Codice Civile art. 315 bis - Diritti e doveri del figlio (1).

Annachiara Massafra

Diritti e doveri del figlio (1).

[I]. Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.

[II]. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.

[III]. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

[IV]. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.

(1) Articolo inserito dall'art. 1, l. 10 dicembre 2012, n. 219.

Inquadramento

La disposizione in esame ha sostituito l'art. 315 c.c., intitolato «i doveri del figlio verso i genitori» trasformandolo nel decalogo dei diritti e dei doveri del figlio, tanto da essere definito «lo statuto dei diritti del figlio» (Bianca, 331, Achille, 55).

La norma, nella previgente versione, disciplinava esclusivamente i doveri del figlio, di natura prettamente patrimoniale, mentre i suoi diritti trovavano implicito riconoscimento nell'art. 147 c.c. Tale disposizione, tuttavia, si limitava, prima della riforma del 2013, ad imporre ad entrambi i genitori nell'adempimento del dovere di educare ed istruire il figlio, di «tenere conto» delle sue aspirazioni ed inclinazioni naturali. Quest'ultima disposizione disciplinava, e disciplina tuttora, i doveri del genitore coniugato mentre i doveri nei confronti del figlio nato fuori dal matrimonio erano disciplinati dall'art. 261 c.c. (oggi abrogato) che richiamava espressamente l'art. 147 c.c.

In seguito alla sua introduzione con l'art. 1, comma 8, della l. 10 dicembre 2012, n. 219, l'art. 315 bis c.c. è divenuta disposizione di portata generale, destinata ad integrare, in base a quanto risulta espressamente dal dato testuale, il contenuto precettivo dell'art. 147 c.c. (così Achille, 57) che oggi non impone più ai genitori semplicemente di «tenere conto» ma di «rispettare» le aspirazioni del figlio.

Deve peraltro, in questa sede, evidenziarsi che la scelta del legislatore di non abrogare l'art. 147 c.c. è stata criticata da parte di dottrina mentre, altri autori, al fine di chiarirla e sostenerla, hanno sottolineato che la citata norma non è relativa solo al rapporto genitori-figli ma anche ai doveri coniugali (infatti non si rivolge ai genitori ma ai coniugi). Muovendo da tale considerazione è stata ritenuta ragionevole la conservazione dell'art. 147 c.c., avendo tale disposizione la principale funzione di integrare i doveri coniugali con i doveri dei genitori (in questo senso: Achille, 58; Ballarani- Sirena, 142; contraLenti, 207).

Per quanto concerne la novità insita nella disposizione in commento, si rileva che la formulazione dell'art. 315 bis c.c. rovescia l'impostazione che riconosce al genitore una posizione di supremazia modificando, a tal fine, anche la rubrica che è difatti intitolata «dei diritti e doveri del figlio». Di talché, in forza di quanto previsto dalla disposizione poc'anzi citata, il minore è oggi titolare dei diritti di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nonché di crescere in famiglia, di mantenere rapporti significativi con i parenti, di essere ascoltato (nei limiti di cui infra) in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano (si veda, per un approfondimento sulle novità della riforma della filiazione del 2012-2013, Shlesinger, 333).

Si tratta di diritti fondamentali del minore o meglio «di diritti della personalità in quanto tutelano interessi essenziali della persona nel tempo della sua crescita e della sua formazione» (Bianca, 331).

La previgente disposizione era limitata solo alla valorizzazione dei doveri del figlio, espressione quindi di una società nella quale il dovere di educare non era inteso come funzionale alla valorizzazione della personalità del minore ma era inteso come strumentale alla conformazione del predetto alle regole ed ai costumi di quel periodo storico. In quest'ottica il figlio si trovava in una posizione di soggezione rispetto al genitore (in merito si vedano: Bianca, 331; Paradiso 2012, 301; Al Mureden-Sesta, 1151).

Il legislatore del 2012 supera questa impostazione e delinea la posizione del figlio in una nuova e dinamica prospettiva, riconoscendogli espressamente i diritti sopra elencati.

Appare evidente, pertanto, che se il genitore deve rispettare, secondo quanto oggi prevede la nuova formulazione dell'art. 147 c.c. (e non più semplicemente tenere conto), le inclinazioni e aspirazioni naturali del figlio, tale rispetto non può non connotare le modalità attraverso le quali deve realizzarsi il dovere di istruire ed educare i figli. Sicché, qualora il genitore non abbia riguardo delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio nell'esercizio del dovere di istruzione ed educazione, agirà non in conformità con il dettato normativo e in spregio del best interest of the child.

Si è, quindi, di fronte all'esercizio della responsabilità genitoriale non più intesa come prerogativa sulla persona sottoposta, bensì comestrumento funzionale al soddisfacimento dei diritti del figlio (così Al Mureden, Sesta, 1150). In quanto strettamente funzionalizzato all'interesse del minore ed alla formazione della sua personalità, l'esercizio della responsabilità genitoriale muta nel corso della formazione di quest'ultima: quanto più il minore, crescendo, è in grado di autodeterminarsi tanto più viene meno la ragione del suo assoggettamento ad una scelta esterna (Bianca, 344).

I diritti fondamentali del minore: il diritto di essere mantenuto

Il diritto al mantenimento rappresenta il risvolto patrimoniale del più generale obbligo di cura del minore e si realizza sostenendo le spese relative ad ogni necessità del figlio (Al Mureden-Sesta, 1152; in merito Vercellone, 952). Esso designa il diritto del figlio all'assistenza materiale, cioè a ricevere quanto occorra per le normali esigenze di vita e di crescita (Bianca, 332) ed insieme agli altri obblighi gravanti sul genitore riveste, secondo parte di dottrina, carattere non patrimoniale, mentre le singole componenti a questi riconducibili sono caratterizzate dalla patrimonialità propria del rapporto obbligatorio (Achille, 601; circa la riconducibilità del dovere di mantenimento alla responsabilità genitoriale si vedano: Bianca, 343; Rossi, Carleo, 1264; contra De Cristofaro, 2002, 981, Bucciante, 594).

Al diritto del figlio di essere mantenuto corrisponde il dovere di ciascun genitore di adempiere agli obblighi nei confronti dei figli, secondo quanto prevede l'art. 316 bis c.c., in proporzione alle rispettive sostanze, dal momento della loro nascita.

Ciò comporta che in seguito alla sentenza dichiarativa della filiazione naturale, la quale produce gli effetti del riconoscimento ex art. 277 e 216 c.c., in capo al genitore graveranno tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c. (applicabile ratione temporis). La relativa obbligazione si collega, quindi, allo status genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l'altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l'onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota.

In tali termini si è espressa Cass. I, n. 7960/2017, la quale ha tuttavia chiarito che la condanna al rimborso della quota per il periodo precedente la proposizione dell'azione non può essere pronunciata d'ufficio, necessitando di un'espressa domanda della parte. Tale pronuncia difatti attiene alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incide sull'interesse superiore del minore, il quale è l'unica circostanza legittimante l'esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall'art. 277, comma 2, c.c. (in merito si veda altresì Cass. I, n. 5586/2000).

Deve specificarsi che, verso l'esterno, ciascun genitore è tenuto ad adempiere l'obbligazione per l'intero: trattasi, infatti, di un'obbligazione solidale, salvo poi agire in regresso nei confronti dell'altro genitore che non abbia partecipato al mantenimento del figlio (in merito si veda: Paradiso, 334, ancorché con riferimento al previgente art. 148 c.c.).

L'entità del mantenimento gravante su ciascun genitore è inoltre determinata in proporzione all'attività lavorativa svolta ed alle capacità economiche di ciascuno. L'art. 316-bis c.c., nel ribadire che su entrambi i genitori grava l'obbligo di mantenere la prole in proporzione alle proprie sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo, richiama difatti i contenuti delle disposizioni di cui agli artt. 315-bis, 147,148 c.c. Sicché, al fine di stabilire l'entità della contribuzione gravante su entrambi i genitori (in ossequio al parametro normativo costituito della proporzione rispetto alle sostanza di ciascuno) dovrà, pertanto, essere effettuata una verifica comparativa delle condizioni economiche di ciascun genitore (si veda al riguardo: Dogliotti, 185).

Ciascun genitore deve quindi adempiere l'obbligo di mantenimento nei confronti dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze, dal momento della nascita e fino al raggiungimento della loro indipendenza economica, quindi ancorché raggiunta la maggiore età e sempre che il mancato conseguimento dell'indipendenza economica non derivi da colpevole inerzia (si veda altresì il commento sub art. 337-septies c.c.).

Sicché, la cessazione dell'obbligo di mantenimento di figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto relativo all'età, all'effettivo conseguimento di una competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché alla condotta tenuta dal figlio successivamente al raggiungimento della maggiore età (Cass. I, n. 12952/2016 in Foro it., 9, I, 2741, con nota di Casaburi). Grava infatti sul genitore, che intenda essere esonerato dal dovere di mantenimento del figlio, l'onere di provarne il raggiungimento dell'indipendenza economica (Cass. I, n. 19589/2011, in Foro It., 2012, 5, 1558, con nota di De Marzo). Per converso, la Cassazione ha ritenuto che l'obbligo di mantenimento venga meno se il figlio prolunghi, senza adeguata giustificazione, il percorso di studi senza alcun rendimento (Cass. I, n. 1585/2014).

L' onere della prova relativo alle condizioni che fondano il diritto al mantenimento assume, peraltro, connotati differenti ove si tratti di figlio neomaggiorenne ovvero di “figlio adulto”.  Nel caso in cui il figlio sia neomaggiorenne e prosegua nell'ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il "figlio adulto" in ragione del principio dell'autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa. Ciò poiché i principî della funzione educativa del mantenimento e dell'autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l'estensione dell'obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un'occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel "figlio adulto" l'attesa ad ogni costo di un'occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata.(Cass. I, n.26875/2023) .

La giurisprudenza ha peraltro delimitato il concetto di indipendenza economica atteso che non tutte le attività lavorative consentono di ritenere il figlio maggiorenne economicamente autosufficiente.

Nel dettaglio, è stato affermato che il lavoro precario non fa venir meno l'obbligo al mantenimento del figlio così come l'esistenza di un patrimonio idoneo a garantire la autosufficienza, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa può determinare la cessazione dell'obbligo (Cass. I, n.18/2011; Cass. I, n. 27377/2013).

Si ritiene opportuno in questa sede evidenziare, infine, che l'assegno  di mantenimento ha natura essenzialmente alimentare, con la conseguenza che la retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda necessita di comparazione con i principi della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni.

Sicché, la parte che abbia ricevuto tali prestazioni previste dalla sentenza di separazione, per ogni singolo periodo, non può restituirle né può vedersi opporre in compensazione quanto ricevuto a tale titolo (si vedano: Cass. VI-III, n.  11689/2018; Cass. I, n. 13609/2016; Cass. I, n. 11489/2014, e Cass. I, n. 28987/2008).

Il diritto all'istruzione ed all'educazione

I diritti al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione sono intesi, da parte di dottrina, quali componenti personali non patrimoniali della responsabilità genitoriale, mentre nella prospettiva del figlio, costituiscono diritti fondamentali di solidarietà che tutelano l'interesse essenziale dell'essere umano (Bianca, 331; in questo senso anche: Achille, 59; Rossi Carleo, 1264; contra invece De Cristofaro 2016, 681, con riferimento al diritto al mantenimento, e Bucciante, 596, il quale esclude che l'obbligo di mantenimento sia riconducibile alla responsabilità genitoriale).

Nel dettaglio, il diritto all'istruzione trova riconoscimento nella Costituzione sia con  riferimento al rapporto genitori-figli sia con riferimento al rapporto minore-istituzioni esterne.

Parte della dottrina distingue l'obbligo di istruzione in diretto ed indiretto. Quello indiretto costituisce un obbligo di mezzi e si risolve nel consentire, agevolare ed imporre la frequentazione della scuola dell'obbligo mentre quello diretto ricade sul genitore ed è un obbligo di contenuti che si ricollega alle capacità soggettive dei genitori (Anceschi, 130; sul punto altresì Al Mureden-Sesta, 1155). Responsabili dell'obbligo scolastico sono quindi, da una parte, lo Stato, e, dall'altra, i genitori; ciò determina inevitabilmente che in questo ambito si realizzi una coesistenza di doveri e responsabilità con conseguente necessaria collaborazione tra soggetti operanti su piani differenti (Al Mureden-Sesta, 1155).

Appare in questa sede opportuno ribadire che i diritti all'istruzione ed all'educazione, così come tutti i diritti espressamente attribuiti al figlio dalla norma in commento, devono essere riconosciuti e realizzati nel rispetto delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del minore. Ciò implica che il minore abbia una capacità di discernimento, tale da essere in grado di essere ascoltato e di esprimere le proprie preferenze, anche per quel che rileva in questa sede in tema di istruzione, dovrà essere sentito in modo da poter esprimere la propria volontà, e manifestare i proprio desideri (si pensi alle decisioni in tema di percorso scolastico o ludico-sportivo). Questi ultimi dovranno orientare le scelte dei genitori al fine di garantire il pieno sviluppo della personalità del figlio, sostanziandosi quello all'istruzione quale diritto del figlio a ricevere l'insegnamento necessario per conseguire la preparazione culturale e professionale conforme alle sue capacità e alle sue scelte (Bianca, 335).

Il genitore è infatti tenuto ad educare il figlio nel rispetto della sua personalità. In verità la disposizione non specifica quale sia il contenuto di tale dovere salvo porre dei limiti al suo esercizio. I limiti, in particolare, sono da rinvenirsi in quelli indicati dallo stesso art. 315-bis c.c., e già in passato nell'art. 147 c.c., nei principi fondamentali dell'ordinamento così come cristallizzati nella Costituzione ed in particolare nell'art. 2 di essa (in merito, si vedano: Stanzione, 333, Bessone, 345). In particolare, il diritto all'educazione è il diritto del minore di ricevere l'insegnamento necessario per conseguire la piena maturità morale (Bianca, 334).

L'esercizio della responsabilità genitoriale muta nel corso della evoluzione della formazione della personalità del figlio. Quanto più egli è in grado di esprimere la propria volontà tanto più il genitore dovrà rispettarla. In quest'ottica, sin dal 1972 la giurisprudenza di merito ha imposto al genitore di rispettare le scelte del figlio con riferimento allo formazione professionale, alla fede religiosa ed all'impegno politico-sociale (ex plurimis, per le decisioni di merito originanti l'orientamento di cui innanzi: Trib. min. Bologna, 13 maggio 1972, in Foro it. rep., 1974, voce «patria potestà»).

Il genitore potrà scegliere tra scuola pubblica o paritaria ma sempre nel rispetto delle inclinazioni del figlio; così ponendosi il problema di stabilire quale scuola scegliere in caso di disaccordo tra i genitori ove l'età del minore non consenta di effettuarne l'ascolto.

Sul punto si è espressa la giurisprudenza di merito evidenziando che, in caso di separazione personale tra coniugi, la decisione dell'Ufficio giudiziario non può che essere in favore dell'istruzione pubblica, laddove non esista o non persista un'intesa tra i genitori a favore di un qualsivoglia istituto scolastico privato e non emergano particolari controindicazioni all'interesse del minore, come ad esempio una difficoltà nell'apprendimento o una particolare fragilità di inserimento nel contesto dei coetanei (si vedano: Trib. Milano, 2 febbraio 2017; Trib. Milano, 18 marzo 2016 e Trib. Torino, 25 agosto 2016).

Al riguardo rileva la recente Cass. I n. 26820/2023 che, cassando la decisione del giudice di merito che nella scelta tra scuola pubblica e privata aveva ritenuto determinante l'esborso economico da sostenersi, ha affermato che laddove eccezionalmente debba decidere il giudice circa l'istruzione scolastica egli deve tener conto esclusivamente del superiore interesse, morale e materiale, del minore ad una crescita sana ed equilibrata, con la conseguenza che il conflitto sulla scuola primaria e dell'infanzia, pubblica o privata, presso cui iscrivere il figlio, deve essere risolto verificando non solo la potenziale offerta formativa, l'adeguatezza edilizia delle strutture scolastiche e l'assolvimento dell'onere di spesa da parte del genitore che propugna la scelta onerosa, ma, in primis, la rispondenza al concreto interesse del minore, in considerazione dell'età e delle sue specifiche esigenze evolutive e formative, nonché della collocazione logistica dell'istituto scolastico rispetto all'abitazione del bambino, al fine di consentirgli di avviare, ovvero incrementare, rapporti sociali e amicali di frequentazione extrascolastica, creando una sua sfera sociale, ed al fine di garantirgli congrui tempi di percorrenza e di mezzi per l'accesso a scuola e il rientro alla propria abitazione.

I diritti di crescere in famiglia, all'assistenza morale ed a mantenere rapporti con i parenti

Costituiscono una significativa novità della riforma di cui alla l. n. 219 del 2012 e del relativo d.lgs. n. 154 del 2013 il riconoscimento dei diritti a crescere in famiglia, a mantenere rapporti con i parenti (al quale è strettamente connesso lo speculare diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti) ed il diritto all'assistenza morale.

Quest'ultimo assume particolare rilevanza ove si consideri che è stato di fatto positivizzato il diritto ad essere amato dai propri genitori in quanto assistere moralmente il figlio significa averne cura amorevole (Bianca, 331).

Quella all'assistenza morale può definirsi come il diritto a ricevere l'apporto di affetto necessario ai fini della crescita e della maturazione della propria persona. In particolare, con riguardo ad esso, è stato osservato che il sentimento di amore non attiene all'adempimento del dovere sotto il profilo dell'an o del quomodo ma ne costituisce l'oggetto specifico; la prestazione di amore è l'in sé del dovere del genitore in quanto il diritto all'assistenza morale è attribuito dall'ordinamento a specifica tutela dell'interesse essenziale del minore a ricevere la componente affettiva indispensabile per il sano e sereno sviluppo della personalità (così Spaziani, 70, l'autore in merito ricostruisce i presupposti dogmatici per riconoscere un vero e proprio «diritto soggettivo all'amore»). Tra gli interessi essenziali del minore si pone, infatti, in primo piano l'interesse a ricevere quella carica affettiva di cui l'essere umano non può fare a meno nel tempo della sua formazione (Bianca, 335). In questo modo si esplica e conferisce rilievo giuridico generalizzato alla modalità naturalmente caratterizzante il rapporto genitore-figlio (Al Mureden-Sesta, 1160).

La violazione di tale fondamentale diritto, chiarisce Cass. I, n. 7960/2017, è fonte di responsabilità civile e dunque può legittimare il minore, attraverso il proprio rappresentante legale, ad agire per ottenere il risarcimento del danno patito per essere stato privato dell'assistenza morale del genitore (in merito si veda altresì Cass. I, n. 5586/2000).

Non meno importante è il riconoscimento del diritto a crescere in famiglia ed a mantenere i rapporti con i parenti, già previsto dalla Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata per l'Italia con l. 20 marzo 2003, n. 77, entrata in vigore l'1 novembre 2003). Il diritto di crescere in famiglia, già previsto dalla legge sull'adozione, essendo stato incluso nella disposizione in commento costituisce un diritto fondamentale del figlio (in questo senso, Bianca, 337; si veda, altresì, Sirena, 125 che lo definisce come un diritto ed un obbligo di coabitazione).

I primi commentatori dell'articolo 315-bis c.c., collocando in un'ottica unitaria il diritto del minore a crescere in famiglia e quello a mantenere rapporti significativi con i parenti, ritengono che la norma sembri essere il frutto della sintesi dell'art. 1 della l. 28 marzo 2001, n. 149 e della previsione di cui all'art. 155 c.c. Al contempo hanno rilevato che il citato art. 315-bis c.c. se ne discosti in ragione della portata applicativa più ampia, coinvolgendo non solo le fasi patologiche del rapporto tra partner, e tra genitori e figli bensì anche quelle fisiologiche. Muovendo da tale premessa si giunge quindi a ritenere che gli elementi che compongono l'art. 315-bis c.c, intesi come il diritto del minore a crescere il famiglia ed il diritto a mantenere rapporti significativi con i parenti, costituiscano l'espressione di distinti contenuti, rivolti ad ambiti differenti e tuttavia tesi a definire un quadro unitario (Ballarani-Sirena, 145).

Il diritto di vivere in famiglia si esplica, nel dettaglio, anche al di fuori della stessa imponendo allo Stato di rimuovere ostacoli e promuovere interventi affinché i minori possano crescere nella famiglia oltre che vietando di allontanare il minore dall'abitazione familiare, se non nei casi previsti dalla legge ed in funzione del suo superiore interesse (Bianca, 337).

Di talché, tale diritto sarà oggetto di valutazione ogni qualvolta dovrà essere adottata una decisione che determini l'allontanamento temporaneo o definitivo dalla famiglia, sempre nel superiore interesse del minore.

Il diritto a mantenere rapporti significativi con i parenti trova invece attuazione sia nella fase fisiologica della vita familiare che in quella patologica, ciò viene ribadito anche altre disposizioni di cu agli artt. 317-bis c.c. 337-ter c.c. Esso costituisce una specificazione del diritto a crescere in famiglia e, come le altre fattispecie riconosciute dalla norma in commento, non costituisce una novità assoluta nell'ordinamento giuridico, in quanto, sebbene con formulazione differente, già previsto dell'art. 155, comma 1 c.c.

La norma in commento riconosce al minore, in particolare, il diritto di mantenere rapporti significativi con i parenti e gli ascendenti di ciascun ramo genitoriale. La normativa peraltro, estendendo ai rapporti parentali di ciascun ramo genitoriale il concetto di famiglia nucleare, considera l'insieme delle relazioni familiari come valore imprescindibile della persona e garantisce quella che in dottrina viene definita come «saldatura generazionale» dei rapporti affettivi (così Ballarani-Sirena, 149).

Il diritto del minore a mantenere rapporti significativi con i parenti è inoltre strettamente connesso al diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con il minore, riconosciuto espressamente dall'art. 317-bis c.c., in caso di contrasto prevale però il primo sul secondo. Quello dei nonni è difatti diritto strumentale alla realizzazione di quello spettante al minore (Bianca, 337) ed è funzionale alla formazione della sua personalità, dell'identità personale ed alla serena crescita.

Si tratta, in particolare, quello degli ascendenti, di un «diritto che soccombe rispetto a quello del minore a condurre un'esistenza serena e a crescere in maniera sana ed equilibrata, senza essere coinvolto e costretto a subire le ricadute e le ripercussioni» di un eventuale rapporto conflittuale esistente tra i genitori e gli ascendenti (Trib. min. Venezia, 7 novembre 2016).

Si tratta altresì di un diritto che alla luce dei principi desumibili dall'art. 8 CEDU, dall'art. 24, comma 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., deve essere riconosciuto non solo ai nonni biologici ma anche ad ogni altra persona che gli affianchi, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest'ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico (Cass. I, n. 19780/2018).

I diritti sopra citati trovano un limite temporale nel compimento della maggiore età da parte del figlio.

È stato infatti evidenziato, con riferimento al rapporto esistente tra gli artt. 315-bis c.c. e 147 c.c., che, pur mancando un'indicazione testuale da parte del legislatore, si deve ritenere che il diritto a crescere in famiglia, così come il diritto di mantenere rapporti significativi con i parenti, non spetti al figlio anche oltre il conseguimento della maggiore età.

Solo questa interpretazione spiegherebbe difatti il motivo per il quale tali diritti non siano stati contemplati nel primo comma dell'art. 315-bis c.c. In particolare, è stato evidenziato che sarebbe anacronistico oggi pensare che il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e l'assistenza morale da parte dei genitori cessino al conseguimento della maggiore età del figlio, quando quest'ultimo non ha ancora generalmente completato il proprio ciclo di studi, né ha ancora conseguito una propria autosufficienza lavorativa o comunque economica. I diritti di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, per converso, si svuotano di contenuto con il raggiungimento de diciottesimo anno di età in quanto, proprio con la maggiore età, gli stessi sono sostituiti dalla capacità di autodeterminazione che il figlio ha ormai conseguito (nei termini di cui innanzi, Sirena, 123).

Il diritto di essere ascoltato

Con la l. 10 dicembre 2012, n. 219, ed il relativo d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, è stato completato il percorso di adeguamento della normativa interna a quella internazionale in tema di ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano.

Le decisioni che vengono assunte nell'ambito dei giudizi coinvolgenti il minore, come quelle cui agli artt. 316 c.c., 330 c.c., 337-bis c.c., impongono che il predetto, in quanto parte sostanziale del procedimento, sia reso edotto della natura e degli effetti del giudizio e sia posto nelle condizioni di esprimere la propria volontà. Qualora difatti il minore abbia compiuto dodici anni o, se di età inferiore, sia dotato della capacità di discernimento, interloquendo con l'Autorità giudiziaria, potrà rappresentare i propri desideri e le proprie aspirazioni, consentendo l'adozione della decisione maggiormente conforme alla sue necessità preminenti.

La necessità e, soprattutto, l'importanza dell'ascolto del minore è stata riconosciuta, dapprima in ambito internazionale, dall'art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo, sottoscritta a New York il 20 novembre 1989 (ratificata dall'Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176). Esso prevede il diritto del minore «ad esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa» potendo «essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne sia direttamente, sia tramite un rappresentante legale o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale».

Successivamente, tale diritto è stato ulteriormente riconosciuto dall'art. 4 della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993, in materia di adozione internazionale (ratificata dall'Italia con l. 31 dicembre 1998 n. 476). Esso prevede che le adozioni previste dalla convenzione possano avere luogo solo se le autorità competente dello Stato di provenienza del minore abbiano verificato la di lui informazione sulle conseguenze dell'adozione e l'acquisito del suo consenso all'adozione oltre che tenuto in considerazione aspirazioni e desideri dello stesso minore.

Nel panorama internazionale viene anche in considerazione l'art. 6 della Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei minore (aperta alla firma a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata dall'Italia con l. 20 marzo 2003, n. 77). Esso prevede che l'Autorità giudiziaria, ove il minore sia considerato capace di discernimento dal diritto interno, nell'adozione della decisione deve consultare il predetto, acquisire la sua opinione e tenere debitamente conto della stessa, ed acquisizione della sua opinione. Particolare rilievo assumono poi i precedenti artt. 3 e 5 della detta convenzione, in quanto esplicitamente prevedono i diritti del minore ad essere ascoltato, informato sul procedimento che lo riguarda ed a nominare un rappresentante nel giudizio.

L'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), del 18 dicembre 2000 (pubblicata nella G.U.C.E. 2000/C 364/01), ha altresì disciplinato l'ascolto del minore prevedendo che «I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità».

L'ascolto in esame è stato inoltre riconosciuto e disciplinato dal Regolamento del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201/2003/CE, il quale lo contempla quale condizione per il riconoscimento, in ambito sovranazionale, di un provvedimento giudiziario che lo riguardi, nell'ambito di procedimenti inerenti la responsabilità genitoriale.

Rilevano infine le linee guida sulla Giustizia Minorile del Consiglio d'Europa del 17 novembre 2010, la quali confermano nuovamente la necessità dell'ascolto della persona minore nei procedimenti che lo riguardano nonché, a tal fine, di una adeguata e propedeutica informazione circa il relativo procedimento.

Mentre a livello internazionale vi è quindi stato un generalizzato riconoscimento del diritto del minore ad essere ascoltato, nelle procedure che lo riguardino, il legislatore italiano ha inizialmente previsto tale diritto in alcune specifiche e settoriali disposizioni, essendosi solo di recente allineato alla legislazione sovranazionale.

In merito assume particolare rilievo l'art. 4, comma 8, della l. 1 dicembre 1970, n. 898 (così come modificato dalla l. 6 marzo 1987, n.74) che consente al Presidente del Tribunale di sentire i figli minori, in considerazione della loro età, tuttavia solo ove lo ritenga strettamente necessario. Solo successivamente, prima con l. 4 maggio 1983, n. 184 (c.d. legge sull'adozione, modificata dalla l. 28 marzo 2001, n. 149) e poi con la riforma di cui alla l. 8 febbraio 2006, n. 54, è stato positivizzato il diritto del minore ad essere ascoltato nei giudizi che lo riguardano. Esso è difatti oggi divenuto un «adempimento necessario», con riferimento ai procedimenti giudiziari riguardanti i minori ed in particolare in quelli relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell'art. 155-sexies c.c. (introdotto dalla citata l. n. 54/2006), «salvo che ... possa essere in contrasto con i suoi superiori interessi » (Cass. S.U., n. 22238/2009, in Guida al dir., 2009, 48, 36, con nota di Finocchiaro). All'ascolto del minore deve quindi procedersi salvo che ciò sia escluso dalla legge ovvero che possa arrecare danno al minore stesso (Cass. I, n. 16753/2007;  ex multis Cass. I, n. 16410/2020; Cass. I, n. 1474/2021; Cass. I, n. 23804/2021; Cass. I, n. 16569/2021 ).

Così introdotto il diritto del minore ad essere ascoltato, solo con la novella del 2012-2013 in materia di diritto di famiglia è stata unificata la relativa disciplina, operante quindi in merito a tutti i procedimenti che riguardanti il minore, mediante un rovesciamento di prospettiva circa la valutazione dell'ascolto in esame.

Trattasi quindi, oggi, di un diritto del minore, tale da renderlo parte sostanziale del procedimento che lo riguardi, che consente di non ascoltarlo solo nei casi previsti dalla legge e, soprattutto, qualora possa derivarne pregiudizio per il relativo equilibrio, necessitando sul punto specifica motivazione da parte dell'Autorità giudiziaria.

Sicché, all'esito dell'inquadramento di cui innanzi, può ormai attualmente ritenersi l'ascolto in oggetto, tanto per il diritto interno quanto per quello sovranazionale, oramai, espressione di una regola fondamentale e generale attraverso la quale viene perseguito il diritto superiore del minore, corrispondente al suo armonico sviluppo psichico, fisico e relazionale, da perseguirsi anche attraverso l'immediata percezione delle sue opinioni in merito alle scelte che lo riguardino (in questo senso, ex plurimis, Cass. I, n. 5237/2014). Esso costituisce una peculiare forma di partecipazione del minore alle dette decisioni ed uno degli strumenti di maggiore incisività per il conseguimento del suo interesse (Cass. I, n. 6129/2015).

Peraltro detta partecipazione  non consente di considerare il minore parte in senso formale perché la legittimazione processuale non risulta attribuita loro da alcuna disposizione di legge: essi sono, tuttavia, parti sostanziali in quanto portatori di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori (Cass. I. n. 16410/2020).

In conclusione, sono state quindi introdotte due tipologie di norme inerenti l'ascolto, potendosi distinguere quelle sull'an da quella sul quomodo (Buffone, 2014, 73); tra le prime sono annoverabili gli artt. 337-octies e 315-bis c.c. mentre nel secondo gruppo si collocano le disposizioni di cui agli artt. 336-bis c.c. e 38-bis disp. att. c.c.

L'introduzione del diritto di essere ascoltato, frutto anche della necessità adeguare l'ordinamento interno ai principi sanciti dall'articolo 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata per l'Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176) e ribaditi dalla Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, si riverbera sul corretto esercizio della responsabilità genitoriale: l'imposizione dell'ascolto del minore in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano si traduce infatti nel diritto ad essere ascoltato anche in famiglia, così realizzandosi la sua assistenza morale (Bianca, 339, per il quale «ascoltare non significa udire il figlio ma sentirne le ragioni per parteciparlo alle decisioni che lo riguardano»).

Deve infine evidenziarsi che in tema di ascolto del minore è intervenuto, da ultimo, il d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 che ha abrogato l'art. 337-octies c.c., l'art. 336-bis c..c. nonché l'art. 336 c.c. nella parte, per quel che rileva in questa sede, che disciplinava l'obbligo di ascolto del minore, facendo confluire la disciplina dell'ascolto, sia relativamente alle condizioni   che alle modalità, nel titolo VI-bis del codice di procedura civile  “Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie”(applicabile ai procedimenti introdotti in data successiva al 28 febbraio 2023).

Nell'esercizio della responsabilità genitoriale, infatti, è necessario ascoltare il figlio e comprenderne aspirazioni e desideri. Sicché, ove tra i genitori sussista un contrasto su una questione di particolare importanza, è comunque loro compito «attuare insieme scelte condivise necessarie per la crescita e lo sviluppo (anche intellettuale e sociale)» del minore e quindi «ad ascoltare (che è concetto diverso dal sentire)» il proprio figlio. «Se è vero che è compito del Giudice procedere all'audizione dei minori in caso di contrasto tra genitori avuto riguardo a scelte che li coinvolgono, tale compito è secondario rispetto a quello primario dei genitori di ascoltare i propri figli» (Trib. Milano, 3 settembre 2016, in fattispecie caratterizzata da disaccordo tra i genitori circa una vacanza studio all'estero della figlia minore dovuto all'omesso «ascolto» della stessa da parte della madre, risolto dal Giudice previa considerazione delle aspirazioni della minore).

I doveri del figlio

La disposizione in commento, riproducendo il previgente articolo 315 c.c., prevede che il figlio sia tenuto a rispettare i genitori.

Parte di dottrina con riferimento all'espressione «deve rispettare i genitori» (non più onorare) ha affermato che essa costituisca una formula vuota, ed in particolare che non si tratti di un dovere giuridico, di un'obbligazione la cui violazione possa determinare una sanzione diversa da quella sociale (Vercellone, 950). Altra dottrina ha invece evidenziato come il dovere di rispettare il genitore, alla luce della novella del 2012, assume una nuova connotazione, caricandosi di significati più pregnanti, consoni all'intenso e profondo rapporto di natura personale che si crea con la filiazione. Il dovere di rispetto, in questa rinnovata prospettiva, non viene quindi più inteso come obbedienza, così superandosi il riferimento alla posizione subordinata del figlio sottoposto alla potestà, per dare spazio ad uno scambio reciproco affettivo, al rispetto della persona del genitore nella sua pienezza (Belleli, 160; nello stesso senso, in precedenza, Giorgianni, 316).

I doveri del figlio nei confronti del genitore sono, in verità, tuttora di carattere patrimoniale.

Il figlio infatti è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia con i proventi del proprio lavoro e tale dovere non viene meno con il raggiungimento della maggiore età ma con la cessazione della convivenza. Unitamente all'usufrutto legale, inoltre, esso costituisce la forma prescelta dal legislatore per garantire la partecipazione del minore agli oneri patrimoniali della famiglia (La Rosa-Sobbrio, 977, le quali riconducono l'istituto al regime contributivo della famiglia più che a quello della responsabilità genitoriale).

Tuttavia, è opportuno fin d'ora osservare che l'usufrutto legale prescinde, diversamente dal dovere di contribuzione di cui all'art. 315-bis c.c., dalla convivenza tra figlio e genitori e trova il suo fondamento nella mera appartenenza al nucleo familiare. Di talché, esso sussiste anche se il minore non conviva con la famiglia e cessa al raggiungimento della maggiore età, anche in permanenza della convivenza del figlio con la famiglia (De Pamphilis-Lena, 1209; La Rosa-Sobbrio, 977).

L'obbligo di contribuzione di cui all'art. 315-bis c.c., d'altro canto, non si fonda sulla solidarietà tra consanguinei e ne beneficiano tutti coloro che vivono nella medesima abitazione familiare. Esso, diversamente, trova la sua giustificazione nella necessità di imporre a tutti coloro che beneficiano dei vantaggi derivanti dalla convivenza familiare, a prescindere dall'età, di concorrere in misura adeguata alla sopportazione degli oneri e delle spese che essa comporta (così De Cristofaro, 2002, 1167; sul punto si veda altresì Paradiso, 338, il quale definisce l'obbligo gravante sul figlio quale aspetto particolare del più ampio dovere di collaborazione personale nell'ambito della famiglia). Ne consegue che finché il minore conviva con il genitore, adempie all'obbligo di contribuzione proprio attraverso i frutti naturali e civili dei propri beni, salvo che il loro valore non sia tale da «coprire» il dovere gravante sul figlio; nel qual caso quest'ultimo potrà essere chiamato a contribuire con altri beni di cui sia eventualmente proprietario.

Il dovere sussiste solo se e in quanto il figlio viva nell'ambito della famiglia perché la convivenza costituisce un presupposto necessario dell'obbligo contributivo, a differenza dell'obbligo di mantenimento che grava sul genitore indipendentemente da tale circostanza (in questo senso, Belleli, 161). Per convivenza deve intendersi, secondo taluni in dottrina, non la mera coabitazione ma condivisione materiale e spirituale di vita nell'unità della famiglia (Ruscello, 136). Tuttavia, tale impostazione introdurrebbe elementi di difficile accertamento ed comporterebbe l'esclusione in capo al figlio dell'obbligo di contribuzione ove egli si limitasse ad vivere stabilmente nell'abitazione senza tuttavia avere una comunione di vita con i componenti del nucleo familiare convivente (in questo senso Roma, 307).

Bibliografia

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