Codice Civile art. 262 - Cognome del figlio nato fuori del matrimonio 1 2 3[I]. Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre456. [II]. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. 7 [III]. Se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il secondo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi 8. [IV]. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento [38, 51 att.] 910. [1] L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». [2] Articolo così sostituito dall'art. 111, l. 19 maggio 1975, n. 151. La Corte cost., con sentenza 23 luglio 1996, n. 297 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo «nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale». [3] L'art. 27, comma 1, lettera a) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha modificato la rubrica aggiungendo, dopo la parola: «figlio» le parole: «nato fuori del matrimonio». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [4] L'art. 27, comma 1, lettera b) del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 ha soppresso, ovunque presente, la parola: «naturale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [5] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno. [6] La Corte costituzionale, con sentenza 31 maggio 2022, n. 131 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto; la medesima sentenza ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell'ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l'accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. [7] L'art. 27, comma 1, lettera c) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il presente comma. Il testo precedente recitava: «Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [8] L'art. 27, comma 1, lettera d) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto il presente comma. Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [9] L'art. 27, comma 1, lettera e) d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alle parole «l'assunzione del cognome del padre» le parole: «l'assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. [10] La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, pubblicata in G.U. n. 52 del 28 dicembre 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma desumibile dal presente articolo nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. InquadramentoIl nome è il principale mezzo di identificazione della persona: esso è composto dal prenome (o nome di battesimo) e dal cognome e costituisce un elemento essenziale dell' identità personale dell'individuo, che riceve tutela costituzionale ai sensi dell'art. 2 Cost. Il diritto al nome trova anche un espresso riconoscimento nell'art. 22 Cost. il quale stabilisce che nessuno possa essere privato del nome per motivi politici (Russo, 2016). Riguardo alla natura del diritto al nome, che fu uno dei primi aspetti della personalità giuridicamente riconosciuti, nel secolo scorso esso veniva associato al diritto di proprietà, come tale imprescrittibile e inalienabile, sacro e inviolabile (STOLFI, 1905, 85). Successivamente, tale diritto fu inserito stabilmente tra i più rilevanti profili della personalità, ricollegandosi precipuamente alla protezione dell'identità personale, essendo il nome anche per la sua determinatezza e semplicità un elemento determinante per l'affermazione della personalità (Bavetta, 1970, 955). Una disciplina sulla tutela di tipo civilistico, fatto salvo sempre il rimedio risarcitorio, del diritto al nome è contenuta negli artt. 7,8,9 c.c., mentre l'art. 6 prevede che ogni persona ha il diritto al nome che per legge le è attribuito, sicché si ritiene in dottrina che alla tutela della personalità di chi lo porta si affianca l'interesse pubblico a distinguere e individuare i consociati, cui si richiama il divieto di modifica del nome e la necessità della sua attribuzione per legge (Dogliotti, 2015, 316). La certezza e la stabilità del nome costituiscono un valore protetto dall'ordinamento, con l'evidente intento di salvaguardare l'interesse pubblico alla certezza degli status ed all'agevole individuazione delle persone. Non sono invece riconosciuti i predicati nobiliari, salvo che, facendo ormai parte del cognome, non abbiano nel tempo assunto la funzione di identificare la persona. L'art. XIV delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione dichiara, infatti, che «I titoli nobiliari non sono riconosciuti». Il mutamento del cognome non è consentito se non nelle specifiche ipotesi previste dalla legge. Il matrimonio non determina il mutamento del cognome: secondo quanto dispone l'art. 143-bis c.c., la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze; se i coniugi sono separati, può essere giudizialmente vietato alla moglie l'uso del cognome del marito, quando ciò sia al coniuge gravemente pregiudizievole e viceversa la moglie può essere autorizzata a non usare il cognome del marito se da questo le può derivare un grave pregiudizio (art. 156-bis c.c.). Dopo il divorzio, la donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio (art. 5 l. 1° dicembre 1970, n. 898). Il tribunale può tuttavia autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela. Parzialmente diversa è la disciplina del cognome per i partner della unione civile registrata. La l. 20 maggio 2016, n. 76, stabilisce che sono le parti stesse, se lo vogliono, a scegliere per la durata della unione un cognome comune, che può essere indifferentemente quello dell'uno o dell'altro partner; ciascuno dei partner può anteporre o posporre il cognome comune al proprio; le predette scelte si effettuano con una dichiarazione all'ufficiale di stato civile. Quanto al profilo pubblicistico della tutela del nome, la giurisprudenza amministrativa ha affermato il principio per cui la certezza e la stabilità del nome costituiscono un valore protetto dall'ordinamento, con l'evidente intento di salvaguardare l'interesse pubblico alla certezza di status ed all'agevole individuazione delle persone (Cons. St. III, n. 5021/2013). L'art. 89 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 — recante la disciplina della materia de qua — tuttavia, nell'esemplificare le ipotesi in cui il nome può essere cambiato «anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l'origine naturale” non recepisce un criterio di tassatività dei casi in cui l'istanza di mutamento delle generalità può formare oggetto di favorevole assenso (cfr. Cons. St. I, n. 515/2004). Nell'ambito dei rapporti di famiglia, la scelta del prenome per il figlio è una decisione che spetta ad entrambi i genitori, per il principio della pari investitura delle responsabilità genitoriali, stabilito dall'art. 316 c.c. La giurisprudenza aveva da tempo chiarito che, coinvolgendo un diritto fondamentale e irrinunciabile della persona, la scelta rientra tra le «questioni di particolare importanza» per le quali l'art. 316 c.c. richiede l'accordo dei genitori e, in difetto, l'intervento del giudice (Cass. I, n. 9339/1997). Cass. VI, ord. n. 772/2020 ha affermato che in tema di minori, in ipotesi di secondo riconoscimento da parte del padre, è legittima l'attribuzione del patronimico in aggiunta al cognome della madre, purché non gli arrechi pregiudizio in ragione della cattiva reputazione del padre e purché non sia lesivo della sua identità personale, ove questa si sia definitivamente consolidata con l'uso del solo matronimico nella trama dei rapporti personali e sociali. Il principio è stato successivamente ribadito da Cass. I, ord. n. 8762/2023: “Nel giudizio volto al riconoscimento del figlio naturale, l'opposizione del primo genitore che lo abbia già effettuato non è ostativa al successivo riconoscimento, dovendosi procedere ad un accertamento in concreto dell'interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale; del pari, è ammissibile l'attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l'uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali”. In proposito, il giudice, nel caso di attribuzione giudiziale del cognome, è investito del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste dall'art. 262 c.c. avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità (Cass. I, ord. 18161/2019; Cass, I, n. 23635/2009). In questo contesto aggiornato è maturata la pronuncia della Corte costituzionale n. 131/2022 che ha profondamente innovato la normativa sulla attribuzione del cognome in seguito a riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio (v. infra). La disciplina del cognome relativamente ai figli nati fuori dal matrimonioL'art. 262 c.c. dettava tre regole, in tema di attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, improntate al principio della prevalenza del cognome paterno. Questo principio è stato dichiarato espressione di una norma illegittima per contrarietà alla Costituzione e ad impegni di ordine sovranazionale. La disposizione citata prevede, in primo luogo, che il Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. La regola è rimasta, in quanto coerente alla situazione di fatto. E' poi disposto che se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Anche questa regola non è stata incisa dalla pronuncia della Corte. Infine, la normativa dispone che se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre: in questo senso è il testo dell'art. 262 ma la Corte costituzionale, con sentenza n. 131/2022 ne ha dichiarato l'illegittimità. Al figlio riconosciuto solo dalla madre va attribuito il cognome materno. Il riconoscimento successivo ad opera del padre poneva il problema del coordinamento con il riconoscimento antecedente per quanto riguardava il cognome da attribuire al figlio, nel conflitto tra anteriorità di quanto avvenuto e prevalenza della linea paterna. Il legislatore aveva risolto la questione con l'affidare la scelta al figlio maggiorenne o, nel caso di sua minore età, al giudice. Come si è sopra accennato, la regola è stata conservata. Quando, dunque, il padre riconosce il figlio successivamente, o in un secondo momento è accertata giudizialmente la paternità, il figlio maggiorenne può scegliere se assumere il cognome del padre, mantenere solo quello della madre, oppure conservarli entrambi. Il figlio in questo modo può mantenere il cognome che già porta, così evitando un cambiamento che potrà essere per lui psicologicamente nocivo, oltre che fonte di incertezza nei rapporti giuridici. A seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, egli può, inoltre, assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello materno. Se il figlio è minorenne sarà il giudice — che ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. come riformato dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219 si deve oggi individuare nel tribunale ordinario — a decidere se il cognome originario (materno) deve essere sostituito con quello paterno o se il cognome materno deve essere mantenuto aggiungendo il cognome paterno (art. 262 c.c.). Secondo parte della dottrina, il legislatore del 2013 ha perso un'importante occasione per parificare i due genitori, preferendo invece equiparare, per quanto possibile, la condizione del figlio nato fuori dal matrimonio a quella del figlio nato nel matrimonio (Farolfi, 2015, 1036). Quanto alle modalità attraverso cui può essere ricevuta la scelta del figlio di anteporre, aggiungere o sostituire il cognome del padre a quello materno, stante il silenzio della legge, si ritiene che esso vada espresso con atto pubblico (Ferrando, 2007, 97). Un riferimento testuale è contenuto degli artt. 33 e 36 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, dove si precisa che le dichiarazioni relative all'assunzione del cognome del figlio rese all'ufficiale dello stato civile devono essere fatte dal medesimo personalmente o con comunicazione scritta. Altra parte della dottrina trae spunto proprio dalla disciplina contenuta nell'ordinamento dello stato civile, per sostenere che è sufficiente, ai fini della validità del riconoscimento, la sottoscrizione della dichiarazione presentata unitamente alla copia fotostatica, non autenticata, di documento d'identità (De Scrilli, 2012, 489). In assenza d' indicazione da parte del figlio sulla volontà di assumere il cognome paterno, una parte della dottrina ritiene che il figlio conservi il cognome della madre, senza alcuna possibilità successivamente di modificarlo (Finocchiaro, 1984, 1745), mentre per una diversa opinione, l'esercizio del potere di scelta può essere differito sino alla morte del figlio, ma non potrebbe essere esercitato nel testamento, perché in tal caso si consentirebbe che gli effetti si producano non in favore di chi ha compiuto la scelta, ma esclusivamente dei suoi discendenti (Carraro — Cecchini, 1992, 147). Se nel modo sin qui riferito sono state risolte alcune questioni interpretative cui ha dato luogo l'art. 262, la vera svolta è giunta con la pronuncia della Corte costituzionale n. 131/2022 (decisione 27 aprile 2022) sul tema dell'attribuzione del cognome al figlio nato da genitori coniugati ed anche nel caso di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ad opera contestuale di entrambi i genitori. Con la pronuncia citata l'art. 262, primo comma, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che in entrambe le fattispecie suddette il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei due genitori, nell'ordine da essi concordato, fatto salvo l'accordo, al momento del riconoscimento, nel senso dell'attribuzione di un unico cognome. Per quanto interessa in questa sede, a proposito del riconoscimento contemporaneo ad opera dei genitori, la Corte ha osservato che nella previsione dell'art. 262 l'identità del figlio, preesistente rispetto all'attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi: il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti identificativo del suo ramo familiare; e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare. La selezione, fra i dati preesistenti all'attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre. L'automatico conferimento del cognome paterno rende invisibile la donna, sigilla una diseguaglianza fra i genitori e si imprime sull'identità del figlio. Si tratta di una disparità che non trova alcuna giustificazione e contrasta, anzi, con l'art. 3 Costituzione, sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l'interesse del figlio; né può dirsi compatibile con il coordinamento voluto dall'art. 29 Costituzione tra il principio di uguaglianza e la salvaguardia dell'unità familiare. L'importanza di una evoluzione nel senso dell'uguaglianza tra i genitori è stata sottolineata anche dalla Corte EDU, che ha sollecitato l'eliminazione di ogni discriminazione nei confronti della donna, anche a proposito della scelta del cognome nei rapporti familiari. Pertanto, si è osservato in sentenza, permanendo da tempo l'inerzia legislativa, non poteva più tardarsi a rendere effettiva la legalità costituzionale. Il carattere in sé discriminatorio della disposizione censurata, il suo riverberarsi sull'identità del figlio e la sua attitudine a rendere asimmetrici, rispetto al cognome, i rapporti tra i genitori, dovevano dunque essere rimossi con l'introduzione di una regola di semplice e automatico riflesso dei principi costituzionali coinvolti: il cognome del figlio deve comporsi con il cognome dei genitori, salvo un loro diverso accordo. Fermo l'asserito principio, la Corte ne ha affrontato le immediate conseguenze. Se il figlio deve ormai essere identificato con entrambi i cognomi dei genitori quando essi lo riconoscono contemporaneamente, sorge il problema di stabilire l'ordine nel quale collocare detti cognomi e, più precisamente, un ordine che sia compatibile con le regole costituzionali e con gli obblighi internazionali. Tornare a dare preferenza al cognome paterno significherebbe far rivivere quella stessa logica discriminatoria che è causa della dichiarazione di illegittimità nella fattispecie del figlio nato nel matrimonio. La regola da applicare deriva direttamente dal paradigma della parità tra i genitori e dal riconoscimento della loro comune volontà. Spetta a loro stabilire l'ordine tra i cognomi, come spetta a loro l'eventuale scelta di attribuire al figlio da essi contemporaneamente riconosciuto uno solo dei cognomi che gli spetterebbero. Questa affermazione ha un risvolto, costituito dal dato secondo cui, per attribuire al figlio contemporaneamente riconosciuto un unico cognome non può farsi a meno dell'accordo tra i genitori. La Corte non si è nascosta un inconveniente di rilievo che naturalmente consegue all'attribuzione sia del cognome paterno e sia del cognome materno nel succedersi delle generazioni. L'effetto moltiplicatore che ne discende giunge a privare i plurimi cognomi di forza identitaria per i figli. Occorrono dunque strumenti per preservare la funzione di identificazione del cognome, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e privato. In proposito si rivela opportuna la scelta da parte del genitore – divenuto titolare del doppio cognome recante memoria dei due rami familiari - di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, salvo che i genitori optino per l'attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto. In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l'interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch'esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe conseguirsi (si è concluso) riservando le scelte relative all'attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia, onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori. Il riconoscimento del figlio minoreL'art. 262 c.c., nella parte in cui disciplina l'attribuzione del cognome del figlio minore di età, è stato modificato ad opera dell'art. 27 d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, nel senso che al giudice spetta la decisione sull'attribuzione del cognome del genitore al figlio minore nato fuori dal matrimonio, con provvedimento che può essere adottato soltanto a seguito di ascolto del minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, se dotato di sufficiente capacità di discernimento. La previgente disciplina prevedeva invece che il giudice decidesse circa l'assunzione del cognome paterno, senza alcun riferimento alla necessità di ascolto del minore. Sotto tale profilo, l'introduzione dell'obbligo di ascolto del minore rappresenta attuazione del principio generale consacrato dalla riforma dell'art. 315-bis c.c. (Farolfi, 2015, 1038). A maggior ragione quando si tratta di soggetto minorenne, il giudice deve avere esclusivamente riguardo al suo interesse e il parametro fondamentale è dato dalla tutela del profilo dell'identità personale relativo al medesimo (Conti, 2011, 2392). Esclusa ogni attribuzione automatica del cognome, pure in ordine all'assunzione del patronimico, la valutazione del giudice è ampiamente discrezionale e conduce a privilegiare l'attribuzione del cognome materno, qualora sia più idonea a preservare l'identità personale del minore (Farolfi, 2015, 1040). Quanto alla giurisprudenza di legittimità, deve ricordarsi Cass. I, n. 12640/2015, ai sensi della quale, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale avente copertura costituzionale assoluta, la scelta (anche officiosa) del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata né dal favor per il patronimico, né dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 c.c., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo. Dovendo il giudice conciliare due diversi interessi, quando la filiazione naturale nei confronti del padre sia accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, ovvero: quello secondo cui il cognome tende a indicare l'appartenenza di una persona a una determinata famiglia; e quello secondo cui il cognome è espressione dell'identità della persona ed elemento di riconoscimento della stessa nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, tale scelta è ampiamente discrezionale e frutto di libero e prudente apprezzamento, nell'ambito del quale assume rilievo centrale, non tanto l'interesse dei genitori, quanto quello del minore a essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui è inserito (Cass. I, n. 2648/2011 e Cass. I, n. 2751/2008, che avevano optato per l'attribuzione del cognome paterno in epoca preadolescenziale, ritenendo ancora non consolidata l'identità del minore). Tale valutazione, proprio per l'ampia discrezionalità attribuita, nei termini sopra indicati, al giudice del merito, comporta che tale decisione — da maturare nell'esclusivo interesse del minore, tenendo conto della natura inviolabile del diritto al cognome, tutelato ai sensi dell'art. 2 Cost. — è incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivata (Cass.I, n.15953/2007). A seguito della riforma di cui al d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, la Cassazione ha stabilito che in caso di riconoscimento o accertamento della filiazione nei confronti del padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, il giudice può decidere, avendo riguardo all'interesse del figlio, che venga aggiunto al minore il cognome del padre, anteponendolo o posponendolo a quello della madre (Cass. I, n. 17976/2015). Si ribadisce dunque che tale scelta è ampiamente discrezionale, con esclusione di qualsiasi automaticità, e non può essere condizionata né dal favor per il patronimico o per un prevalente rilievo della prima attribuzione, né dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante da alcuna alle diverse regole che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo (v. Cass. I, n. 12640/2015; Cass. n. 2644/2011; Cass. I, n. 12670/2009 e Cass. I, n. 23635/2009). In ogni caso è da ritenere legittima l'aggiunta del cognome paterno a quello della madre che ha riconosciuto il minore per primo se ciò non è di pregiudizio per l'identificazione sociale, ormai consolidatasi con il solo matronimico (Cass. VI, n. 772/2020). Si è affermato che in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito ex art. 262, commi 2 e 3, c.c. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste dalla disposizione, avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità che non riguarda né la prima attribuzione (essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del prior tempore) né il patronimico (per il quale parimenti non sussiste alcun favor in sé) (Cass. ord. n. 18161/2019). In applicazione del principio della tutela dell'interesse del minore, si è stabilito che la difficile relazione sentimentale fra i genitori non può incidere sul diritto del padre e della minore a una identificazione della propria discendenza genitoriale e biologica (Cass. I, n. 9944/2012, in cui la Corte ha respinto la tesi avanzata dalla madre, che aveva evidenziato la pessima reputazione dell'uomo, soprattutto alla luce dei difficili rapporti e del mancato mantenimento e ha ritenuto prevalente l'interesse della minore, a cui non nuoce l'aggiunta del cognome paterno, posposto a quello materno). Sotto il profilo processuale, la controversia in ordine all'attribuzione del cognome del minore è di competenza del tribunale ordinario, che decide in composizione collegiale. Va osservato in proposito che l'art. 38 disp. att. al c.c. assegna al tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali, come nella specie, non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. La disposizione è stata conservata dalla riforma del processo civile disposta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, e dal provvedimento di sua correzione d.lgs. n. 164/2024. Con riferimento alla competenza, trattandosi di un procedimento in minore assume la veste di parte sostanziale, deve ritenersi che essa si radichi nel luogo di residenza abituale del minore (Buffone, 2014, 61). L'art. 473-ter c.p.c. dispone che il procedimento è trattato nelle forme del rito camerale. In tal senso si è espressa Cass. I, ord. n. 14121/2024, per la quale deve applicarsi il principio di prossimità e pertanto è territorialmente competente il giudice del luogo di residenza del minore in quanto maggiormente idoneo a valutare le sue esigenze, non solo per lo stretto collegamento con il luogo in cui si trova il centro degli affetti, degli interessi e delle relazioni dello stesso ma anche per la possibilità di procedere in qualsiasi momento al suo ascolto. In materia di attribuzione del cognome al figlio minore, Cass. n. 1808/2014, ha stabilito che, nel caso in cui la filiazione nei confronti del padre sia stata riconosciuta successivamente e quindi in un secondo momento rispetto alla madre, il figlio, al fine di avere una maggiore tutela della sua identità personale, in relazione all'ambiente familiare e sociale di vita, può assumere il cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. In epoca più recente si è stabilito altresì che i criteri d'individuazione del cognome del minore seguono l'esclusivo interesse del medesimo di evitare un danno alla sua anteporre al cognome materno quello paterno, trattandosi di una scelta ampiamente discrezionale, con esclusione di qualsivoglia automaticità) (Cass. I, n. 12640/2015 e Cass. I, n. 17734/2015). Conseguentemente, essendo fondamentale il parametro della tutela dell'identità personale del minore, quale affermata nella cerchia sociale di appartenenza, nel valutare l'interesse del minore, riconosciuto in origine dalla sola madre, all'acquisto del patronimico per il successivo riconoscimento paterno, il giudice impedisce il mutamento di cognome, non solo quando la negativa considerazione sociale del nome del padre possa recar pregiudizio al figlio, ma anche qualora il matronimico sia ormai assurto ad autonomo segno distintivo dell'identità personale del fanciullo matronimico (fattispecie di consistente lasso di tempo durante il quale il bambino era stato identificato dal e della squalifica sociale del patronimico per la notoria affiliazione del nonno paterno alla locale criminalità organizzata: Cass. I, n. 12641/2006). In definitiva, per individuare i criteri di scelta del cognome paterno deve prevalere l'interesse del minore ad evitare un danno alla sua personalità sociale (Cass. I, n. 17792/2015, in cui la Corte ha ritenuto incensurabile la decisione del giudice di appello di anteporre al cognome materno quello paterno, trattandosi di una scelta ampiamente discrezionale, con esclusione di qualsivoglia automaticità). Dalla stessa Corte, è stato affermato il principio per cui, poiché il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali della persona, ciò che rileva non è l'esigenza di rendere la posizione del figlio nato fuori dal matrimonio quanto più simile possibile a quella del figlio di coppia coniugata, quanto piuttosto quella di garantire l'interesse del figlio a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità (Cass. I, n. 12640/2015; Cass. I, n. 12670/2009; Cass. I, n. 17139/2017). Il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta, sicché il giudice deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al secondo riconoscimento (del padre), valutando se il precludere il mantenimento del cognome materno si risolverebbe in un'ingiusta privazione di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto “a essere sé stessi” (Cass. I, n. 12983/2009; Cass. I, n. 16989/2007; Cass. I, n. 12641/2006). Il giudice è investito ex art. 262, commi 2 e 3, del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da tale disposizione avendo riguardo unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità o regola di presunta prevalenza (Cass. I, n. 18161/2019;Cass. I, n. 2644/2011; Cass. I, n. 23635/2009) La decisione è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivata (Cass. I, n. 15953/2007). Proprio in ragione del prevalente profilo della tutela dell'identità personale del minore (cfr. Trib. Prato, 26 luglio 2017), è stato affermato che il figlio avrebbe diritto a mantenere il nome del (falso) padre naturale, anche se il riconoscimento fosse posto nel nulla per difetto di veridicità (App. Palermo 7 marzo 1995), o quello del preteso padre legittimo, ove fosse dichiarata la falsità del certificato di matrimonio (Corte cost. n. 13/1994), o quello attribuitogli dall'ufficiale di stato civile in caso di mancato riconoscimento ad opera di entrambi i genitori, ove il riconoscimento sopravvenga (Corte cost. n. 297/1996). È allora l'identità personale ad essere oggetto della tutela, ove il cognome dovesse cambiare, e non l'appartenenza familiare. Ciò vale anche in caso di predicato nobiliare falsamente attribuito (App. Messina 13 novembre 1999; Trib. Catania 2 ottobre 1998). Nel procedimento l'ascolto del minore è necessario, anche se espressivo di una volontà non vincolante per il giudice e la sua omissione non può trovare giustificazione nel dubbio circa la capacità di discernimento del minore né su ragioni di mera opportunità (Cass. I, n. 28521/2019). Nel giudizio il P.M. interviene a pena di nullità, ai sensi dell'art. 70, primo comma, n. 3, c.p.c. trattandosi di controversia in materia di stato, ma non può esercitare l'azione né proporre impugnazione (Cass. I, n. 13281/2006). Ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 149/2022, le sue disposizioni processuali si applicano ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023; ai procedimenti pendenti in tale momento continuano ad applicarsi le norme ante vigenti. Il procedimento è quello dalla camera di consiglio (art. 473-ter c.p.c.). In tema di reclamo avverso il provvedimento camerale di cui agli artt. 262 c.c. e 38, commi 1 e 2, disp. att. c.c., in materia di attribuzione del cognome al figlio naturale riconosciuto, nell'ipotesi di mancata comparizione della parte reclamante, il giudice del reclamo, verificato che siano stati regolarmente notificati l'istanza ed il decreto di fissazione dell'udienza, deve comunque decidere sul merito della controversia, restando esclusa la declaratoria di improcedibilità per tacita rinunzia all'impugnativa (Cass. I, n. 294/2009). Con riguardo, peraltro, all'ammissibilità del ricorso c.d. straordinario per cassazione avverso il provvedimento emesso dalla Corte d'appello in sede di reclamo quanto all'assunzione, da parte del figlio naturale riconosciuto, del cognome paterno, la più recente giurisprudenza di legittimità ha risolto la questione in senso affermativo, osservando che non si tratta di un mero atto amministrativo, ma di provvedimento a carattere decisorio, che incide sul diritto al nome e, per il tramite di questo, sul diritto all'identità personale, e definitivo, in quanto non revocabile né modificabile, anche in ragione delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche attinenti l'identità delle persone (cfr. Cass. I, n. 13281/2006; invece, nella giurisprudenza di legittimità meno recente si era ritenuto non impugnabile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 cost., v. Cass. I, n. 4055/1990). Con riferimento al principio affermato dalla stessa Cass. I n. 284/2009, per il quale il giudice del reclamo camerale deve decidere sul merito della controversia e non può dichiarare improcedibile il ricorso a causa della mancata comparizione della parte reclamante, che verrebbe a configurare una rinuncia tacita all'impugnativa, lo stesso era stato già espresso dalla Suprema Corte in tema di procedimento camerale ex art. 30, comma 6, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, in materia di ricongiungimento familiare, osservando che i procedimenti in camera di consiglio sono caratterizzati da particolare celerità e semplicità di forme e sono dominati, quanto allo svolgimento, dall'impulso officioso (Cass. I, n. 27080/2005). 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