Codice Civile art. 415 - Persone che possono essere inabilitate.

Francesco Bartolini

Persone che possono essere inabilitate.

[I]. Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all'interdizione, può essere inabilitato [417 ss., 429].

[II]. Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici.

[III]. Possono infine essere inabilitati il sordo (1) e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un'educazione sufficiente, salva l'applicazione dell'articolo 414 quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi (2).

(1) L'espressione «sordo» è stata sostituita al termine «sordomuto» dall'art. 1 l. 20 febbraio 2006, n. 95.

(2) V. art. 1 l. 3 febbraio 1975, n. 18.

Inquadramento

L'inabilitazione costituisce un istituto di protezione degli incapaci che, nella codificazione codicistica originaria, era complementare all'interdizione. Rispetto a questa rappresentava e rappresenta tuttora un provvedimento ad effetti attenuati, applicabile in situazioni di meno grave riduzione delle capacità intellettive e volitive. Attualmente un largo spazio per interventi protettivi è occupato dall'amministrazione di sostegno, con la nomina di un amministratore che affianca la persona beneficiaria del provvedimento senza che questa veda mutato il suo status personale. Come avviene per l'interdizione, anche per l'inabilitazione il principio che si desume dalla normativa, quale risulta dopo la l. n. 6/2004, è nel senso che devono essere valorizzate le capacità residue esistenti nel soggetto interessato; e devono essere privilegiate le forme di protezione meno invasive per quanto sia compatibile di volta in volta con la specifica situazione. La prassi ha rilevato una drastica riduzione del numero delle inabilitazioni, verosimilmente destinate ad essere totalmente assorbite dall'amministrazione di sostegno.

In questo contesto di regole e di valori mutati, l'inabilitazione, quale ancora configurata dal codice civile, presuppone la sussistenza di precise condizioni in fatto. Esse sono (non cumulativamente): la condizione di infermità mentale; la prodigalità; l'abuso abituale di sostanze alcooliche o di sostanze stupefacenti; la sordità; la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia. Per alcune di queste condizioni è sufficiente che esse ricorrano e cagionino effetti riduttivi sulle capacità psichiche. Per altre occorre che esse espongano a gravi pregiudizi economici.

La giurisprudenza ha posto in evidenza la necessità di differenziare le situazioni che giustificano un intervento giurisdizionale sullo status del soggetto incapace da quelle che invece consentono il ricorso ad un semplice strumento di ausilio, quale è l'amministrazione di sostegno. Soprattutto la magistratura di merito ha avuto occasione di pronunciarsi in argomento, nell'affrontare la scelta tra i vari istituti posti a disposizione dall'ordinamento civile per la protezione degli incapaci. Il Trib. Castrovillari 15 gennaio 2012, ad esempio, ha affermato che, per effetto delle modifiche introdotte dalla legge istitutiva dell'amministrazione di sostegno, le misure dell'interdizione e dell'inabilitazione hanno una portata soltanto residuale e che il giudice può farne utilizzazione quando la misura dell'amministrazione di sostegno si rivela inadeguata in relazione alle concrete esigenze di difesa del soggetto debole; il giudice adito per la pronuncia dell'interdizione o dell'inabilitazione non deve procedere ad una valutazione asettica delle condizioni psico-fisiche della persona maggiore di età o minore emancipata ma deve anche verificare l'adeguatezza della misura richiesta in relazione alle esigenze di tutela della persona inferma di mente. Sull'affermazione per cui la scelta della misura non deve avere riguardo al maggiore o minore grado dell'infermità o dell'impossibilità di attendere ai propri interessi ma all'idoneità della stessa a fronteggiare le esigenze del soggetto debole, concordano giurisprudenza di legittimità e giurisprudenza di merito: Cass. n. 17692/2015; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 13929/2014; Trib. Salerno 11 gennaio 2016, n. 662; Trib. Torre Annunziata, 13 gennaio 2014, n. 173; Trib. Teramo 14 febbraio 2013, n. 134 (in Giur. merito, 2013, 11, 2372, nota di Buffone); App. Roma, 27 luglio 2012, n. 4025.

Infermità di mente

Dispone il primo comma dell'art. 415 che l'inabilitazione può essere pronunciata quando l'infermità di mente non è così grave da far luogo all'interdizione. La norma impone quindi una valutazione del grado dell'infermità e dell'incidenza delle sue conseguenze: a seguito della quale debba scegliersi tra un provvedimento esclusivo delle capacità di agire e un provvedimento che richiede la sola nomina di una persona che presti assistenza all'infermo, la cui capacità viene, di conseguenza, soltanto ridotta. Come si riferisce sub art. 414 c.c., nella valutazione demandata al giudice si inserisce il possibile ricorso all'amministrazione di sostegno: e deve dunque il giudice stabilire quando sia il caso, in presenza di manifestazioni di infermità mentale, di mutare lo status del soggetto, con l'inabilitazione, o di conservarlo con il ricorso ad uno strumento di supporto.

L'incapacità intellettiva e volitiva che deriva dall'infermità è, per quanto riguarda l'inabilitazione, soltanto parziale. Essa si determina unicamente per relazione, con riferimento, cioè, a quella che imporrebbe l'interdizione e che, rispetto ad essa, si rivela meno grave. Deve trattarsi di una condizione che, anche se non dipendente da cause determinate, comunque impedisce di provvedere normalmente ai propri interessi e che può essere ovviata dalla cooperazione di un altro soggetto.

Dalla vera e propria infermità si distinguono gli stati emotivi e passionali, ai quali viene negata rilevanza ai fini della formale riduzione della capacità di agire per intervento del giudice. Assume, per contro, rilievo l'età avanzata, quando è accompagnata da fragilità psichica e da decadimento tale da compromettere in modo rilevante la capacità decisionale (Napoli, 63; Forchielli, 15).

Una interpretazione sistematica e coerente degli artt. 414 e 415 indica che l'infermità di mente, anche nella sua misura ridotta, deve essere abituale. Del resto, si osserva, per le situazioni occasionali e transeunti l'ordinamento ha predisposto il rimedio di cui all'art. 428 c.c. (Galgano, Commentario, 665; Forchielli, 16; Napoli, 62).

Come nell'interdizione, anche nelle situazioni che giustificano la meno grave inabilitazione l'infermità di mente deve cagionare l'incapacità di provvedere ai propri interessi. Mentre, però, nell'interdizione la dottrina prevalente e la giurisprudenza affermano che questi interessi devono riguardare gli atti, in genere, della vita civile, a proposito della inabilitazione si propende ad affermare che gli interessi da tutelare sono quelli aventi natura patrimoniale. L'affermazione consegue alla considerazione delle capacità residue che devono caratterizzare l'inabilitato e dalla lettura unitaria dei commi primo e secondo dell'art. 415. Queste disposizioni sono riferite agli interessi personali e della famiglia e, nei casi di inabilitazione per situazioni specifiche (prodigalità, ecc.), prevedono espressamente l'eventualità di gravi pregiudizi di ordine patrimoniale (Galgano, Commentario, 664).

L'incapacità del soggetto di provvedere alla cura dei propri interessi può giustificare una pronuncia di inabilitazione solo quando derivi da una alterazione delle facoltà mentali, ancorchè di grado ed infermità minore di quella richiesta per l'interdizione (Cass. n. 4028/1985). Per Cass. n. 1388/1994 l'incapacità del soggetto inabilitando è parziale ma deve pur sempre essere tale da non permettergli di provvedere normalmente ai propri interessi e da richiedere la cooperazione di un altro soggetto.

Mentre nel giudizio di interdizione la valutazione del giudice riguarda sia gli aspetti patrimoniali che gli aspetti della vita civile attinenti alla cura della persona ed ai doveri familiari e pubblici, in ordine alla pronuncia di inabilitazione il giudice deve esaminare soprattutto il pregiudizioeconomico cui è esposto l'inabilitato o la sua famiglia. In tal senso si è espressa Cass. n. 1037/1972. Secondo la giurisprudenza, l'infermità di mente che viene in considerazione per la pronuncia di inabilitazione consiste in una alterazione delle facoltà mentali in un grado tale da determinare una incapacità parziale di curare i propri interessi. Nella sua valutazione, il giudice non può basarsi su precorse infermità mentali ma deve accertare l'attualità della malattia e l'esistenza di un pericolo attuale, desumibile da manifestazioni morbose e da atti pregiudizievoli al patrimonio dell'inabilitando (Cass. n. 2078/1971). Quanto alla differenza rispetto all'incapacità naturale di cui all'art. 428 c.c., Cass. n. 522/1971 aveva affermato che il grado e l'intensità della malattia mentale necessaria per la pronuncia di inabilitazione sono inferiori a quelli richiesti per l'accertamento dell'incapacità naturale, la quale, pur non dovendo essere totale, deve tuttavia presentare un particolare grado di gravità, pari a quello necessario per la pronuncia di interdizione.

Prodigalità

La prodigalità presa in considerazione dall'art. 415 consiste nello sperpero delle proprie sostanze attraverso spese e donativi disordinati e sproporzionati, privi di utilità e che dilapidano il patrimonio. Come tale essa va distinta dalla cattiva amministrazione, dall'incapacità negli affari e dall'effettuazione di investimenti errati (Napoli, 65; Forchielli, 20). Va distinta, altresì, dalla liberalità, almeno sino a che rischi di compromettere gravemente le proprie sostanze, ed un livello di gravità è richiesto perché deve essere riconosciuta una sfera di libertà a ciascun soggetto di disporre delle proprie sostanze. Per la giurisprudenza la liberalità diventa prodigalità quando i motivi per i quali vengono sperperate le proprie disponibilità sono futili o frivoli; e quando essa si trasforma in dissipatezza, assumendo la potenzialità di mettere in pericolo l'integrità del patrimonio personale e della famiglia. Non occorre si sia già verificato un danno; è sufficiente che esso si profili qualora la prodigalità non venisse fermata.

La ragione per la quale è previsto l'intervento del giudice non consiste soltanto nell'esigenza di preservare i beni delle persone da atti inutilmente dispersivi. Chi sperpera i propri averi si pone alla mercè dell'assistenza dei parenti e di quella pubblica. Lo strumento di protezione non tutela soltanto il soggetto e i suoi familiari ma assume una funzione di protezione sociale.

È controversa la natura della prodigalità, se da riportarsi ad una forma di infermità di mente oppure da considerarsi quale fattispecie autonoma di possibile inabilitazione. La prevalente dottrina ritiene che la prodigalità vada riportata alle infermità di mente, onde non travisare il principio solidaristico di tutela della famiglia e della società e negare quello della libertà di disposizione dei propri beni (Napoli, 98). Si assume, tuttavia, che l'infermità di mente rilevante ai fini dell'inabilitazione può non consistere in una patologia scientificamente acclarata o definibile ma risolversi in una alterazione delle facoltà intellettive o volitive della persona idonea ad incidere sulla sua attitudine a curare i propri interessi. Sotto questo profilo, può rientrare nella nozione di prodigalità anche la dipendenza dal gioco d'azzardo, nelle sue varie forme.

Per la giurisprudenza, la prodigalità di cui al secondo comma dell'art. 415 esprime una tendenza allo sperpero, per incapacità di apprezzare il valore del denaro, per frivolezza, vanità od ostentazione, e, pertanto, non è ravvisabile in relazione all'inettitudine negli affari, la quale indica spirito rivolto al lucro e alla ricerca di guadagno, ancorchè senza le doti necessarie a conseguirlo (Cass. n. 6549/1988). La giurisprudenza ha preso posizione sulla questione relativa all'essere la prodigalità riconducibile o meno all'infermità di mente di cui all'art. 414 c.c. e al primo comma dell'art. 415. Essa ha affermato che la prodigalità, intesa come un comportamento abituale caratterizzato dalla larghezza nello spendere, nel regalare e nel rischiare, eccessiva rispetto alle proprie condizioni socioeconomiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, configura una autonoma causa di inabilitazione, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo di coloro che lavorano, dispetto verso vincoli di solidarietà familiare). Se ne è desunta la conclusione per cui il suddetto comportamento non può costituire ragione d'inabilitazione del suo autore quando risponda a finalità aventi un proprio intrinseco valore (Cass. n. 786/2017, in relazione alla condotta di un soggetto che, con la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, intendeva dare una risposta positivaal naufragio della propria famiglia; e Cass. n. 6805/1986, in relazione ad aiuto economico verso una persona estranea al nucleo familiare, ma legata da affetto ed attrazione). Per Cass. n. 1680/1980, la prodigalità, giustificativa dell'inabilitazione ricorre quando il ripetersi di spese disordinate, nonché sproporzionate alla consistenza patrimoniale della persona medesima, è ricollegabile non a mera cattiva amministrazione, ovvero incapacità di impostare e trattare vantaggiosamente i propri affari ma bensì ad una alterazione mentale, che escluda o riduca notevolmente la capacità di valutare il denaro, di risolvere problemi anche semplici di amministrazione, di cogliere il pregiudizio conseguente allo sperpero delle proprie sostanze.

Abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti

Come per la prodigalità, anche l'abuso di bevande alcooliche o di sostanze stupefacenti diventa motivo per l'inabilitazione quando espone il soggetto o la sua famiglia ad un grave pregiudizio economico. Non è necessario che l'abuso cagioni perturbamenti psichici e degenerazioni dovute all'intossicazione; ciò che rileva è il risvolto patrimoniale dell'abuso, dovuto sia alla dipendenza e sia agli esborsi necessari a procurarsi l'alcool e lo stupefacente. La nozione di famiglia, quale potenziale destinataria delle ripercussioni negative dell'abuso non è meglio precisata e la dottrina reputa che vada intesa nel ristretto senso dei familiari più vicini e immediatamente esposti alle conseguenze dello sperpero per i loro rapporti diretti con l'autore dei comportamenti pregiudizievoli. Si reputa eccessivo estenderne la nozione sino a ricomprendervi i parenti sino al quarto grado (Napoli, 124).

Per abuso deve intendersi un utilizzo che esula da quello normale, riferito alle bevande alcoliche, posto che non è lecito, salvo limiti ristrettissimi, quello che ha per oggetto le sostanze stupefacenti. L'abuso deve creare dipendenza: è questo l'aspetto che la normativa prende in considerazione quale fonte del rischio di ripercussioni gravi sul patrimonio comune alla famiglia. In questo senso l'abuso può essere considerato una patologia e una sorta di infermità. Il pericolo di conseguenze patrimoniali gravi deve essere attuale e non soltanto ipotetico.

Dopo l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, la magistratura ha ritenuto più conveniente questo tipo di strumento di protezione rispetto a quello della inabilitazione.

Il sordo e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia

All'epoca di entrata in vigore del codice civile le condizioni di sordomutismo e di cecità costituivano un impedimento effettivo all'evoluzione piena delle facoltà intellettive dei soggetti che ne erano colpiti,specialmente se sin dalla nascita. L'assenza di strumenti di supporto alla loro crescita, la condizione di impossibilità a relazionarsi pienamente con gli altri ed a ricevere le comuni forme di istruzione determinavano situazioni di isolamento che inevitabilmente frenavano l'evoluzione verso l'età adulta e la conquista di una piena capacità di regolarsi autonomamente. Anche il diritto penale riconosceva queste situazioni quali ragioni di diminuzione dell'imputabilità e quali eventualità che dovevano indurre il giudice penale ad un accertamento caso per caso della pienezza, o meno, delle capacità di intendere o di volere. Nel tempo queste condizioni di inferiorità sono state in larga parte superate. Le norme rimaste nei codici civile e penale hanno conservato un loro valore di protezione, ove ne residui l'opportunità, e costituiscono un mezzo di espressione di solidarietà, piuttosto che di marginalizzazione.

La scienza medica e i mezzi tecnici a sua disposizione hanno ridotto notevolmente gli effetti di isolamento delle sordità e delle cecità. La stessa normativa ha progredito nel riconoscere parità di diritti e nell'imporre l'eliminazione di ostacoli, fisici e giuridici, ad una completa partecipazione alla vita sociale, privata e pubblica. Di questa evoluzione è prova la l. 20 febbraio 2006, n. 95 , che ha espunto dal testo dell'art. 415, e da altre disposizioni, la parola sordomuto, per sostituirla con quella di sordo, in riconoscimento dei progressi raggiunti nel dare ai muti mezzi di espressione e per la equiparazione di costoro ai cittadini più fortunati sotto il profilo dei rapporti interpersonali in genere e giuridici in particolare.

Il sordomuto, il sordo e il cieco hanno piena capacità di agire (il cieco non può fare il testamento segreto, art. 604, ma soltanto per impossibilità fisica). L'inabilitazione può trovare ragione nel fatto che, a causa della loro condizione, essi non abbiano potuto ricevere una educazione sufficiente e siano, per tale ragione, incapaci di provvedere a se stessi. Questa circostanza appare di rara eventualità, in un sistema che prevede l'obbligo della frequenza scolastica sino ad una determinata età ed appresta istituti e insegnanti di sostegno. L'esperienza ha comunque dimostrato esser maggiormente utile una amministrazione di sostegno piuttosto che una diminuzione dello status personale del soggetto da tutelare.

L'inabilitazione del minore emancipato

Una questione che può essere ancora ricordata concerne la possibilità di pronunciare l'inabilitazionedel minore che sia stato emancipato. La questione è sorta per il fatto che questa possibilità è espressamente prevista a proposito dell'interdizione mentre non ne è fatto cenno alcuno, dall'art. 415, per quanto riguarda l'inabilitazione. Da questa circostanza si è desunto argomento per affermare che l'inabilitazione non è consentita, non essendo esplicitamente indicata dalla legge. Inoltre, si fa notare che l'inabilitazione e l'emancipazione avrebbero la medesima disciplina e risulterebbero dunque sovrapponibili l'una all'altra, ove l‘inabilitazione fosse pronunciata.

In contrario si osserva che esiste, in realtà, una differenza di disciplina in base alla quale i due istituti non coincidono perfettamente tra loro. Infatti, soltanto all'emancipato è consentito di intraprendere ex novo una impresa commerciale mentre l'inabilitato può unicamente continuarla. L'inabilitazione, pertanto, potrebbe rivelare una sua utilità nell'impedire che il soggetto ad essa sottoposto possa iniziare senza la dovuta assistenza una nuova iniziativa commerciale (Napoli, 59).

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