Legge - 27/07/2000 - n. 212 art. 7 - Chiarezza e motivazione degli atti.Chiarezza e motivazione degli atti. 1. Gli atti dell'amministrazione finanziaria, autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria, sono motivati , a pena di annullabilità, indicando specificamente i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, che non è già stato portato a conoscenza dell'interessato lo stesso è allegato all'atto che lo richiama, salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale e la motivazione indica espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell'atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati 1. 1-bis. I fatti e i mezzi di prova a fondamento dell'atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l'adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze 2. 1-ter. Gli atti della riscossione che costituiscono il primo atto con il quale è comunicata una pretesa per tributi, interessi, sanzioni o accessori, indicano, per gli interessi , la tipologia, la norma tributaria di riferimento, il criterio di determinazione, l'imposta in relazione alla quale sono stati calcolati, la data di decorrenza e i tassi applicati in ragione del lasso di tempo preso in considerazione per la relativa quantificazione3. 1-quater. Le disposizioni del comma 1-ter si applicano altresì agli atti della riscossione emessi nei confronti dei coobbligati solidali, paritetici e dipendenti, fermo l'obbligo di autonoma notificazione della cartella di pagamento nei loro confronti 4. 2. Gli atti dell'amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare: a ) l'ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all'atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento; b ) l'organo o l'autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell'atto in sede di autotutela; c ) le modalità, il termine, l'organo giurisdizionale o l'autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili. [3. Sul titolo esecutivo va riportato il riferimento all'eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria.] 5 4. La natura tributaria dell'atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti. [1] Comma modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numeri 1) e 2), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. [2] Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numero 3), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. [3] Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numero 3), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. [4] Comma inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numero 3), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. [5] Comma abrogato dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numero 4), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219. InquadramentoLa riscrittura dell’art. 7 L'art. 1, comma 1, lett. f), nn. 1) e 2), d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 219, in attuazione della legge delega per la riforma fiscale, ha provveduto alla riformulazione dell'articolo 7 dello Statuto del contribuente. Essa è finalizzata ad armonizzare il testo normativo con gli approdi più recenti della giurisprudenza interna, eurounitaria e internazionale e l'esigenza di eliminare alcune aporìe indotte dal testo precedente (così si legge nella Relazione illustrativa). Viene, altresì, perseguito il coordinamento con alcune novità normative, per ottenere un risultato sistematicamente coerente, e adeguatamente bilanciato tra l'esigenza di efficienza dell'attività amministrativa, da una parte, da non assoggettare a oneri sproporzionati, nel delicato compito di contrasto alla evasione fiscale, ma nel rispetto del requisito di democraticità, trasparenza, accountability della Pubblica Amministrazione. Ciò, tenuto conto del fatto che la motivazione degli atti serve anche al ponderato riconoscimento del diritto di azione e difesa in giudizio, e tenendo presente anche l'obiettivo di incentivazione della definizione precontenziosa delle controversie e svolgimento concentrato degli eventuali giudizi. Nel dettaglio, il comma 1, in adempimento dei criteri della legge delega, viene opportunamente integrato con l'espresso riferimento ai mezzi di prova, elemento cardine del fondamento dell'atto, in tal modo armonizzando la disciplina prevista per tutte le imposte a quella prevista in materia di IVA (in adempimento di altro principio e criterio direttivo generale della delega). Viene, inoltre, opportunamente armonizzata la disciplina con quella di cui all'articolo 42 del d. lgs. 600/73, in punto di motivazione per relationem, eliminando la non proporzionata necessità di allegare in ogni caso, anche quando noto, l'atto richiamato, ciò nella direzione dell'efficienza della azione amministrativa. Viene altresì specificato, in armonia con la giurisprudenza della Suprema Corte (Cfr. Cass., 11 marzo 2010, n. 5913, Cass., 11 maggio 2009, n. 10680, Cass., 17 giugno 2002, n. 8690), che parte necessaria della motivazione in questi casi è anche la espressa spiegazione del perché l'organo o l'ente che emana il provvedimento ritiene accertati i fatti di cui all'atto richiamato o ne condivide le valutazioni.Di conseguenza, per effetto delle modifiche in commento, la motivazione reca i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione (in luogo di riferirsi agli elementi su cui si fonda la decisione dell'amministrazione).Viene altresì modificato l'obbligo di allegare gli atti cui si fa riferimento nella motivazione: tale obbligo, per effetto delle modifiche in esame, è escluso qualora l'atto richiamante riproduca il contenuto essenziale di quelli richiamati e la motivazione indichi espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell'atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati. Il neo introdotto comma 1-bis, prevede che il fondamento dell'atto e della pretesa non può essere stravolto, rispetto al fondamento indicato in motivazione (vietata la mutatio libelli). I commi 1-ter e 1-quatersi occupano del rapporto tra atti impositivi ed atti della riscossione sotto il profilo della motivazione; così in particolare il comma 1-ter si pone l'obiettivo di recepire il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 11722/2010), secondo cui “Quando la cartella esattoriale non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l'ente impositore esercita la pretesa tributaria (…), essa deve (…) contenere gli elementi indispensabili per consentire al contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell'imposizione”. La motivazione “piena” riguarda, quanto alla norma introdotta, in particolare gli interessi, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con sentenza 14 luglio 2022, n. 22281, con l'unica precisazione che si è qui inteso valorizzare la prassi ormai adottata dall'amministrazione ed evidenziata dalla stessa giurisprudenza di legittimità, “nell'ottica di una migliore collaborazione con il contribuente – anche alla luce dell'art. 10 del c.d. Statuto dei diritti del contribuente – volta ad esplicitare nelle cartelle anche i tassi via via applicabili per la quantificazione degli interessi richiesti”. Il comma 1-quaterestende a fortiori le garanzie della motivazione agli atti della riscossione emessi nei confronti dei coobbligati solidali sia paritetici, sia dipendenti, i quali pur non avendo realizzato il presupposto del tributo vengono coinvolti, a vario titolo, nella responsabilità per fatto dell'obbligato principale. In tal caso, resterà in ogni caso fermo l'obbligo di autonoma notifica della cartella esattoriale nei termini indicati dall'articolo 25, comma 1, d.p.r. n. 602 del 1973. Si prevede inoltre l'abrogazione del comma 3 della norma nel testo vigente riguardante l'obbligo di indicazione, sul titolo esecutivo del riferimento all'eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, della motivazione della pretesa tributaria, risultando superato dalla più organica e completa disciplina introdotta in punto di obbligo di motivazione. L’art. 7 ante riforma fiscaleIl presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. La chiarezza e la motivazione degli atti tributari hanno destato spesso profili problematici e sono stati oggetto di dibattiti ancora non del tutto terminati e ciò proprio per la fondamentale funzione di garanzia e di tutela delle libertà individuali che il richiamato istituto è idoneo ad assolvere, soprattutto alla luce della natura impositiva propria degli atti tributari. Difatti, la corretta motivazione degli atti impositivi funge sicuramente da cartina di tornasole affinché il potere pubblico venga gestito nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia, economicità, trasparenza e pubblicità. Il rispetto dei principi appena accennati è necessario al fine di garantire il contribuente contro atti dotati di autoritarietà e imperatività illegittimi e che incidono unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto contribuente destinatario delle statuizioni in esso contenute. Nel nostro ordinamento giuridico vige la presunzione di legittimità degli atti tributari, in quanto avanzata dall'amministrazione finanziaria e volta al soddisfacimento dell'interesse finanziario dello stato, e ciò senza necessaria previa convalida da parte di un organo giurisdizionale. L'atto impositivo è assistito dal principio di presunzione di legittimità a cui si associa l'ulteriore principio dell'inversione dell'onere della prova che importa in capo al contribuente l'onere della dimostrazione dell'illegittimità dell'atto emanato dall'amministrazione finanziaria. Da ciò risulta evidente che l'esercizio del potere impositivo dovrà contemperarsi, in uno Stato di diritto, con i principi di garanzia e di tutela delle libertà individuali dallo stesso riconosciute. Il soggetto passivo dell'imposta dovrà quindi essere messo nella condizione di poter ricostruire tutti i passaggi e fasi procedimentali attraverso le quali l'atto impositivo è venuto ad esistenza, la motivazione dunque, risulterà l'elemento sul quale verrà verificata la conformità alle norme giuridiche e di conseguenza la legittimità dell'atto tributario. La motivazione rappresenta l'insopprimibile garanzia di tutela del contribuente, essendo finalizzata al controllo giurisdizionale sulla legittimità formale delle scelte assunte dagli amministratori del pubblico potere, la violazione in termini di carenza o assenza della stessa conduce alla nullità dell'atto. L'articolo in commento costituisce dunque uno dei pilastri della l. n. 212/2000 che come evidenziato dalla nella sentenza Cass. n. 15528/2010 «costituiscono principio generale dell'ordinamento tributario, ed in quanto tali, sono derogabili solo in modo espresso». La motivazione degli atti impositivi e l'evoluzione normativaIl presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. Si rammenta che, solo con l'entrata in vigore della l. 7 agosto 1990, n. 241 (meglio nota come legge sul procedimento amministrativo) l'istituto dell'obbligo di motivazione ha ricevuto un riconoscimento di portata generale all'interno del nostro ordinamento giuridico. In precedenza, infatti, esso era previsto, sebbene già in modo piuttosto ampio, solo da leggi di settore e pertanto era destinato a trovare applicazione solo per le categorie di provvedimenti amministrativi in esse contemplate. L'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, è oggi previsto, dall'art. 111, comma 6, Cost., in recepimento dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, concernente la materia del giusto processo, che ha contribuito, assieme a dottrina e giurisprudenza al processo di costruzione dell'istituto. La giurisprudenza a partire dalla sentenza del Cons. St. V, n. 158/1990 si focalizza sull'esigenza dell'obbligo di motivazione degli atti idonei ad influire negativamente nella sfera giuridica del cittadino e con la sentenza Cass.S.U., n. 12141/1990 e Cass.S.U., n. 12203/1990 i principi dettati per gli atti emanati dalla pubblica amministrazione si estendono anche al comparto fiscale e quindi applicabile agli atti d'imposizione e di esazione. In tali ambiti la motivazione ha dunque la finalità di tutela del diritto di difesa del contribuente, nonché quella di delimitare il recinto delle ragioni rappresentate dal Fisco nella successiva fase contenziosa ritenendo soddisfatto l'obbligo di motivazione nella misura in cui i contribuenti sono stati posti in grado di conoscere tutti i passaggi logico-giuridici seguiti dall'Ufficio nella formazione del provvedimento e tutti gli elementi essenziali della pretesa avanzata nei loro confronti, onde potere efficacemente contestare l'an e il quantum debeatur (Cass. I, n. 5129/1991), in assenza, l'atto è affetto da nullità. Come noto l'art. 3 l. n. 241/1990, dispone che «ogni provvedimento amministrativo...deve essere motivato», e che «la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'Amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria», confermando nel contempo l'ammissibilità della motivazione per relationem – precedentemente assai discussa – a condizione che venga tempestivamente indicata e «resa disponibile» la documentazione richiamata, e disponendo l'obbligatoria indicazione «in ogni atto notificato al destinatario» del termine e dell'Autorità «cui è possibile ricorrere» è dunque con l'art. 7 dello Statuto del Contribuente che il legislatore ha inteso rimarcare la precedente affermazione dottrinale dell'applicabilità della norma sopra citata al comparto tributario. I principi dunque che emergono dalla norma in commento hanno ad oggetto la chiarezza degli atti nonché, l'obbligo di motivazione, elementi imprescindibili affinché venga realizzato il diritto all'esercizio della difesa contro atti impositivi illegittimi. Al comma 1, primo periodo, dell'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente si legge: «Gli atti dell'amministrazione finanziaria sono motivati secondo quando prescritto dall'art. 3 della l. 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione». L'Amministrazione finanziaria è dunque onerata all'indicazione esatta e dettagliata di tutti i presupposti e i dati fattuali a qualsiasi titolo intervenuti e/o vagliati dalla stessa nel corso della pregressa fase istruttoria, mentre mediante l'indicazione delle ragioni giuridiche, l'ente impositore sarebbe chiamato ad esporre il preciso ragionamento giuridico svolto con riguardo all'applicazione delle norme invocate nel caso concreto. Una parte dell'orientamento dottrinale prevede che la motivazione dell'atto impositivo deve comprendere anche l'indicazione degli elementi di prova presi in considerazione dall'Amministrazione preesistenti all'atto stesso ed inerenti alla pregressa fase istruttoria. L'esercizio ad una efficace difesa sarebbe infatti impedito nel caso in cui il contribuente non potesse valutare l'impianto probatorio a sostegno della legittimità dell'atto d'imposizione. Tuttavia la giurisprudenza è di tutt'altro avviso (Cass. sez. trib., n. 12394/2002 e Cass.S.U., n. 5786/1988) ed operando una differenziazione tra la fase procedimentale e la fondatezza sostanziale della pretesa tributaria, chiarisce che la motivazione è requisito della prima mentre la prova è elemento costitutivo della seconda. La giurisprudenza sul punto sancisce che la prova dei fatti addotti a sostegno della pretesa tributaria non è richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento, e la sua mancanza non può incidere sulla validità dell'avviso stesso, perché deve essere fornita soltanto in sede processuale, ove, a seguito dell'opposizione del contribuente, si proceda alla verifica della fondatezza sostanziale delle pretesa impositiva, con la conseguenza, in mancanza, del rigetto della pretesa medesima, ma non dell'invalidità dell'accertamento (Cass. I, n. 5473/1998) e ancora «la motivazione degli atti di accertamento serve (...) a rendere note al contribuente le ragioni, delimitando la materia del contendere dell'eventuale controversia che faccia seguito, e perciò il detto requisito costituisce un minus rispetto alla prova della pretesa azionata; la motivazione deve dare conto della sequenza argomentativi su cui si fonda la rettifica, ma non ha l'obbligo di dimostrare anche sul piano probatorio, l'effettiva esistenza di quanto l'Ufficio afferma, in guisa che il contribuente possa comprendere se, e in quale misura, rispondono alla realtà» (sempre Cass. I, n. 5473/1998, cit.). La motivazione «per relationem»Il presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. L'articolo in commento al comma 1, secondo periodo, dispone che se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama. Frequentemente il contribuente, prima della notifica dell'atto impositivo ha già avuto modo di venire a conoscenza di atti d'indagine finanziaria oppure di delibere degli enti impositori, quindi quest'ultimo in sede di formalizzazione del provvedimento impositivo, assolve all'obbligo di motivazione su di esso gravante rinviando ai pregressi atti acquisiti nella fase istruttoria, si configura così la motivazione per «relationem», atta ad assicurare l'economicità dell'attività giuridica. Tuttavia, il ricorso a tale motivazione ha fatto emergere difficoltà interpretative che la giurisprudenza di volta in volta ha cercato di colmare anche con l'intervento delle Sezioni Unite. Il problema nasce dal momento in cui l'ente impositore al momento dell'elaborazione dell'atto tributario, anziché procedere a un'autonoma elaborazione della motivazione, si limiti a operare un integrale e acritico rinvio ai pregressi atti istruttori dell'indagine fiscale. Difatti l'avviso di accertamento, nella parte motivazionale, può contenere un acritico rinvio a pregressi atti istruttori, in particolare al processo verbale di constatazione, in quanto con il suddetto comportamento l'Ufficio intende realizzare una semplice economia di scrittura, il contribuente dal canto suo, dovrebbe contestare e dimostrare come la motivazione, così formulata, sia inadeguata e non sia in grado di rispecchiare la sua vera posizione fiscale (Cass. n. 2908/2010). La dottrina, più volte ha ravvisato il difetto di motivazione per assenza di un adeguato vaglio critico delle risultanze dell'istruttoria procedimentale violando l'inderogabile dovere degli Uffici finanziari di valutare criticamente ed autonomamente gli elementi posti a fondamento della pretesa impositiva. Si rammenta che, l'obbligatorietà di un vaglio critico delle risultanze del procedimento di accertamento tributario da parte dell'ente impositore si rinviene nella prassi oramai consolidata (cfr., sul punto, Circ. Min. Fin. n. 29/410811 del 23 maggio 1978 e quindi il rinvio non critico da parte dell'ente impositore ad atti elaborati da altri soggetti della pubblica amministrazione, andrebbe a inficiare il modello procedimentale indicato dal legislatore. Difatti il potere di individuare la pretesa tributaria, sarebbe riservata ad un organo della pubblica amministrazione che però non è legittimato a tale funzione. Assisteremmo quindi ad un capovolgimento delle competenze, tra chi ha una posizione d'indagine e chi è dotato istituzionalmente di poteri autoritativi. La GDF oppure la SIAE, così facendo andrebbero ad individuare prioritariamente le violazioni oltre che gli elementi di prova che verrebbero acriticamente recepite nell'atto impositivo, l'ente impositore in tal maniera rinuncerebbe alla propria funzione provvedimentale, trasformandosi in un mero «recettore» delle altrui conclusioni omettendo la valutazione critica e un'apprezzamento tecnico – giuridico delle risultanze istruttorie). Tuttavia, sul punto non sono mancate decisioni contrastanti in giurisprudenza, nonostante sembrerebbe esserci uniformità di opinioni nell'affermare che la titolarità della funzione di accertamento compete esclusivamente ai relativi uffici finanziari designati dalla legge e che quindi quest'ultimi hanno il potere di discostarsi dalle risultanze istruttorie dei processi verbali di accesso e di constatazione (Cass. sez. trib., n. 3988/2000). La problematica viene in rilievo dal momento in cui l'Ufficio impositore intenda condividere le risultanze individuate nella fase d'indagine dalla Guardia di finanza oppure dai funzionari appartenenti allo stesso Ufficio impositore. Interessante è sicuramente la nota sentenza della C.t.p. Pescara, 22 gennaio 1998, n. 783, nella quale si afferma esplicitamente che: «I verbali della Guardia di finanza, pur essendo atti posti in essere da militari in veste di pubblici ufficiali, restano per legge atti di collaborazione con gli uffici tributari, ossia semplici constatazioni di fatti che devono passare il vaglio degli uffici finanziari che possono, sulla base degli stessi, procedere o meno alla creazione ed emissione di atti amministrativi (...). È di tutta evidenza, dunque, l'illegittimità dell'operato dell'ufficio allorché si limita a una pedissequa omologazione degli elementi segnalati dalla Guardia di finanza senza una seria valutazione critica dei medesimi. Titolari del potere impositivo sono gli uffici tributari di guisa che sono inderogabilmente tenuti a compiere sempre e comunque la propria e autonoma valutazione degli elementi messi a disposizione dalla polizia tributaria». Di orientamento inverso è invece la Suprema Corte che ammette il rinvio sintetico da parte dell'ente accertatore – in sede motivazionale – ai documenti elaborati dagli organi investigativi, essendo riconosciuta la possibilità di condividere le risultanze istruttorie degli organi investigativi senza che questo possa comportare un difetto di motivazione a causa di mancanza di autonoma valutazione. Tale orientamento è sancito nella seguente massima: «In base all'ormai consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità, pienamente condivisibile, la motivazione degli atti di accertamento per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'ufficio degli elementi da detta Guardia di finanza acquisiti, significando semplicemente che l'ufficio ha inteso condividerne le conclusioni, realizzando così un'economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza della sussistenza di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio né a quest'ultimo, né al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. sez. trib., n. 8311/2002, cit.) ed ancora, il fatto che l'Ufficio non abbia stilato una autonoma motivazione dell'accertamento non significa che non abbia effettuato una autonoma valutazione degli elementi acquisiti dalla Guardia di finanza in sede istruttoria, e d'altra parte il fatto che l'Ufficio non sia giunto a conclusioni diverse da quelle della Guardia di finanza non significa che non abbia effettuato una autonoma valutazione: il «sintomo» della motivazione «fotocopia» non esclude l'autonomia dei giudizi (Cass. sez. trib., n. 2780/2001, cit.), «l'avviso di accertamento, nella parte motivazionale, può contenere un acritico rinvio a pregressi atti istruttori, in particolare al processo verbale di constatazione, in quanto con il suddetto comportamento l'ufficio intende realizzare una semplice economia di scrittura» (Cass. n. 2908/2010), inoltre l'assunto in virtù del quale l'Amministrazione finanziaria può recepire in maniera acritica i dati contenuti nel PVC vale anche nell'ipotesi in cui detto atto sia stato formato, a sua volta, sulla base di rilievi provenienti da una perizia contabile disposta dal Pubblico Ministero in sede penale. Per la Cassazione, l'Agenzia delle Entrate può riportare le conclusioni della Guardia di Finanza «eventualmente perfino con una identità di formule espositive», posto che ciò «non significa che sia mancata un'autonoma valutazione in sede tributaria», siccome, salvo espressa prova contraria, ciò postula che «si è autonomamente ritenuto di condividere i risultati raggiunti dalla consulenza citata nonché il relativo percorso logico sulla valutazione della documentazione» (Cass. n. 25211/2010). È evidente che l'interprete dovrà verificare, al fine di contestarne la validità, se l'Ufficio ha valutato criticamente oppure no la motivazione che ha fatto propria. Ulteriore profilo alla luce del quale deve essere verificata la legittimità della motivazione per relationem è quello che riguarda la conoscenza, da parte del contribuente, degli atti richiamati dal provvedimento di accertamento, ai quali quest'ultimo rinvia per quanto concerne la propria parte motivazionale. Il profilo della conoscenza dell'atto richiamato, infatti, riveste un ruolo fondamentale nell'economia delle problematiche in tema di motivazione per relationem giocandosi attorno a tale aspetto la garanzia del diritto di difesa del contribuente e il diritto ad avere una compiuta conoscenza degli elementi posti alla base della pretesa impositiva. Antecedentemente all'entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente, la giurisprudenza di legittimità ha seguito un indirizzo assolutamente costante in virtù del quale la motivazione per relationem veniva considerata legittima tutte le volte in cui l'atto richiamato dal provvedimento di accertamento fosse conosciuto dal contribuente o anche solo reso conoscibile allo stesso (tra le altre, Cass. I, n. 5473/1998). Il rinvio all'art. 3 della legge sul procedimento amministrativo che dispone, infatti, che in caso di motivazione per relationem è ben possibile, e dunque legittimo, operare un rinvio ad atti anche non conosciuti dall'interessato, purché essi siano dall'atto provvedimentale che opera il rinvio precisamente indicati (ovvero individuati), e dall'amministrazione procedente «resi disponibili» (e, dunque, per ciò stesso conoscibili), garantiva la legittimità della motivazione per relationem. Per conoscibilità si faceva riferimento alla possibilità del contribuente di procedere all'estrazione di copie, come previsto per il processo verbale di constatazione dall'art. 52, comma 6, d.P.R. n. 633/1972, e per gli atti amministrativi dalla l. 7 agosto 1990, n. 241. A tale ricostruzione si obbiettava la rimozione pratica dell'obbligo di motivazione, e quindi la lesione dei diritti difensivi. Con l'entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente, la previgente previsione contenuta nell'art. 7, comma 1, ultimo periodo, l. n. 212/2000, è parsa, a prima vista, la soluzione agli inciampi interpretativi. Più chiaramente, l'obbligatoria allegazione al provvedimento impositivo di ogni documento in esso richiamato doveva rappresentare lo strumento affinché in futuro venisse sempre garantita una piena comprensione della materia del contendere, così che il contribuente potesse esplicitare «a pieno» il proprio diritto di difesa. Con la Circ. Min. fin., n. 150/E del 1° agosto 2000 l'Amministrazione finanziaria onerava gli uffici in caso si motivazione per relationem, all'allegazione dei documenti richiamati negli atti di imposizione fiscale. Ma nonostante i buoni propositi del legislatore la norma statutaria rischiava di appesantire il lavoro dell'Amministrazione finanziaria in presenza di atti già in possesso del contribuente e la dottrina maggioritaria riconobbe l'obbligo di allegazione solamente nelle ipotesi in cui i documenti a cui l'atto faceva riferimento non fossero stati previamente notificati al contribuente. Nel lasso di tempo di 6 mesi il Legislatore dello Statuto ritorna sui suoi passi e con l'ultimo periodo aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), del d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, riformula la norma in commento integrando il precedente dettato normativo «se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama, salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale», mitigando così il generale obbligo di allegazione degli atti ai quali il provvedimento di accertamento rinvii per relationem, e ciò non solo nei casi in cui gli stessi siano già stati legittimamente ricevuti dal contribuente, ma anche in quelli in cui il provvedimento impositivo ne «riproduca il contenuto essenziale», ossia in tutte quelle situazioni in cui sia sostenibile la legittima «conoscibilità» dell'atto richiamato. L'avviso di accertamento, ove motivato per relazione ad altri atti, deve contenere l'allegazione di questi ultimi, pena la violazione della difesa del contribuente. A conforto di ciò, occorre evidenziare che l'art. 42 del d.P.R. n. 600/1973, prima delle modifiche apportate dalla l.n. 212/2000, prevedeva che l'accertamento era legittimo se gli atti richiamati fossero semplicemente «conoscibili» dal contribuente. Nel sistema attuale, invece, la norma stabilisce che gli atti devono essere allegati al provvedimento, a meno che non ne sia riportato il contenuto essenziale. Il tutto è avvalorato dall'art. 7 della l. n. 212/2000, in base al quale se un atto richiama altri provvedimenti, questi devono essere allegati (la norma, si badi bene, non fa nemmeno riferimento alla possibilità di riprodurre nell'accertamento il «contenuto essenziale» dell'atto richiamato). Nella specie, l'atto (relativo all'ICI) è stato annullato siccome la delibera comunale, ove erano stati fissati i valori di singole aree edificabili, non era stata allegata né era stato riprodotto il contenuto essenziale (Cass. n. 20535/2010). Il risultato della schizofrenia legislativa si esplica quindi in incoerenti e contraddittorie pronunce giurisprudenziali. La giurisprudenza (Cass. ord. n. 14149/2014) ha avuto modo di precisare che l'eventuale riproduzione, con effetto sostitutivo dell'allegazione, del contenuto essenziale degli atti richiamati consiste nel fornire l'insieme «delle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell'atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell'atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento». Risulta quindi, che l'attuale quadro di tutele offerte al contribuente, dall'ordinamento tributario, è consolidato e, tra l'altro, sostenuto da diffusa – nonché recente – giurisprudenza di legittimità, la quale ha anche precisato (ad esempio, con ordinanza Cass. n. 16783/2013) che la successiva produzione in giudizio quale apparente atto d'integrazione probatoria non può che considerarsi, con dizione a suo dire atecnica, «tardiva» in quanto trattasi – diversamente – di vizio motivazionale dell'atto stesso portante la rettifica. Esemplificativa al riguardo è la seguente massima, dove si legge che «in tema di imposte sui redditi, l'accertamento motivato con il rinvio ad un atto dell'Amministrazione finanziaria non allegato all'avviso e non noto al contribuente è nullo, non essendo sufficiente la produzione dell'atto stesso in sede contenziosa» (Cass. sez. trib., n. 15319/2002, cit.). Per ultima Cass. VI, n. 20798/2017, che ha ritenuto che in tema di motivazione per relationem degli atti di imposizione, la norma di cui al citato art. 7 d.lgs. n. 212/2000, nel prevedere che debba essere allegato ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non si riferisce ad atti di cui il contribuente ha già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione; se così fosse ci sarebbe un'interpretazione puramente formalistica che sarebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura, che nell'interesse generale, faccia salva a funzione di garanzia degli atti, limitando comunque cause di invalidità o di inammissibilità irragionevoli. I Giudici di legittimità, pertanto, hanno accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate rinviando la causa ad altra sezione della C.t.r. La giurisprudenza ritiene che non ricorre l'obbligo di allegazione per gli atti cui fa riferimento l'atto richiamato nell'avviso di accertamento, a meno che non ricorra un mero rinvio ricettizio, senza illustrazione degli atti presupposti. Diversamente se l'atto presupposto (avviso di mora), a cui non sono seguiti ulteriori atti, contiene un autonomo contenuto, si introdurrebbe un obbligo di allegazione di secondo grado non previsto dall'art. 7 d.lgs. n. 212/2000 (cfr. Cass. n. 407/2015). Il principio di chiarezza degli atti tributariIl presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. Come noto a norme che impongono obblighi in capo alla Pubblica amministrazione, tuttavia il legislatore non sempre fa conseguire effetti in ipotesi della loro inosservanza. Uno degli esempi più calzanti è proprio la disposizione normativa contenuta nel comma 2 dell'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale testualmente dispone che: «Gli atti dell'amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare: 2. Gli atti dell'amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare: a) l'ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all'atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento; b) l'organo o l'autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell'atto in sede di autotutela; c) le modalità, il termine, l'organo giurisdizionale o l'autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili. Di palese comprensione il fatto che il disposto normativo non prevede alcuna conseguenza sanzionatoria a fronte del mancato rispetto degli «avvertimenti» qualificati come tassativi. Tuttavia, alla luce dell'equiparazione del comma 2 dell'art. 7 cit., ai contenuti e alle funzioni contemplate nelle disposizioni dell'art. 19, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 e dell'art. 3, comma 4, della l. n. 241/1990, nonché, prima ancora, dell'art. 1, comma 3, d.P.R. n. 1199/1971, ben possono essere richiamati i principi già univocamente espressi, con riferimento a tali ultime disposizioni, dalla giurisprudenza amministrativa e tributaria. L'obbligo di indicazione del termine e l'Autorità cui ricorrere non risulta foriera di particolari problemi in quanto l'indicazione dovrà essere specifica e precisa. Difatti, considerata la natura dell'elemento in questione, è di tutta evidenza che l'obbligo legislativo può ritenersi correttamente assolto solo mediante l'esplicita menzione dell'esatto termine applicabile alle singole e concrete fattispecie, non essendo sufficiente né un astratto o generico rinvio ai termini previsti dalla legge, né un'indicazione che renda comunque necessaria una qualsivoglia attività di valutazione da parte del soggetto destinatario dell'atto. Medesima considerazione per ciò che riguarda l'indicazione dell'Autorità competente per l'impugnazione: essa deve contenere, infatti, la chiara e precisa individuazione dell'Organo funzionalmente e territorialmente competente al quale proporre l'eventuale impugnazione dell'atto. Pienamente condivisibile appare, pertanto, quanto affermato recentemente in proposito dalla Suprema Corte nell'unico caso finora sottoposto alla sua attenzione con riferimento alla normativa del contenzioso tributario, ossia che «l'obbligo di indicare la Commissione tributaria competente per territorio», stabilito dall'art. 19 d.lgs. n. 546/1992 «comporta che l'autore dell'atto deve individuare in concreto la specifica Commissione tributaria competente per territorio, non essendo sufficiente una indicazione generica e ripetitiva della formula usata dal legislatore», ossia la mera allusione alla «Commissione tributaria provinciale» (Cass. sez. trib., n. 12070/2004). Per quanto riguarda l'obbligatoria indicazione nell'atto delle forme da osservare per la proposizione del ricorso, la Suprema Corte, in una isolata pronuncia, ha affermato che tale obbligo, nei modi in cui è previsto dall'art. 19 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, potrebbe essere efficacemente assolto «quando nell'atto è contenuto il riferimento alla fonte normativa che disciplina la materia, e cioè al d.lgs. n. 546 del 1992», ritenendo che «un richiamo all'intera normativa sul contenzioso tributario» appare «senz'altro idoneo e sufficiente ad orientare il destinatario dell'atto anche per la fase della introduzione del giudizio» (Cass. sez. trib., n. 12070/2004). La dottrina tuttavia ha rilevato che un generico rinvio alla fonte normativa che disciplina l'intera materia (ossia, nel caso esaminato dalla Cassazione, al d.lgs. n. 546/1992), non è assolutamente idoneo ad indicare le concrete forme da osservare per la proposizione del ricorso e, dunque, non pone affatto il contribuente nella condizione di sapere, prima facie, come presentare l'impugnazione, che è proprio quanto la richiamata disposizione legislativa richiede che avvenga, al pari della tassativa statuizione dell'art. 7, comma 2, lett. c), dello Statuto del contribuente. Si è infatti precisato che il «richiamo alla intera normativa sul contenzioso tributario» non è indicazione idonea a individuare con immediatezza le «forme» o le «modalità» da osservare per proporre ricorso poiché, non essendo il semplice contribuente in grado di procurarsi istantaneamente l'intero testo normativo richiamato, ciò lo costringerebbe ad acquisirlo tramite un onere personale di attivazione non richiesto (e, dunque, non voluto) da alcuna norma di legge, e quand'anche acquisitolo, il contribuente sarebbe chiamato a un'ulteriore sforzo di apprezzamento e valutazione al fine di individuare con precisione le norme che disciplinano l'impugnazione. In conclusione per la dottrina, il dettato normativo dell'art. 7, comma 2, lett. c) dello Statuto del contribuente, può considerarsi soddisfatto solamente in presenza di indicazioni chiare e precise sulle modalità d'impugnazione che facciano riferimento anche alle corrispondenti normative. In merito alle previsioni contenute nell'art. 7, comma 2, lett. a) e b), che impongono a tutti gli atti dell'amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione l'indicazione dell'Ufficio presso il quale il contribuente può ottenere informazioni complete circa l'atto notificato o comunicato, nonché sul responsabile del procedimento. L'Ufficio a cui la norma fa riferimento è sicuramente quello che ha istruito l'atto spedito al contribuente. Potrebbe, tuttavia, anche trattarsi di un'articolazione, alla quale siano stati precipuamente demandati i rapporti con il contribuente, come avviene, ad esempio, presso le Agenzie delle entrate che hanno istituito appositi uffici per le relazioni con il pubblico aventi la specifica funzione di fornire assistenza e informazione ai contribuenti per le attività poste in essere dalle agenzie stesse. Relativamente al responsabile del procedimento, esso può essere individuato attingendo all'art. 4, l. n. 241/1990 e quindi il dirigente dell'unità organizzativa responsabile «dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale» (l'atto inviato al contribuente), demandandone la concreta individuazione, per ciascun tipo di procedimento, alle singole pubbliche amministrazioni. Per quanto concerne, invece, l'individuazione dell'organo o dell'autorità amministrativa presso cui è possibile promuovere un riesame, anche nel merito, dell'atto in sede di autotutela (lett. b), comma 2, art. 7, occorre rifarsi all'apposito regolamento, approvato con decreto ministeriale (d.m. 11 febbraio 1997, n. 37), sull'esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell'Amministrazione finanziaria. In particolare, secondo quanto sancito dall'art. 1 del suddetto regolamento, l'indicazione deve riguardare l'Ufficio che ha emanato l'atto nonché quello a esso sovraordinato, il quale potrà provvedere in autotutela, anche in via sostitutiva, per i casi di «grave inerzia» dell'ufficio competente in prima battura. In presenza di mancanza, incompletezza o erroneità delle indicazioni degli elementi che l'art. 7, comma 2, tuttavia, si deve constatare che la giurisprudenza è ormai costante nell'escludere che la violazione degli indicati obblighi legislativi comporti la radicale nullità dell'atto (Cass. sez. trib., n. 19667/2004, anche se attingendo all'indirizzo dei giudici amministrativi, formatosi sulla base delle disposizioni recate dall'art. 3, comma 4, l. n. 241/1990 e dall'art. 11, comma 3, d.P.R. n. 1199/1971, si può affermare che, l'omessa, incompleta o erronea formulazione delle indicazioni in discorso impedisce la formazione delle ordinarie preclusioni e rende scusabili gli eventuali errori in cui sia incorso l'interessato, consentendone la rimessione in termini in base a motivazioni fondate sui principi generali della tutela del diritto di difesa e dell'affidamento). L'errore in cui è incorso il contribuente permetterebbe quindi l'applicazione dell'istituto della rimessione in termini in campo tributario, anche se sul punto la dottrina è contrastante. Per quanto concerne invece l'orientamento seguito dalla Suprema Corte, essa, dopo avere inizialmente escluso l'operatività della rimessione in termini nel contenzioso tributario sulla base dell'assenza di una disciplina espressa (Cass. I, n. 4973/1998 ha successivamente mutato indirizzo, riconoscendo la possibilità di applicare il predetto istituto anche in materia tributaria. Pur ritenendo, infatti, che la violazione dell'obbligo di specificare il giudice competente non sia idoneo a determinare «necessariamente» l'annullamento dell'atto privo di tale indicazione, la Cassazione ha comunque ammesso che una simile omissione possa comunque rilevare in sede processuale ai fini della «restituzione in termini per errore scusabile», qualora «sussista una giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell'atto» (Cass. sez. trib., n. 7558/2003), e in altre recenti pronunce ha riconosciuto che l'omessa indicazione del termine per ricorrere e della commissione competente sul gravame possa «determinare la mancata decorrenza del termine per impugnare» (cfr., in tal senso, Cass. sez. trib., n. 19667/2004, cit.; Cass. sez. trib., n. 3865/2002, cit.). Per concludere, se l'omissione, l'incompletezza o l'erroneità delle indicazioni prescritte dall'art. 7, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, non provoca, di per sé, la nullità dell'atto e resta relegata al rango di una mera irregolarità priva di conseguenze quando l'interessato lo abbia comunque impugnato nei modi e nei termini previsti, si deve invece escludere che possano formarsi preclusioni e decadenze quando il provvedimento rechi indicazioni erronee in merito alle prerogative difensive del suo destinatario, se non addirittura ogni qualvolta l'atto sia comunque sprovvisto di tutte le indicazioni richieste dalla legge. Ciò in ossequio a quei principi costituzionali sul diritto di difesa e sull'effettività della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, che resterebbero frustrati se le norme contemplanti preclusioni e decadenze potessero produrre pienamente i loro effetti anche quando l'erroneo comportamento processuale della parte fosse imputabile alla violazione, da parte della stessa amministrazione, dei precetti legislativi che mirano proprio a evitare l'eventualità di errore nei soggetti aventi interesse all'impugnazione. La motivazione degli atti della riscossione esattorialeIl presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. Il comma 3 dell'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente prevede l'indicazione del riferimento all'eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria. Il precetto non rileva particolari problematiche anche alla luce della residuale funzione della cartella di pagamento in presenza dell'oramai consolidata operatività dell'accertamento impositivo. In breve si può affermare che se l'atto della procedura esecutiva (tipicamente la cartella di pagamento) è stato preceduto da quello prodromico (cioè l'atto di accertamento), da cui trae esistenza e forza, la motivazione sarà quella dell'atto presupposto, è da escludersi una motivazione ad hoc, nel caso in cui ci troviamo in presenza di una compressione delle fasi della liquidazione e della riscossione, il provvedimento va motivato perché non esiste un diverso riferimento che illustri al destinatario «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione finanziaria». La cartella di pagamento è un atto impositivo che deve essere adeguatamente motivato ex art. 7 della l. n. 212/2000. In base a tale principio, è nulla la cartella di pagamento riportante solo la cifra globale degli interessi maturati, senza l'indicazione delle modalità di calcolo e le aliquote prese alla base delle varie annualità. Non è decisivo il richiamo all'art. 20 del d.P.R. n. 602/1973 in quanto in queste circostanze non è controversa la spettanza degli interessi bensì le modalità di determinazione ed il periodo di decorrenza degli stessi (Cass. n. 15554/2017). In presenza di un atto prodromico sarà sufficiente, quindi l'indicazione dei soli estremi (data, numero, organo emittente) in caso contrario, e per ovvi motivi, l'atto della procedura esecutiva dovrà necessariamente contenere la motivazione della pretesa tributaria. L'impugnazione degli atti tributari davanti agli organi di giustizia amministrativaIl presente commento si riferisce all'articolo 7 prima della riforma. Il quarto e ultimo comma dell'art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente statuisce che la natura tributaria dell'atto non precluda il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrono i presupposti. Secondo quanto affermato dalle Sezioni unite della Cassazione, con tale norma il legislatore ha inteso dirimere i dubbi circa la possibilità di ricorrere al giudice amministrativo tutte le volte in cui l'atto dell'amministrazione finanziaria non risulti impugnabile dinnanzi alle Commissioni tributarie, a norma dell'art. 19, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anche in via «differita», vale a dire ricorrendo contro uno degli atti tipici elencati nel comma 1 dell'art. 19 cit. Ciò alla condizione, naturalmente, che si tratti di un atto che, secondo i tradizionali criteri di riparto della giurisdizione, ricada in quella amministrativa, piuttosto che in quella del giudice ordinario (Cass.S.U., n. 14692/2005), il caso degli atti istruttori, eventualmente posti in essere al di fuori dei canoni normativi, che ledono gli interessi legittimi del contribuente o di terzi, non impugnabili, nemmeno in via differita, nel processo tributario. Una diversa lettura, tuttavia, può conseguire alla riforma apportata dall'art. 12, comma 2, legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Finanziaria 2002), prima della quale, l'art. 19 era un tassativo elenco di atti (avviso d'accertamento, avviso di liquidazione, ruolo e cartella di pagamento etc.), la cui impugnazione dava l'accesso al processo, e l'art. 2 era un elenco nominativo di tributi (imposte sul reddito, imposta sul valore aggiunto, imposta di registro etc.), che perimetrava per materia la giurisdizione tributaria davanti le Cc.Tt., lasciando alle altre giurisdizioni tutto ciò che era rimasto fuori. Con tale radicale modifica la giurisdizione delle Cc. Tt. è diventata “esclusiva ratione materiae” per ogni tipo di controversia il cui oggetto fosse un tributo, omnimodo definito; ad un'elencazione analitico-formale di tributi ed atti, si è sostituito un criterio sostanziale: ai fini della qualificazione del tributo non rileva più, quindi, la formale denominazione attribuita dal legislatore (Corte cost. n. 141/2009; Corte cost. n. 64/2008). L'attuale giurisprudenza di legittimità, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia dei atti emessi dall'Amministrazione finanziaria, ritiene sussistere la giurisdizione tributaria quando oggetto della controversia è l'esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione che è proprio del rapporto tributario. Pertanto, attesa la riconosciuta generalità ed esclusività della giurisdizione tributaria, ogni dichiarazione di improponibilità della domanda ha valore assoluto; infatti, “il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione” (Cass.S.U., n. 13793/2004). Secondo Cass.S.U., n. 11082/2010: «M. Sul “corretto ambito applicativo” della disposizione dettata dalla l. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4, (secondo cui “la natura tributaria dell'atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti” - di cui i ricorrenti lamentano la violazione da parte del giudice a quo -, infine, va ribadito - in carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria - il principio già precisato nella sentenza 13 luglio 2005 n. 14692 di queste sezioni unite per cui quella disposizione riconferma “il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria”, “non fa che enfatizzare un principio già generalmente riconosciuto” e “comporta”, “salvo espresse previsioni di legge”, “una naturale competenza del giudice amministrativo” soltanto “sull'impugnazione di atti amministrativi ... a contenuto generale o normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e di atti paventi natura provvedimentale”) “che costituiscano un presupposto dell'esercizio della potestà impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita alla giurisdizione sul rapporto tributario”». In seguito, sul medesimo caso, Cass.S.U.n. 8587/2016, sul tema, così motivava: “Ritenuto in fatto: Nel corso di una verifica fiscale presso lo Studio legale e tributario associato furono esaminati, previa acquisizione dell'autorizzazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, anche documenti rispetto ai quali era stato opposto il segreto professionale in quanto relativi a corrispondenza con i clienti dello studio medesimo. L'autorizzazione suddetta fu impugnata dinanzi al Tar della Lombardia che, con sentenza confermata dal C.d.S., declinò la propria giurisdizione. Queste sezioni unite, investite dell'impugnazione proposta avverso la decisione del C.d.S. dallo Studio e dai professionisti associati al medesimo all'epoca dei fatti contro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, il MEF, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e nei confronti del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Milano, con sentenza n. 11082 del 2010 hanno respinto il ricorso e confermato che non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nell'ipotesi di impugnazione dell'autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell'art. 52 comma 3 d.P.R.. n. 633 del 1972, per consentire nel corso di una verifica fiscale l'esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l'esistenza del segreto professionale. Le sezioni unite hanno altresì precisato che la giurisdizione del giudice tributario si estende non solo all'impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l'autorizzazione in questione, onde gli eventuali vizi della stessa possono essere dedotti nell'ambito dell'impugnazione del provvedimento che conclude l'iter di accertamento, e che, qualora l'attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo (ovvero questo non sia oggetto di impugnazione), l'autorizzazione suddetta, in quanto in ipotesi lesiva del diritto del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, può essere impugnata dinanzi al giudice ordinario. La C.t.p. di Milano, adita a seguito della sopra richiamata pronuncia delle sezioni unite, ha accolto parzialmente il ricorso annullando il provvedimento di autorizzazione impugnato e respingendo la domanda risarcitoria. Con la sentenza n. 1267 del 2014 impugnata in questa sede, la sezione n. 44 della C.t.r. della Lombardia, pronunciando sull'appello proposto da Procura delta Repubblica presso il Tribunale di Milano, Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, MEF e Presidenza del Consiglio dei Ministri,rilevato che nella specie il provvedimento conclusivo del procedimento di verifica fiscale a carico dello studio non era stato oggetto di impugnazione e che pertanto difettava l'imprescindibile collegamento tra l'impugnazione del suddetto provvedimento e l'autorizzazione in questione ed escluso che quest'ultima fosse di per sé suscettibile di essere ricompresa tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario alla stregua dell'art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992, ha dichiarato l'improponibilità dei ricorsi. Avverso questa sentenza ricorre lo studio associato nonché, in proprio, i professionisti che ad esso erano associati all'epoca dei fatti. Resistono la Procura della Repubblica di Milano, il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della G.d.F. di Milano, il MEF, il Presidente del Consiglio dei Ministri. Considerato in diritto Con un unico motivo, deducendo violazione delle norme sulla giurisdizione e del dictum delle Sezioni Unite di cui alla sentenza Cass. S.U., n. 11082/l 2010; violazione e falsa interpretazione degli artt. 2 e 19 d.lgs. n. 546 del 1992; violazione degli artt. 24,13 e 117 comma 1 Cost. nonché 6 e 13 CEDU, i ricorrenti sostengono che la decisione impugnata si fonda su di una erronea lettura della sentenza delle sezioni unite, le quali avrebbero statuito -con efficacia vincolante nel presente giudizio- che nella specie l'impugnativa immediata e diretta del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica di Milano rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice tributario, precisando solo in via incidentale, in un passaggio “completamente frainteso” dai giudici della C.t.r., che la giurisdizione apparterrebbe al giudice ordinario ove venisse lamentata la lesione di un diritto soggettivo derivante da un'attività di verifica fiscale posta in essere al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. I ricorrenti ritengono pertanto che l'autorizzazione di cui si discute debba considerarsi, aria stregua della citata sentenza delle sezioni unite, sempre impugnabile dinanzi ai giudice tributario e chiedono che - eventualmente previa rimessione degli atti alla Corte costituzionale in relazione alla ritenuta illegittimità dell'art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992 nella parte in cui non comprende tra gli atti immediatamente impugnabili dinanzi al giudice tributario anche l'autorizzazione in questione- la sentenza impugnata, in accoglimento del proposto ricorso, venga cassata con rinvio. La censura è infondata. Come emerso dalla narrativa che precede, nella controversia in esame queste sezioni unite si sono pronunciate in punto di giurisdizione confermando la decisione del C.d.S. impugnata ai sensi dell'art. 362 c.p.c., e lo hanno fatto con una sentenza ampia e chiara, peraltro nel solco univocamente tracciato dalla precedente giurisprudenza delle medesime sezioni unite in materia (cfr. tra le altre Cass.S.U., n. 6315/ 2009). In particolare le sezioni unite hanno affermato che la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo e si estende non solo all'impugnazione del provvedimento impositivo ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l'autorizzazione di cui si discute, sostanzialmente perché l'eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità (formale o sostanziale) su di un atto istruttorio prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell'atto “finale” impugnato, con la conseguenza che gli eventuali vizi di atti istruttori prodromici possono essere fatti valere dinanzi al giudice tributario soltanto in caso di impugnazione del provvedimento che conclude l'iter di accertamento. Qualora, invece, l'attività di accertamento non sfoci in un atto impositivo (ovvero, è da ritenersi, tale atto, come nella specie, non sia fatto oggetto di impugnazione), secondo le sezioni unite l'autorizzazione in questione, siccome in ipotesi lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, è autonomamente impugnabile dinanzi al giudice ordinario. Infine le sezioni unite hanno precisato che il problema della riconducibilità dell'atto impugnato alle categorie indicate dall'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 è questione che non attiene alla giurisdizione del giudice adito bensì alla proponibilità della domanda dinanzi a quel giudice. Come chiaramente risulta da quanto sopra esposto la decisione delle sezioni unite sulla questione di giurisdizione -vincolante nel presente giudizio- non si presta a fraintendimenti di sorta in quanto esplicita ed esaustiva, senza che, attraverso l'impugnazione della sentenza della C.t.r. e la deduzione di un fraintendimento, da parte di quest'ultimo giudice, della portata della citata decisione delle sezioni unite, sia possibile “veicolare” in questa sede una inammissibile censura avverso la suddetta decisione al fine di sollecitare una nuova e diversa statuizione sul punto. I giudici della C.t.r. della Lombardia, invero, in piena consonanza con quanto chiaramente espresso nella più volte richiamata statuizione delle sezioni unite, non hanno declinato la giurisdizione loro attribuita ma l'hanno esercitata dichiarando l'improponibilità dei ricorsi. In particolare i suddetti giudici hanno affermato l'impugnabilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti del procedimento di imposizione tributaria unitamente all'atto che tale procedimento conclude; hanno precisato che tale estensione al controllo della regolarità di tutte le fasi del procedimento di imposizione fiscale unitamente all'atto conclusivo comporta, a contrario, l'applicabilità agli atti fiscali “istruttori” del principio della non autonoma ed immediata impugnabilità proprio in quanto aventi carattere infraprocedimentale; hanno conseguentemente escluso nella specie la proponibilità dei ricorsi avverso l'autorizzazione in questione, non essendo stato impugnato l'atto tributario conclusivo del procedimento di verifica nel quale è intervenuta l'autorizzazione suddetta. I giudici della C.t.r.. hanno inoltre più in generale escluso che, in mancanza dell'imprescindibile correlazione con l'atto conclusivo del procedimento di accertamento, possa comunque giungersi a ricondurre l'autorizzazione in questione nell'ambito degli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario alla stregua dell'art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992, anche estensivamente interpretato. L'affermazione è corretta, posto che l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 citato, pur suscettibile di interpretazione estensiva -in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell'amministrazione (artt. 24,53 e 97 Cost.) nonché in considerazione delle modifiche introdotte dalla l. n. 448 dei 2001- si riferisce, in ogni caso, sempre ad atti dell'Amministrazione finanziaria che, pur non rivestendo l'aspetto formale proprio di uno di quelli dichiarati espressamente impugnabili, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l'interesse a chiedere il controllo di legittimità in sede giurisdizionale o comunque costituiscano pur sempre, sia pure indirettamente, a differenza dell'atto autorizzatorio di cui si discute, espressione del potere impositivo (v. in tal senso Cass.S.U., n. 3773 del 2014 nonché Cass. n. 21392/ 2012, Cass. n. 16100/2011 e Cass. n. 285/2010). È infine appena il caso di precisare che la statuizione di improponibilità del ricorso non crea un vuoto di tutela (né pertanto comporta alcuna violazione della Costituzione e della CEDU), posto che, qualora il procedimento di verifica fiscale non si sia concluso con un provvedimento “tributario” ovvero tale provvedimento non sia stato impugnato dal contribuente, in relazione all'atto “procedimentale” è comunque assicurata la tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, con la possibilità, ricorrendone i presupposti, di agire anche in via cautelare. Come affermato anche nella più volte citata sentenza di queste sezioni unite, infatti, l'eventuale illegittimità del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica non lede un semplice interesse legittimo ma integra (se effettivamente sussistente) sempre la lesione di un diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica, perché solo quel provvedimento rende legittimo l'esercizio dell'azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente-professionista sottoposto a verifica, l'obbligo di soggiacere a detta azione anche in ordine ai documenti secretati nonché di fare quanto eventualmente le norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività. L'ipotizzabile esito negativo per l'ufficio dell'attività di accertamento compiuta in forza di provvedimento ritenuto illegittimo dal contribuente (con conseguente riscontrata inesistenza delle condizioni per emettere un provvedimento fiscale), oppure l'adozione di un provvedimento impositivo del tutto avulso dall'esame dei documenti secretati, ovvero di un provvedimento impositivo che il contribuente non abbia impugnato porta dunque inevitabilmente la valutazione di quel fatto (ove lesivo di un qualche diverso interesse giuridico del contribuente ispezionato) nell'ambito della giurisdizione del giudice ordinario siccome in ipotesi incidente sul diritto soggettivo del contribuente a non subire, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali -con relative compressioni legali dei suoi corrispondenti diritti, anche costituzionalmente garantiti- oltre i casi previsti dalle leggi che attribuiscono e circoscrivono l'esercizio del potere di controllo degli Uffici fiscali. Il ricorso deve essere pertanto respinto. È bene, infine, rilevare che l'efficacia regolamentare del giudicato tributario è immediata conseguenza della pronuncia giudiziale, niente affatto equivalente all'efficacia conformativa del giudicato amministrativo, prevista dall'art. 4, comma 2, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. BibliografiaAntico - Conigliaro, Statuto del contribuente: la mancata allegazione degli atti istruttori, in IlFisco 2003, 1, 1, ss; Falsitta, Elementi teorici per una nuova definizione del concetto di motivazione degli atti tributari, in Riv. dir. trib. 1998, I, 687 ss.; Gagliano, Considerazioni e appunti in materia di motivazione degli avvisi di accertamento di valore ai fini delle imposte dirette, in IlFisco 1980, 1, 2121; Glendi, «Cartelle pazze» e «rimessione in termini», in Corr. trib. 1999, 1599; Moretti, La motivazione nell'accertamento tributario, Padova, 1969; Screpanti, Statuto dei diritti del contribuente: prime disposizioni attuative, in IlFisco 2000, 1, 14342; Scuffi, Motivazione «per relationem» e legge n. 241/1990, in Riv. giur. trib. 1994, 645 ss; Voglino, Sull'obbligo di indicare le prerogative difensive dei destinatari degli atti tributari, in Boll. trib. 2005, 331 ss.; Zanni, L'Art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente: chiarezza e motivazione degli atti tributari, in Dir. prat. trib. n. 5, 2005, 21139. |