Codice Civile art. 231 - Paternità del marito (1) (2).

Gustavo Danise
Aggiornato da Francesco Bartolini

Paternità del marito (1) (2).

[I]. Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio

(1) L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo VII, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), quella del Capo (la precedente era «Della filiazione legittima»), e sopprimendo la «Sezione I: "Dello stato di figlio legittimo"».

(2) L’art. 8, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito l'articolo. Il testo precedente recitava: «Il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014.

Inquadramento

Il Titolo VII del Capo I del Libro I del codice civile, dedicato alla status del figlio, prevede le due presunzioni ( art. 231 e 232 c.c. ) di paternità, che esprimono il favor legitimitatis cui il legislatore si è ispirato per tradizione normativa. L' art. 231 c.c. contiene la presunzione relativa che il figlio concepito durante il matrimonio sia figlio del marito della partoriente. Sulla formulazione dell'articolo ha inciso il d.lgs. n. 154/2013 , attuativo della legge di riforma della filiazione, n. 219/2012, che all'art. 8, comma 1, aggiungendovi il participio «nato». Nei vari paragrafi saranno spiegati, la natura, la funzione l'evoluzione ed i presupposti in presenza dei quali opera la suddetta presunzione di paternità.

Considerazioni generali sull'evoluzione della filiazione e della presunzione di paternità

La filiazione è da sempre avvertita come uno degli istituti più importanti negli ordinamenti civilistici, a cagione delle ripercussioni che produce in più settori. La filiazione determina l'insorgenza in capo ai genitori dei doveri di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli (art. 147 c.c.), quali estrinsecazioni della loro responsabilità genitoriale (espressione introdotta dal d.lgs. 154/2013 in sostituzione della potestà genitoriale); determina, inoltre, la nascita di diritti successori in favore dei nati, che entrano in conflitto con i diritti successori degli altri eredi legittimi dei genitori. Appare di palese evidenza, pertanto, quanto sia importante attribuire il giusto e corretto status ad una persona al momento della nascita. Se la maternità non pone particolari problemi dal momento che viene attribuita alla madre naturale, a colei che partorisce il neonato (in proposito si ricorda il vecchio brocardo mater semper certa est), in disparte l'ipotesi in cui quest'ultima chiede di non essere identificata, l'attribuzione di paternità al nascituro, diversamente, è da sempre un punctum dolens, poiché non è possibile una verifica diretta ed immediata, al momento della nascita, della certezza della paternità del marito della madre naturale, non potendosi escludere che il nato sia stato concepito da una relazione adulterina. A tal fine si contendono il campo due possibili concezioni: la prima riflette l'idea che la paternità debba essere sempre attribuita al padre naturale e biologico, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di coniugo con la madre. La seconda, al fine di garantire stabilità e certezza dei rapporti giuridici, nonché per valorizzare il ruolo e l'importanza sociale della famiglia, attribuisce la paternità al marito della madre biologica, presumendo che ne sia al contempo il padre naturale. L'attribuzione della paternità naturale dipende, quindi, dalla prevalenza accordata in ogni singolo ordinamento alla prima o alla seconda concezione. Nel primo caso si parla di favor veritatis; nel secondo di favor legitimitatis. Il codice civile del 1942, nella versione originaria, ha confermato la tradizione codicistica risalente fino al codice napoleonico esprimendo il favor legitimitatis (Autorino Stanzione, 280 ss.). Tale concezione mira a tutelare la famiglia legittima, costituita con il matrimonio; per l'effetto, attraverso un sistema di presunzioni, si attribuisce la paternità al marito della madre, ove il figlio sia stato concepito durante il matrimonio, in dispregio della ricerca della paternità naturale (BesoneRoppo, 156). Il riconoscimento dei figli adulterini è consentito al solo genitore biologico non unito in matrimonio al tempo del concepimento, cui è consentito riconoscere il figlio adulterino in presenza di particolari circostanze (scioglimento del matrimonio per effetto della morte dell'altro coniuge e, comunque, non prima del compimento del diciottesimo anno di età dei figli legittimi e previa loro audizione — art. 252 c.c. nella formulazione originaria). L'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, a differenza di quella di maternità, può essere promossa dal figlio solo in talune ipotesi tassativamente sancite nell'art. 269 c.c. (violazione di norme penali o, comunque, di un onere di riservatezza a carico dell'autore del concepimento, violazione resa palese dalla notoria convivenza o dal rilascio di una non equivoca dichiarazione scritta, dal concorso alla fondazione del possesso di stato di figlio naturale) e, comunque, qualora fosse promossa nei confronti del presunto padre, coniugato al tempo del concepimento, non prima dello scioglimento del matrimonio per effetto della morte dell'altro coniuge (Majello, 23 e ss.). Quindi, il codice del 1942, nel rispetto della tradizione codicistica, ha riprodotto pedissequamente nell'art. 231 c.c. la formulazione dell'art. 159 del codice civile del 1865, che a sua volta riproduceva il contenuto dell'art. 312, 1° co., del Codice Napoleonico, ove era prevista la presunzione di paternità del marito nei confronti del figlio concepito durante il matrimonio. La predetta presunzione esprime il principio riassunto nel brocardo pater is est quem iustae nuptiae demonstrant (Sesta, 10 ss.; De Cupis, 7). La concezione del favor legitimitatis accolta dal legislatore del 1942 è stata messa in crisi a seguito dell'emanazione della nuova Costituzione nel 1948, che contiene una serie di disposizioni che esprimono principi che paiono ispirarsi alla diversa concezione del favor veritatis: in primo luogo, l'art. 2 Cost. che prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, ritenuti come immanenti, in senso giuridico, alla forma di organizzazione sociale e politica dello Stato (ecco perché la Repubblica «riconosce» e non «attribuisce» i diritti inviolabili). Nell'ambito di questa disposizione rientra anche il diritto di ogni individuo di vedersi attribuito lo status di figlio dei suoi genitori biologici, superando le presunzioni che gli attribuiscono come padre il marito della madre naturale. In secondo luogo, va segnalato l'importantissimo art. 30 co. 4 che demanda alla legge ordinaria il compito di «dettare le norme ed i limiti per la ricerca della paternità», con ciò abbattendo il dogma del codice napoleonico secondo cui la paternità naturale del figlio doveva rimanere segreta se in contrasto con quella legittima scaturente da matrimonio, ad eccezione delle limitatissime ipotesi in cui erano ammesse le azioni di disconoscimento e riconoscimento (la derivazione dall'art. 30 comma 4 Cost. del principio del favor veritatis è sottolineata da Comporti — Mastini 379; Besone-Alpa-D'Angelo-Ferrando-Spallarossa, 224). Diversamente il disposto degli artt. 29, a mente del quale «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e l'art. 30 co. 1 e 3: «E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima» sembrano possedere un'ispirazione conservatrice verso il favor legitimitatis. La formulazione di tali articoli ha suscitato, sin dai lavori in assemblea costituente, numerose critiche perché pone delle differenze concettuali e giuridiche tra la famiglia legittima fondata sul matrimonio, e quella «di fatto»; in particolare si è evidenziato che il riconoscimento dei diritti della famiglia come società naturale solo a quella fondata sul matrimonio fosse concettualmente errato, perché il fenomeno familiare è riconducibile ad una situazione di fatto e non di diritto (espressione di Mastroianni, del partito dell'Uomo qualunque, durante i lavori parlamentari); si è anche rilevato che l'espressione «società naturale», che riecheggia contenuti etici e sociali, viene accostato a concetti giuridici (riconoscimento di diritti) per cui si traduce in una formula senza senso (Aldo Moro, DC); verrebbe da aggiungere che anche la famiglia di fatto non unita in matrimonio costituisce una società naturale, per cui la discriminazione posta da tale articolo appare fuorviante. La stessa equiparazione giuridica dei figli nati fuori dal matrimonio a quelli nati in costanza di matrimonio è subordinata ad una valutazione di «compatibilità» con i diritti dei figli legittimi, così ponendo concettualmente una discriminazione tra le due categorie. Si tratta di aspetti che non possono essere approfonditi in questa sede, esulando dall'oggetto dell'articolo in commento; ciò che qui preme rilevare è che nella Costituzione entrano in conflitto principi conservativi della concezione del favor legittimatis (l'art. 29 e 30 sulla centralità della famiglia fondata sul matrimonio) ed altri che esprimono la tendenza all'opposta concezione del favor veritatis. Il microsistema normativo codicistico dedicato alla famiglia è stato, com'è noto, oggetto di una profonda rivisitazione ad opera della Legge n. 151 del 1975, che ha attuato con provvedimenti concreti i principi di uguaglianza sanciti dalla nuova Costituzione democratica, ma ha inciso solo marginalmente sulle regole di attribuzione della paternità naturale (l'art. 231 c.c. in commento, ad es., non è stato modificato); e si è trattato di un'occasione mancata proprio nell'anno in cui, per ironia della sorte, è stata siglata la Convenzione europea sullo status giuridico dei minori nati al di fuori del matrimonio, sottoscritta con riserve dall'Italia l'11 febbraio 1981, non ancora ratificata, che persegue lo scopo di migliorare il trattamento riservato ai figli nati al di fuori del matrimonio, riducendo le differenze con quello dei figli nati durante il matrimonio che si traducessero in svantaggio legale e sociale per i primi, ed all'obiettivo di contribuire, attraverso fasi successive, alla progressiva armonizzazione delle legislazioni delle Parti in questo ambito (Convenzione europea sullo status giuridico dei minori nati al di fuori del matrimonio, entrata in vigore il 15 ottobre 1975 su cui Cfr. Ceccherini, 131 ss.; Falletti, 2013). Ed infatti, sono sopravvissute alla riforma del 1975 alcune norme tendenti a proteggere la posizione del figlio legittimo, nonostante l'eventuale contrasto con la verità biologica del suo concepimento, quali ad esempio, la presunzione di paternità del marito (art. 231 c.c. e ss.) o le ipotesi tipiche nelle quali è ammesso il disconoscimento di paternità del figlio legittimo (art. 235 c.c.) e la contestazione di legittimità ed anche il divieto di indagine biologiche nei casi previsti dall'art. 278 (ante riforma del 2013) che richiama l'art. 251 c.c. (Luzzati, 191; Pane, 1982, 134). Pertanto, nel sistema codicistico novellato dalla riforma del 1975, i titoli costitutivi dello status nella filiazione matrimoniale ed in quella fuori dal matrimonio si differenziano notevolmente, ispirandosi il primo all'automatismo risultante dall'applicazione delle finzioni/presunzioni di legittimità e paternità di cui agli artt. 231 e 232 c.c., ed il secondo all'atto volontario di riconoscimento. La presunzione di paternità di cui all'art. 231 c.c. è superabile con il riconoscimento ad essa contrario, ai sensi dell'art 250, 1° comma, c.c., e quella di concepimento in matrimonio con l'accertamento giudiziale ex art. 235 c.c., mentre il riconoscimento di figli naturali fuori dal matrimonio costituisce atto volontario di accertamento. Differente è anche la disciplina che governava le azioni negatorie degli status di filiazione legittima e naturale, prescrivendosi la decadenza dall'azione di disconoscimento di cui all'art. 235 c.c., diretta a rimuovere gli effetti di grado minimo nascenti dall'applicazione degli art. 232 e 233 c.c., e non invece per quella di impugnazione del riconoscimento ex art. 263 c.c., diretta ad ottenere un giudicato avente ad oggetto l'accertamento con effetti preclusivi (Palazzo, 261 ss.). Quindi, in conclusione, dall'impostazione sistematica del codice civile dopo la riforma del '75 deriva che per la filiazione matrimoniale hanno rilievo esclusivo le azioni negative dello status, mentre in quella non matrimoniale ha rilievo centrale l'azione di accertamento, pur contemplandosi anche quella di rimozione degli effetti dell'errato riconoscimento. La riforma del 1975 non ha soddisfatto le aspettative di chi auspicava la piena equiparazione del regime giuridico tra figli legittimi e naturali. Tale esigenza è stata avvertita in maniera più intensa per effetto del ruolo di supplenza assunto dalla Corte costituzionale che in nome della parificazione tra le due categorie sancita dall'art. 30 co. 3 Cost. ha inciso sulle disposizioni codicistiche che prevedevano discriminazioni, soprattutto in materia di successioni (cfr. il commento ai relativi articoli in quest'opera). Al fine di uniformare l'ordinamento italiano a quello di altri Paesi europei e di ottemperare al disposto dell'art. 2 CEDU, il legislatore si è attivato per la produzione di un vasto progetto di riforma sulla filiazione che eliminasse siffatta discriminazione. Il percorso legislativo è stato lungo e tortuoso, e ricompreso tra il progetto di legge del 16 marzo 2007 del Consiglio dei ministri in materia di filiazione a quelli più recenti accolti, rispettivamente, dalla Camera dei deputati, il 30 giugno 2011 e dal Senato della repubblica, il 16 maggio 2012, fino a giungere alla legge di riforma in tema di filiazione, del 10 dicembre 2012, che ha innovato l'art. 315 c.c. ponendo l'affermazione del principio che «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico». Si tratta di una «norma-manifesto» che esprime un principio dalla natura generale ed assoluta, la cui formulazione avrebbe potuto, per tal motivo, finanche trovare ingresso diretto nella Costituzione come novella dell'art. 30 comma 3, Cost., la cui formulazione non è soddisfacente, come sopra evidenziato. L'art. 2 della Legge pone una delega ampia al Governo a modificare numerose disposizioni in materia di filiazione; tale delega è stata attuata con l'emanazione del d.lgs. n. 154/13. Non è questa la sede per esaminare i cambiamenti introdotti dalla riforma del 2012 e dal suo decreto attuativo; in questa sede giova evidenziare che la novella «non ha innovato» il quadro della paternità legittima, anzi ha esteso la presunzione di paternità del marito di cui all'art. 231 ai figli «comunque nati» (oltreché concepiti) durante il matrimonio. Tale estensione mira a compensare l'eliminazione della presunzione della nascita dopo 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio (cfr. commento all'art. 232 c.c.). Si è osservato che la l. 219/2012, ha confermato la costituzione automatica dello status nei confronti del coniuge della madre dichiarante, attuando un automatismo che da un lato corrisponde al dettato dell'art. 29 Cost. e dall'altro sarebbe difficilmente praticabile al di fuori della famiglia fondata sul matrimonio (Bonilini, 17 ss., che suggerisce una significativa proposta di riforma dell'art. 29 Cost., prodromica e indispensabile all'unificazione degli status di filiazione, che tenga conto del fatto che il matrimonio, pilastro della famiglia legittima dal precetto costituzionale, non è altrettanto centrale nell'esperienza sociale, dato l'elevato numero di figli nati fuori del matrimonio, e possono anzi rintracciarsi una pluralità di modi di vivere familiari meritevoli di tutela costituzionale, ma non consacrati in altrettanti statuti normativi; cfr. anche Scalisi, 209 ss. e Ruscello, 576; Finocchiaro, 28 ss.). Tra le riforme del 1975 e del 2012 vi è stato un intervento normativo che incide sullo status e la paternità legittima, la l. n. 40/04 sulla fecondazione artificiale che apporta deviazioni vistose al sistema codicistico per la nascite che avvengono ricorrendo a tale tecnica. Si rinvia al relativo commento per la disamina complessiva della Legge; in questo commento ne saranno richiamate singole norme che possono ricollegarsi anche incidentalmente con la presunzione di paternità legittima.

Il tema del rapporto tra favor veritatis e favor legitimitatis in relazione alle disposizioni della Costituzione è stato affrontato anche dalla Corte di Cassazione che, assumendo una posizione salomonica, valorizzando i vantaggi dell'una e dell'altra concezione, evidenzia come non sia possibile accordare la prevalenza in astratto all'una od all'altra nell'attuale quadro ordinamentale, giacché il favor veritatis non possiede copertura costituzionale, ma occorre verificare la situazione caso per caso. Questo condivisibile orientamento è stato enunciato da ultimo in sentenza n. 26767/16 ove, con riguardo specifico all'azione di disconoscimento di paternità, dopo aver premesso che il quadro normativo (artt. 30 Cost., 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del favor veritatis sul favor minoris, precisa che è necessario un bilanciamento fra il diritto all'identità personale legato all'affermazione della verità biologica, anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell'elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini, e l'interesse alla certezza degli status ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell'ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all'identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all'interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell'interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale (con tale motivazione, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che, nell'accogliere l'azione di disconoscimento di paternità proposta dal curatore speciale di un minore di quattordici anni, aveva ritenuto l'irrilevanza dell'accertamento in concreto del superiore interesse di quest'ultimo, nonostante fossero stati accertati i rischi derivanti dallo sradicamento affettivo conseguente al disconoscimento e l'infermità psichica della madre da tempo trasferitasi in Nigeria, con conseguente necessità di dichiarare il minore adottabile) (il principio è conforme a Cass. n. 1264/01 e 20254/06 ove il rapporto tra le due concezioni alla luce delle disposizioni costituzionali viene espresso in modo ancor più evidente e chiaro, evidenziandosi che, pur a fronte di un accentuato favore per una conformità dello «status» alla realtà della procreazione — chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica — il «favor veritatis» non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l'art. 30 della Costituzione non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al quarto comma che «la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità», ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest'ultima, così affidandogli anche la valutazione in via generale della soluzione più idonea per la realizzazione dell'interesse del minore). Il principio in parola è stato incidentalmente richiamato anche in sentenza n. 4020/17 ove la necessità del bilanciamento tra i valori del favor veritatis e del favor minoris di mantenimento dello stato legittimo già posseduto è stata confermata anche nell'ipotesi in cui sia l'ufficio del Pubblico Ministero a richiedere la nomina del curatore speciale abilitato all'esercizio dell'azione di disconoscimento di paternità.

Recentemente la Cassazione con ord. del 30 giugno 2021, n. 18601 ha statuito la inammissibilità dell'opposizione di terzo proposta da colui che sia indicato come vero padre, avverso la sentenza, passata in giudicato, di disconoscimento della paternità, quando l'opponente deduca che l'esito (positivo) dell'azione di disconoscimento di paternità si riverberi sull'azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall'art. 404 c.p.c. presuppone che l'opponente azioni un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata. Ed ancora la S.C ha precisato che nel giudizio di accertamento della paternità di un minore nato in costanza di matrimonio, promosso a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha accolto la domanda di disconoscimento della paternità del marito della madre, è inammissibile l'eccezione di tardività di quest'ultima azione, formulata dal presunto padre, perché la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità, pronunciata nei confronti del P.M. e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata "erga omnes", essendo inerente allo "status" della persona, ed è opponibile al presunto padre, anche se non ha partecipato al relativo giudizio (Cass. ord., n. 19956/2021; conferma Cass. n. 6985/2018).

Natura e presupposti della presunzione.

Ancor prima della novella del 2013, che si è limitata ad estendere la presunzione ai figli nati in costanza di matrimonio oltre che a quelli concepiti, la natura giuridica della presunzione contenuta nell'art. 231 c.c. è stata oggetto di un vivace dibattito dottrinale. Alcuni autori sostengono che si tratti di una «presunzione legale» seppur non assoluta di paternità (tesi sostenuta sia dalla dottrina risalente, cfr. ex plurimis Cicu, 26 ss.; sia da quella moderna, cfr. ex multis Torrente — Schlesinger, 9), pertanto superabile con l'azione di disconoscimento. Altra parte della dottrina confuta quest'affermazione adducendo che si ha una presunzione allorché la legge ammette che l'esistenza di un fatto possa essere desunta dall'esistenza di un altro fatto legato al primo da un particolare rapporto; se poi manca il particolare rapporto tra il fatto noto e quello ignoto, la legge ammette, altresì, che si dia la prova contraria. Tuttavia, non si deve credere che come conseguenza della presunzione di esistenza del fatto ignoto si producono provvisoriamente gli effetti propri di esso. La presunzione legale iuris tantum ha natura meramente processuale di guisa che se l'art. 231 c.c. configurasse una vera e propria presunzione non ci sarebbe bisogno di una azione costitutiva come l'azione di disconoscimento, ma di una azione di accertamento negativo per provare l'inesistenza di un fatto presunto dalla legge esistente fino a prova contraria. In particolare, la presunzione di paternità non opera logicamente nel processo di disconoscimento della paternità: 1) non opera a favore del figlio convenuto nel senso che l'onere per il padre di provare il difetto della sua paternità sussisterebbe indipendentemente dallo svolgersi della presunzione; 2) non opera certo contro il padre, nel senso che egli, anche ove essa non sussistesse, sarebbe tenuto ugualmente a provare il difetto della sua paternità. In altre parole, se si trattasse di presunzione vera e propria, basterebbe fornire la prova contraria e non occorrerebbe esercitare un'azione costitutiva (Attardi, 30 ss.). Esclusa la natura di presunzione, tal dottrina afferma che l'art. 231 c.c. assolverebbe alla funzione di «attribuzione legale di status» (condivide pienamente tali motivazioni e conclusioni anche Cattaneo, 31). Altro autore precisa, sul punto, che l'art. 231 c.c. riguarda la paternità legittima intesa come qualità e in quanto tale non può essere oggetto di presunzione, mentre la presunzione di paternità attiene alla paternità biologica la quale si sostanzia nel fatto storico della discendenza biologica ed è immanente al sistema (Uda, 71). Il fondamento della presunzione di paternità è usualmente rinvenuto negli obblighi di coabitazione e fedeltà imposti ai coniugi dall'art. 143 c.c. (Sesta, 306). Tesi minoritarie individuano il fondamento della finzione nel consenso preventivo e tacito che il marito, al momento del matrimonio, esprime in merito al riconoscimento dei nascituri, ovvero nell'istituto del matrimonio nel suo complesso, che, per le finalità di interesse pubblico che assolve, imporrebbe l'accertamento legale dei rapporti di filiazione (Biscontini, 27; De Cupis, op cit., 4). L'attribuzione legale di paternità opera anche in caso di matrimonio putativo e di matrimonio annullato ai sensi dell'art. 122, 3° co., n. 1, c.c. per errore circa l'impotenza coeundi o generandi del marito (Sesta op cit., 8; Ferrando, op. cit. 306). I presupposti affinché operi la presunzione o finzione o attribuzione legale di paternità legittima, a seconda della tesi cui si aderisce, sono: il matrimonio valido o putativo dei genitori, il parto della moglie e il concepimento (o la nascita dopo la novella del 2013) in costanza di matrimonio (ex multis sull'individuazione di tali presupposti cfr. Cattaneo,18 ss.). La sussistenza del primo presupposto è di semplice verificazione empirica; ai fini dell'operare della presunzione è sufficiente che il figlio sia nato o sia stato concepito in data successiva a quella celebrazione del matrimonio come indicata nell'estratto dai registri dello stato civile ai sensi dell'art. 130 c.c., a prescindere, se il matrimonio dovesse in seguito risultare solo putativo (art. 128 c.c.) o annullato ex art. 123 c.c. La sussistenza del secondo presupposto pure è dimostrabile per tabulas mediante produzione dell'attestazione di avvenuta nascita, di cui agli artt. 29, comma 6° e 30, comma 2° del d.P.R. n. 396/2000, che assolve alla funzione di «accertare la verità della nascita» ed è sostituibile, nei casi in cui il dichiarante non sia in grado di esibire l'attestazione di constatazione di avvenuto parto (per un commento al nuovo ordinamento dello stato civile, cfr. Stanzione 2001; Scolaro, 2001; Sabeone, Revisione e semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, in Nuove leggi civ. comm., 2001, 24 ss.; Caliendo, 215 ss.). L'ultimo presupposto consiste nella dichiarazione volta a costituire lo status del nato, secondo le prescrizioni dell'art. 30 d.P.R. n. 396/2000, secondo cui la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata; che ai fini della formazione dell'atto di nascita, la dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile è Corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell'ora della nascita e del sesso del bambino; che l'attestazione di constatazione di avvenuto parto è surrogabile con una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, sostituito dal d.P.R. n. 445/2000 e ss. m.; che la dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell'ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all'attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all'ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso l'utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l'autenticità della documentazione inviata secondo la normativa in vigore; che l'ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell'atto ricevuto (per un commento sulla dichiarazione di parto e sulla formazione del certificato di matrimonio cfr. Zatti, 84; Zatti, 66; Mantovani, 43). Quest'ultimo presupposto (la dichiarazione di nascita) merita un approfondimento perché in merito alla sua insorgenza si sono affermate in dottrina due opposte teorie. Secondo la prima la presunzione opera al momento della nascita a prescindere dal certificato di nascita (A. De Cupis, op. cit., 9), che acquisterebbe rilevanza soltanto come mezzo di prova dello stato di figlio legittimo acquisito fin dal momento della nascita «in virtù della generazione avvenuta nel matrimonio presuntivamente ad opera del marito della madre» (così Attardi, op. cit., 1 ss.). Tale impostazione riposa sul dato letterale dell'art. 231 c.c. che sembra attribuisce la paternità del marito della madre alla nascita del figlio. A tale tesi si contrappone quella secondo cui la presunzione di paternità non opera dalla nascita del figlio, ma dalla formazione del titolo di figlio legittimo, ossia dal certificato di nascita o, in mancanza, da un conforme possesso di stato di figlio legittimo, assumendo, in tal caso, una funzione integrativa delle risultanze dell'atto di nascita e quindi non opererebbe quando nella redazione dell'atto di nascita la legittimità del figlio viene negata dalla madre dichiarante, perché la madre dichiari il figlio come naturale ovvero perché si avvalga della facoltà di non essere nominata (tesi sostenuta da Cicu, op. cit.). Nell'ambito di questa tesi si è formata una diversa corrente, che perviene alla stessa soluzione ma sulla base di diverse argomentazioni. Si afferma (Uda, op. cit., 90) che la presunzione di paternità è operativa sin dal momento della nascita del figlio e non è subordinata alla formazione (e all'iscrizione) dell'atto di nascita; infatti, la presunzione di paternità opera a seguito della dichiarazione di nascita di figlio di donna coniugata, cioè nella fase della cognizione ad opera della P.A.: l'ufficiale di stato civile in virtù della dichiarazione di nascita di figlio di donna coniugata e della contestale attestazione di avvenuta nascita procede all'accertamento della maternità di donna coniugata, quindi sul fondamento di tale accertamento assume la cognizione della paternità del nato mediante la presunzione di paternità, verificando sempre secondo le risultanze dell'attestato di nascita, se il figlio sia nato nei termini indicati dagli artt. 232 e 233 c.c. In conclusione, la presunzione di paternità non presuppone l'atto di nascita, ma partecipa all'accertamento dei fatti storici che costituisce una fase del procedimento di formazione dell'atto. L'unico presupposto dell'operatività della presunzione di paternità è la sola dichiarazione di nascita unitamente alla presentazione dell'attestato di nascita.

Con orientamento oramai consolidato, la S.C. aderisce alla tesi classica che qualifica la paternità legittima di cui all'art. 231 c.c. come una presunzione legale relativa. Quanto ai presupposti, la S.C. precisa che detta presunzione non opera per il semplice fatto della procreazione da donna coniugata, ma solo quando vi siano anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in difetto, il relativo possesso di stato, mentre, quando risulti che la madre abbia dichiarato il figlio come naturale, difettando l'operatività di detta presunzione e dello status di figlio legittimo, non è necessario il disconoscimento ai sensi dell'art. 235 cod. civ., né si frappone alcun ostacolo all'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale di persona diversa dal marito (Cass. n. 13777/2002; n. 8059/1997; n. 3194/96; n. 11073/92; n. 3184/87). Quindi la S.C. di Cassazione aderisce al secondo degli orientamenti dottrinali richiamati, secondo cui la presunzione non opera dalla nascita, come il tenore letterale dell'art. 231 c.c. indurrebbe a ritenere, ma dalla dichiarazione di nascita o, in difetto, dal relativo possesso di stato. Tale soluzione incide inevitabilmente sull'accertamento della paternità prenatale, perché quest'ultima non deriva dall'evento nascita in sé ma dal completamento dell'iter burocratico in sé volto a far conseguire lo status al figlio.

L'anonimato della madre quale causa preclusiva della presunzione

 Nel paragrafo precedente si è evidenziato che il sistema codicistico è imperniato sull'accertamento automatico della maternità e della paternità legittima. Dalla dichiarazione di maternità della madre consegue ad un tempo sia l'operatività della presunzione di paternità del padre sia l'attribuzione dello status di figlio legittimo al figlio. Ne consegue che se la madre intende avvalersi della facoltà prevista dall'art. 30 comma 1 d.P.R. 396/2000 di non essere nominata, impedirà al marito di essere legalmente dichiarato padre legittimo del figlio ed a quest'ultimo di acquisire lo stato di figlio legittimo della madre e del marito (Sesta, Genitori e figli naturali: il rapporto, in Sesta-Lena-Valignani, Filiazione naturale, statuto e accertamento, Milano, 2001, 10). Per tale motivo, in dottrina si sottolinea come il sistema di attribuzione dello stato del figlio e della paternità è soggetto alla decisione della madre di dichiarare la maternità o rimanere nell'anonimato. Questa posizione della madre viene definita in vario modo in dottrina: «privilegio della maternità» (Zatti, 55); «signoria» di cui sembra investita la donna-madre nell'attribuire la «qualità» di padre legittimo al proprio marito (Checchini, 165); «signoria femminile sullo status» (Ferrando, 10); un «arbitrio» (Sesta, 3). In altre parole, la partoriente può evitare l'automatica attribuzione di status al figlio ed al marito, precludendo l'operare delle presunzioni, attraverso diverse opzioni: – può esercitare la facoltà di non essere nominata, ai sensi dell'art. 30 del d.P.R. n. 396/2000, come già detto, lasciando così al marito che voglia costituire lo status di padre l'azione di accertamento positivo, nella quale gli sarà sufficiente provare l'operatività della presunzione, contro la quale la madre potrà eccepire l'incompatibilità genetica; – può riconoscere il nato assieme a persona diversa dal coniuge, e tale riconoscimento di figlio non matrimoniale dovrà essere impugnato del marito nel termine decadenziale; può riconoscere il figlio come proprio ma procreato fuori del matrimonio, ipotesi nella quale al marito si aprirà l'azione di accertamento e al padre biologico il riconoscimento, salvo consenso materno (e del figlio sedicenne) o autorizzazione (Palazzo, 245 ss.; Cicu, 285 ss.; Delitala, 1090 ss. contra Trimarchi, 464 ss. secondo cui la presunzione di paternità di cui all'art. 231 c.c. operava in conseguenza della sola nascita da donna coniugata, nel periodo legale di concepimento, sicché la donna che volesse impedire l'attribuzione al marito della paternità del nato era costretta al rifiuto di essere nominata nell'atto di riconoscimento del padre naturale, ed a rimandare il proprio riconoscimento allo scioglimento, per divorzio o morte del coniuge, del proprio matrimonio; Violante, 424 ss.; De Cupis, 42 ss.; Vercellone, 98 ss.). Anche alla donna non coniugata è riconosciuta l'identica posizione di privilegio, potendo escludere la costituzione dello status di madre semplicemente non riconoscendo il nato, ed optando per l'anonimato. In conclusione, la donna partoriente ha in mano gli strumenti per decidere le sorti della costituzione di status e dell'operare delle presunzioni; dipende dalla sua volontà (perché, infatti, l'automaticità della presunzione di paternità legittima e dell'attribuzione di status di figlio legittimo operano solo per effetto dell'atto volontario di riconoscimento effettuato dalla partoriente al momento della nascita). Si tratta di un'aporia del sistema che il legislatore del d.lgs. n. 154/2013 non ha risolto; infatti l'affermazione della parificazione giuridica tra figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio è un aspetto che consegue all'attribuzione di status, che presenta quest'aporia. Come provi rimedio? L'unico sistema affinché il marito possa acquistare lo status di padre, visto che non scatta la presunzione ex art. 231 c.c. a cagione della scelta arbitraria della madre di non dichiarare la nascita o la sua maternità, consiste nell'effettuare lui stesso il riconoscimento del figlio. Parte della dottrina (Uda, op. cit., 118 ss.) sostiene, a proposito della dichiarazione di paternità resa dal marito separato della partoriente, dopo che ella ha riconosciuto il figlio come naturale, che non sia possibile individuare una dichiarazione autonoma di paternità, successiva alla formazione dell'atto di nascita, in forza del divieto di apportare variazioni all'atto di stato civile dopo la firma dell'ufficiale competente (art. 12, comma 6, d.P.R. 396/2000). Sarebbe dunque necessaria l'azione di rettificazione, che tuttavia postulando la mancata contestazione del fatto storico, potrebbe essere vanificata dall'opposizione materna, con la conclusione che la posizione del marito della donna separata, laddove la madre abbia già riconosciuto il nato come figlio naturale e contesti la paternità biologica del nato, è del tutto pregiudicata. Si tratta di una posizione non condivisibile; la dottrina maggioritaria rileva, correttamente, che il marito deve esercitare l'azione di riconoscimento di paternità che «è un'azione di accertamento positivo che si ricava dal sistema delle azioni processuali civili, e che può essere compresa nella sua funzione e struttura attraverso il sistema delle prove presuntive che caratterizza le azioni di stato della filiazione» (Palazzo, La filiazione, cit., 326). La dichiarazione materna di filiazione non matrimoniale, infatti, produce l'esclusione dell'operatività delle presunzioni che governano la filiazione in matrimonio, sicché, ove operi quella di concepimento, al padre che voglia ottenere la costituzione dello status nei suoi confronti basterà fornire la prova di cui all'art. 232, comma 1, mentre la madre avrà a disposizione le eccezioni fondate sulla prova diretta dell'incompatibilità genetica, oggi non più soggetta alle condizioni di cui ai numeri da 1 a 3 dell'art. 235 c.c. Se, viceversa, non opera più la presunzione perché sono decorsi i termini suddetti, l'azione resta la medesima, ma l'esito sarà affidato alla prova del DNA. Al figlio spetta, invece, l'azione di reclamo ex art. 249 c.c., che si risolverà allo stesso modo, a seconda che operino o meno le presunzioni. Va peraltro precisato che attualmente, dopo la riforma del 2013, la questione è superata dalla parificazione degli status, ma le presunzioni continuano ad avere rilevanza strumentale ai fini dell'individuazione del padre, sicché tutte le volte in cui il meccanismo della presunzione non può operare, l'azione di accertamento può essere esperita ed essere definita con l'ausilio della prova decisiva del DNA. Merita un cenno in questo paragrafo l'unica ipotesi normativa in cui la donna partoriente non gode di alcun privilegio e non decide le sorti dello status del figlio e di conseguenza del marito o compagno. Si tratta dell'art. 9 comma 2 della legge n. 40/2004 che esclude per la madre del nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita la facoltà di non essere nominata, ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. La nascita secondo tale tecnica determina l'attribuzione legale ed automatica della genitorialità a coloro che vi ricorrono e dello status di loro figlio legittimo al partorito. Ed è stato sottolineato in dottrina che con il varo del d.lgs. n. 154/2013 si è persa l'occasione di eliminare del tutto la facoltà di non essere nominata anche per le ipotesi di parto naturale, sulla conseguenza che il diritto della madre a rimanere anonima entra in conflitto con il diritto del figlio nato di possedere uno status conforme ai genitori che lo hanno procreato biologicamente, anche per uniformare l'ordinamento italiano all'art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sullo status giuridico dei minori nati al di fuori del matrimonio, nella interpretazione fornitagli dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo nel caso Merckx c. Belgio, ai sensi della quale è illegittima la legislazione statale che non prevede l'automatica costituzione del rapporto giuridico tra madre e figlio, al momento della nascita, ma lo rinvia al successivo atto di riconoscimento o di accertamento giudiziale, violando il diritto al rispetto della vita familiare (art. 8) ed il divieto di discriminazioni fondate sulla nascita fuori dal matrimonio (art. 14 e art. 8), mentre, al contrario, lo status si costituisce automaticamente nel caso di filiazione in matrimonio (Cattaneo, 329; Saulle, 35 ss.; Renda, 177 ss., sostengono che per adeguarsi ai principi sovranazionali, l'ordinamento italiano, in occasione del varo del d.lgs. n. 154/2013, avrebbe dovuto procedere all'unificazione dello status dei figli prevedendo l'applicazione del principio di automatismo nell'accertamento della filiazione materna).

Effetti della presunzione di paternità

Una volta verificatisi i presupposti della presunzione di paternità, si determina in via automatica in capo al nato lo status di figlio della madre naturale e del marito. Per tale motivo si afferma che la presunzione di paternità costituisce uno dei presupposti costitutivi dellostatus di figlio legittimo (Cicu, op. cit., 6; Trabucchi, 387; Cattaneo, op. cit., 31 ss.), e consiste nella «finzione» (Palazzo, op. cit., 271) che il marito della partoriente che effettua il riconoscimento del bimbo procreato, ne sia anche il genitore biologico, attesa la fisiologica difficoltà di provare nell'immediatezza il momento del concepimento e la provenienza dello stesso. Da notare l'influenza giuridica reciproca tra i due fatti: il concepimento o la nascita del figlio durante il matrimonio, con conseguente formazione dell'atto di nascita, è uno dei presupposti di operatività della presunzione di paternità; quest'ultima determina l'attribuzione in via automatica, nello stesso istante, al nato lo status di figlio legittimo dei genitori, intendendosi per status un concetto giuridico finalizzato alla distinzione degli individui sul piano del diritto (si tratta di un concetto individuale o personalistico, ma al contempo relazionale, perché consente la identificazione dell'individuo in un contesto sociale (Rescigno, 209; Rescigno, 1 ss.; Alpa, 1 ss.). L'un fatto non può esistere senza l'altro; ciascuno dei due presuppone e fonda l'esistenza dell'altro. Da notare che il semplice concepimento fa già scattare la presunzione di paternità legittima, ed autorizza il marito ad assumere ed agire nella qualità di padre del nascituro, prima ancora della nascita, accettando la donazione effettuata in favore del nascituro (art. 320 c.c. richiamato dall'art. 784 c.c.). Le ipotesi di attribuzione di diritti prenatali sono state ampliate dalla giurisprudenza. Si ritiene in dottrina che il nato acquista automaticamente lo status di figlio legittimo dei genitori uniti in matrimonio; conseguendone che non è possibile un successivo riconoscimento come figlio naturale di altra persona e che il rimedio per contestare tale titolo è agire giudizialmente con l'azione di disconoscimento della paternità, argomento su cui si tornerà in seguito. In questa sede, occorre rimarcare che il primo effetto dell'attribuzione di status di figlio legittimo consiste nell'attribuzione al figlio del cognome paterno. Si tratta di una tematica molto avvertita nella coscienza sociale, e che è stata al centro di dibattito durato per interi decenni. L'attribuzione del cognome paterno al neonato al momento della nascita non è prevista in una specifica norma, ma richiamata in alcune disposizioni del codice civile (art. 237,262 e 299 c.c., peraltro tutti modificati dal d.lgs. n. 154/13, a cui va aggiunto l'art. 33 d.P.R. n. 396/00 che prevede che Il figlio legittimato ha il cognome del padre). Per tale motivo la giurisprudenza afferma che l'attribuzione al figlio appena nato del cognome paterno è desumibile da una «norma di sistema», composta da tutti gli articoli che la richiamano o prevedono. In disparte le deroghe normative espresse (ad es. il figlio che è stato riconosciuto dal padre dopo la maggiore età, può decidere di mantenere il cognome originario), occorre considerare che al momento della dichiarazione di nascita, è indubbio che il figlio acquisisca il cognome del padre, in assenza di diversa indicazione; ma ci si è chiesti se sia possibile far assumere al neonato il cognome della madre, su accordo tra i genitori. La questione diffusamente discussa in dottrina (Palazzo, 326 ss.) ha trovato una definitiva risoluzione solo nel 2016 per effetto di una pronuncia della Corte Costituzionale.

In merito all'individuazione dei diritti del marito prima della nascita, la Cassazione, in sentenza n. 2354/10 ha sancito il diritto del padre di ricevere corrette informazioni circa lo stato di salute del feto ed ha condannato il medico al risarcimento del danno per non aver diagnosticato la malattia del nascituro anche al padre, oltre che alla madre (conforme a Cass. n. 20320/05). In merito all'avvenuta acquisizione dello status di figlio, legittimo, cfr. Cass. n. 5661/86 che ha precisato che la paternità legittima non può essere messa in discussione dal preteso padre naturale, indipendentemente dal fatto che il figlio sia o meno anche in possesso del suddetto stato, atteso che la relativa azione, che va qualificata come disconoscimento della paternità, non spetta ai soggetti diversi da quelli espressamente contemplati dall'art. 244 c.c., fra i quali non rientra il preteso padre naturale, e che inoltre quest'ultimo non può avvalersi dell'azione di contestazione della legittimità, che l'art. 248 cod. civ. riconosce esperibile da ogni interessato, avendo tale ultima azione un carattere residuale, riferendosi cioè alle contestazioni della legittimità che investano presupposti diversi da quello della paternità. La suddetta esclusione della legittimazione attiva del preteso padre naturale manifestamente non implica un contrasto con i principi fissati dagli artt. 29 e 30 della Costituzione, sulla rilevanza del vincolo familiare anche nei confronti dei figli nati fuori del matrimonio, vertendosi in tema di scelte del legislatore ordinario sui limiti per la ricerca della paternità giustificate e compatibili con tali principi (fattispecie decisa ratione temporis prima delle modifiche apportate agli artt. 244 e 248 c.c. dal d.lgs. 154/13. Cfr. il commento a tali articoli per esaminarne le innovazioni). Si confronti la giurisprudenza del successivo paragrafo per l'affermazione del principio secondo cui l'azione di disconoscimento di paternità ex art. 235 c.c. (ora abrogato e confluito nell'art. 243-bis c.c. introdotto dal d.lgs. 154/13) costituisce l'unico rimedio per contestare lo status di figlio legittimo e la presunzione di paternità legittima che lo ha prodotto (in tal senso si è espressa la Cassazione in Sent. 08/06/2012, n. 9379). Per quanto concerne il profilo dell'attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo pur in caso di accordo dei genitori volto ad attribuirgli il cognome materno, la Corte cost. ha dichiarato in più occasioni manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale degli articoli che la prevedono (Corte cost. ord. n. 176 e 586/88); ma nell'ord. 13298/04, pur ribadendo la manifesta infondatezza della questione, ha sollecitato un intervento del legislatore volto a rimuovere un assetto di disposizioni codicistiche non più conforme al mutamento dei costumi sociali, sia perché l'attribuzione del cognome paterno al figlio appena nato è frutto di una concezione patriarcale della famiglia non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore dell'uguaglianza giuridica di uomo e donna all'interno del matrimonio, come si ricava, peraltro, dalle fonti internazionali (cfr. Convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 18.12.79 ratificata dal Governo Italiano con L n. 132/85 e raccomandazioni del Consiglio di Europa n. 1271/95 e 1362/98 relative alla pinea realizzazione dell'uguaglianza tra madre e padre nell'attribuzione del cognome al loro figlio). Tale monito all'intervento legislativo è stato ribadito nell'ordinanza, conforme alle precedenti, n. 61/06, richiamata dalla Corte di Cassazione in sentenza n. 16093/06, ove è stata rigettata la domanda congiunta dei genitori di attribuzione del cognome materno al loro figlio, evidenziando che nell'attuale quadro normativo, in cui è rinvenibile una norma di sistema — presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse (artt. 143-bis, 236,237, secondo comma, 266,299, terzo comma, c. c.; 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000) — che prevede l'attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, sia pure retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, che impongono agli Stati membri l'adozione di misure idonee alla eliminazione delle discriminazioni di trattamento nei confronti della donna, ma che spetta comunque al legislatore ridisegnare in senso costituzionalmente adeguato. I tempi erano ormai maturi; e pur in assenza dell'invocato intervento legislativo, la Corte Costituzione è tornata sui suoi passi, dichiarando con sentenza n. 286/16 l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237,262 e 299 c.c., nonché dall'art. 72 primo comma R.d. n. 1238/1939 (Ordinamento stato civile) ed artt. 33 e 34 D.p.r. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non consente ai genitori — i quali ne facciano concorde richiesta al momento della nascita — di attribuire al figlio anche il cognome materno. Nella motivazione della sentenza, la Corte cost., dopo un excursus sulle precedenti ordinanze in questione, prende atto che il legislatore non ha raccolto il monito ivi espresso, non provvedendo a modificare la «norma di sistema» sull'attribuzione del cognome paterno, neppure in occasione della riforma della filiazione, operata con decreto legislativo n. 154/13. Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome — con l'abrogazione degli artt. 84,85,86,87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l'introduzione del nuovo testo dell'art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) — le modifiche non hanno attinto la disciplina dell'attribuzione «originaria» del cognome, effettuata al momento della nascita. Pertanto, supplendo all'inerzia del legislatore, la Corte cost. ha sancito che la preclusione per un minore di ottenere l'attribuzione del cognome materno pregiudica il suo diritto all'identità personale e, al contempo, costituisce un'irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell'unità familiare, in violazione, rispettivamente, degli artt. 2 e 29 comma 2 Cost.

Il superamento della presunzione

In presenza dei presupposti dell' art. 231 c.c. opera la presunzione di paternità legittima, che consiste in una finzione che il marito della partoriente sia anche il padre biologico del figlio; ciò sulla considerazione presuntiva che il padre non possa essere altrui che lui in considerazione del dovere reciproco di fedeltà che scaturisce dal matrimonio ( art. 143 c.c. ). Si è detto che l'attribuzione di paternità legittima assolve ad interessi giuridici ben specifici e meritevoli di tutela, afferenti non solo all'instaurazione di legami familiari con assunzione dei relativi obblighi in capo ai genitori nei confronti del figlio, ma anche a produrre effetti patrimoniali. Questi interessi sono racchiudibili nella concezione del favor legitimitatis cui si contrappone il favor veritatis che è portatore di un altro interesse, pure di livello costituzionale, afferente alla perfetta coincidenza tra paternità biologica e paternità legittima; anche in questo caso vi saranno riflessi patrimoniali con riferimento al mutamento della titolarità dei diritti successori del figlio e dei rapporti successori con i coeredi. Il punto di sintesi tra queste due opposte concezioni è rappresentato dall'azione di disconoscimento di paternità. Il favor legitimitatis che assicura, mediante un sistema di presunzioni, l'attribuzione di uno status di legittimazione al marito della partoriente ed al figlio procreato costituiscono sempre la regola di base; ma il legislatore offre, con tale azione, lo strumento per rendere inefficace siffatta attribuzione di paternità e di status legale nell'ipotesi in cui sia dimostrabile che il padre legittimo non corrisponde al padre biologico naturale, manifestando in questo caso il favor veritatis. Il legislatore del 1942 ha rigorosamente mutuato la disciplina sull'azione di disconoscimento dal modello del Codice napoleonico dell'action en désaveu (Delitalia, op. cit. 1059) al codice unitario del 1865; l'ha poi modificata con la Legge di riforma del diritto di famiglia; ed infine ha abrogato l' art. 235 c.c. trapiantando l'azione di disconoscimento nell' art. 243-bis c.c. , introdotto dal d.lgs. 154/13 . Si rinvia al relativo commento per l'esame dei caratteri tipici, dei presupposti e dell'evoluzione di quest'actio. La si è richiamata in quest'ultimo paragrafo, per completezza di trattazione dell' art. 231 c.c. , per evidenziarne la natura di unico strumento giuridico azionabile per rimuovere gli effetti della presunzione di paternità. Verrà riportata anche casistica giurisprudenziale afferente a quest'aspetto; per una rassegna giurisprudenziale completa sulla normativa in materia di azione di disconoscimento di paternità, ivi comprese le sentenze della Corte costituzionale, si rinvia al commento dell' art. 243-bis c.c. Vi è un caso in cui è preclusa la proponibilità dell'azione di disconoscimento: si allude all' art. 9 comma 1 l. n. 40/2004 che recita: «Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall' articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile , né l'impugnazione di cui all'articolo 263 dello stesso codice». L'operatività del divieto di promuovere l'actio ex art. 235 (ora art. 243-bis c.c. ) è ispirato al principio di autoresponsabilità ed al divieto di venire contra factum proprium; infatti il perno del divieto è costituito dal consenso espresso, anche per facta concludentia dal marito o compagno della donna che si sottopone alla suddetta tecnica di procreazione. In questo aspetto, un terzo principio riecheggiato dalla norma è il favor legitimitatis in quanto pur sapendo il marito o compagno che la fecondazione è avvenuta in forma eterologa, in dispregio del divieto di cui all'art. 4 della medesima legge 40, quindi con ovuli o semi donati da una persona esterna, esprime il consenso alla prosecuzione così esprimendo in forma tacita e preventiva il riconoscimento del nascituro. Prevedendo la norma il divieto di promuovere azione di disconoscimento di paternità, essa mostra di privilegiare anche la legittimazione dello status di figlio legittimo dei genitori che hanno proceduto alla fecondazione sebbene contraria allo status naturale, dal momento che non vi è corrispondenza biologica, essendo stati utilizzati, per la fecondazione, semi o ovuli di un donatore esterno. Naturalmente ove il consenso alla fecondazione assistita eterologa non sia stato prestato dal marito o compagno e questi ne venga a conoscenza in un secondo momento, si riapproprierà del diritto di poter disconoscere la paternità del figlio.

Nella sentenza n. 7965/2017 la Corte di Cassazione precisa che l'azione di disconoscimento della paternità è volta ad accertare unicamente l'insussistenza del legame biologico con il figlio nato nell'ambito del rapporto matrimoniale, aggiungendo che petitum e causa petendi restano identici ed unitari, quali che siano i fatti che, nell'ambito di quelli tipizzati dal legislatore, vengano in concreto addotti a sostegno della pretesa; pertanto, la modifica di tali fatti non importa una mutatio libelli ed è consentita nel corso del giudizio, purché nel rispetto del principio del contraddittorio e dei limiti di deducibilità di nuove prove nelle varie fasi e gradi del giudizio medesimo (questa sentenza è interessante per tale aspetto processuale giacché ha reputato come legittimo il mutamento delle circostanze dedotte dall'attore nel corso del giudizio di disconoscimento, fondata dapprima sulla propria incapacità di generare, e successivamente sulla circostanza che la moglie si era sottoposta a fecondazione eterologa non concordata). Si cita nuovamente, per attinenza anche con l'oggetto di questo paragrafo, la sentenza n. 26767/16 ove la S.C. evidenzia che nell'esperimento di un giudizio di disconoscimento di paternità, sebbene finalizzato a far emergere la non corrispondenza tra paternità legale legittima e paternità naturale, in ossequio al favor veritatis, deve effettuarsi un bilanciamento tra l'interesse del minore a conoscere la identità biologica dei suoi genitori e ad acquisire il relativo status e quello al mantenimento dello status già acquisito, con il complesso di rapporti che ne derivano, a protezione del suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. Questo bilanciamento di interessi deve essere effettuato ancorché l'iniziativa sia promossa dall'Ufficio del p.m. ( Cass. n. 4020/2017 ). La prova della non corrispondenza tra la paternità biologica e quella legale può essere raggiunta anche mediante la non contestazione di circostanze dedotte dall'attore ( Cass n. 1312/2017 , ove la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, muovendo dall'assunto che a fondamento dell'esperita azione era stata fatta valere la impotentia generandi del padre anagrafico, aveva valorizzato, ai fini del relativo accertamento, la mancata contestazione di tale circostanza, evidenziando l'incompatibilità logica tra la negazione della stessa e l'assunto difensivo della odierna ricorrente, secondo cui il concepimento del figlio minore era stato frutto di inseminazione artificiale eterologa). Nell'azione di disconoscimento della paternità, il mantenimento da parte del figlio disconosciuto del cognome paterno è espressione di un diritto potestativo e personalissimo che deve tradursi in una espressa domanda di accertamento da proporsi in sede giudiziale, anche in via riconvenzionale ed eventualmente subordinata all'accoglimento di quella principale, non potendosi ritenere ricompresa nella generica opposizione all'azione di disconoscimento proposta nei suoi confronti. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato la perdita del cognome paterno del figlio disconosciuto, nonostante il padre che aveva intrapreso l'azione di disconoscimento, avesse manifestato la volontà di non opporsi al mantenimento del suo cognome. Cass. ord., n. 28518/2019). In sentenza n. 487/14 gli Ermellini hanno giudicato manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24, 29 e 30 Cost. , la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c. , 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell'opposizione di terzo o l'intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all'esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall' art. 404 cod. proc. civ. presuppone in capo all'opponente un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata (conforme a Cass. n. 12211/2012 ). Si è segnalata tale pronuncia, perché evidenzia come le azioni di stato esprimano il favor legitimitatis; infatti, nessuno può contestare il possesso di stato di figlio legittimo acquisito per essere stato concepito o essere nato in costanza di matrimonio; solo il padre legittimo potrà disconoscere tale sua qualità dimostrando di non esserne il padre biologico; neppure il padre naturale del figlio può avvalersi di questo rimedio esclusivo del padre legittimo. Il padre naturale potrà intentare un autonomo giudizio volto a conseguire il riconoscimento della sua paternità biologica, solo dopo che il padre legittimo avrà esperito proficuamente l'azione di disconoscimento della paternità, sempre nell'ottica della preferenza accordata dal legislatore alla stabilità del legame stretto nella famiglia legittima unita in matrimonio. Tale principio è stato ribadito dalla Cassazione in ord. n. 17392/2018  ove ha precisato che tra l'azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità, sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico con la conseguenza che. in pendenza del primo giudizio, il secondo, ex art. 295 c.p.c., deve essere sospeso, coerentemente con l'art. 253 c.c. L'azione di disconoscimento di paternità infatti mira a rimuovere la presunzione legale di paternità in capo al marito della madre partoriente; in tal caso si determina un vuoto nello status del figlio, che non corrisponde più a quello legittimo fino a quel momento posseduto; questo vuoto può essere colmato proficuamente dal padre naturale con l'azione di riconoscimento di paternità. L'azione è proponibile in tale momento proprio perché non va ad incidere su uno stato di legittimazione preesistente, che è stato rimosso con il passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento del disconoscimento di paternità; per questo motivo l'esperimento dell'azione di riconoscimento è subordinata alla definizione di quella di disconoscimento.In merito ai presupposti per la proponiblità della domanda, si è chiarito che la scoperta dell'adulterio commesso all'epoca del concepimento - alla quale si collega il decorso del termine annuale di decadenza fissato dall'art. 244 c.c. (come additivamente emendato con sentenza Corte cost. n. 134/1985) - va intesa come acquisizione certa della conoscenza (e non come mero sospetto) di un fatto rappresentato o da una vera e propria relazione, o da un incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere, non essendo sufficiente la mera infatuazione, la mera relazione sentimentale o la frequentazione della moglie con un altro uomo. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di appello che ha riconosciuto la tempestività della domanda di disconoscimento della paternità, ritenendo che, pur risultando una pregressa conoscenza dell'adulterio da parte dell'attore, solo all'esito dell'espletamento della prova del DNA, questi ne avesse acquisito la certezza. Cass. ord. n. 3263/2018. in senso conformeCass Ord. n. 19324/2020).  Se invece l'azione di disconoscimento risulta fondata dal marito sulla sua impotenza a procreare, spetta a lui provare in giudizio che tale impotenza è durata per tutto il periodo corrispondente a quello del concepimento (anche in tal caso la prova determinante è costituita da una CTU Cass., n. 7965/2017). Circa la natura e l'efficacia della sentenza di disconoscimento si legga la sentenza della Cass. n. 430/2012 ove si precisa che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità, in quanto pronunciata nei confronti del p.m. e di tutti gli altri contraddittori necessari, assume autorità di cosa giudicata erga omnes, essendo inerente allo status della persona; pertanto, né colui che è indicato come padre naturale, né i suoi eredi, sono legittimati passivi nel relativo giudizio e la sentenza che accolga la domanda di disconoscimento è a loro opponibile, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio (principio confermato successivamente in Cass. ord. n. 19956/2021). Si è ancora precisato in giurisprudenza di legittimità che l'azione di disconoscimento della paternità del marito deve essere intrapresa nei termini indicati dall'art. 244, comma 2, c.c., gravando pertanto, sull'attore, l'onere di dimostrare di avere agito entro l'anno dalla data in cui ha scoperto una condotta della donna idonea al concepimento con un altro uomo e, sui convenuti, l'onere di dimostrare l'eventuale anteriorità della scoperta. Entrambe le prove soggiacciono alla regola secondo la quale ciò che rileva è l'acquisizione "certa" della conoscenza di un fatto (una vera e propria relazione o un incontro sessuale) idoneo a determinare il concepimento, non essendo perciò sufficiente un'infatuazione o a una relazione sentimentale e neppure a una mera frequentazione della moglie con un altro uomo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che al fine di escludere la tempestività dell'azione, aveva ritenuto sufficiente la conoscenza da parte del marito delle frequentazioni della moglie. Cass. ord. n. 19324/2020). Per quanto concerne il divieto di esercitare l'azione di disconoscimento di paternità nell'ipotesi descritta dall' art. 9 comma 1 l. n. 40/2004 si segnala la sentenza della Cass. n. 11644/2012 ove si precisa che la disciplina contenuta nell' art. 235 c.c. (vigente ratione temporis) è applicabile anche a filiazioni scaturite da fecondazione artificiale (eterologa non assentita dall'attore, evidentemente), tenuto conto che il quadro normativo, a seguito dell'introduzione della legge 19 febbraio 2004, n. 40 , per come formulata e interpretabile alla luce del principio del favor veritatis, si è arricchito di una nuova ipotesi di disconoscimento, che si aggiunge a quelle previste dalla citata disposizione codicistica; pertanto, stante l'identità della «ratio» e per evidenti ragioni sistematiche, è applicabile anche il termine di decadenza previsto dal successivo art. 244 c. c. , che decorre dal momento in cui sia acquisita la certezza del ricorso a tale metodo di procreazione. Il principio di diritto ivi enunciato è stato confermato dalla Cassazione nella sentenza n. 7965/17. In questa precisa tematica si segnala altresì una pronuncia della Cassazione ove è stato precisato che nella fecondazione assistita eterologa, così come per l'omologa, il preventivo consenso manifestato dal coniuge o convivente può essere revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo, sicché ove la revoca intervenga successivamente, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della l. n. 40/2004, il partner non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione (Cass. ord. n. 30294/2017).

Per la rassegna di tutta la giurisprudenza di legittimità e di merito sulla l. n. 40/2004 si rinvia al relativo commento; in questa sede sono state richiamate le sentenze afferenti alla tematica indagata.

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