenti di fatto (Cass.civ., 13 maggio 2010, n. 11642; Cass. civ., 15 marzo 2010, n. 6231).

Non vi sono preclusioni quindi alla rilevabilità, anche d'ufficio e per la prima volta, in sede di legittimità della questione relativa alla compatibilità della norma interna con quella comunitaria sopravvenuta.

Giova tuttavia sottolineare che il diritto comunitario, così come costantemente interpretato anche dalla Corte di Giustizia (v. Corte giust. 3 settembre 2009 in C-2/08; Corte giust. 16 marzo 2006 in C-234/04), non arriva a imporre al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne finalizzate a salvaguardare distinte esigenze di stabilità e di certezza delle situazioni giuridiche.

In particolare resta sempre salva la necessità di fare applicazione delle norme interne da cui deriva l'autorità della cosa giudicata.

La disapplicazioni di tali norme non è consentita nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto comunitario (v. Cass.civ., 29 luglio 2015, n. 16032).

Gli errori di diritto e gli errori motivazionali

Si è detto che il motivo di ricorso rispondente al paradigma dell'art. 360, n. 3, c.p.c. è teso a far valere in sede di legittimità l'error iuris in iudicando nelle due prospettive nelle quali esso astrattamente può articolarsi: la violazione e la falsa applicazione.

É opportuno sottolineare che rimane sempre estranea al surriferito, e per quanto sintetico duplice, momento della valutazione in diritto - e in particolare rimane estranea alla denunzia di falsa applicazione della norma, nelle distinte possibilità evocative - la censura alla motivazione della sentenza.

Tale censura ha infatti per oggetto il diverso ambito della ricognizione, da parte del giudice del merito, della fattispecie concreta attraverso le risultanze della causa (v. per tutte Cass. civ., 26 settembre 2005, n. 18782).

La Cassazione, per la necessità di tenere ben distinte le prospettive da ultimo indicate, è solita porre in evidenza che la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto deve essere denunciata in modo specifico, mediante cioè la specifica indicazione dei punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza della Corte (di recente, Cass. civ., 29 novembre 2016, n. 24298).

Questa esigenza trova la propria corretta spiegazione in ciò: che con la censura di violazione o falsa applicazione viene dedotto in Cassazione un vizio proprio della decisione impugnata (il tipico errore in iudicando), immediatamente rimesso alla cognizione della Corte nei limiti della censura consegnata al motivo di ricorso; mentre, allorché sia denunziata o sia denunziabile l'erronea ricognizione della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa, ci si pone all'esterno della esatta interpretazione della norma o del principio di diritto, in quanto la ricognizione della fattispecie nei suoi elementi di fatto è istituzionalmente riservata al giudice del merito.

Consegue che la critica a essa è possibile solo mediatamente (o indirettamente), a misura della deduzione di un vizio non della decisione (in sé) ma della sua giustificazione (cfr. M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 581 e ss.).

In tal senso la possibilità di critica che residua in sede di legittimità attiene al distinto versante del sindacato della motivazione, oggi limitato all'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio - un fatto storico (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) - che sia stato oggetto di discussione tra le parti.

Ai fini del sindacato della Corte Suprema, ferma rimanendo naturalmente la necessità di una puntuale censura finalizzata a far valere il vizio, la questione di diritto rileva invece in sé e per sé, a prescindere dalla motivazione adottata dalla sentenza di merito.

In altre parole, non è rilevante che la soluzione giuridica offerta dal giudice sia stata sostenuta con una motivazione sufficiente o inadeguata, giacché il vizio di motivazione di cui all'art. 360, n. 5 c.p.c. può attenere solo a una questione di fatto, mai di diritto (Cass. civ., 9 giugno 2006, n. 13435); e a sua volta il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, di cui all'art. 360, n. 3, ricorre o non ricorre quale che sia la motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione o del processo di sussunzione (Cass.civ., 24 ottobre 2007, n. 22348).

Perfino la mancanza di motivazione sulla questione di diritto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto a un'esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. Invero si estende al caso il potere correttivo di cui all'art. 384 c.p.c., avendo le Sezioni Unite riconosciuto, in ragione della funzione nomofilattica affidata alla Corte dall'ordinamento, e in ragione dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), che il potere di correggere la motivazione, mediante l'enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sussiste anche a fronte di un error in procedendo, quale tipicamente è quello discendente da una motivazione di merito completamente omessa (Cass. civ., Sez. Un., 2 febbraio 2017, n. 2731).

In conclusione, ai fini dell'esistenza o meno del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, interessa unicamente questo: che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero ancora che sia stata male applicata. Sicché in ogni caso il ricorrente non può che predicare l'erronea interpretazione o l'erronea applicazione della norma o del principio da parte del giudice che ha emesso la sentenza, e deve farlo, a pena di inammissibilità, ex art. 366, n. 4, c.p.c., indicando i motivi per i quali formula la domanda di cassazione.

La specificità della censura sull'errore di diritto

L'esigenza di denunzia specifica dell'errore di diritto riflette la portata del ricorso per cassazione quale mezzo di impugnazione ordinaria a critica vincolata e a cognizione limitata ai motivi fatti valere in giudizio.

Per quanto sia improprio discorrere, in tale prospettiva, di un vero effetto devolutivo in sede di legittimità, resta che l'elencazione tassativa dei motivi circoscrive l'ambito dei vizi denunziabili in cassazione, e per tale via segna anche il limite della cognizione della Corte.

In questo specifico senso va intesa l'affermazione, costante in giurisprudenza, secondo la quale i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali o ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal Giudice di legittimità, sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa.

Invero, il ricorrente ha l'onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo - si dice - assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito fondamentale non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello.

Una tale modalità di formulazione del motivo rende al dunque impossibile individuare la critica mossa a una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, ed è carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione (Cass.civ., 12 giugno 2006, n. 13592; Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15882).

Poiché allora, attraverso il ricorso, è possibile muovere esclusivamente censure intese a far valere singoli errori di diritto, la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto deve essere denunciata in modo puntuale, con specifica indicazione dei punti della decisione impugnata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, per modo da consentire alla Corte di immediatamente percepire qual è il vizio in ordine al quale essa è chiamata a svolgere la propria funzione di giudice supremo di legalità.

Accanto alla sottolineatura di esistenza di un simile onere di specificità, la notazione consente di precisare anche il nesso che intercorre tra quell'onere e i profili di ammissibilità della censura.

La necessità che la censura sia denunciata in modo specifico, mediante indicazione dei punti della sentenza impugnata in asserito contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza della Corte, normalmente suppone che il ricorso contenga l'enunciazione delle norme o dei principi che si dicono violati, secondo lo schema formale dell'art. 360 c.p.c..

Tuttavia ove semplicemente manchi codesta formale indicazione il ricorso non è inammissibile ai sensi dell'art. 366, n. 4, c.p.c., perché l'indicazione delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo e imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto per chiarire il contenuto delle censure formulate e identificare limiti della impugnazione (v. in motivazione Cass. civ., 20 dicembre 2016, n. 26329).

Consegue che la mancata o anche l'erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l'inammissibilità del ricorso ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano comunque di individuare, infine, quelle norme o quei principi di diritto che si assumono infranti, e rendano così possibile la delimitazione del quid disputandum (v. Cass. civ., 3 agosto 2012, n. 14026; Cass. civ., 21 gennaio 2013, n. 1370).

Il rapporto con la questione decisa dal giudice a quo

Per la peculiare funzione dei motivi di ricorso, di circoscrivere l'ambito della cognizione della Corte rispetto a un ben delineato errore ascrivibile alla sentenza impugnata per cassazione, l'errore di diritto deve essere associato a una questione compresa nell'oggetto del giudizio di merito.

Il ricorrente, il quale introduca temi di indagine che in base alla sentenza impugnata non appaiono affrontati nei gradi di tale giudizio, ha l'onere di allegare l'avvenuta deduzione delle medesime questioni e di indicare gli atti afferenti (v. Cass.civ., 31 agosto 2007, n. 18440).

In particolare nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello (Cass. civ., 23 gennaio 2007, n. 1474).

Il principio, costante nella giurisprudenza della Corte, deve essere naturalmente coordinato con i profili attinenti alle questioni di diritto rilevabili d'ufficio.

In questo senso è ben possibile che una questione di diritto sia sollevata per la prima volta in Cassazione in quanto rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado: si pensi al caso della nullità di una convenzione negoziale, oggi risolto in senso opposto alla tradizione sulla base della dicotomia tra dichiarazione e rilevazione, appunto, della nullità. Secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, la rilevazione ex officio delle nullità negoziali (sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte, e altresì per le ipotesi di nullità speciali o di protezione) è sempre obbligatoria, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base a una individuata "ragion più liquida", e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio; la loro dichiarazione, invece, ove sia mancata un'espressa domanda della parte pure all'esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa (salvo per le nullità speciali, che presuppongono una manifestazione di interesse della parte) del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia, con efficacia, peraltro, di giudicato in assenza di impugnazione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, e Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26423).

Questo comporta che sia nel giudizio di appello, sia in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere a un siffatto rilievo.

Nondimeno la questione in sé rilevabile d'ufficio non può essere oggetto di esame, da parte della Corte di cassazione, nel momento in cui comporta accertamenti in fatto sulla esistenza, sul contenuto o sugli effetti di essa (questione), giacché simili accertamenti sono preclusi al Giudice di legittimità.

Il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicché sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche le questioni di diritto che postulino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito e, come tali, esorbitanti dal giudizio di legittimità.

Questo principio non subisce deroghe allorché la Corte di cassazione sia chiamata ad applicare il cosiddetto ius superveniens, giacché anche in tal caso l'indagine ermeneutica che essa compie, concernendo la verifica dell'applicabilità della disciplina sopravvenuta alla fattispecie in esame, tende ad attuare, sul piano di legittimità, l'ordinamento giuridico vigente con le stesse prerogative con cui va applicata la normativa già esistente anteriormente al giudizio di cassazione.

L'applicabilità del ius superveniens implica la novità di disciplina giuridica della medesima fattispecie che ha formato oggetto dell'accertamento compiuto dal giudice di merito.

Ne consegue che non è configurabile tale situazione allorché la norma invocata preveda un'ipotesi diversa da quella che ha formato oggetto di indagine e di accertamento nel giudizio a quo (cfr. Cass. civ.,4 ottobre 2005, n. 19350).

La tipologia di errore denunziabile

La denunzia di una violazione o di una falsa applicazione di norme di diritto viene in rilievo a patto della distinzione dei vizi della sentenza, secondo la dicotomia tradizionale che vede contrapposti gli errores in iudicando agli errores in procedendo.

Ben vero l'art. 360, n. 3, c.p.c. è spesso inteso nel senso che le norme di diritto, di cui esso tratta, sono le norme di diritto sostanziale.

La censura afferente andrebbe dunque contrapposta, secondo codeste tesi, a quella di cui all'art. 360, n. 4, c.p.c., nello specifico senso che la prima farebbe riferimento al solo error in iudicando nel giudizio sul merito, mentre la seconda sarebbe invece incentrata (al pari di quella di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo art. 360) su errores in procedendo.

La rilevanza di codesta distinzione, che riflette la classica contrapposizione tra i vizi di giudizio e i vizi di attività, è stata nel tempo ridimensionata dalla più accorta opinione dottrinale e giurisprudenziale, ma è necessario intendersi sul senso di tale ridimensionamento.

Una parte della dottrina reputa erroneo l'accostamento esclusivo dell'error in iudicando all'art. 360, n. 3, c.p.c., perché – si dice – un simile errore può riguardare anche il vizio di omesso esame di fatti decisivi per la situazione sostanziale; donde da questo punto di vista la questione sarebbe da rapportare all'ambito dell'art. 360, n. 5, c.p.c. che – ancora si dice – rappresenterebbe «una disposizione ben agganciata, al pari del n. 3, ai vizi della decisione di merito» (G.F. Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Torino, 2016, 129).

Nel contempo e comunque sarebbe erroneo associare l'errore di giudizio rilevante in Cassazione alla sola violazione (o falsa applicazione) di norme di diritto sostanziale, giacché anche le altre censure, e in particolare quelle ordinariamente riferibili a errori in procedendo (declinate dai nn. 1, 2 e 4 dell'art. 360 c.p.c.), presuppongono un errore di giudizio. Né del resto è così semplice (si pensi alle norme sulle prove) stabilire se la norma, che si assume violata nell'espletamento del giudizio di merito, sia in sé una norma di diritto sostanziale o processuale.

Tutto questo starebbe a dimostrare l'infruttosità di ogni tentativo di spiegazione del vizio compendiato nell'art. 360, n. 3, c.p.c. nell'alveo delle violazioni di norme di diritto sostanziale.

Le argomentazioni in tal senso rese dalla dottrina, al fine di contenere la rilevanza della distinzione pratica dei vizi della sentenza, solo in parte possono essere condivise.

Invero non lo possono essere affatto nella misura in cui si ritengono legittimate a svilire, nel contesto di un approccio sintetico all'errore di giudizio, ogni logica differenza che passa tra l'ambito della decisione e l'ambito della giustificazione.

Se è vero che la struttura del ragionamento decisorio e la struttura del ragionamento giustificativo possono coincidere nel momento in cui si volge lo sguardo alla dimensione statica del processo decisionale (v. già G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, 151 e ss.), per l'elementare considerazione che ogni giudice dovrebbe tendere a elaborare la decisione che può razionalmente argomentare, è altrettanto evidente che i due ambiti strutturali non coincidono sul versante del sindacato di legittimità (cfr. M. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, II, Bologna, 1991, 137 e ss.).

Il controllo della Cassazione sul giudizio di fatto, al quale tipicamente è dedicato l'art. 360, n. 5, c.p.c., può rimanere ancorato ai limiti del sindacato di legittimità nella sola prospettiva in cui esso si mantenga entro i limiti della verifica di esistenza di una congruente motivazione.

Difatti ove non si contenesse nei limiti della distinzione tra decisione e motivazione, e divenisse funzionale alla verifica dell'errore in iudicando in sé e per sé considerato, ne seguirebbe la diretta estensione del sindacato di legittimità allo specifico giudizio di fatto che nella motivazione si esprime. Il che non è, perché la verifica del vizio di motivazione, quali che siano i confini di tale vizio, non investe mai, in sé, la decisione ma il procedimento logico teso a giustificarla (cfr. esattamente A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Torino, 2011, 34 e ss.).

Per questo si dice che siffatta tipologia di vizio costituisce un ibrido, che sfugge all'alternativa tra errori in iudicando ed errori in procedendo (M. Bove, Il sindacato della Corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano 1993, 193 e ss.). Ed è per questa stessa ragione che devesi negare qualunque fondamento al tentativo di scardinare, tramite esso, il limite fondamentale del sindacato di legittimità.

Le argomentazioni alle quali prima si faceva cenno possono invece esser condivise nella prospettiva di una peculiare possibile estensione alle norme processuali del sindacato in iure consegnato alla censura di cui all'art. 360, n. 3., c.p.c.. Peculiare estensione resa possibile dal rinvenimento di una soglia differenziale tra il vizio de iure procedendi e il vizio in procedendo, declinabile secondo l'ottica dell'art. 360, n. 4 c.p.c..

Non è in verità dubitabile che le norme di diritto che rilevano ai fini del mezzo costruito sull'art. 360, n. 3, c.p.c. siano innanzi tutto, e ovviamente, quelle di diritto sostanziale attinenti al merito della decisione. Non è dubitabile perché, appunto, con la deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto si fanno valere errori propriamente decisionali, non motivazionali.

In altre parole, la violazione della norma di diritto rileva sempre come vizio della decisione, non della giustificazione, nel senso che per esso non rileva la giustificazione che della decisione sia stata data dal giudice del merito.

Poiché le norme relative al merito sono normalmente norme di diritto sostanziale, essendo a esse correlato l'oggetto sostanziale della controversia, è logico inferire che per violazione di norme di diritto, secondo l'espressione utilizzata dall'art. 360, n. 3, c.p.c., si intende innanzi tutto la violazione delle norme di diritto sostanziale (F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2017, 425).

Tuttavia, se questo è vero nella normalità dei casi, non è vero sempre.

Soprattutto non è vero sul piano delle evidenze sistematiche.

Difatti, a livello sistematico, non vi sono argomenti per negare che la violazione della norma di diritto possa essere integrata anche in rapporto alle regole che disciplinano il contenuto della sentenza di merito, potendo in tal senso la norma essere identificata, in astratto, finanche con la legge processuale generale, con la legge che disciplina, cioè, la serie di atti in cui si articola il processo giurisdizionale (cfr. in particolare E. Fazzalari, Il giudizio civile di cassazione, Milano 1960, 67).

É quindi possibile che l'oggetto della controversia (nella parte devoluta) stia proprio nella regola processuale di condotta sulla quale il giudice è stato chiamato a giudicare.

Questa è la vera ragione che consente di ritenere sussumibili nel paradigma dell'art. 360, n. 3, c.p.c., anche gli errori commessi dal giudice nell'interpretazione della norma processuale.

Così, quando la sentenza abbia a statuire su una questione di rito, l'eventuale sua erroneità implica un vizio di contenuto, il quale presuppone di veicolare la censura denunziando proprio la violazione della norma processuale regolatrice della fattispecie.

In questi casi, la pronuncia espressa sulla questione processuale devoluta, ove errata sul piano contenutistico, si reputa suscettibile di configurare il vizio de iure procedendi.

Tale vizio presuppone che le norme processuali siano state dal giudice applicate come semplice metro di giudizio, al fine cioè di dare un contenuto alla sua decisione esattamente come accade per le norme sostanziali.

Per l'errore de iure procedendi non valgono peraltro i limiti di sindacato della Corte Suprema quanto all'apprezzamento dei fatti posti a base dell'errore di diritto. In vero tali limiti non sussistono ove si discuta di violazioni di regole processuali, poste che siano - tali regole - al fondo della deduzione di un vizio di attività o di un errore di giudizio.

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