Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 62 - Norme applicabili 1 2 .1. Avverso la sentenza della corte di giustizia tributaria di secondo grado può essere proposto ricorso per cassazione per i motivi di cui ai numeri da 1 a 5 dell'art. 360, primo comma, del codice di procedura civile3. 2. Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto. 2-bis. Sull'accordo delle parti la sentenza della corte di giustizia tributaria di primo grado puo' essere impugnata con ricorso per cassazione a norma dell'articolo 360, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile4. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 116 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Comma modificato dall'articolo 9, comma 1, lettera z), numero 1), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. [4] Comma inserito dall'articolo 9, comma 1, lettera z), numero 2), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. InquadramentoIl ricorso per cassazione costituisce generalmente il terzo grado del giudizio tributario, esperibile contro le decisioni emesse in sede di appello dalla Commissione Tributaria Regionale. Al riguardo, occorre innanzitutto ricordare che la disciplina relativa all'impugnazione delle sentenze tributarie ha subito profonde modifiche a seguito dell'introduzione del d.lgs. n. 546/1992. In precedenza, infatti, il ricorso per cassazione era proponibile soltanto avverso le sentenze emesse dalla Corte di Appello, mentre le pronunce emesse dalla Commissione Tributaria Centrale erano impugnabili soltanto ai sensi dell'art. 111, comma 7, della Costituzione, ossia per violazione di legge (Di Paola, 686). A seguito dell'introduzione del citato decreto, la disciplina di tale grado di giudizio, come noto contenuta nel codice di procedura civile, trova applicazione nel diritto tributario grazie al rinvio operato dall'art. 62 del d.lgs. n. 546/1992. Più in particolare, il comma 1 della norma da ultimo citata prevede che «attraverso la sentenza della commissione tributaria regionale può essere proposto ricorso per cassazione per i motivi di cui ai numeri da 1 a 5 dell'art. 360, primo comma, del codice di procedura civile». Il comma 2 dispone che «al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto». In considerazione del «valore costituzionale dell'unità della giurisdizione e della limitazione dei margini di specialità ammessi nel nostro ordinamento», che si palesa nella «riduzione dei margini di specialità del processo tributario destinata ad arrestarsi... alla soglia del giudizio di legittimità», il rinvio operato dall'art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme sui ricorsi per cassazione deve ritenersi «formale» e «mobile» e non «materiale» e «fisso», le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze delle Commissioni tributarie si applicano sia il nuovo n. 5) dell'art. 360, c.p.c., sia l'ultimo comma del ci- tato art. 348-ter (Cass.S.U., n. 8053/2014). La Suprema Corte ha recentemente precisato che le disposizioni di cui all'art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni, dalla l. n. 134/2012, si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie regionali e ciò sia per quanto riguarda la nuova formulazione dell'art. 360, n. 5), c.p.c., secondo la quale la sentenza d'appello è impugnabile «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», sia per quanto riguarda l'ultimo comma dell'aggiunto art. 348-ter c.p.c., secondo il quale la proponibilità del ricorso per cassazione è ammessa esclusivamente per i motivi di cui all'art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), qualora l'impugnazione sia proposta avverso una sentenza d'appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata (Cass.S.U., n. 8053/2014). I provvedimenti impugnabiliIn ambito civilistico, il ricorso per cassazione è ammesso avverso tutte le sentenze rese in appello o in unico grado. In via eccezionale, l'impugnazione può essere proposta nei confronti della sentenza di primo grado, per saltum, quando le parti siano tra loro d'accordo per omettere il secondo grado di giudizio (Di Paola, 687). In materia tributaria, prima della riforma apportata dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, il ricorso per cassazione costituiva il mezzo di impugnazione esperibile soltanto avverso le sentenze di secondo grado emesse dalle Commissioni tributarie regionali. Invero, poiché l'art. 62, d.lgs. n. 546/1992 prevede che il ricorso è ammesso contro le sentenze delle Commissioni regionali, da un lato, è, l'art. 52, dall'altro, prevede che le decisioni delle Commissioni provinciali sono impugnabili con l'appello, era da escludersi il ricorso diretto per saltum alla Corte, contro le sentenze di primo grado (Marcheselli, 2016, 853). Tale preclusione è stata superata con l'introduzione dell'art. 9, comma 1, lett. z), n. 2, d.lgs. n. 156/2015, a decorrere dal 1° gennaio 2016 (entrata in vigore prevista dall'art. 12, comma 1 del medesimo d.lgs. n. 156/2015), il quale ha aggiunto il comma 2-bis all'articolo in esame, in forza del quale, anche nel rito tributario, al pari di quello civile, è ammissibile il ricorso per saltum sull'accordo delle parti e solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Il ricorso per cassazione, inoltre, può essere esperito avverso i provvedimenti emessi dai giudici di primo grado, ossia nei casi di sentenze della Commissione tributaria provinciale passate in giudicato che adotta i provvedimenti indispensabili per l'ottemperanza ex art. 70, comma 10, d.lgs. n. 546/1992. I singoli motivi di ricorso: motivi attinenti la giurisdizioneL'articolo in commento prevede che il ricorso per cassazione è esperibile per tutti i motivi di cui all'art. 360, comma 1 del codice di procedura civile. Più in particolare, la norma da ultimo citata prevede il ricorso per cassazione: 1) per i motivi attinenti alla giurisdizione; 2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza; 3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; 4) per nullità della sentenza o del procedimento; 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Al riguardo, occorre chiarire che, stante il rinvio alle norme del c.p.c. «in quanto compatibili con quelle del presente decreto», contenuto all'art. 62 comma 2 del d.lgs. n. 546/1992, è esclusa l'applicabilità in ambito tributario della seconda parte del n. 2 dell'art. 360, comma 1 c.p.c. («...quando non è prescritto il regolamento di competenza»), nonché il riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro di cui al successivo n. 3, poiché trattasi di disposizioni incompatibili con la materia tributaria (Di Paola, 688). Invero, quanto al regolamento di competenza, si ricorda che lo stesso costituisce mezzo di impugnazione espressamente escluso dall'ambito tributario ai sensi dell'art. 5, comma 4, d.lgs. n. 546/1992 e del successive art. 50. Con riferimento, invece, ai contratti collettivi di lavoro, è agevole comprendere l'esclusione di tale materia dalla giurisdizione dei giudici tributari e, di conseguenza, la violazione di tali contratti non può essere rilevata con un motivo di ricorso per cassazione avverso una decisione emessa in ambito tributario. Con particolare riferimento alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, si ricorda che la stessa è disciplinata espressamente dall'art. 2 del d.lgs. n. 546/1992. In questa sede, va rilevato che le questioni attinenti alla giurisdizione delle Commissioni tributarie possono, in genere, concernere il riparto della giurisdizione tra giudici tributari e a) giudice ordinario; b) giudice amministrativo; c) giudice straniero ovvero d) la questione del difetto assoluto di giurisdizione, consistente nella insussistenza di giurisdizione di un giudice qualsiasi su una particolare fattispecie. Quest'ultima ipotesi è stata ritenuta, da parte della dottrina, puramente teorica con riferimento alla materia tributaria in quanto si ritiene che in tale ambito sussiste una riserva assoluta di attribuzioni della Pubblica Amministrazione (Pistolesi, 773). Tuttavia, occorre dar conto di posizioni dottrinali contrarie. La circostanza potrebbe verificarsi ad esempio, qualora si ritenga che l'annullamento in autotutela degli atti tributari illegittimi sia un atto sottoposto all'assoluto potere discrezionale dell'Amministrazione finanziaria. Il relativo diniego, pertanto, non sarebbe impugnabile in quanto oggetto di impugnazione sarebbe, oltre alla questione della illegittimità dell'atto del cui annullamento si tratta, anche il cattivo uso del potere di annullamento in autotutela, configurandosi, in tal modo, un'area di difetto assoluto di giurisdizione (Tesauro, 2007, 9 ss.). Secondo parte della dottrina, nell'ipotesi di cui al n. 1 dell'art. 360 c.p.c. rientrerebbero anche le questioni concernenti la composizione del collegio giudicante, i vizi di omessa pronuncia, di extra o ultra petizione e di violazione di giudicato (Fazzalari, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960, 582). Secondo altra teoria interpretativa, invece, le questioni da ultimo citate rientrerebbero tra i motivi di cui all'art. 360, comma 4, c.p.c. (Pistolesi, 773). Diverso è il campo di esplicazione dei conflitti, positivi o negativi, di giurisdizione previsti e disciplinati dall'art. 362, comma 2, c.p.c.. Invero, tali fattispecie non riguardano l'impugnativa di una sentenza nello svolgimento della serie delle impugnazioni previste avverso il singolo provvedimento giurisdizionale, ma della risoluzione della contraddizione tra due o più provvedimenti giurisdizionali di giudici appartenenti a ordini diversi. Più in particolare, il conflitto positivo di giurisdizione sussiste laddove due o più giudici speciali o il giudice ordinario e il giudice speciale affermano tutti la propria giurisdizione sulla stessa controversia. Al contrario, sussiste conflitto negativo di giurisdizione quando gli stessi giudici declinano tutti la giurisdizione. Tali conflitti possono essere denunciati in qualsiasi momento con ricorso per cassazione, affinché la Corte di Cassazione provveda a dirimerli (art. 362 c.p.c.). La giurisdizione tributaria, i cui confini sono delineati nell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, è una giurisdizione attribuita in via esclusiva e ratione materiae, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia di atti emessi dall'Amministrazione finanziaria (Cass.S.U., n. 3773/2014; Cass.S.U., n. 27209/2009; Cass.S.U., n. 20889/2006), e che, ai fini della sua sussistenza, è necessario che alla controversia non sia estraneo l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema potestà-soggezione, proprio del rapporto tributario: se si tratta, cioè, di una controversia tra privati, la mancanza di un soggetto investito di potestas impositiva, intesa in senso lato, comporta l'assenza anche del rapporto tributario (Cass.S.U., n. 2950/2016; Cass. n. 3773/2014; Cass. n. 7526/2013; Cass. n. 2064/2011; Cass. n. 8312/2010; Cass. n. 15031/2009). A norma del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, come modificato dalla l. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, sono sottratte alla giurisdizione del giudice tributario le sole controversie attinenti alla fase dell'esecuzione forzata; ne consegue che l'impugnazione degli atti prodromici all'esecuzione, quali la cartella esattoriale o l'avviso di mora (o l'intimazione di pagamento exd.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, rilevante nella specie) è devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, se autonomamente impugnabili ai sensi dell'art. 19 del medesimo d.lgs. (Cass. n. 12888/2015; conf. Cass.S.U., n. 8279/2008). La “traslatio iudicii” che assicura la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, è applicabile, già anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 59 della l. n. 69 del 2009, anche ai rapporti tra le diverse giurisdizioni e pure con riferimento alle pronunce declinatorie di giurisdizione dei giudici di merito, atteso che, da un lato, le differenze di organizzazione tra giudice ordinario e giudice speciale non possono danneggiare l'efficacia e l'efficienza del servizio giustizia e, dall'altro,, che le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione tra i giudici di merito, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile per non essendo applicabile “ratione temporis”, l'art. 59 della l. n. 69 del 2009, la riassunzione della causa davanti al giudice tributario dopo che la sezione lavoro di un tribunale, di fronte alla tempestiva impugnazione di una cartella di pagamento, aveva declinato la propria giurisdizione) (Cass. n. 4217/2017). Ai fini della delimitazione dell'ambito della giurisdizione tributaria, occorre attribuire esclusivo rilievo alla disciplina dettata dal d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2 (nelle formulazioni succedutesi nel tempo, anche a seguito di pronunce della Corte costituzionale), norma espressamente dedicata a definire l'oggetto della giurisdizione tributaria, senza che tale disciplina possa essere in qualche modo condizionata (in senso limitativo) dal dettato del medesimo d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 (anch'esso più volte modificato), il quale, agendo su un piano distinto, elenca gli atti che possono — e debbono — essere oggetto di impugnazione dinanzi al giudice tributario (Cass.S.U., n. 13443/2014; conf. Cass.S.U., n. 3773/2014). Segue. Le questioni attinenti alla competenza Il motivo di ricorso in esame è esperibile laddove la sentenza impugnata abbia risolto erroneamente una questione di competenza, a seconda dei casi affermando o negando la competenza del giudice adito. Tale motivo di impugnazione deve essere correlato con l'art. 5, comma 4 del d.lgs. n. 546/1992, che disciplinano la materia della competenza. Invero, la norma da ultimo citata esclude l'ammissibilità dell'istanza di regolamento di competenza alla Corte di cassazione. La Corte, quindi, non può essere investita né dal regolamento necessario di competenza, previsto dall'art. 42 c.p.c. avverso l'ordinanza del giudice di merito che pronuncia solo sulla competenza, né dal regolamento facoltativo di competenza, previsto dall'art. 43 c.p.c. avverso il provvedimento che pronunci su competenza e merito, e neanche dal regolamento d'ufficio, previsto dall'art. 45 c.p.c. per l'ipotesi in cui, dichiarata l'incompetenza da parte di un primo giudice a favore di un secondo, anche questi declini la propria competenza. Con particolare riferimento, invece, alla generale esclusione del regolamento in questione, l'art. 5 d.lgs. n. 546/1992 dopo aver previsto espressamente che la competenza delle Commissioni tributarie è inderogabile, afferma che l'incompetenza è rilevabile anche d'ufficio ma solo nel grado di giudizio cui il vizio si riferisce. Nelle ipotesi in cui l'incompetenza sia dichiarata e la causa riassunta innanzi al giudice competente, la questione sulla competenza risulta definitivamente accertata e non può più essere contestata (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 546/1992). La parte che non condivida la sentenza che dichiara l'incompetenza ha quindi l'onere di impugnarla tempestivamente con l'ordinario mezzo di impugnazione. Inoltre, i provvedimenti della Corte di Cassazione sulla competenza sono disciplinati dall'art. 382, comma 2 c.p.c., in forza del quale se la Corte cassa per motivi di competenza, statuisce su essa ed il processo dovrà essere riassunto davanti al giudice competente, pena l'estinzione del giudizio. In tema di contenzioso tributario, il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 5, comma 4, è inserito in un complesso normativo, integrante un microsistema, contenuto negli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 546 cit., che riguarda la disciplina della competenza, essenzialmente per territorio, delle commissioni tributarie, e si riferisce soltanto alle questioni che queste possono essere chiamate a rendere in ordine a tale competenza. Pertanto, in conformità all'esigenza di tutelare i diritti fondamentali garantiti dall'art. 24 Cost., comma 1, e art. 111 Cost., comma 2, e art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, deve ritenersi che la norma sopra citata non esclude la proposizione del regolamento di competenza avverso i provvedimenti di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., impugnazione senz'altro ammissibile alla stregua del combinato disposto del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 42 c.p.c.» (Cass. n. 9916/2010; conf. Cass. n. 11140/2015 e Cass. n. 18104/2013). Segue. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto, contratti e accordi collettivi Il motivo di cui all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ossia ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale, rappresenta il più frequente e tipico motivo di ricorso, soprattutto in ambito tributario. Invero, è soprattutto nel decidere tali ricorsi che la Suprema corte persegue e realizza lo scopo istituzionale di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge (Consolo, Glendi, 863). Detto altrimenti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto corrisponde alla più tipica e centrale funzione della Corte di cassazione, la c.d. funzione di nomofilachia, la tutela del rispetto delle fonti normative all'interno dell'ordinamento italiano (Marcheselli, 2016, 860). Più in particolare, per violazione di norme si intende la negazione o il fraintendimento di una disposizione di legge esistente o affermazione di una disposizione di legge inesistente. Al contrario, la falsa applicazione ricorre allorquando una norma correttamente intesa venga applicata ad una fattispecie non corrispondente a quella astratta prevista dalla norma stessa. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 195/2016). Le circolari della P.A. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l'attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi, sicché la loro violazione non è denunciabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. (Cass. n. 16644/2015). Negli stessi termini si era espressa la Cassazione con ord. 35/2010 affermando che il motivo di ricorso per cassazione costituito dalla violazione e falsa applicazione di norma di diritto non si estende alla violazione di circolari ministeriali o documenti di prassi dell'Amministrazione finanziaria. Tali documenti rappresentano atti unilaterali la cui rilevanza può venire in nuce per la censura della violazione delle disposizioni in materia di interpretazione o vizi motivazionali della decisione impugnata. Tali atti non hanno, come peraltro chiarito dall'intervento nomofilattico della Corte, alcuna efficacia preclusiva né carattere vincolante per i contribuenti o per il giudice; non costituendo fonti di diritto sono sottratti al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione (Cass. ord. n. 35/2010). Il giudizio sottoposto alla Corte di Cassazione che, come noto, è giudizio di legittimità, non può avere ad oggetto valutazioni di merito, in espressa applicazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Deve, pertanto, essere respinto il ricorso che, pur lamentando un vizio di violazione di legge o di motivazione, prospetti, in realtà, solo una diversa valutazione complessiva dei fatti di causa estrapolando, in particolare, alcuni isolati passaggi della motivazione della sentenza impugnata e travisando talune affermazioni della Corte territoriale decontestualizzandole dai fatti e dalle circostanze cui sono riferite. (Cass. n. 24138/2010). Qualora una parte assuma che la sentenza di secondo grado, impugnata con ricorso ordinario per cassazione, è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti del giudizio di merito, il ricorso è inammissibile, essendo denunziato — al di là della qualificazione come «violazione di legge» — un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere, sussistendone i presupposti, solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall'art. 395 c.p.c.; né l'impugnabilità in cassazione dell'eventuale sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione (art. 403, secondo comma, c.p.c.) può essere idonea a trasformare un errore revocatorio in errore di diritto (Cass. n. 10066/2010). Il motivo di impugnazione di cui all'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., relativo alla violazione e falsa applicazione di norme di diritto costituisce doglianza circoscritta all'interpretazione della norma astratta applicata dal giudice al caso con-creto investendone quindi la validità ed ortodossia della conclusione ermeneutica. Laddove invece il ricorrente lamenti un'erronea ricostruzione della fattispecie concreta tale vizio non inerisce l'interpretazione della norma applicata bensì la valutazione di merito del giudice, censurabile sotto il profilo della carenza motivazionale ed in relazione alla specifica indicazione delle deficienze o contraddizioni mostrate dall'iter logico-giuridico seguito dal giudice. Peraltro, non è bastevole alle ragioni del ricorrente lamentare la diversità di opinione mostrata dal giudice rispetto alla tesi di parte; deve egli assolvere l'onus probandi circa l'omessa o contraddittoria valutazione del giudice descrivendo in modo esauriente la propria doglianza (Cass. n. 16896/2007). Il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall'art. 360, n. 3, c.p.c. deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di «errori di diritto» individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole normee pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell'ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501/2006; Cass. n. 5353/2007; Cass. n. 24298/2016). Si ritiene, invece, rientri appieno nella censura in esame, la violazione o falsa applicazione di norme comunitarie, qualora queste abbiano efficacia diretta nell'ordinamento nazionale. Più in particolare, il giudice nazionale deve verificare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni comunitarie vincolanti e fare applicazione delle medesime anche d'ufficio; pertanto, nel giudizio di cassazione la verifica della compatibilità col diritto comunitario non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e, come nei casi dello jus superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative questioni possono essere conosciute purché l'applicazione del diritto interno sia ancora controversa costituendo oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso (Nella specie si discuteva se il diritto nazionale in materia di in.v.im. sui conferimenti di immobili fosse conforme al diritto comunitario e la S.C., in applicazione di tale principio, ha ritenuto di dover procedere d'ufficio alla relativa verifica, pur avendo l'amministrazione finanziaria sostenuto nei motivi d'appello l'assenza di contrasto sulla base di ragioni diverse da quelle svolte col ricorso per cassazione) (Cass. n. 7909/2000; Cass. n. 17564/2002; Cass. n. 13054/2004; Cass. n. 13225/2004; Cass. n. 6231/2010; Cass. n. 15032/2014). A fronte di un indirizzo giurisprudenziale più rigoroso, recentemente la Suprema Corte ha stabilito che è ammissibile il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo di impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, qualora, però, sia reso palese su quel fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica (Cass. n. 20335/2017). Segue. Nullità della sentenza o del procedimento L'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. consente di ricorrere alla Suprema corte per censurare gli errores in procedendo eventualmente commessi nel giudizio di merito. La norma prevede due separate ipotesi: nullità della sentenza e nullità del procedimento. Con particolare riguardo all'ipotesi di nullità della sentenza, si rileva che la stessa può essere nulla sia per vizi propri nonché per nullità derivata da un atto precedente e presupposto (Consolo, 2008, 183 ss.). Per le ipotesi di nullità proprie della sentenza occorre innanzitutto richiamare la disposizione di cui all'art. 36, d.lgs. n. 546/1992, che disciplina il contenuto legale della sentenza tributaria. Al riguardo occorre precisare che non tutti i vizi relativi al contenuto della sentenza comportano la nullità della stessa. Sono difatti esclusi vizi come l'omessa indicazione del Collegio, delle parti e dei loro difensori (per queste ipotesi sembra applicabile il rimedio della correzione di errore materiale). Al contrario, costituiscono vizi comportanti la nullità della sentenza la mancanza del dispositivo, la mancanza di sottoscrizione, la violazione delle norme sulla composizione del collegio giudicante, nonché il mancato rispetto tra chiesto e pronunciato e ciò sia sotto il profilo dell'omissione di motivazione, sia sotto quello di ultrapetizione, benché quest'ultimo motivo sembra poter essere ricompreso nell'ipotesi di cui al n. 3 dell'art. 360 c.p.c. (Consolo, Glendi, 865). I vizi c.d. derivati possono consistere in requisiti extraformali (quali, ad esempio, il difetto di legittimazione o della difesa tecnica, il mancato rispetto del litisconsorzio ex artt. 14 e 59, lett. b) o in requisiti di forma-contenuto (come i vizi concernenti le notificazioni; l'erronea dichiarazione di estinzione del processo). In tema di ricorso per Cassazione è infondato l'asserito vizio di omessa pronuncia, per avere la C.t.r. omesso di pronunciarsi su un punto specifico della domanda o su un'eccezione proposta, laddove la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto del motivo medesimo ovvero dell'eccezione (Cass. n. 8127/2016). Ad esempio, nel caso in cui, pur in mancanza di espresso esame del motivo di impugnazione relativo alle spese di primo grado, l'appello sia stato interamente rigettato nel merito con condanna dell'appellante al pagamento integrale delle spese di lite anche del secondo grado, non ricorre l'ipotesi dell'omesso esame di un motivo di appello, né quella del difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (c.d.'minuspetizione'), atteso che la condanna alle spese del secondo grado implica necessariamente il giudizio sulla correttezza di quella pronunciata dal primo giudice, sicchè il motivo di gravame relativo a tale condanna deve intendersi implicitamente respinto e assorbito dalla generale pronuncia di integrale rigetto dell'impugnazione e piena conferma della sentenza di primo grado (Cass. n. 2830/2021). In sostanza, non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulta incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell'attore, deponendo per l'implicita pronunzia di rigetto dell'eccezione medesima, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge delle decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. n. 24953/2020). In tema di pronuncia del giudice, il rapporto tra questa e le istanze delle parti, agli effetti dell'art. 112 c.p.c., può dar luogo a due diversi tipi di vizi: se il giudice omette del tutto di pronunciarsi su una domanda o un'eccezione, ricorrerà un vi-zio di nullità della sentenza per error in procedendo, censurabile in Cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; se invece il giudice si pronuncia sulla domanda o sull'eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche sottoposte al suo esame nell'ambito di quella domanda o di quella eccezione, ricorrerà un vizio di motivazione censurabile in Cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. L'erronea sussunzione nell'uno piuttosto che nell'altro motivo di ricorso del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, comporta l'inammissibilità del ricorso (Cass. n. 5205/2016). Sussiste contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, solo quando il provvedimento risulti inidoneo a consentire l'individuazione del concreto comando giudiziale e, conseguentemente, del diritto o bene riconosciuto (Nella specie, la S.C. ha rigettato la doglianza, atteso l'inequivoco contenuto del dispositivo di accoglimento parziale dell'appello, peraltro, coerente con la motivazione della sentenza, fondata sulla continuità rispetto alla decisione di primo grado) (Cass. n. 26077/2015; Cass. ord. n. 16014/2017). In seno al ricorso per Cassazione si configura il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello quando questi abbia completamente omesso l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d'appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda. Il vizio di omessa pronuncia, dunque, può essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice, in ordine ad una domanda che, ritualmente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Tale vizio deve escludersi relativamente ad una questione esplicitamente o implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza e che è quindi suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riprospettata con specifica censura (Cass. n. 23417/2015). La sentenza motivata per relationem, mediante mera adesione acritica all'atto d'impugnazione, senza indicazione né della tesi in esso sostenuta, né delle ragioni di condivisione, è affetta da nullità, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in quanto corredata da motivazione solo apparente (Cass. n. 20648/2015). Quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l'invalidità denunciata, mediante l'accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (Cass. n. 16164/2015; Cass. n. 8069/2016). Qualora si deduca in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, per violazione dell'art. 112 c.p.c., nel giudizio di riassunzione relativo ad opposizione agli atti esecutivi avverso cartella esattoriale per effetto dell'ordinanza di incompetenza del giudice di pace, è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali istanze, nel ricorso per cassazione, siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini, ovvero per riassunto del loro contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne la ritualità e la tempestività e la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. n. 25299/2014). Segue. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti Prima della riforma operata dall'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. contemplava quale motivo di ricorso per cassazione l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Come anticipato, tale motivo è stato di recente modificato dal d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile alle sentenze pubblicate dall'11 settembre 2012) e prevede, nella sua attuale formulazione, la possibilità di censurare il solo caso dell'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. La previsione di cui all'art. 54, comma 3-bis, d.l. n. 83/2012 (a norma del quale «le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546») ha fatto inizialmente sorgere il dubbio che le innovazioni apportate dalla l. n. 134/2012 quanto alla disciplina del ricorso per cassazione non fossero riferibili all'impugnazione per cassazione in materia tributaria. Sul punto sono successivamente intervenute le Sezioni Unite, affermando che, in considerazione del «valore costituzionale dell'unità della giurisdizione e della limitazione dei margini di specialità ammessi nel nostro ordinamento», che si palesa nella «riduzione dei margini di specialità del processo tributario destinata ad arrestarsi... alla soglia del giudizio di legittimità», il rinvio operato dall'art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme sui ricorsi per cassazione deve ritenersi «formale» e «mobile» e non «materiale» e «fisso». Di conseguenza, ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze delle Commissioni tributarie si applicano sia il nuovo n. 5) dell'art. 360, c.p.c., sia l'ultimo comma del citato art. 348-ter (Cass.S.U., n. 8053/2014). In particolare, le disposizioni di cui all'art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni, dalla l. n. 134/2012, si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie regionali e ciò sia per quanto riguarda la nuova formulazione dell'art. 360, n. 5), c.p.c., secondo la quale la sentenza d'appello è impugnabile «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», sia per quanto riguarda l'ultimo comma dell'aggiunto art. 348-ter c.p.c., secondo il quale la proponibilità del ricorso per cassazione è ammessa esclusivamente per i motivi di cui all'art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), qualora l'impugnazione sia proposta avverso una sentenza d'appello che confermi la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata (Cass.S.U., n. 8053/2014; in senso conforme Cass.S.U., n. 19881/2014). Peraltro, con la sentenza sopra menzionata, le Sezioni Unite hanno formulato alcuni principi di diritto ai quali si è uniformata la giurisprudenza successiva e che attengono più in generale alla nuova attuale configurazione del motivo di impugnazione di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Ebbene, secondo la Suprema corte la riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dalla l. n. 134/2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Di conseguenza, è denunciabile in Cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione. In secondo luogo, la Corte afferma che il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. introduce nell'ordinamento un vizio specifico concernente l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ossia che se esaminato avrebbe portato ad un esito diverso della controversia. Le Sezioni Unite affermano, poi, che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, laddove il giudice abbia comunque preso in considerazione il fatto storico rilevante in causa, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Infine, la Corte sostiene che, nel rigoroso rispetto delle norme di cui all'art. 366, comma 1, n. 6 e art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., la parte ricorrente dovrà indicare il «fatto storico» il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui ne risulti l'esistenza, il «come» e il «quando» (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la «decisività» del fatto stesso. La decisione nell'interesse della leggeA norma dell'art. 363 c.p.c. se le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, la Corte, su richiesta del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, può enunciare, nell'interesse della legge, il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. In tali casi, quindi, la Corte, nell'esercizio della funzione generale di nomofilachia, può pronunciare anche in assenza di valido, ammissibile ed efficace ricorso delle parti processuali, al fine di sancire solennemente un principio di diritto. La richiesta del Procuratore generale deve contenere una esposizione sintetica del fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda l'istanza stessa e deve essere rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite laddove ritenga che la questione sia di particolare importanza. Tale principio di diritto può essere formulato anche d'ufficio, qualora la Corte dichiara il ricorso inammissibile e ritiene che la questione decisa sia di particolare importanza. Ad ogni modo, preme sottolineare che, in nessuno dei casi suddetti, la pronuncia della Corte ha effetto sul provvedimento del giudice di merito. Alcuni autori hanno sostenuto che l'applicabilità di tale norma al processo tributario costituisca un'interessante possibilità d'interpello in alto grado che potrebbe conseguire effetti positivi proprio nella materia fiscale, spesso fortemente contrassegnata da liti in cui si presentano questioni di diritto (processuale e sostanziale), se così può dirsi, a carattere seriale (Consolo, Glendi, 836). La richiesta di enunciazione del principio di diritto rivolta alla S.C. dal P.G. ai senis del vigente art. 363, comma 1, c.p.c. si configura non già come mezzo di impugnazione, ma come procedimento autonomo, originato da una iniziativa diretta a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge non solo nella ipotesi di mancata proposizione del ricorso per cassazione o di rinuncia allo stesso, manche in quelle di provvedimenti non altrimenti impugnabili né ricorribili, in quanto privi di natura decisoria, sicchè tale iniziativa, avente natua di richiesta e non di ricorso, non necessita di contraddittorio con le parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento perché carenti di un interesse attuale e concreto, non risultando in alcun modo pregiudicato il provvedimento presupposto (Cass.S.U.n. 23469/2016). Tuttavia, la pronuncia di diritto nell'interesse della legge, ex art. 363, comma 3, c.p.c., presuppone sempre che la parte abbia proposto ricorso per cassazione, pur inammissibile, sicchè non vi è luogo a provvedere sull'istanza di enunciazione del principio contenuta in una semplice missiva indirizzata da una delle parti al Primo Presidente della Corte di cassazione (Cass. n. 10557/2015). Il patrocinio di avvocato iscritto nell'albo speciale e l'elezione di domicilio in RomaAi sensi dell'art. 365 c.p.c. il ricorso deve essere indirizzato alla Corte di cassazione e deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell'apposito albo, munito di procura speciale. L'albo cui si riferisce l'art. 365 c.p.c. è quello previsto dall'art. 33 r.d.l. n. 1578/1933 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) tenuto dal Consiglio Nazionale Forense e contenente l'elenco degli avvocati ammessi al patrocinio innanzi alla Suprema corte ed altre giurisdizioni speciali. La procura speciale per ricorrere davanti alla Corte di cassazione deve essere rilasciata in epoca anteriore alla notificazione del ricorso (o del controricorso contenente il ricorso incidentale) ma in epoca successiva alla pubblicazione della sentenza oggetto dell'impugnazione. Si precisa che per procura speciale si intende la procura rilasciata specificamente per proporre ricorso in Cassazione e può essere apposta sia con atto separato che a margine o in calce al ricorso. In tale ultimo caso la procura fa unico corpo con il ricorso e, pertanto, si assume conferita proprio per il giudizio di legittimità anche se formulata in termini generici e senza alcun riferimento al ricorso medesimo. Se, invece, la procura è conferita con atto separato, è indispensabile che tale atto sia materialmente congiunto al ricorso e non deve contenere espressioni dalle quali si evince che la procura riguardi altre fasi processuali o un altro giudizio (Di Paola, Tambasco, 282). Quanto, infine, alla sottoscrizione del difensore questa deve essere apposta, a pena di inammissibilità del ricorso, nell'originale dello stesso potendo, invece, mancare nella copia notificata purchè contenga elementi idonei ad attribuire l'atto al difensore. Al ricorso per cassazione avverso le decisioni delle Commissioni tributarie e al relativo procedimento si applicano, ai sensi dell'articolo 62, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, le norme dettate dal c.p.c. in quanto compatibili, tra le quali è compresa, direttamente, quella, dettata dall'articolo 365, che impone che il ricorso sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell'apposito albo, munito di procura speciale, e, indirettamente, quella, di cui all'articolo 82, comma 3, che prescrive che davanti alla Corte di cassazione le parti stiano in giudizio col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo, per il necessario fondamento tecnico di quel ricorso, implicitamente richiamato tanto dall'articolo 365 c.p.c., che dall'articolo 62, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui fa riferimento all'articolo 360 c.p.c. È pertanto inammissibile il ricorso per cassazione nei confronti di decisione della Commissione tributaria proposto dalla parte personalmente (Cass. n. 8918/2003; nello stesso senso cfr. Cass. ord. n. 8024/2011; Cass. n. 7157/2002 e Cass. n. 5712/2000). Come precisato dalla dottrina, anche per la giurisprudenza di legittimità, la procura per il ricorso per cassazione è necessariamente speciale, dovendo riguardare il particolare giudizio alla Suprema Corte sicchè è valida solo se rilasciata in data successiva alla decisione impugnata, così assicurandosi la certezza giuridica della riferibilità dell'attività svolta dal difensore al titolare della posizione sostanziale controversa, escludendosi, pertanto, la possibilità di una sanatoria e ratifica (Cass. n. 8741/2017). È inammissible il ricorso per cassazione allorquando la procura, apposta su foglio separato e materialmente congiunto al ricorso ex art. 83, comma 2, c.p.c., contenga espressioni incompatibili con la proposizione dell'impugnazione ed univocamente dirette ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali (Cass. n. 18257/2017). Si è anche ritenuto che sia ammissibile il ricorso per cassazione qualora l'avvocato, pur non avendone firmato il testo, abbia sottoscritto il mandato ad litem, apposto in calce all'atto, per autenticare la firma del mandante, valendo tale sottoscrizione anche far proprio il ricorso precedentemente esteso, al quale fa logico e necessario riferimento (Cass. n. 17359/2003). In tema di rito camerale di legittimità, ex art. 380 bis, comma 1, c.p.c., come introdotto dal d.l. n. 168 del 2016, conv. con modificazioni dalla l. n. 197 del 2016, la procura rilasciata, in calce o a margine della copia notificata del ricorso principale, anziché del controricorso, pu non essendo idonea per la valida proposizione di quest'ultimo, legittima il deposito delle memorie in vista dell'udienza camerale, ai sensi dell'art. 380 bis, comma 2, c.p.c., rappresentando questa, per il controricorrente, una volta venuta meno la possibilità di essere sentito all'udienza, l'unica facoltà residua di estrinsecazione del suo diritto di difesa (Cass. n. 14330/2017). Inoltre, in forza dell'estensione, ai sensi dell'art. 370, comma 2, c.p.c., delle disposizioni riguardanti il contenuto del ricorso per cassazione, il controricorso deve essere dichiarato inammissibile se la procura speciale al difensore, apposta sull'originale, non sia stata trascritta nella copia notificata, non consentendosi in tal caso alla controparte di controllare l'anteriorità del mandato rispetto alla notificazione dell'atto (Cass. n. 4529/2001; Cass. n. 3410/2003; Cass. n. 5916/2004; Cass. n. 27012/2005; Cass. n. 8200/2010; Cass. n. 5554/2011; Cass. ord. n. 19226/2014; Cass. ord. n. 59/2016). Qualora il mandato alle liti venga conferito a più difensori, ciascuno di essi, in difetto di una espressa ed inequivoca volontà della parte circa il carattere congiuntivo, e non disgiuntivo, del mandato medesimo, ha pieni poteri di rappresentanza processuale, con la conseguenza che, in caso di procura speciale per ricorrere per cassazione, il ricorso è validamente proposto, anche se sottoscritto da uno solo di essi ed anche se l'atro avvocato non sia iscritto nell'albo speciale, in ossequio al principio di conservazione dell'atto per raggiungimento dello scopo, nonché alle regole sul mandato per rappresentanza, mentre, per quanto attiene all'autenticazione delle sottoscrizioni, essa deve ritenersi possibile anche se effettuata soltanto da uno dei difensori designati, poiché l'art. 1712, comma 1, c.c., esige l'accettazione di tutti i mandanti soltanto nel caso di mandato congiunto (Cass. n. 15174/2017). La Corte ha recentemente precisato che non è affetta da nullità la notificazione del ricorso per cassazione eseguita ad istanza dell'avvocato munito di procura speciale per il giudizio di legittimità ancorchè non iscritto nell'albo speciale per il patrocinio davanti alla Corte di Cassazione, perché il particolare requisito dell'iscrizione nell'albo speciale riguarda l'attività difensiva e non quella procuratoria, le quali possono non coesistere nello stesso soggetto, e la notificazione è un atto dell'ufficiale giudiziario eseguibile ad istanza del procuratore (Cass. n. 10403/2017). Il contenuto del ricorso. L'identificazione delle partiIl contenuto del ricorso è disciplinato dall'art. 366 c.p.c., a norma del quale il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti; 2) l'indicazione della sentenza o decisione impugnata; 3) l'esposizione sommaria dei fatti della causa; 4) i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall'art. 366-bis; 5) l'indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di ammissione al gratuito patrocinio, il relativo decreto; 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso. Con particolare riguardo all'indicazione delle parti, occorre sottolineare che la legge non richiede alcuna forma specifica, essendo sufficiente che le parti, ancorché non indicate nell'epigrafe del ricorso, siano identificabili con certezza in base al contesto dello stesso ed al riferimento degli atti dei giudizi precedenti. Il ricorso, quindi, sarà inammissibile solo laddove si registri una incertezza assoluta sull'identità della parte. Il requisito dell'indicazione delle parti, richiesto dall'articolo 366, comma 1, del c.p.c. a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione deve intendersi nel senso proprio della norma generale dettata dall'articolo 163 del codice di procedura civile e pertanto l'inesatta indicazione della parte nella intestazione dell'atto non ne pregiudica l'inammissibilità se il suo complessivo contenuto rende evidente che si è verificato un mero errore materiale (Cass. n. 240/2017). Deriva, da quanto precede, pertanto, che l'errore inficiante l'indicazione della parte contro la quale l'impugnazione è rivolta non incide sulla validità del ricorso, qualora dal contesto di questo e dal riferimento agli atti dei precedenti gradi del giudizio sia agevole identificare con certezza tale parte (Cass. n. 24153/2004). In caso di proposizione del ricorso per cassazione nei confronti di società incorporata da un'altra società, posteriormente alla iscrizione dell'atto di fusione nel registro delle imprese, la costituzione in giudizio, mediante notifica e deposito in termini del controricorso, da parte della società incorporante dimostra il raggiunto scopo della vocatio in ius contenuta nel ricorso e ne sana, pertanto, il vizio con effetto ex tunc, in applicazione della norma contenuta nell'art. 164, comma 3, c.p.c. (nel testo sostituito dall'art. 9 l. 26 novembre 1990 n. 353) (Cass. n. 10501/2004). Sempre con riferimento all'elemento dell'identificazione delle parti, l'aspetto maggiormente problematico è quello relativo alla corretta individuazione dell'Amministrazione finanziaria legittimata a stare in giudizio come controparte. Più in particolare, il problema è sorto in conseguenza della applicazione della riforma della Amministrazione Finanziaria operata dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 e si è articolato nei due profili della corretta individuazione del soggetto cui l'atto deve essere rivolto (come intestazione) e notificato. La questione è stata risolta dalla Suprema corte la quale ha sostenuto che in tema di contenzioso tributario, a seguito dell'istituzione dell'Agenzia delle entrate, divenuta operativa dal 1 gennaio 2001, si è verificata una successione a titolo particolare della stessa nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all'adempimento dell'obbligazione tributaria, per effetto della quale deve ritenersi che la legittimazione ad causam e ad processum nei procedimenti introdotti successivamente alla predetta data spetti esclusivamente all'Agenzia; tale legittimazione costituisce infatti il riflesso, sul piano processuale, della separazione tra la titolarità dell'obbligazione tributaria, tuttora riservata allo Stato, e l'esercizio dei poteri statali in materia d'imposizione fiscale, il cui trasferimento all'Agenzia, previsto dall'art. 57 del d.lgs. n. 300/1999, esula dallo schema del rapporto organico, non essendo l'Agenzia un organo dello Stato, sia pure dotato di personalità giuridica, ma un distinto soggetto di diritto. Ai sensi dell'art. 72 del d.lgs. n. 300/1999, l'Agenzia ha facoltà di avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, il quale, in assenza di una specifica disposizione normativa, dev'essere richiesto in riferimento ai singoli procedimenti — anche se non è necessaria una specifica procura —, non essendo a tal fine sufficiente l'eventuale conclusione di convenzioni a contenuto generale tra l'Agenzia e l'Avvocatura. L'assunzione in via esclusiva da parte dell'Agenzia della gestione del contenzioso nelle fasi di merito, già attribuita dagli artt. 10 ed 11 del d.lgs. n. 546/1992 agli uffici periferici del Dipartimento delle entrate, comporta inoltre che, nei procedimenti introdotti anteriormente al 1o gennaio 2001, nei quali l'ufficio non abbia richiesto il patrocinio dell'Avvocatura, spetta all'Agenzia l'esercizio di tutti i poteri processuali, ivi compresi quelli di disposizione del diritto controverso e del rapporto processuale, con la conseguenza che la proposizione dell'appello da parte della sola Agenzia, senza esplicita menzione dell'ufficio periferico che era parte originaria, si traduce nell'estromissione di quest'ultimo. Per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi dell'art. 11 del r.d. n. 1611/1933, la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell'Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente invece di ritenere che la noti-fica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l'impugnazione, e quella del ricorso, possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell'Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l'interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d'inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all'organo che ha emesso l'atto o il provvedimento impugnato (Cass.S.U., n. 3116/2006; in senso conforme Cass. n. 1925/2008). In applicazione dei principi sopra enunciati, la Cassazione ha affermato che deve essere respinta l'eccezione d'inammissibilità del gravame per carenza di legittimazione processuale dell'Agenzia territoriale e del relativo direttore (in assenza di delega del direttore dell'Agenzia centrale), basata sul presupposto che, ai sensi dell'art. 68, comma 1, d.lgs. n. 300 del 1999, detta legittimazione competerebbe al solo direttore dell'Agenzia centrale, in quanto per consolidata giurisprudenza di questa Corte, da cui non vi è motivo di discostarsi (v. Cass.S.U., n. 3116/2006 e Cass. n. 6338/2008, Cass. n. 16830/2014; Cass. n. 20911/2014) la legittimazione processuale degli uffici locali dell'Agenzia delle Entrate trova fondamento nella norma statutaria (art. 5, comma 1, del Regolamento di amministrazione delle Agenzie) adottata ai sensi dell'art. 66 d.lgs. n. 300/1999; con l'effetto che agli uffici locali va riconosciuta la posizione processuale di parte e l'accesso alla difesa davanti alle commissioni tributarie tramite le rappresentanza del direttore, permanendo la vigenza degli artt. 10 e 11 d.lgs. n. 546/1072 e d.P.R. n. 636/1972 (Cass. n. 1464/2016). Segue. L'indicazione del provvedimento impugnato Con riferimento all'indicazione della sentenza impugnata, è necessario indicarne la data di pronuncia e di deposito, il numero, nonché la Commissione tributaria che l'ha pronunciata, inoltre, si consiglia di indicare anche la data di notifica al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica del rispetto dei termini di impugnazione. Ciascuna sentenze deve essere impugnata autonomamente, non essendo consentito impugnare più sentenze con il medesimo ricorso. Riguardo al disposto di cui al n. 2, si ricorda che le impugnazioni per cassazione contro la sentenza di merito resa in grado di appello e contro quella pronunciata nel successivo giudizio di revocazione possono essere contemporaneamente proposte con un unico ricorso, realizzandosi in sostanza un'ipotesi di connessione che potrebbe legittimare la riunione dei ricorsi, ove separatamente proposti. Qualora ciò si verifichi, il carattere pregiudiziale delle questioni inerenti alla revocazione impone di pronunziare anzitutto sui motivi del ricorso che si riferiscono alla seconda delle due decisioni considerate (Cass. n. 2818/2004; Cass. n. 16202/2005). La mancata indicazione nel ricorso per cassazione di ogni elemento identificativo della sentenza impugnata comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 2, c.p.c. (nella specie, gli estremi del provvedimento impugnato non erano indicati nel ricorso, né dalla sua lettura era possibile ricavarli, facendosi parola solo di una sentenza della «Commissione Regionale Veneta») (Cass. n. 16165/2003). Segue. L'esposizione sommaria dei fatti della causa e il principio di autosufficienza del ricorso L'art. 366, n. 3, c.p.c., prevede che il ricorso contenga l'esposizione sommaria dei fatti della causa. Tale requisito costituisce espressione del c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo il quale il ricorso deve contenere in sé tutti gli elementi necessari per individuare le ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata e per valutare la fondatezza di tali ragioni (Di Paola, Tambasco, 285). Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Tesauro, 2014, 257 ss.) è stato criticato da parte di quella dottrina che stenta a riconoscerne il sicuro fondamento normativo (Mandrioli, 501, nt. 71), riconducendolo al requisito della decisività del vizio, richiesta a norma dell'art. 360, n. 5, c.p.c., con riferimento al vizio di motivazione. Va tuttavia rilevato che non sembra esistere una coincidenza o implicazione logica tra il fatto che il vizio di motivazione debba concernere un punto decisivo e il fatto che il ricorso debba fornire al giudice tutti gli elementi necessari per la decisione (Marcheselli, 2016, 890). L'art. 366, n.3, c.p.c., prevede che il ricorso contenga l'esposizione sommaria dei fatti di causa. Secondo un indirizzo della giurisprudenza per soddisfare tale requisito non è necessario che l'esposizione dei fatti costituisca premessa autonoma e distinta rispetto ai motivi di ricorso, né occorre una narrativa analitica o particolareggiata, ma è sufficiente e, insieme, indispensabile che dal contenuto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del «fatto», sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo, non potendosi distinguere, ai fini della sanzione di inammissibilità, fra esposizione del tutto omessa ed esposizione insufficiente (Cass. n. 10288/2009). Con riferimento al controricorso, si è detto che l'autosufficienza dell'atto, assolvendo alla sola funzione di contrastare l'impugnazione altrui, è assicurata, ai sensi dell'art. 370, comma 2, c.p.c., che richiama l'art. 366, comma 1, c.p.c., anche quando l'atto non contenga l'autonoma esposizione sommaria dei fatti di causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata, ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso. Tuttavia, l'atto, quando racchiuda anche un ricorso incidentale, deve contenere, in ragione della sua autonomia rispetto al ricorso principale, l'esposizione sommaria dei fatti di causa ai sensi del combinato disposto degli artt. 371, comma 3, e 366, comma 1, n. 3, c.p.c., sicchè è inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all'esposizione contenuta nel ricorso principale e non sia possibile, nel contesto dell'impugnazione, rinvenire gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell'origine e dell'oggetto della controversia dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. n. 18483/2015). La sommarietà dell'esposizione implica un lavoro di sintesi e di selezione dei profili di diritto della vicenda sub iudice in un'ottica di economia processuale che evidenzi i profili rilevanti ai fini della formulazione dei motivi di ricorso, i quali altrimenti si risolvono in censure astratte e prive di supporto storico. Perciò è inammissibile il ricorso in cui vengano soltanto riproposti i fatti di causa senza l'eliminazione del «troppo e del vano», dando luogo ad un ricorso «farcito», o ad un ricorso-sandwich, con il quale, forse nell'intento di evitare di incorrere in vizi di autosufficienza, è stata scaricata sulla Corte tutta la documentazione di merito (con la sola aggiunta delle pagine- etichetta) quasi a dire «veda la Corte cosa le serve». (Cass. n. 15180/2010). L'esposizione dei fatti deve, quindi, essere adeguata a far comprendere al giudice quali sono i fatti, sostanziali e processuali, portati al suo giudizio e rileva per la piena comprensione dei motivi (Cass. n. 16255/2012; Cass. n. 2831/2009), in difetto ricorrendo una ipotesi di inammissibilità (Cass. n. 24000/2012). In applicazione di tale requisito, e forse più correttamente in correlazione con l'onere di specificazione dei motivi, la Corte ha tratto la regola, in origine non espressamente prevista dalla legge e poi contemplata solo in parte dall'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., della c.d. autosufficienza del ricorso. Il principio dell'autosufficienza del motivo del ricorso per Cassazione, ex art. 360 c.p.c., richiede che l'esposizione dei fatti di causa avvenga in maniera tale da permettere alla Suprema Corte di comprendere le censure sollevate dal ricorrente (Cass. n. 23249/2015). In tema di omessa pronuncia la Corte ha precisato che, la deduzione del vizio, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del ‘fatto processuale', intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad una autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072/2021) Il difetto di autosufficienza, correlato alla carente esposizione dei fatti di causa è sanzionabile con l'inammissibilità, a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabili ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall'atto processuale, la cui autosufficienza, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (Cass. 2846/2016; nello stesso senso cfr. Cass. n. 18363/2015). In tema di ricorso per cassazione, la tecnica di redazione mediante integrale riproduzione di una serie di documenti si traduce in un'esposizione dei fatti non sommaria, in violazione dell'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., e comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza, sicché è sanzionabile con l'inammissibilità, a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, possa essere separato ed espunto dall'atto processuale, la cui autosufficienza, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (Cass. n. 18363/2015). Segue. L'indicazione dei motivi di ricorso Ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. il ricorso per cassazione deve contenere l'indicazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, nonché l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall'art. 366-bis. Va subito rilevato che l'art. 366 bis c.p.c., che prevedeva la formulazione del quesito di diritto, è stato abrogato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69. L'indicazione dei motivi di ricorso riveste un ruolo fondamentale nel quadro del giudizio di cassazione poiché ne delimita i confini e ne determina l'oggetto. Invero, il giudizio di cassazione si caratterizza per essere un mezzo di impugnazione a critica vincolata e privo di effetto devolutivo (cfr. ex multis Mandrioli, 502). Ciò significa che, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, il ricorrente deve indicare con precisione gli errori contenuti nella sentenza impugnata, atteso che, per la natura di giudizio a critica vincolata del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione di condizionante il devolutum della sentenza impugnata (Di Paola, Tambasco, 286 ss.). In questa prospettiva, difettano di specificità non solo i motivi generici, ossia tali da potersi riferire genericamente a qualsivoglia sentenza, ma anche quelli non riferibili e non correlate puntualmente alle ragioni che sostengono la sentenza impugnata. I motivi del ricorso per cassazione devono essere attinenti, a pena di inammissibilità, al decisum della sentenza impugnata. In sede di legittimità, quindi, non sono prospettabili per la prima volta questioni nuove e nuovi temi non trattati nel corso della fase di merito né rilevabili d'ufficio. Ad ogni modo, occorre precisare che, ove si lamenti l'omessa pronuncia su una questione che implichi un accertamento in fatto e che non sia stata trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità, ha l'onere di indicare in quale atto del giudizio di merito abbia già dedotto tale questione. In tema di ricorso per cassazione, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, l'indicazione delle norme che si assumono violate non costituisce requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità della censura, ma solo un elemento richiesto al fine di chiarirne il contenuto e di identificare i limiti dell'impugnazione, con la conseguenza che la relativa omissione può comportare l'inammissibilità della singola doglianza soltanto se gli argomenti addotti dal ricorrente non consentano di individuare le norme e i principi di diritto trasgrediti, così precludendo la de- limitazione delle questioni sollevate (Cass. n. 5156/2016). Si devono comunque proporre censure attinenti al “decisum” della sentenza impugnata, in difetto tale omissione è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall'art. 366, n. 4, c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d'ufficio (Cass. n. 20910/2017). In tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, l'art. 366 bis c.p.c. impone alla parte l'onere di formulare, a pena di inammissibilità il quesito di diritto in caso di impugnazione di una sentenza pubblicata tra il 2 marzo 2006 ed il 4 luglio 2009, sicchè i motivi di ricorso sono inammissibili se i quesiti proposti sono meramente generici e teorici, senza il necessario riferimento alla fattispecie concreta, e perciò non idonei a mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sola lettura dei quesiti l'errore asseritamente compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che, risolvendosi essi in un mero interpello della Corte, essi non assolvono alla loro funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale (Cass. n. 24771/2015; Cass. n. 11646/2017). Il ricorso per Cassazione è, inoltre, inammissibile laddove denunzi in maniera generica il vizio di motivazione della sentenza oggetto d'impugnazione (Cass. n. 18816/2015). In sostanza i motivi di ricorso non devono difettare di specificità. Ciò in quanto, l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un ‘error in procedendo', presuppone comunque l'ammissibilità del motivo di censure, onde il ricorrente non è dispensato dall'onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche puntualmente i fatti processuali alla base dell'errore denunciato, dovendo tale specificazione essere contenuta, a pena di inammissibilità, nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l'onere di precisare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto al giudice di appello, riportandone il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne le pretese specificità, non potendo limitarsi a rinviare all'atto di appello (Cass. n. 24048/2021). Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall'art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. n. 19959/2014). Va, comunque, precisato che ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell'ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, perché si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la pronuncia; ne consegue che è ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorchè la censura che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorchè la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione delle norme sostanziali ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. anziché sotto il profilo dell'error in procedendo di cui al n. 4 del citato art. 360 c.p.c. (Cass. n. 23381/2017). Il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione al rischio di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione, in quanto esso collide con l'obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, comma secondo, Cost. e in coerenza con l'art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui (Cass. n. 17698/2014). Si è però stabilito che il ricorso per cassazione è comunque ammissibile laddove si denunzino con un unico articolato motivo di impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, qualora, però, sia reso palese su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica (Cass. n. 20335/2017). In seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. disposta dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con mod. dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità della motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. individuabile nelle ipotesi, che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., e danno luogo a nullità della sentenza “di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa ed incomprensibile”, al di fuori della quale il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. n. 23940/2017). Segue. L'indicazione della procura Con riferimento al rilascio della procura, si precisa che la stessa può essere rilasciata in calce nonché a margine del ricorso, unitamente alla relativa autentica dell'Avvocato difensore. Nelle ipotesi di rilascio della procura speciale, conferita con atto separato, essa dovrà essere autenticata da pubblico ufficiale, non essendo sufficiente l'autentica apposta dall'Avvocato cassazionista. Inoltre, la stessa dovrà essere menzionata esplicitamente nel ricorso e depositata, a pena di improcedibilità, in cancelleria unitamente a quest'ultimo. Nel caso di procura rilasciata all'estero, sarà necessaria l'apposizione dell'Apostilla prevista dalla Convenzione de L'Aja ed il documento dovrà essere tradotto (con traduzione giurata) prima di essere depositato presso la Corte di Cassazione. La sottoscrizione della procura speciale dovrà avvenire in data antecedente la notifica del ricorso (Di Paola, 698). Il requisito di cui all'art. 366, primo comma, n. 5, c.p.c., il quale prescrive che il ricorso contenga, a pena di inammissibilità, l'indicazione della procura al difensore se conferita con atto separato, è soddisfatto anche nel caso in cui la procura sia indicata nel ricorso senza menzione di data, né di altri estremi, ove questa (come nella specie) sia stata conferita con atto notarile anteriore all'atto di impugnazione e sia stata ritualmente depositata (Cass. n. 20812/2010). La procura speciale apposta a margine del ricorso per cassazione, sottoscritta dai due soggetti menzionati nell'epigrafe come rappresentanti della società ricorrente, non è inficiata dalla mancata espressa menzione di uno di essi nel testo a stampa del mandato, poiché la firma della procura è sufficiente ad attribuirne la paternità ad entrambi nella qualità indicata in ricorso e ribadita accanto a ciascuna delle due firme, le quali, inoltre, devono ritenersi correttamente autenticate dal difensore con un unico visto (Cass. n. 17206/2015). È validamente proposto il ricorso per cassazione, notificato alla parte avversaria e recante la sottoscrizione di uno solo dei due difensori del ricorrente, se il mandato alle liti, riportato a margine dell'atto, risulti, in chiusura, sottoscritto da entrambi i difensori, ciò bastando per ritenere proveniente da entrambi i difensori nominati la certificazione della sottoscrizione del conferente la procura, e quindi per l'attribuzione a ciascuno di essi di pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass. n. 13314/2015). Nel giudizio di cassazione la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poiché l'art. 83, terzo comma, c.p.c., nell'elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica, con riferimento al giudizio di cassazione, soltanto quelli suindicati. Pertanto, se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma del citato articolo, cioè con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata. Né a una conclusione diversa può pervenirsi nel caso in cui sopraggiunga la sostituzione del difensore nominato con il ricorso, da parte degli eredi del ricorrente deceduto nelle more del giudizio, non rispondendo alla disciplina del medesimo giudizio di cassazione, dominato dall'impulso d'ufficio a seguito della sua instaurazione con la notifica e il deposito del ricorso e non soggetto agli eventi di cui agli artt. 299 e seguenti c.p.c., il deposito di un atto redatto dal nuovo difensore (nella specie denominato «atto di costituzione») su cui possa essere apposta la procura speciale (Cass. n. 13329/2015; Cass. n. 23816/2010; Cass.S.U., n. 13537/2006). Segue. L'indicazione specifica degli atti su cui si fonda il ricorso Ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., il ricorso deve contenere l'indicazione specifica degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso. Trattasi, in particolare, di un'ulteriore previsione espressione del principio di autosufficienza del ricorso, in forza del quale il ricorso deve contenere indicazioni tanto precise e analitiche da fornire ogni elemento necessario e sufficiente per illustrare in maniera specifica le censure, al fine di consentire alla Corte di valutare la fondatezza dell'impugnazione senza esaminare altri atti e documenti appartenenti a precedenti atti del giudizio, salvo il necessario riscontro di veridicità delle allegazioni. Dal punto di vista letterale, si è sottolineato che la norma sembra avere una portata significativamente ristretta, dal momento che richiede «l'indicazione» degli atti, che parrebbe doversi intendere come «individuazione» e «localizzazione» di essi e non allegazione o riproduzione del contenuto tale da renderne non necessario il reperimento da parte del giudice (Balena, 2006, 404). In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dall'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario specificare, in ossequio al principio di autosufficienza, la sede in cui gli atti stessi sono rinvenibili (fascicolo d'ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame (Cass. n. 16900/2015). Invero, l'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., come novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006, richiede non solo l'indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti od accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, ma anche la specificazione della fase e sede processuale ove sia stato prodotto il documento. Altresì, siffatta prescrizione deve essere correlata all'ulteriore requisito di procedibilità di cui all'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. È, pertanto, inammissibile il ricorso (come quello della fattispecie) in cui i richiami a determinati atti e documenti processualmente rilevanti risultino del tutto generici e decontestualizzati dal loro complessivo tenore, senza alcuna indicazione in ordine alla sede processuale di rispettiva formazione o produzione e del fascicolo processuale ove rinvenirli (Cass. n. 10544/2015). In tema di contenzioso tributario, l'onere del ricorrente, l'indisponibilità dei fascicoli delle parti (per i quali, ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, terzo comma, c.p.c., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass.S.U., n. 22726/2011). La Corte ha, altresì, precisato che l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., così come modificato dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “ gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369, terzo comma, c.p.c., ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indivicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n.6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass.S.U.,n. 22726/2011). Il procedimento innanzi alla Corte di Cassazione. La proposizione del ricorsoIl procedimento innanzi alla Corte di cassazione si caratterizza, in quanto giudizio di legittimità e non di merito, per l'assenza della fase istruttoria e della figura del giudice istruttore. Invero, il procedimento si svolge innanzi al Collegio e generalmente, fatte salve le fasi introduttive (o la necessità di attuare il contraddittorio su questioni nuove) in un'udienza unica fissata dal presidente (e non dalla parte). Parti del procedimento di cassazione sono il ricorrente, ossia colui che propone l'impugnazione, ed il resistente, ossia la parte nei cui confronti l'impugnazione è proposta e che ha interesse contrario all'accoglimento della stessa. Il resistente, dal canto suo, può avanzare ricorso incidentale da inserire all'interno del procedimento principale avanzato dal ricorrente. L'atto introduttivo è il ricorso, che non contiene la vocatio in ius ma è diretto, ai sensi dell'art. 365 c.p.c., alla sola Corte. Il rapporto tra le parti del processo si instaura con la notifica del ricorso, che deve intervenire prima del deposito presso l'organo giudiziario. Particolarmente controversa, sia in dottrina che in giurisprudenza, è stata la questione inerente alle modalità della notifica del ricorso. Più in particolare, ci si è chiesti se tale notifica dovesse avvenire a norma dell'art. 330 c.p.c. oppure applicando le disposizioni di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 546/1992. A tal riguardo, la teoria interpretativa maggioritaria propende per la seconda delle tesi sopra prospettate. Invero, la disciplina di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 546/1992 costituisce disciplina speciale per il processo tributario ed è richiamata, in generale, con riguardo alle impugnazioni dall'art. 49 dello stesso decreto. Peraltro, a fondamento di tale teoria depone il disposto di cui all'art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 546/1992 il quale opera un rinvio alle norme del codice di procedura civile solo in mancanza di disciplina speciale (Glendi, 2000, 12, 1080 ss.). Al contrario, la giurisprudenza prevalente sostiene l'applicabilità dell'art. 330 c.p.c. in forza del richiamo, operato dall'art. 62, d.lgs. n. 546/1992, alle norme del rito processuale civile di cassazione (che a loro volta richiamano l'art. 330 c.p.c.) con riferimento al processo tributario, costituendo, quindi, regole speciali del caso (Cass.S.U., n. 29290/2008). Ai sensi dell'art. 369, comma 1, c.p.c. il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di venti giorni dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è stato proposto. Come anticipato, il mancato rispetto di tale termine comporta l'improcedibilità del ricorso per cassazione, la quale è rilevabile d'ufficio nonostante l'avvenuta notificazione del controricorso e non sanabile per effetto della costituzione del resistente. Secondo quanto previsto dal comma 2, dell'art. 369 c.p.c., il ricorrente deve, altresì, depositare, sempre a pena di improcedibilità: 1) il decreto di concessione del gratuito patrocinio; 2) copia autentica della sentenza impugnata; 3) la procura speciale; 4) gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda. Il ricorrente deve chiedere alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata la trasmissione, alla cancelleria della Corte di cassazione, del fascicolo d'ufficio. Tale richiesta, munita di visto, viene restituita dalla cancelleria della Commissione tributaria regionale al ricorrente, il quale deve provvedere al deposito della stessa presso la cancelleria della Corte unitamente al ricorso. La mancata osservanza di tale adempimento comporta l'improcedibilità del ricorso, laddove l'esame del fascicolo sia necessario ai fini della decisione e non sia stato acquisito tempestivamente in altro modo, né è possibile ovviare a tale mancanza con la richiesta di rinvio dell'udienza (Di Paola, 699). Con riguardo alla notificazione del ricorso, al contrario di quanto sostenuto in dottrina, la giurisprudenza prevalente afferma che in caso di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali si applicano esclusivamente le disposizioni dettate dal codice di procedura civile e, quindi, con riguardo al luogo della notificazione medesima, non già l'art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, norma applicabile al solo processo tributario, ma la disciplina di cui all'art. 330 c.p.c., con conseguente invalidità della notificazione del ricorso eseguita presso la segreteria del giudice «a quo», e ritualità, invece, (anche) della notificazione alla parte intimata presso il procuratore costituito nel precedente grado di giudizio qualora l'impugnazione non sia preceduta dalla notificazione della sentenza impugnata (Cass. n. 1972/2015). È affetto da inammissibilità il ricorso per cassazione, esperito avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, laddove la notifica del relativo atto sia intervenuta tardivamente. Ne discende che, essendo i termini per l'impugnazione della sentenza, quelli determinati dal combinato disposto degli artt. 51 e 62 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 327 c.p.c., la circostanza per la quale il ricorso sia notificato ben oltre il termine semestrale decorrente dalla pubblicazione della sentenza, comporta l'inammissibilità del gravame (Cass. n. 13060/2015). Ai sensi dell'art. 369, comma 1, c.p.c. il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di venti giorni dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è stato proposto. Detto altrimenti, il ricorrente deve depositare l'originale del ricorso per cassazione a pena di improcedibilità dello stesso e tale sanzione non è esclusa dal semplice deposito della copia del ricorso, peraltro priva della relata di notifica, in quanto la produzione di una copia fotostatica mancante della garanzia di autenticità non consente la verifica della tempestività del ricorso e dell'esistenza di una valida procura. La violazione del termine è rilevabile d'ufficio e non può ritenersi sanata dalla circostanza che il resistente abbia notificato il controricorso senza formulare alcuna eccezione di improcedibilità (Cass. n. 10784/2015; Cass. ord. n. 24178/2016). Insieme al ricorso devono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità, copia autentica della sentenza impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta. Il decreto di concessione del gratuito patrocinio, se esistente, la procura speciale, se conferita con atto separato, nonché gli atti e i documenti su cui si fonda il ricorso. Più in particolare, l'art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., esigendo, a pena d'improcedibilità, che con il ricorso venga depositata copia autentica della sentenza impugnata, esclude che al mancato deposito possa supplirsi con la conoscenza che della stessa sentenza si attinga da altri atti del processo e, in particolare, dalla copia depositata dalla controparte o dall'esistenza della sentenza nel fascicolo d'ufficio (Nella specie, la S.C. ha ritenuto improcedibile un ri- corso perché la copia depositata era incompleta e priva del visto di conformità) (Cass. n. 14207/2015). La previsione — di cui al comma 2, n. 2, dell'art. 369 c.p.c. — dell'onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione — a tutela dell'esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale — della tempestività dell'esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l'osservanza del cosiddetto termine breve. Nell'ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitan- dosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev'essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto del comma 2 dell'art. 372 c.p.c., applicabile estensivamente, purché entro il termine, di cui al comma 1 dell'art. 369 c.p.c., e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell'eventuale non contestazione dell'osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d'ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell'impugnazione (Cass. n. 1590/2006). La sentenza impugnata, regolarmente autenticata, può anche non essere depositata contestualmente al ricorso per cassazione, poiché lo scopo che si prefigge la norma di cui all'art. 369 c.p.c. è quello di consentire la verifica della tempestività dell'atto di impugnazione e la fondatezza dei suoi motivi; mentre la sanzione di improcedibilità colpisce l'inosservanza del termine perentorio del deposito nel termine di venti giorni dall'ultima notifica del ricorso alle parti. (Cass. n. 14780/2000). Inoltre, sempre in tema di ricorso per cassazione, conformemente a quanto disposto dall'art. 369, comma secondo, n. 4, c.p.c., vige sul ricorrente l'onere, a pena di improcedibilità, di depositare, contestualmente al ricorso e nel rispetto dei termini previsti nel primo comma dell'articolo di cui sopra, tutti gli atti processuali, documenti, contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso stesso (Cass. n. 11423/2010). Pertanto, è inammissibile e comunque improcedibile il ricorso per cassazione, anche tributario, che non indichi gli atti processuali e i documenti su cui si fonda (con la specificazione della loro collocazione) e/o che venga proposto senza depositare tali atti e documenti, anche se già prodotti nei precedenti gradi del processo o presenti nel suo fascicolo d'ufficio (Cass. ord. n. 135/2010). L'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., di produrre a pena di improcedibilità del ricorso, entro i venti giorni dall'ultima notificazione dello stesso, «gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda» è soddisfatto, quanto agli atti ed ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di tramissione di detto fascicolo persentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiendete munita di visto ai sensi dell'art. 369, terzo comma, c.p.c. (ferma in ogni caso l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi) (Cass.S.U., n. 22726/2011). È ammissibile la produzione oltre il termine di cui all'art. 369 c.p.c. di documenti, formatisi anche anteriormente alla proposizione del ricorso, finalizzati all'esercizio di un diritto di difesa di una parte, quando la necessità della produzione sia sorta successivamente al ricorso in virtù di un nuovo orientamento affermato da giurisdizione sovranazionale (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile, nonostante il decorso del termine, la produzione di una sentenza di patteggiamento formatasi in data anteriore al ricorso in cassazione per permettere alla parte di eccepire il principio del «ne bis in idem», affermato dopo la proposizione del ricorso, ma prima dell'udienza, dalla Corte europea dei diritti umani) (Cass. ord. n. 950/2015). L'onere di depositare, nel termine perentorio fissato per il deposito del ricorso per cassazione, i documenti su cui lo stesso si fonda — imposto, a pena di improcedibilità, dall'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., nella formulazione di cui al d.lgs. n. 40/2006 — si applica anche nel processo tributario, non ostandovi l'art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, per il quale «i fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo», in quanto la stessa norma prevede, di seguito, che «le parti possono ottenere copia autentica degli atti e documenti contenuti nei fascicoli di parte e d'ufficio», con la conseguenza che non è ravvisabile alcun impedimento all'assolvimento dell'onere predetto, potendo la parte provvedere al loro deposito anche mediante la produzione in copia, alla quale l'art. 2712 c.c. attribuisce lo stesso valore ed efficacia probatoria dell'originale, salvo che la sua conformità non sia contestata dalla parte contro cui è prodotta (Cass. n. 3522/2011; in senso conforme cfr. Cass. n. 26525/2010 e Cass. n. 24940/2009). Segue. Il controricorso Per resistere al gravame avversario la parte a cui fu notificato il ricorso se intende contraddire deve proporre controricorso, esponendo le ragioni giuridiche atte a dimostrare la infondatezza delle censure mosse dal ricorrente. Ai sensi dell'art. 370, comma 1, c.p.c. il controricorso deve essere notificato al ricorrente nel domicilio eletto (o presso la cancelleria della Corte se non si è eletto domicilio in Roma) entro il termine di venti giorni dalla scadenza del termine previsto per il deposito del ricorso (ovvero entro quaranta giorni dall'ultima notificazione del ricorso). La mancata tempestiva notifica del controricorso comporta l'impossibilità per il resistente di presentare memorie o produrre documenti, potendo soltanto quest'ultimo partecipare alla discussione orale. Il controricorso ha una funzione meramente difensiva essendo l'atto con il quale la parte resistente si limita a chiedere il rigetto del ricorso esponendo le ragioni che, a suo parere, impediscono l'accoglimento del ricorso stesso (Di Paola, Tambasco, 292). Di conseguenza, il controricorso sarà ammissibile anche nelle ipotesi in cui non contenga l'autonoma esposizione sommaria dei fatti di causa, ma faccia semplicemente riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata o indicate nel ricorso principale. In virtù del richiamo, operato dall'art. 370, comma secondo, agli art. 365 e 366 c.p.c., sono elementi indispensabili del controricorso, l'indirizzo alla Corte, l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata, la sottoscrizione di un avvocato iscritto all'albo munito di procura e l'indicazione della procura. Al contrario, è rimessa alla prudente valutazione della parte l'esposizione, più o meno dettagliata, dei fatti di causa e delle ragioni dedotte per contrastare i motivi addotti. Inoltre, a norma dell'art. 370, comma terzo, c.p.c., il resistente deve provvedere a depositare il controricorso nella cancelleria della Corte entro venti giorni dalla notificazione, insieme con gli atti, i documenti e la procura speciale, se conferita con atti separato. La mancata osservanza del termine di deposito comporta l'improcedibilità dello stesso controricorso, rilevabile anche d'ufficio e non sanabile. Tale sanzione deriva, infatti, dal sistema, che impone alla parte che intende portare tempestivamente a conoscenza del giudice e del ricorrente le proprie ragioni, presentando difese e memorie prima dell'udienza di discussion, di sottostare all'onere processuale che le è imposto (Di Paola, Tambasco, 293). La parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddirvi, deve farlo mediante controricorso contenente, ai sensi dell'art. 366 c.p.c. (richiamato dall'art. 370, comma 2, stesso codice), l'esposizione delle ragioni atte a dimostrare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorrente. In mancanza di tale atto, essa non può presentare memoria ma solamente partecipare alla discussione orale (Nella specie la Corte ha dichiarato inammissibile un «atto di costituzione» dell'intimato non contenente alcuna replica ai motivi del ricorso (Cass. n. 6222/2012; Cass. n. 11160/2004). Peraltro, il controricorso deve avere in linea di massima gli stessi requisiti del ricorso, e solo in tal caso la parte può ritenersi ritualmente costituita e legittimata alla produzione di difese scritte e di documenti, mentre ogni diverso atto con il quale la parte intimata si limiti a contestare genericamente la fondatezza del ricorso, riservandosi di esporre in seguito le ragioni della propria resistenza in giudizio, deve essere dichiarato inammissibile, poiché altrimenti verrebbe ad essere compromesso l'equilibrio del contraddittorio (Cass. n. 2533/2001). Pertanto, in tema di giudizio di cassazione, l'art. 366 c.p.c. si applica anche al controricorso, sicché esso deve essere proposto con un unico atto nel rispetto dei previsti requisiti di contenuto e forma, dovendosi ritenere inammissibile la successiva notifica di un nuovo atto, a modifica od integrazione del primo, sia per quel che concerne l'indicazione dei motivi, ostandovi il principio della consumazione dell'impugnazione, sia se abbia lo scopo di colmare la mancanza di taluno degli elementi prescritti per la valida impugnazione (Nella specie, la S.C. ha ritenuto di dover esaminare la sola impugnazione presentata con il ricorso autonomo, considerandola impugnazione incidentale, poiché proposta, ancorché non con controricorso, nel termine di decadenza di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale) (Cass. n. 4249/2015). Come si è già detto, l'autosufficienza del controricorso è assicurata, ai sensi dell'art. 370, secondo comma, c.p.c., che dichiara applicabile l'art. 366, primo comma, c.p.c. in quanto possibile, anche quando l'atto non contenga l'autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata (Cass. n. 13140/2010). Il controricorso deve essere notificato alla controparte ai sensi dell'art. 370 c.p.c., non potendosi considerare sufficiente il mero deposito presso la Corte perché l'atto possa svolgere la sua funzione di strumento di attivazione del contraddittorio rispetto alla parte ricorrente; ne consegue che, in mancanza di notificazione, poiché l'atto depositato non è qualificabile come controricorso, all'intimato non è consentito il deposito di memorie ex art. 378 c.p.c. ed è preclusa la partecipazione alla discussione orale del ricorso (Cass. n. 25735/2014). A seguito dell'entrata in vigore della legge 12 novembre 2011, n. 183 (avvenuta il 1 gennaio 2012), la notifica del controricorso al difensore che non abbia eletto domicilio in Roma deve essere effettuata, a pena di nullità, all'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato all'ordine professionale ed indicato in ricorso, fermo restando che, ai sensi dell'art. 156, terzo comma, c.p.c., ove l'atto, malgrado l'irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere per il raggiungimento dello scopo (Nella specie, la notifica era stata effettuata a mezzo del servizio postale presso lo studio del difensore, nel domicilio eletto (fuori Roma) nel ricorso medesimo) (Cass. n. 13857/2014). La tardività del deposito nella cancelleria della suprema corte del controricorso perché effettuato oltre il ventesimo giorno dalla notificazione, implica improcedibilità del controricorso medesimo, evincendosi tale sanzione, pur in difetto di una espressa previsione della norma che fissa l'indicato termine (art. 370, comma 3, c.p.c.), dai principi generali del processo civile in tema di inosservanza di termini inerenti ad atti processuali con i quali la parte porta a conoscenza del giudice e dell'avversario le proprie difese, con la conseguenza che non può tenersi conto né del controricorso né dell'eventuale memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. (Cass. n. 2805/2000). Segue. Il ricorso incidentale Nel procedimento di cassazione, la parte cui è stato notificato il ricorso principale, ossia quello proposto per primo (e quindi cronologicamente anteriore) che, a sua volta, ha interesse ad impugnare la sentenza resa in grado di appello chiedendone la cassazione per altri motivi o su altri punti, esaminati, su cui sia rimasta soccombente, deve avanzare ricorso incidentale all'interno del controricorso (art. 371, comma 1, c.p.c.). Il ricorso incidentale, si definisce tempestivo laddove proposto nel termine ordinario per ricorrere (art. 333 c.p.c.); al contrario, viene definito ricorso incidentale tardivo (art. 334 c.p.c.) se proposto dopo il decorso del termine per il ricorso o quando la parte abbia prestato acquiescenza alla sentenza. L'unica differenza in punto di disciplina consiste nel fatto che il ricorso incidentale tardive «perde ogni efficacia» se il ricorso principale è dichiarato inammissibile (art. 334, comma 2, c.p.c.). Il principio è che l'impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell'unico processo nel quale sono destinate a confluire, per essere decise simultaneamente, tutte le eventuali impugnazioni successive della stessa sentenza, le quali, quindi, hanno sempre carattere incidentale (Cantillo, 476). Per ciò che concerne la forma ed il contenuto il comma terzo dell'art. 371 c.p.c. richiama le stesse disposizioni previste per il ricorso principale. Il comma secondo, sempre dell'art. 371 c.p.c., aggiunge poi che la parte, alla quale è stato notificato il ricorso per integrazione, ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., deve proporre l'eventuale ricorso incidentale nel termine di quaranta giorni dalla notificazione, con atto notificato al ricorrente principale e alle altre parti, nello stesso modo del ricorso principale (ossia nei modi di cui all'art. 330 c.p.c.). La parte cui è notificato il ricorso incidentale può resistere ad esso con controricorso ai sensi degli artt. 471, comma 4, e 370 c.p.c. notificandolo al ricorrente incidentale, così tra l'altro sanando eventuali vizi della notifica del controricorso e ricorso incidentale. Infine, ai sensi dell'ultimo comma del medesimo art. 371 c.p.c., il ricorrente incidentale non è tenuto a depositare la copia della sentenza impugnata se a ciò ha già provveduto il ricorrente principale. Accanto alle due forme di ricorso incidentale suindicate, la giurisprudenza ha individuato l'istituto del ricorso incidentale condizionato. Si definisce tale il rimedio proponibile avanti alla Corte di cassazione dal resistente vittorioso nel giudizio di merito contro una statuizione della sentenza impugnata, relativa ad una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito (Fazzalari, 99 ss.; Chiarloni, 74 ss.). Il principio dell'unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l'atto contenente il controricorso, fermo restando che tale modalità non è essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale (Cass. n. 25662/2014; nello stesso senso cfr. Cass. n. 27887/2009). Le regole sull'impugnazione tardiva, sia ai sensi dell'art. 334 c.p.c., che in base al combinato disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto e, cioè, proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l'impugnazione, mentre per il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale si deve osservare la disciplina dell'art. 325 c.p.c., cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo, che abbia valenza d'impugnazione incidentale qualora investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale (Cass. n. 1120/2014; Cass. n. 20040/2015). In tema di giudizio di cassazione, il ricorrente incidentale è esonerato dal deposito della sentenza impugnata solo se vi ha già provveduto il ricorrente principale in conformità dell'art. 369 c.p.c., sicché, in mancanza, il ricorrente incidentale ha l'onere di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, la predetta sentenza corredata della relata di notifica (Cass. n. 16548/2015). Il ricorso incidentale tardivo, proposto oltre i termini di cui agli artt. 325, secondo comma, ovvero 327, primo comma, c.p.c., è inefficace qualora il ricorso principale per cassazione sia inammissibile, senza che, in senso contrario rilevi che lo stesso sia stato proposto nel rispetto del termine di cui all'art. 371, secondo comma, c.p.c. (quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale) (Cass. n. 6077/2015). È inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa in appello e diretto solo ad incidere sulla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 658/2015). Il ricorso incidentale per cassazione, anche se condizionato, deve essere giustificato da un interesse che abbia per presupposto una situazione sfavorevole al ricorrente, cioè una soccombenza; esso, pertanto, deve essere considerato inammissibile quando proposto dalla parte vittoriosa. Peraltro, le tesi, considerate assorbite e, quindi, non considerate dalla sentenza impugnata, possono essere eventualmente riproposte davanti al giudice di rinvio, in caso di accoglimento del ricorso principale (Cass. n. 9637/2001). L'inammissibilità del ricorso principale per Cassazione non priva di efficacia il ricorso incidentale che sia stato proposto tempestivamente ai sensi dell'art. 371 c.p.c. e nei termini per impugnare previsti dagli artt. 325,326 e 327 c.p.c., dovendosi ritenere anzi che il ricorso incidentale in tale ipotesi tenga luogo di quello principale (Cass. ord. n. 3056/2011). In tema di giudizio di cassazione, quando con il controricorso il litisconsorte si sia limitato ad aderire alle richiesta del ricorrente principale senza formulare una propria domanda di annullamento, totale e parziale della decisione sfavorevole, si è in presenza di una semplice costituzione in giudizio processualmente valida, anche se subordinata alla sorte dell'impugnazione principale, non essendo al riguardo necessaria la proposizione di un ricorso incidentale. Infatti, l'interpretazione estensiva dell'art. 370 c.p.c. — secondo cui la facoltà di «contraddire» da parte di chi abbia ricevuto la notifica del ricorso non implica necessariamente l'assunzione di una posizione contrastante con quella dell'impugnante, ma comprende anche l'ipotesi di adesione, parziale o totale, alle relative richieste — appare in sintonia con il principio dell'art. 24, comma 2, Cost. che garantisce l'esercizio della facoltà di difesa in ogni stato e grado del giudizio, altrimenti, negandosi alla parte portatrice di un interesse convergente o analogo a quello dell'impugnante, che non abbia a sua volta ritenuto di proporre una propria impugnazione, di costituirsi nel giudizio di legittimità e rendere note le proprie posizioni: esigenza, questa, cui è, finalizzata la disposizione di cui all'art. 331 c.p.c., che ha lo scopo di garantire nelle cause inscindibili l'estensione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti (Cass. n. 7564/2006). Quando la sentenza impugnata abbia risolto, sia pure implicitamente, in senso sfavorevole alla parte che poi risulti vittoriosa, una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso per cassazione dell'avversario impone a detta parte che intenda sottoporre all'esame della Corte la questione stessa di proporre ricorso incidentale. Infatti, non essendo il giudizio di legittimità (in considerazione della sua struttura) assoggettato alla disciplina dettata per l'appello dall'art. 346 c.p.c., ne consegue che l'onere dell'impugnazione gravante sull'intimato vada riferito non solo alla soccombenza «pratica» ma anche a quella «teorica» e non possa, nell'ipotesi considerata, essere assolto con la sola riproposizione della questione col controricorso o con la memoria illustrativa di questo (Cass. n. 8537/2001). Il ricorso incidentale per cassazione, condizionato o meno, con il quale la parte totalmente vittoriosa nel merito, riproponga questioni pregiudiziali nel rito o preliminari di merito, decise in senso a lei sfavorevole, deve essere esaminato in sede di giudizio di legittimità prima del ricorso principale proposto dalla parte soccombente ed indipendentemente da ogni valutazione sulla fondatezza di quest'ultimo, sorgendo l'interesse che lo rende ammissibile dalla stessa proposizione del ricorso principale e dalla conseguente incertezza della vittoria nel merito (Cass. n. 7127/2001). Deposito di documenti Come noto, il giudizio avanti alla Corte di cassazione è privo della fase istruttoria e la produzione di eventuali documenti, a norma dell'art. 372 c.p.c., è limitata a quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l'inammissibilità o ammissibilità del ricorso e del controricorso. Al riguardo si è precisato che l'art. 372 c.p.c., in tema di deposito di documenti nuovi in sede di legittimità, nonostante il testuale riferimento alla sola inammissibilità del ricorso, consente la produzione di ogni documento incidente sulla proponibilità, procedibilità e proseguibilità del ricorso medesimo, inclusi quelli diretti d evidenziare l'acquiescenza del ricorrente alla sentenza impugnata per comportamenti anteriori all'impugnazione, ovvero la cessazione della materia del contendere per fatti sopravvenuti che elidano l'interesse alla pronuncia sul ricorso purché riconosciuti ed ammessi da tutti i contendenti (Cass. n. 3934/2016). È inammissibile il ricorso per cassazione proposto da chi non abbia prodotto né con il ricorso, né successivamente, ai sensi dell'art. 372 c.p.c., i documenti che giustifichino la sua asserita qualità di procuratore speciale della parte in senso sostanziale, rilasciando in tale veste il mandato per il giudizio di legittimità, in quanto la Suprema Corte non è posta in condizioni di valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo (Cass. n. 16036/2014). Non è altresì ammissibile la produzione di nuovi documenti con i quali parte ricorrente intenda dimostrare che lo stesso giudice d'appello, in un caso identico, avrebbe deciso in senso diverso dalla sentenza impugnata e conformemente a quanto da essa propugnato (Cass. n. 847/2002). L'art. 372 c.p.c., si applica anche quando si lamentino «errores in procedendo» idonei ad inficiare direttamente la validità della pronuncia impugnata, ove quest'ultima sia impugnabile solo con il ricorso in cassazione (Nella specie, relativa ad impugnazione di lodo arbitrale, il cui giudizio si svolge in un unico grado di merito, la S.C. ha ammesso la produzione di documenti per dimostrare la carenza del potere di procedere alla rinuncia agli atti del giudizio di merito da parte della società ricorrente in quanto proveniente da persona non più sua rappresentante, nonché il difetto di contraddittorio nel sub procedimento di estinzione del giudizio per l'omessa comunicazione della relativa ordinanza, pronunciata fuori dall'udienza) (Cass. n. 16036/2014). L'art. 372 del c.p.c. deve comunque essere interpretato nel senso che è consentito il deposito, unitamente al ricorso, dei documenti comprovanti il giudicato esterno formatosi dopo la conclusione del giudizio di merito; mentre il giudicato formatosi dopo il deposito del ricorso può essere provato fino alla udienza di discussione prima dell'inizio della relazione (ove però ciò avvenga dopo lo scadere del termine posto dall'art. 378 del codice di procedura civile per il deposito delle memorie, la corte dovrà assegnare alle parti un opportuno termine per il deposito di eventuali osservazioni ex art. 384, comma 3, del codice di procedura civile come novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006) (Cass.S.U., n. 13916/2006). Segue. Il procedimento innanzi alla Corte di cassazione La disciplina concernente il procedimento innanzi alla Suprema corte nella fase successiva al deposito del ricorso e dell'eventuale controricorso o ricorso incidentale è analizzata dagli artt. 374 – 379 c.p.c. Scaduto il termine per il deposito del controricorso contro l'ultimo ricorso incidentale, il cancelliere trasmette il ricorso al primo presidente della Corte ai sensi dell'art. 376 c.p.c. il quale provvede all'assegnazione della causa alle sezioni unite o alle sezioni semplici. La sezione competente in material tributaria è la V sezione civile della Corte di cassazione. Al riguardo, occorre sottolineare che ai sensi dell'art. 374 c.p.c., così come modificato dalla novella n. 40/2006, la sezione semplice che ritenga di non condividere un principio di diritto già enunciato precedentemente dalle sezioni unite, deve rimettere a quest'ultime la decisione del ricorso con ordinanza motivata. Ebbene, secondo alcuni autori il novellato art. 374 c.p.c. rappresenta un vincolo delle sezioni semplici ai principi di diritto formulate dalle sezioni unite, il quale, tuttavia, opera soltanto sul piano meramente deontologico, senza alcun riflesso sul piano processuale (v. ex multis, Consolo, 2008, 203 ss.). Ne consegue, pertanto, che l'eventuale inosservanza del principio di diritto formulato dalle sezioni unite non legittima alcuna impugnazione della sentenza così resa dalla sezione semplice; né ciò potrebbe autorizzare il giudice di rinvio a discostarsi dalla decisione pronunciata dalla stessa sezione semplice (Consolo, Glendi, 859). Ai sensi dell'art, 375 c.p.c. (così come modificato, da ultimo, dalla l. n. 69/2009) la Corte decide con la procedura semplificata in camera di consiglio e definisce il giudizio con ordinanza se riconosce di dovere: a) dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto anche per difetto dei motivi di cui all'art. 360 c.p.c.; b) ordinare l'integrazione del contraddittorio o la notificazione di cui all'art. 332 c.p.c. per le cause scindibili; c) pronunciare in ordine all'estinzione del processo nei casi diversi dalla rinuncia; d) decidere sull'istanza di giurisdizione (non sul regolamento di competenza in quanto, come noto, tale mezzo di impugnazione non è ammesso nell'ambito del processo tributario); e) accogliere o rigettare il ricorso principale o incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza della questione. Al di fuori delle ipotesi sopra indicate, la Corte di cassazione decide in pubblica udienza secondo la procedura dettata dal codice di rito agli artt. 377 ss. (sul punto si veda però la riforma alla procedura apportata dal d.l. n. 168/2016, conv., con modif., in l. n. 197/2016). Il presidente della sezione, quindi, fissa la data dell'udienza e ne dà comunicazione alle parti almeno venti giorni prima. Ai sensi dell'art. 378 c.p.c., nel termine di cinque giorni prima dell'udienza le parti possono presentare memorie difensive: tale facoltà è preclusa qualora la parte sia incorsa nell'improcedibilità del controricorso (art. 370 c.p.c.), potendo in tale ipotesi partecipare alla sola discussione orale. Con particolare riferimento, poi, alla fase di decisione, in linea generale, il giudizio può concludersi con il rigetto o con l'accoglimento del ricorso da parte della Corte. Più in particolare, i giudici giungono ad una pronuncia di rigetto del ricorso laddove ritengono infondati i motivi proposti dal ricorrente: in tal caso, il provvedimento impugnato passa in giudicato, con conseguente definitività dello stesso. Al contrario, qualora la Corte ritenga fondati i motivi di impugnazione proposti la causa viene, di regola (ossia salvo il caso in cui la stessa Corte non possa pronunciarsi nel merito), rinviata ad un giudice di merito, generalmente, di pari grado di quello che ha pronunciato la sentenza impugnata, enunciando il principio a cui questi dovrà attenersi nella fase rescissoria. Più in particolare, nel caso di accoglimento del ricorso, possono verificarsi le seguenti ipotesi: – annullamento della sentenza impugnata e statuizione sulla competenza; – annullamento della sentenza impugnata senza rinvio per la decisione sul merito, in quanto si verifica un difetto assoluto di giurisdizione; – annullamento della sentenza impugnata, con conseguente decisione sul merito da parte degli stessi giudici della Cassazione, poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto. In tale ipotesi si verifica un evidente ampliamento dei poteri della Corte. La stessa, infatti, non si limita a svolgere funzione di controllo in merito alla corretta interpretazione ed applicazione delle disposizioni (nel caso di decisione sui motivi di ricorso di cui all'art. 360, nn. 1, 2, 3 o 4, c.p.c.), ovvero in merito alla motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.). Al contrario, nell'ipotesi in considerazione, la Corte, individuata correttamente la norma rilevante, la applica ai fatti di causa, esercitando una funzione che, entro certi limiti, può essere equiparata a quella del giudice di merito (Marcheselli, 2016, 924). Tuttavia, occorre sottolineare che la possibilità riconosciuta alla Suprema corte di decidere sul merito della controversia è condizionata al limite, fondamentale e indefettibile, della non necessità di ulteriori accertamenti di fatto. A tal riguardo occorre fare alcune precisazioni. Se nessun dubbio sorge sul fatto che alla Corte non sia consentito assumere nuove prove e iniziative istruttorie, tuttavia parte della dottrina dubita se per ulteriori accertamenti di fatto si escludano solo nuove iniziative istruttorie oppure se, più restrittivamente, alla Corte sia preclusa qualsiasi soluzione del giudizio di fatto difforme da quelle già operate dal giudice di merito, ulteriore rispetto a queste. Secondo tale ultima soluzione, alla Corte sarebbe consentita la sola applicazione delle norme correttamente individuate, rettificando gli errori commessi dal giudice del merito, ai fatti, così come accertati e valutati secondo le prove assunte da quest'ultimo (si veda in tal senso, De Cristofaro, 2899 ss.; Caruso, 320 ss.). Al contrario, altra parte della dottrina sostiene che la Corte potrebbe pronunciare sul merito con il solo limite di non potere assumere nuove prove, essendole consentito, invece, di effettuare nuove valutazioni (Caponi, 2007, V, 129 ss.); – annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altro giudice affinché pronunci nel merito; – rimessione della causa al primo giudice quando la Corte riscontri una nullità del giudizio di primo grado per la quale la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto rimettere la causa innanzi alla Commissione tributaria provinciale, ai sensi dell'art. 59 del d.lgs. n. 546/1992, ossia nei casi di omessa integrazione del contraddittorio, erronea dichiarazione di estinzione del giudizio, illegittima composizione del Collegio giudicante, ecc. Ad ogni modo, laddove la sentenza impugnata sia cassata per difetto assoluto di giurisdizione o per improcedibilità della domanda, il rinvio non avrà luogo in quanto non vi è alcuna sentenza da emanare. Ove la Corte ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio in tale sede e sulla quale, pertanto, ancora non si è esplicato il contraddittorio, deve soprassedere alla decisione immediate (che di regola avviene all'esito dell'unica udienza) e assegnare alle parti un termine compreso tra venti e sessanta giorni per il deposito in cancelleria delle proprie argomentazioni e difese sulla questione rilevata d'ufficio (art. 384, comma 2, c.p.c.), come forma di attuazione del contraddittorio e di prevenzione delle decisioni a sorpresa. L'omesso contraddittorio sulla questione rilevata d'ufficio integra una lesion del diritto di difesa, contro la quale non è tuttavia ipotizzabile un rimedio, atteso che si tratta di lesion posta in essere dal giudice di ultimo grado, non impugnabile (Marcheselli, 2016, 918). La procedura innanzi alla Corte di cassazione dopo la novella n. 197/2016 Tra le riforme che hanno interessato il procedimento davanti alla Corte di cassazione occorre citare l'art. 1-bis introdotto dalla l. n. 197/2016, in sede di conversion del d.l. n. 168/2016. A seguito dell'introduzione della legge da ultimo citata, sono state modificate diverse disposizioni del codice di rito riguardanti la procedura davanti alla Corte di cassazione. Più in particolare, sono stati modificati gli artt. 375, 376, 377, 379, 390, 391, 391-bis e sono stati aggiunti gli artt. 380-bis, 380-bis1 e 380 ter c.p.c. Ai sensi del secondo comma dell'art. 1 cit. la riforma si applica ai ricorsi depositati dopo l'entrata in vigore della legge di conversion del decreto legge ed ai ricorsi per i quali non è stata ancora fissata l'udienza o l'adunanza in camera di consiglio. Occorre sottolineare che, in virtù del richiamo operato dall'art. 62, d.lgs. n. 546/1992, le nuove disposizioni sono immediatamente applicabili anche al giudizio in cassazione in materia tributaria. Senza entrare nei dettagli (per i quali si rinvia ai primissimi commenti di Sassani, Da Corte a Ufficio smaltimento: ascesa e declino della «Suprema», in judicium.it e Graziosi, La Corte «incamerata»: brevi note pratiche, in judicium.it) è sufficiente indicare che il nucleo essenziale della riforma consiste nell'assunzione del procedimento camerale quale regola generale del giudizio di cassazione. Più in particolare, per effetto delle modifiche sono previsti due giudizi camerali. Da un lato, viene mantenuto il principio secondo cui in caso di inammissibilità, manifesta fondatezza o manifesta infondatezza del ricorso (e del ricorso incidentale), la decisione è assunta, in camera di consiglio, con ordinanza dalla Sezione VI della Cassazione ai sensi dell'art. 375 c.p.c. Tuttavia, viene meno, in questo caso, sia la relazione con la quale il giudice relatore individuava, fino ad oggi, il motivo per il quale il ricorso era giudicato inammissibile o manifestamente fondato/infondato (che era comunicata preventivamente alle parti e costituiva il riferimento in relazione al quale esse potevano calibrare le proprie memorie in vista della decisione in camera di consiglio); sia il diritto delle parti di essere ascoltate in sede di udienza. Dall'altro lato, si introduce il principio secondo il quale anche gli altri ricorsi (per i quali non sono stati ravvisati evidenti elementi di inammissibilità o di manifesta fondatezza/infondatezza) vengono decisi, di regola, con ordinanza assunta in camera di consiglio (questa volta dalla competente sezione semplice), restando anche in questo caso esclusa in via assoluta la possibilità per le parti di essere ascoltate in udienza. La decisione dei ricorsi con sentenza e in pubblica udienza resta, così, riservata alle sole ipotesi in cui, secondo una valutazione che è verosimilmente assunta dal presidente della sezione e pare destinata a restare totalmente immotivata, «la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare» ovvero in quelle in cui (secondo una scelta legislativa non perfettamente coerente con l'impianto generale della riforma) l'apposita sezione di cui all'art. 376 c.p.c. (l'attuale sezione VI) rinvia la decisione alla sezione semplice a seguito della riscontrata carenza dei presupposti per una pronuncia di inammissibilità o di manifesta fondatezza/infondatezza (Consolo, Glendi, 861). Le spese del giudizioAi sensi dell'art. 385 c.p.c., in caso di rigetto del ricorso, la Corte condanna il ricorrente alle spese. Se cassa senza rinvio o per violazione delle norme sulla competenza, provvede sulle spese di tutti I precedent giudizi, liquidandole essa stessa o rimettendone la liquidazione al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. Se rinvia la causa ad altro giudice, può provvedere sulle spese del giudizio di cassazione o rimetterne la pronuncia al giudice di rinvio. La ripartizione delle spese segue la disciplina, alquanto tormentata, di cui all'art. 92 c.p.c., secondo cui essa segue la soccombenza, salvo per le cause instaurate dopo il 4 luglio, motivi gravi ed eccezionali da esplicitare nella motivazione (per I procedimenti instaurati dopo il 1° marzo 2006 la regola faceva riferimento a «giudti motivi»). La l. 10 novembre 2014, n. 162, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 132/2014, art. 13, ha ristretto la possibilità di compensazione, integrale o parziale, delle spese alle ipotesi della «soccombenza recisproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» (Marcheselli, 2016, 930). La Suprema corte ha sottolineato che il criterio della soccombenza, al fine di attribuire l'onere delle spese processuali, non si fraziona secondo l'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole. Il principio trova applicazione anche nel caso in cui il giudizio venga definito in sede di rinvio a seguito di cassazione pronunciata su ricorso della parte che, infine, rimane soccombente. (La S.C. ha, così, cassato la sentenza di rinvio che aveva condannato la parte al pagamento delle spese del precedente giudizio di cassazione, sul solo presupposto che la parte stessa in quel giudizio era rimasta soccombente) (Cass. n. 15787/2000). Peraltro, la valutazione dei giusti motivi in considerazione dei quali la Commissione tributaria regionale può pervenire alla compensazione delle spese del giudizio è affidata al potere discrezionale del giudice del merito e il relativo esercizio non esige specifica motivazione e può essere esercitato anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa. Tale scelta, inoltre, essendo espressione di un potere discrezionale attribuito alla legge, è insindacabile in sede di legittimità, salvo il caso in cui la motivazione sia riferita all'indicazione di ragioni palesemente illogiche, tali da inficiare per la loro inconsistenza lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto (Cass. n. 18037/2005). Il principio è stato ribadito di recente dalla S.C. secondo cui, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice del merito, la valutazione di compensarle in tutto o in parte, sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca ch ein quelle di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 24502/2017). Va precisato che, nel vigore dell'art. 342 c.p.c., come novellato dall'art. 54, comma 1, lett. a) del d.l. n. 83/2012 (conv. con modif. dalla l. n. 134/2012), qualora venga impugnato il capo della sentenza di primo grado con il quale l'appellante sia stato condannato al pagamento delle spese processuali, in applicazione del principio della soccombenza, non è ammissibile il motivo che deduca soltanto l'ingiustizia della decisione, senza specificare le circostanze, costituenti gravi ed eccezionali ragioni, per le quali, secondo l'appellante stesso, il giudice avrebbe potuto compensare tra le parti le spese di lite, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo applicabile «ratione temporis») (Cass. ord. n. 13151/2017). Il nuovo ricorso in cassazione per saltumIl d.lgs. n. 156/2015 ha introdotto nel processo tributario, in attuazione dell'art. 10 della legge delega n. 23/2014, l'istituto, storicamente escluso, del ricorso per cassazione per saltum, mutuato dal processo civile e, in particolare, dall'art. 360 c.p.c. A tal fine, detta novella ha inserito il nuovo comma 2-bis nell'art. 62 del d.lgs. n. 546/1992, secondo il quale «Sull'accordo delle parti la sentenza della commissione tributaria provinciale puo` essere impugnata con ricorso per cassazione a norma dell'art. 360, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile». In altri termini, dal 1 ̊ gennaio 2016 (data di entrata in vigore della riforma), nelle ipotesi in cui l'esito del giudizio di primo grado risulti «dipendente per intero dalla risoluzione di una questione di diritto», le parti potranno accordarsi per omettere il secondo grado di merito e impugnare la sentenza della Commissione tributaria provinciale direttamente innanzi alla Corte di cassazione (Formica, Eugeni, 645). La suddetta nuova formulazione riproduce il disposto di cui all'art. 360, comma 2, c.p.c. che, ai fini deflattivi del contenzioso, permette di evitare il giudizio di appello con l'accordo delle parti e solo per vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (Di Paola, 714). In assenza di una disciplina specifica concernente le modalità di proposizione del ricorso in esame, si ritiene applicabile la disciplina dettata dalle norme del codice di procedura civile, in forza del richiamo operato dall'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992. A tal riguardo occorre, innanzitutto, fare riferimento all'art. 366, comma 3, c.p.c., a norma del quale l'accordo delle parti, diretto alla immediata impugnazione in sede di legittimità della sentenza di primo grado, «deve risultare mediante visto apposto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, oppure mediante atto separato, anche anteriore alla sentenza impugnata, da unirsi al ricorso stesso». Secondo il costante orientamento della Suprema corte tale accordo costituisce un «negozio giuridico processuale, quanto meno sotto il profilo della rilevanza della manifestazione di volontà dei dichiaranti,, il cui effetto immediato è quello di rendere non appellabile la sentenza oggetto dell'accordo» (In tal senso, Cass.S.U., n. 16993/2006). Alcuni autori hanno sottolineato che il legislatore del d.lgs. n. 156/2015 ha meritevolmente esteso al processo tributario un istituto da tempo esistente in ambito civile, ancorché poco diffuso nella prassi, per una certa diffidenza delle parti a rinunciare a un grado di merito. Tuttavia, le esigenze di snellezza e celerità, che sottendono alle vicende tributarie e che hanno ispirato, del resto, la riforma complessiva di cui al predetto Decreto, a partire dal potenziamento degli istituti deflativi del contenzioso, rendono il ricorso per saltum un'utile opportunità, potenzialmente idonea a modificare o, comunque, integrare strategie difensive standardizzate (Formica, Eugeni, 649). Ebbene, nonostante la indubbia utilità dell'istituto in esame, alcuni autori ritengono sia difficile prevedere l'appeal che tale istituto avrà nel campo tributario (tenuto conto anche che nel campo processualcivilistico, esso ha ricevuto un'applicazione pratica pressocchè irrisoria. L'accordo per saltare l'appello pne infatti che il soccombente in primo grado neppure provi a far valere eventuali errori nella soluzione di questioni di fatto, che potrebbero essere censurate solo con l'appello, il quale, ben diversamente dal ricorso in cassazione, è una tipica impugnazione devolutivo-sostitutiva a critica libera (Consolo, Glendi, 873 ss.). Nell'ipotesi peculiare in cui avverso la medesima sentenza di primo grado venga proposto sia il ricorso per saltum, che l'appello, e la Commissione tributaria regionale si pronunci prima della Cassazione, la Suprema corte (Cass. n. 4242/2000) ha affermato che l'esame del ricorso omisso medio e` precluso per la formale mancanza della pronuncia della Commissione tributaria provinciale (avverso la quale è stato originariamente proposto), dovendo questa ritenersi integral- mente assorbita (i.e., sostituita) dalla sentenza di appello già emessa. In tal caso, dunque, venuto meno l'oggetto dell'impugnazione, il ricorso per saltum risulterà assorbito dal gravame in appello (Cass. n. 16132/2005). Né potrebbe eccepirsi l'inammissibilità dell'appello per effetto di una ipotizzabile consumazione dell'impugnazione a seguito della proposizione del ricorso per saltum: tale consumazione non può dirsi verificata quando il giudizio in cassazione é ancora pendente (non essendo ancora intervenuta alcuna pronuncia della Suprema corte), anche perché, ai fini dell'accertamento della consumazione di uno dei mezzi di impugnazione esperiti, deve sussistere identità tipologica tra i medesimi. 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