Codice Civile art. 230 terCodice civile, approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262 (1). (1) Il r.d. 16 marzo 1942, n. 262 è stato pubblicato nella G.U. del 4 aprile 1942, nn. 79 e 79-bis. InquadramentoL'art. 230-ter introdotto nel codice civile dal comma 46 dell'art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Si tratta di una disposizione importante perché afferisce ad uno degli aspetti più rilevanti della convivenza more uxorio; costituito dal riconoscimento al convivente di diritti patrimoniali scaturenti dalla sua collaborazione nell'impresa del compagno. La norma estende, con i limiti che saranno precisati, al convivente more uxorio diritti riconosciuti dall'art. 230-bis c.c. ai familiari dell'imprenditore. Il lavoro del convivente di fatto nell'impresa familiare
L’esigenza di un intervento normativo Il legislatore della riforma del 1975 nell'introdurre l'art. 230-bis c.c. non aveva pensato di inserirvi, tra i destinatari, anche i conviventi more uxorio. Tale scelta è dipesa probabilmente da una serie di ragioni: perché la convivenza di fatto era considerata instabile, potendo il legame sentimentale dissolversi rapidamente su iniziativa unilaterale anche improvvisa di uno dei due; perché tali legami erano praeter legem, si svolgevano cioè oltre il campo dei rapporti familiari tipici (come il matrimonio), ed erano insuscettibili quindi di attribuire diritti, alla luce del favor manifestato dalla Costituzione verso la famiglia unita in matrimonio (art. 29 comma 2 Cost.); perché l'unione di fatto era all'epoca un modello sociale residuale e non disciplinato giuridicamente rispetto alla famiglia costituita col matrimonio. I mutamenti sociali degli ultimi decenni hanno ribaltato completamente questo quadro fattuale, in quanto l'aumento vertiginoso ed irreversibile di separazioni e divorzi ha comportato, in maniera direttamente proporzionale, l'aumento di nuclei familiari non formalizzati da parte dei coniugi separati. Il fenomeno si è diffuso rapidamente in maniera direttamente proporzionale all'aumento del numero delle separazioni. La mancanza nell'ordinamento di una forma di regolamentazione, di tutela e di diritti ai conviventi more uxorio richiedeva un intervento normativo dal momento che la convivenza di fatto si è progressivamente imposta nella società quale modello familiare alternativo e surrogatorio al modello familiare classico fondato sul matrimonio. Il Parlamento è intervenuto a colmare la lacuna solo nel 2016 con la l. n. 76, c.d. Legge Cirinnà, la quale ha fornito una regolamentazione delle convivenze di fatto e, con l'occasione, anche delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. L'argomento di questa trattazione è costituito dalle implicazioni che derivano dall'attività di compartecipazione all'impresa familiare prestata da un soggetto in forza del suo rapporto di convivenza anziché di membro del nucleo familiare caratterizzato dal matrimonio. I precedenti Prima del varo della legge del 2016, dottrina e giurisprudenza avevano svolto un ruolo di supplenza offrendo la qualificazione giuridica di tali rapporti e fissando i parametri entro i quali era assicurabile una tutela ai conviventi more uxorio. Una prima soluzione caldeggiata da parte della dottrina consisteva nell'applicazione estensiva o analogica dell'art. 230-bis c.c. alle convivenze di fatto, motivando sull'identità di ratio delle situazioni, in quanto anche la convivenza more uxorio è fondata sulla comunione spirituale e materiale che accomuna il lavoro prestato nella famiglia di fatto a quello prestato nella famiglia legittima (Balestra, 214; Bianca, 501; Graziani, 675; Menghini, 221 ss.; Prosperi, 167; Palmeri, 72); ma la dottrina prevalente l'ha ritenuta impraticabile per difetto del presupposto della sussistenza di un legame familiare con l'imprenditore (Andrini, 78; Colussi, 70; Tanzi, 2 ss.; Gabriele, 425 ss., Oberto, 129 ss.; Oppo, 518). In secondo luogo, si perveniva a tale conclusione dalla tradizione normativa, in quanto l'introduzione dell'art. 230-bis c.c. era finalizzata ad estendere formalmente ai familiari espressamente ivi indicati, i diritti patrimoniali previsti nell'antesignano istituto della comunione tacita familiare (su cui Flore, 291 ss.). In terzo luogo si era osservato che l'attribuzione dei diritti doveva rimanere circoscritta nel perimetro delineato dalla disposizione, in considerazione della distinzione di trattamento giuridico che l'ordinamento giuridico, e la Costituzione all'art. 29 comma 2 Cost., riservava alla famiglia fondata sul matrimonio ed ai suoi componenti, rispetto al rapporto di convivenza di fatto, caratterizzato da precarietà, instabilità e dalla possibilità di essere sciolto unilateralmente. Ed infine, l'applicazione analogica della disposizione ai conviventi more uxorio avrebbe implicato numerosi dubbi circa l'estensibilità della disposizione anche ai parenti entro il terzo grado, ad es., se conviventi con l'imprenditore (si pensi ai figli maggiorenni della convivente dell'imprenditore, avuti dal primo matrimonio, che convivono con loro ed aiutano il nuovo compagno della madre nell'attività d'impresa). La posizione tradizionale della giurisprudenza tendeva a configurare il lavoro svolto dai familiari nell'impresa del loro congiunto come gratuito; il consolidamento di tale orientamento è stato uno dei motivi che ha indotto il legislatore della riforma del diritto di famiglia ad introdurre l'art. 230-bis c.c. al fine di assicurare tutela ai familiari che impiegassero tempo e risorse lavorative nell'impresa familiare, ma non potessero avanzare pretese retributive a causa della mancata regolarizzazione del rapporto mediante un contratto di lavoro. Dopo la novella del 1975, il problema si è però riproposto per i familiari, ancorché conviventi, che non rientrano nell'ambito soggettivo di applicazione della norma e per i conviventi more uxorio; e la giurisprudenza ha confermato il tralatizio orientamento che configura come gratuite le prestazioni rese da soggetti legati da vincoli affettivi all'imprenditore. La dottrina, da parte sua, ha tentato vari percorsi argomentativi per assicurare una qualche forma di tutela ai conviventi di fatto che collaborassero nell'impresa del compagno, superando la presunzione giurisprudenziale di gratuità. Alcuni autori hanno attribuito rilievo alla valutazione della consistenza oggettiva delle prestazioni lavorative: se il convivente le rende saltuariamente, senza l'attribuzione di mansioni specifiche o di un ruolo specifico in azienda, e soprattutto se si prodiga semplicemente per affetto, con animus benevolentiae, non potrà avanzare pretese retributive; diversamente, se egli viene incardinato stabilmente nella realtà aziendale del compagno, con attribuzioni di mansioni specifiche ben precise, non può negarsi che le prestazioni rese presentino carattere oneroso e non gratuito (sul superamento della presunzione di gratuità dopo l'introduzione dell'art. 230-bis c.c., Patti, 103 ss., Cottrau, 740, Menghini, 221 ss., Venditti, 18 ss.). Altri autori hanno evidenziato che, in assenza di una disposizione che attribuisca loro diritti patrimoniali per l'attività lavorativa prestata in azienda, gli interessati potevano ricorrere allo strumento generale dell'azione di arricchimento ex art. 2041 c.c., per conseguire la minor somma tra il loro depauperamento (in termini di dispendio di tempo ed energia lavorativa) e l'arricchimento acquisito dal convivente imprenditore per effetto delle sue prestazioni lavorative (Prosperi, 104; Balestra, 210; Oberto, 573 ss.; Ferrando, 194 ss.). La S.C. di Cassazione aveva sempre postulato la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese da un familiare convivente per l'impresa del compagno sull'assunto che esse fossero eseguite affectionis vel benevolentia e causa, nel rispetto dei principi di solidarietà e reciproca collaborazione che caratterizzano i rapporti familiari (principio espresso già negli anni sessanta da Cass. n. 276/1967; Cass. n. 2027/1968), salva la prova rigorosa dell'onerosità del rapporto di lavoro (Cass. n. 1880/1980: «nel caso di prestazioni lavorative rese fra persone conviventi, legate da vincolo di parentela o di affinità, le prestazioni stesse si presumono gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro. Tale presunzione può essere vinta dalla dimostrazione, incombente alla parte che sostiene l'esistenza di un rapporto di lavoro, dei requisiti della subordinazione e della onerosità delle rispettive prestazioni, ma deve trattarsi di prova precisa e rigorosa»; in senso conforme Cass. n. 2987/1982; Cass. n. 141/1983; Cass. n. 5221/1987; Cass. n. 8633/1990 e successivamente Cass. n. 20904/2020), di guisa che la subordinazione del lavoratore familiare è da escludere in caso di «saltuarie ed occasionali prestazioni lavorative» (Cass. n. 8330/2000). Naturalmente la presunzione di gratuità opera, secondo gli Ermellini, quando l'impresa è gestita ed organizzata, strutturalmente ed economicamente, con criteri prevalentemente familiari e non quando l'impresa ha notevoli dimensioni e, per quanto condotta da familiari, è amministrata con criteri rigidamente imprenditoriali, con il conseguente inserimento dell'organigramma aziendale dei familiari attraverso la stipula di regolari contratti di lavoro subordinato (Cass. n. 2660/1984). Dopo l'introduzione dell'art. 230-bis c.c. che ha attribuito diritti ai coniugi, ai familiari entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado che svolgono attività lavorativa nell'impresa familiare, la Corte di Cassazione è stata chiamata a dirimere la questione della applicazione estensiva o addirittura analogica della suddetta disposizione ai conviventi more uxorio o in linea generale agli altri parenti che non ne rientrassero nel campo di applicazione soggettivo, ma si è pronunciata negativamente motivando che (Cass. n. 22405/2004) il presupposto per l'applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare restava pur sempre l'esistenza di una famiglia legittima ragione per la quale l'art. 230-bis c.c. non era applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta «di fatto», trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica. Tale conclusione era stata in precedenza enunciata, seppur incidentalmente, dalla Corte Cost. in sentenza 166/1998, ove si rileva con grande chiarezza che «l'imposizione di norme, applicate in via analogica, a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio ed altre forme di convivenza». La Cassazione ha successivamente negato il riconoscimento di diritti patrimoniali, latu sensu retributivi, al convivente more uxorio che abbia prestato attività lavorativa nell'azienda del compagno, presumendone la gratuità, adducendo a motivi che detta attività trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 5632/2006); ciò non esclude, si è ribadito, che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il convivente superstite deve fornire prova rigorosa. La presunzione di gratuità, di creazione giurisprudenziale, ha carattere quindi relativo, e può essere superata mediante la dimostrazione che l'attività lavorativa prestata presso l'azienda del convivente presenta i caratteri e gli indici della subordinazione; in tal caso, però, l'attribuzione di compensi non dipende dall'applicazione estensiva o analogica dell'art. 230-bis c.c. ma dalla qualificazione delle prestazioni lavorative rese come adempimento di un'obbligazione discendente da un rapporto di lavoro subordinato, instauratosi in concreto tra le parti, a prescindere dalla stipula di un contratto di lavoro ed a prescindere dal legame sentimentale tra lavoratore ed il convivente imprenditore. Seguendo tali coordinate interpretative, la S.C. ha ritenuto: - esente da vizi la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della ricorrente volta ad ottenere dagli eredi il trattamento economico a titolo di lavoro domestico non corrispostole dal defunto convivente, sulla base delle risultanze probatorie escludenti il vincolo di subordinazione ed attestanti, tra l'altro, che tra i due esisteva una relazione sentimentale, sfociata dopo anni di frequentazione a distanza in una prolungata convivenza, e che l'attrice veniva presentata abitualmente come compagna del convivente e trascorreva abitualmente le vacanze in località di villeggiatura con il defunto convivente (Cass. n. 5632/2006 cit.); - che il lavoro domestico in situazione di convivenza non va configurato come contratto a prestazioni corrispettive in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto in modo che l'esistenza del vincolo di solidarietà porti ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso (Cass. n. 23624/2010); - che di converso, l'esistenza del vincolo di subordinazione non può essere escluso, se la convivenza tra il datore di lavoro e l'impiegata viene sovente interrotta e non vi è alcuna condivisione del tenore di vita in relazione ai cospicui redditi dell'attività commerciale, ove l'interessata beneficia, ad es., solo di alcune elargizioni, quali l'uso gratuito di un appartamento, il pagamento di qualche debito e il prelevamento gratuito di abiti dal negozio (Cass. n. 1833/2009); - che è configurabile un rapporto di lavoro in caso di attività svolta da una lavoratrice legata da vincolo di coniugio e di affinità ai titolari della società datrice di lavoro, laddove venga ravvisata l'irrilevanza del vincolo di familiarità rispetto alle concrete modalità della prestazione nel contesto aziendale (Cass. n. 14434/2015); - che la prestazione di una attività lavorativa, per oltre sei anni, tra due parti legate da una relazione sentimentale, che sia oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato, si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un diverso rapporto, istituito «affectionis vel benevolentiae causa», ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, per una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi tale da realizzare una partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto (Cass. n. 19304/2015). La S.C. di Cassazione ha escluso l'ammissibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento, ritenendo che le prestazioni lavorative rese dal convivente nell'impresa e nell'interesse dell'altro costituiscono doveri di natura morale e sociale, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano pertanto come adempimento di un'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza (Cass. n. 1266/2016 la quale ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all'azienda del convivente, ma solo perché nel caso di specie il lavoro prestato aveva costituito fonte di arricchimento esclusivo del convivente in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato). Il medesimo principio era stato espresso nella precedente sentenza Cass. n. 1277/2014 ove la S.C. ha configurato le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente «more uxorio» effettuate nel corso del rapporto (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente) quale adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. (conforme a Cass. n. 11330/2009). L'art. 230-ter c.c.La rapida e capillare diffusione del fenomeno della convivenze di fatto richiedeva una regolamentazione del fenomeno, sia per quanto concerne gli aspetti dei rapporti personali sia di quelli patrimoniali, ivi compreso il riconoscimento di diritti in favore del convivente more uxorio che prestasse attività lavorativa nell'interesse e nell'impresa del compagno. L'idea di un intervento normativo in tal senso fu accarezzata dal legislatore già nel 2007, nel Disegno di Legge n. 1339 presentato al Senato, rubricato «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», il cui art. 9 comma 2 recitava: «Il convivente che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell'impresa di cui sia titolare l'altro convivente può chiedere, salvo che l'attività medesima si basi su di un diverso rapporto, il riconoscimento della partecipazione agli utili dell'impresa, in proporzione all'apporto fornito». Il DDL non ha perfezionato il suo iter e fu abbandonato; l'intento di accordare una tutela patrimoniale minima ai conviventi more uxorio è stato successivamente perseguito nel 2016 in occasione del varo della l. 20 maggio 2016, n. 76, sulla «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», il cui art. 1, comma 46, ha introdotto nel codice civile l'art. 230-ter c.c. che ci si appresta ad esaminare compiutamente. Va subito evidenziato che il legislatore non ha equiparato la convivenza more uxorio alla famiglia unita in matrimonio ed all'unione civile formalizzata, regolata dalla stessa l. n. 76/2016 che invece è stata equiparata a tutti gli effetti alla famiglia matrimoniale. In questa sede occorre rilevare che il legislatore non ha ricompreso le convivenze di fatto tra i rapporti familiari idonei alla costituzione dei diritti sanciti dall'art. 230-bis c.c., come ha fatto con le unioni civili (art. 1 comma 13), ma vi ha dedicato una norma ad hoc, nel comma 46, l'art. 230-ter c.c. appunto, ove è prevista una tutela minimale e più ridotta al convivente lavoratore rispetto a quella assicurata dall'art. 230-bis c.c. (alcuni autori hanno criticato tale scelta, evidenziando che sarebbe stato più opportuno estendere anche a loro la tutela prevista dall'art. 230-bis c.c.: Romano, 346; Macario, 8). La disposizione recita «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». Un inizio di tutela normativa Il proposito di un intervento normativo fu manifestato dal legislatore già nel 2007, nel Disegno di Legge n. 1339 presentato al Senato, rubricato «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», il cui art. 9 comma 2 recitava: «Il convivente che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell'impresa di cui sia titolare l'altro convivente può chiedere, salvo che l'attività medesima si basi su di un diverso rapporto, il riconoscimento della partecipazione agli utili dell'impresa, in proporzione all'apporto fornito». Il DDL non fu perfezionato e il suo iter fu abbandonato; l'intento di accordare una tutela patrimoniale minima ai conviventi more uxorio fu attuato con la l. 20 maggio 2016, n. 76, sulla «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», il cui art. 1, comma 46, ha introdotto nel codice civile l'art. 230-ter c.c. Il legislatore non aveva equiparato la convivenza more uxorio alla famiglia unita in matrimonio ed all'unione civile formalizzata, regolata dalla stessa l. n. 76/2016 che invece è stata equiparata a tutti gli effetti alla famiglia matrimoniale; e non aveva ricompreso le convivenze di fatto tra i rapporti familiari idonei alla costituzione dei diritti sanciti dall'art. 230-bis c.c., come ha fatto con le unioni civili (art. 1 comma 13), ma vi ha dedicato una norma ad hoc, l'art. 230-ter c.c. appunto, che apprestava una tutela minimale e più ridotta al convivente lavoratore rispetto a quella assicurata dall'art. 230-bis c.c. (alcuni autori hanno criticato tale scelta, evidenziando che sarebbe stato più opportuno estendere anche a loro la tutela prevista dall'art. 230-bis c.c.: Romano, 346; Macario, 8). Parte della dottrina aveva mostrato scetticismo ed insoddisfazione per la formulazione della norma, reputata insufficiente ad assicurare una tutela seria ed adeguata al convivente che presti continuativamente attività lavorativa nell'impresa familiare del compagno. I rilievi sono stati mossi con riguardo all'omessa previsione del diritto del convivente di fatto a partecipare alle decisioni che riguardano l'azienda e di un mantenimento in suo favore in linea con quanto previsto per i familiari dall'art. 230-bis c.c.; a questo proposito si è mostrata preoccupazione per il vuoto di tutela patrimoniale per il convivente in caso di mancata produzione di utili dell'azienda del compagno, in cui ha impiegato il suo tempo e le sue energie in via prevalente, ed in mancanza di una previsione di mantenimento nel contratto di convivenza (Venuti, 1003, che però evidenzia che anche nel caso in cui non sia esercitabile alcun diritto patrimoniale da parte del convivente, l'altro dovrà in ogni caso prevedere al suo sostentamento in adempimento degli obblighi morali e di solidarietà che scaturiscono innatamente dalla convivenza). La maggior ricchezza contenutistica dell'art. 230-bis c.c. rispetto all'art. 230-ter c.c. comportava specifiche ipotesi di interferenza dell'una disposizione sull'altra: si pensi alle decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché a quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi ed alla cessazione dell'impresa che, in base all'art. 230-bis c.c., sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa; mentre l'art. 230-ter c.c. non prevede analogo diritto per il convivente, conseguendone che quest'ultimo subisce le decisioni sul futuro dell'impresa che sono assunte dai familiari del convivente, creando con costoro una posizione di conflitto sulla ripartizione degli utili. Un altro profilo di svantaggio per il convivente di fatto riguardava il diritto riconosciuto dall'art. 230-bis c.c. ai familiari di conseguire anche il mantenimento oltre alla partecipazione agli utili; diritto non previsto dall'art. 230-ter c.c. a favore del convivente. Ne derivava che, ai fini della determinazione degli utili da dividere, dovevano essere detratti dal fatturato complessivo i costi di gestione, i costi fiscali ed anche il mantenimento per i familiari, riducendosi così l'utile su cui il convivente poteva vantare diritti; i familiari invece non subiscono tale pregiudizio perché la riduzione degli utili è compensata dal mantenimento. L’intervento della Corte costituzionale Come conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis c.c. la Corte costituzionale con la sent. n. 148/2024 ha dichiarato illegittimo anche l’art. 230-ter. La pronuncia ha riguardato la parte delle due disposizioni che non prevede come familiare – accanto al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado – anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto. Le citate norme assicuravano al convivente una tutela significativamente ridotta mentre la tutela del lavoro rappresenta un mezzo essenziale per garantire la dignità di ciascun individuo, sia come singolo che come parte integrante della società, in particolare, della famiglia. La protezione del lavoro del convivente di fatto deve essere la stessa di quella del coniuge e non può essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che presti la sua attività lavorativa nell’impresa familiare: risultando altrimenti violato il diritto fondamentale al lavoro e alla giusta retribuzione, in un contesto di formazione sociale, qual è la famiglia di fatto. Ne risultava dunque irragionevole l’esclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare. Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2024 occorre procedere ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis c.c., anche in relazione all'art. 230-ter c.c., ponendo in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto dell'inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'art. 230-ter c.c. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis c.c. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la convivente come familiare ai sensi dell'art. 230-bis c.c.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della convivente nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa (Cass. S. U., n. 11661/2025). Il presupposto soggettivoI diritti di partecipazione agli utili si applicano al convivente in presenza di due presupposti costitutivi, uno soggettivo e l'altro oggettivo. Il primo consiste nella sussistenza di un rapporto di convivenza more uxorio tra il prestatore di lavoro e l'imprenditore; la definizione di «convivenza di fatto» è contenuta nel comma 36 dell'art. 1 l. n. 78/2016, che recita: «si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile» come integrata dal successivo comma 37, secondo cui «per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica prevista dall'art. 4 d.P.R. n. 223/1989». Quest'ultima previsione ha destato in dottrina il dubbio sul carattere costitutivo o probatorio della dichiarazione anagrafica; in considerazione del fatto che la norma contiene il termine «accertamento», lo scrivente si allinea alla tesi che accorda alla dichiarazione anagrafica natura probatoria (Iorio, 1021; Balestra, 5). Ne consegue che i diritti dell'art. 230-ter spettano al convivente di fatto che collabori nell'impresa familiare per il sol fatto di aver instaurato una convivenza stabile e duratura con l'imprenditore, la cui prova sarà agevolata, in un eventuale giudizio, dalla esibizione della dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 d.P.R. n. 223/1989, che ha appunto efficacia solo probatoria; ma, ove difetti tale dichiarazione, il convivente è ammesso a provare anche in altro modo (con prova testimoniale), la stabilità del rapporto sentimentale. Parte della dottrina interpreta il requisito della convivenza di fatto in senso estensivo, ricomprendendovi anche le coppie stabili e durature non rientranti perfettamente nella definizione dell'art. 1 comma 36 l. n. 76/2016, come ad es. nel caso in cui uno dei due risulti ancora coniugato con altra persona, circostanza che può verificarsi nell'ipotesi di durata molto lunga di un giudizio di separazione o divorzio, in pendenza del quale una delle parti inizi ad intrattenere un rapporto di convivenza con altra persona, che nel tempo si consolidi, acquistando i caratteri di stabilità richiesti dall'art. 1 comma 36 (è favorevole all'interpretazione estensiva Auletta, 629). Il presupposto oggettivoIl secondo presupposto costitutivo consiste nella prestazione stabile di lavoro all'interno dell'impresa del convivente, definizione sostanzialmente analoga alla formulazione dell'art. 230-bis c.c. (Blasi, 245, rileva che i termini, pur avendo in sostanza un significato analogo, «sono però evocativi della differente natura delle relazioni sottostanti, avendo riguardo, da un lato, alla famiglia legittima, dove la stabilità è presunta in quanto tale e, dall'altro, alla collaborazione del convivente che, proprio come la relazione sottostante, deve rinnovare il suo essere con la stabilità del rapporto e dunque anche del lavoro») La locuzione «stabilmente» richiede che la collaborazione non sia occasionale o saltuaria, ma deve perdurare nel tempo e comportare un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole del destinatario. Dalla definizione non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa del convivente. La prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa, che farebbe sorgere un rapporto di tipo societario, escluso dal campo di applicazione dell'art. 230-ter c.c.(Blasi, 245). La dottrina prevalente ritiene che l'apporto collaborativo del convivente possa consistere solo in prestazioni inquadrabili in un rapporto di lavoro autonomo; la disciplina dell'art. 230-ter c.c. sarebbe, infatti, incompatibile con prestazioni che presentino indici di subordinazione (in relazione alle quali il convivente che ne pretende il compenso deve agire in giudizio dimostrando la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con il convivente imprenditore, sebbene non contrattualizzato, al fine di conseguirne il diritto alla retribuzione secondo la disciplina giuridica specificamente applicabile al tipo di rapporto), mutuando la stessa conclusione emersa in seno all'analogo dibattito che si è aperto sulla questione con riferimento all'art. 230-bis c.c. (Ichino, 306 ss., Oppo, 475; Germano, 240; Palmeri, 90; Prosperi, 113 ss., Balestra, 184 ss.; Venditti, 18 s., Menghini, 221 ss.). Tale conclusione si evince dal dettato letterale della norma, con particolare riferimento alla tipologia di diritti patrimoniali spettanti al convivente, ossia «partecipazione agli utili dell'impresa familiare; ai beni acquistati con essi; agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento»; si tratta di diritti patrimoniali incompatibili con quelli che scaturiscono da un rapporto lavorativo di tipo subordinato, come la retribuzione, l'accantonamento del TFR, la tredicesima mensilità, ecc. Per l'effetto, l'art. 230-ter c.c. era stato considerato inapplicabile anche alle prestazioni riconducibili ad un rapporto di lavoro coordinato e continuativo, attesa l'equiparazione di disciplina tra le due figure prevista dal d.lgs. n. 81/2015 (Persiani, 313 ss.;Ferraro, 53 ss.; Marazza, 1168 ss.; Nogler, 47 ss.; Santoni, 505 ss.;Zoppoli, 33 ss.). Queste opinioni meritano di essere riconsiderate dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 230-bis e 230-ter con conseguente parificazione di diritti tra familiare e convivente. La dottrina offre un'interpretazione restrittiva del concetto di «impresa», escludendo l'applicazione dell'art. 230-ter c.c. alle attività lavorative del convivente prestate in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale del convivente(commercialista, avvocato), analogamente a quanto avviene per l'art. 230-bis c.c. Anche in tal caso la conclusione è favorita dal dato letterale, in quanto l'art. 230-ter c.c. richiede necessariamente l'esistenza di un'impresa tipica, allo scopo di dare un senso ai concetti di partecipazione agli utili, ai beni e agli incrementi dell'azienda, all'avviamento (Oberto, 129 ss.;Colussi, 55 ss.; Menghini, 221 ss.). Ciò chiarito, la dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). La dottrina maggioritaria estende l'applicazione dell'art. 230-ter c.c. anche alle imprese costituite in forma societaria, e non solo individuale (Oppo, 490 ss.; Prosperi, 42 ss. e Balestra, 548 ss.; Menghini, 221). A soluzione opposta pervengono altri autori (Cicero, 34; Di Francia, 229; Scotti, 1249 ss.) secondo cui le norme dell'art. 230-bis e di conseguenza del 230-ter c.c. si riferirebbero esclusivamente alla partecipazione ad un'impresa individuale. Si motiva sul punto che la partecipazione agli utili attribuita ai familiari ed al convivente sarebbero incompatibili con imprese costituite in forma societaria, perché il rapporto di parentela o convivenza del lavoratore con uno dei soci non può estendere i suoi effetti agli altri soci. I diritti patrimoniali riconosciuti in origine dall'art. 230-ter c.c.Al convivente l'art. 230-ter riconosceva il diritto ad una compartecipazione agli utili dell'impresa familiare del suo convivente ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. Per questa parte la norma ha seguito la sorte dell'art. 230-bis, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale in quanto prevede per il convivente un trattamento deteriore rispetto a quello riservato al familiare. Pertanto, i diritti patrimoniali assicurati al convivente sono divenuti gli stessi menzionati nel citato art. 230-bis. In breve sintesi, in questa sede può ricordarsi che l'art. 230-ter si limitava ad assicurare al convivente nell'impresa familiare che avesse prestato stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente: una partecipazione agli utili dell'impresa familiare; una partecipazione ai beni acquistati con gli utili dell'impresa; e una partecipazione agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. La partecipazione doveva essere commisurata al lavoro prestato ma non era dovuta se il rapporto tra i conviventi aveva natura diversa, quella di società o di lavoro subordinato. Gli utili sono costituiti dalle differenze di valore del patrimonio aziendale rispetto ad un momento iniziale. La partecipazione agli utili da parte del convivente era ritenuta dovuta indipendentemente dall'incremento della produttività aziendale procurato dall'apporto di attività lavorativa del convivente in quanto avente come presupposto per il sorgere del relativo diritto la stabile prestazione di lavoro e per parametro quantitativo la commisurazione del lavoro prestato. In proposito si è riconosciuto il valore vincolante degli accordi tra le parti, anche a superamento della proporzione con il lavoro prestato (Palmeri, 157 ss.). In caso di mancato accordo, si è affermato, spetta al giudice del lavoro di determinare il contenuto del diritto del convivente secondo un criterio che deve valutare la quantità e la qualità del lavoro prestato in azienda e rispettare il principio di proporzionalità; per stabilire in che misura la quantità e la qualità dell'attività lavorativa abbia inciso sulla produttività aziendale. Le difficoltà incontrate nell'applicazione pratica hanno riguardato il concorso dell'opera del convivente con quella fornita dai familiari del titolare. In questo caso, il concorso delle posizioni soggettive dell'uno e degli altri comportava ll concorso delle discipline dettate dall'art. 230-ter e dall'art. 230-bis, diverse sino alla pronuncia della Corte costituzionale. Il diritto alla partecipazione ai beni acquistati con gli utili dell'impresa era considerato in dottrina come la prova che gli utili non necessariamente debbono essere distribuiti ma possono essere impiegati per acquistare beni; in tal senso ad es. ANDRINI, 225. E tuttavia, potendo gli utili essere reinvestiti in azienda e dovendo le decisioni sugli utili essere assunte a maggioranza dai soli familiari, avrebbe potuto capitare (si osservava, sia pure a titolo di ipotesi limite) che ogni anno i familiari (ad es. i tre figli dell'imprenditore) decidessero a maggioranza di reinvestire gli utili prodotti o di iscriverli a riserve, così da impedirne deliberatamente la percezione pro quota alla convivente del loro congiunto, a loro invisa, confidando che la loro posizione patrimoniale non avrebbe subito pregiudizi dal momento che era loro assicurato almeno il mantenimento, non previsto per la convivente. Oltre che ai beni acquistati, il convivente lavoratore ha il diritto di partecipare, sempre in considerazione del lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. L'espressione «incrementi» deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendovi qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali (Colussi). L'incremento di avviamento consiste nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del convivente e la misura degli utili prodotta successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del convivente, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il diritto di credito del convivente (Colussi; Prosperi, 210; Balestra, 241). Altro problema attiene al concorso nella partecipazione agli utili anche dei familiari. Il carattere residuale.L'ultimo periodo della norma contiene un ulteriore presupposto, ma in negativo, secondo il quale il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Tale previsione attribuisce carattere residuale alla norma, in linea con quanto previsto dall'art. 230-bis c.c. Ne consegue che il diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa spetta al convivente di fatto, che vi lavora stabilmente, solo in mancanza di altra disciplina applicabile al rapporto, come quella del rapporto di lavoro subordinato o di società. La locuzione rapporto di lavoro subordinato deve essere interpretata in senso estensivo, come tale comprensiva delle altre forme di rapporto lavoro ad esso equiparate, come la collaborazione coordinata e continuativa e l'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, a seguito della riforma sui rapporti di lavoro operata dal Jobs Act (Ferraro, 281 ss.; Mignone, 723 ss.). La configurazione di un rapporto di lavoro continuativo nell'azienda del convivente (ad es. in qualità di commercialista o di geometra, che presti in maniera continuativa attività nell'azienda del compagno) è compatibile con l'art. 230-ter c.c. e la specifica disciplina ad esso dedicata (determinazione del compenso; assolvimento degli obblighi assicurativi e previdenziali) va ad integrare il diritto alla partecipazione agli utili. 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