Legge - 20/05/2016 - n. 76 art. 1Art. 1 (A) 1. La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto. 2. Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni. 3. L'ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile. 4. Sono cause impeditive per la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso: a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile tra persone dello stesso sesso; b) l'interdizione di una delle parti per infermita' di mente; se l'istanza d'interdizione e' soltanto promossa, il pubblico ministero puo' chiedere che si sospenda la costituzione dell'unione civile; in tal caso il procedimento non puo' aver luogo finche' la sentenza che ha pronunziato sull'istanza non sia passata in giudicato; c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all'articolo 87, primo comma, del codice civile; non possono altresi' contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87; d) la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l'altra parte; se e' stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso e' sospesa sino a quando non e' pronunziata sentenza di proscioglimento. 5. La sussistenza di una delle cause impeditive di cui al comma 4 comporta la nullita' dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano gli articoli 65 e 68, nonche' le disposizioni di cui agli articoli 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis del codice civile. 6. L'unione civile costituita in violazione di una delle cause impeditive di cui al comma 4, ovvero in violazione dell'articolo 68 del codice civile, puo' essere impugnata da ciascuna delle parti dell'unione civile, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale. L'unione civile costituita da una parte durante l'assenza dell'altra non puo' essere impugnata finche' dura l'assenza. 7. L'unione civile puo' essere impugnata dalla parte il cui consenso e' stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravita' determinato da cause esterne alla parte stessa. Puo' essere altresi' impugnata dalla parte il cui consenso e' stato dato per effetto di errore sull'identita' della persona o di errore essenziale su qualita' personali dell'altra parte. L'azione non puo' essere proposta se vi e' stata coabitazione per un anno dopo che e' cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore. L'errore sulle qualita' personali e' essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell'altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purche' l'errore riguardi: a) l'esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune; b) le circostanze di cui all'articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile. 8. La parte puo' in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l'unione civile dell'altra parte. Se si oppone la nullita' della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata. 9. L'unione civile tra persone dello stesso sesso e' certificata dal relativo documento attestante la costituzione dell'unione, che deve contenere i dati anagrafici delle parti, l'indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre ai dati anagrafici e alla residenza dei testimoni. 10. Mediante dichiarazione all'ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte puo' anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile. 11. Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacita' di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. 12. Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato. 13. Il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, e' costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacita' per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare ne' ai diritti ne' ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. 14. Quando la condotta della parte dell'unione civile e' causa di grave pregiudizio all'integrita' fisica o morale ovvero alla liberta' dell'altra parte, il giudice, su istanza di parte, puo' adottare con decreto uno o piu' dei provvedimenti di cui all'articolo 342-ter del codice civile. 15. Nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. L'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell'unione civile, la quale puo' presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa. 16. La violenza e' causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell'altra parte dell'unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui. 17. In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennita' indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono corrispondersi anche alla parte dell'unione civile. 18. La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell'unione civile. 19. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonche' gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 del codice civile. 20. Al solo fine di assicurare l'effettivita' della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonche' negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonche' alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti. 21. Alle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile. 22. La morte o la dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell'unione civile ne determina lo scioglimento. 23. L'unione civile si scioglie altresi' nei casi previsti dall'articolo 3, numero 1) e numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898. 24. L'unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volonta' di scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell'unione civile e' proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volonta' di scioglimento dell'unione. 25. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 4, 5, primo comma, e dal quinto all'undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nonche' le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 1621. 26. La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso 2. 27. Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volonta' di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. 28. Fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge, il Governo e' delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni3; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l'applicazione della disciplina dell'unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all'estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo4; c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti5. 29. I decreti legislativi di cui al comma 28 sono adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'interno, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. 30. Ciascuno schema di decreto legislativo di cui al comma 28, a seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri, e' trasmesso alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perche' su di esso siano espressi, entro sessanta giorni dalla trasmissione, i pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia. Decorso tale termine il decreto puo' essere comunque adottato, anche in mancanza dei pareri. Qualora il termine per l'espressione dei pareri parlamentari scada nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto dal comma 28, quest'ultimo termine e' prorogato di tre mesi. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono essere comunque adottati. 31. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascun decreto legislativo adottato ai sensi del comma 28, il Governo puo' adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al citato comma 28, con la procedura prevista nei commi 29 e 30. 32. All'articolo 86 del codice civile, dopo le parole: «da un matrimonio» sono inserite le seguenti: «o da un'unione civile tra persone dello stesso sesso». 33. All'articolo 124 del codice civile, dopo le parole: «impugnare il matrimonio» sono inserite le seguenti: «o l'unione civile tra persone dello stesso sesso». 34. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile nelle more dell'entrata in vigore dei decreti legislativi adottati ai sensi del comma 28, lettera a)6. 35. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 34 acquistano efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge. 36. Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinita' o adozione, da matrimonio o da un'unione civile. 37. Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 38. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. 39. In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonche' di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. 40. Ciascun convivente di fatto puo' designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacita' di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalita' di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. 41. La designazione di cui al comma 40 e' effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilita' di redigerla, alla presenza di un testimone. 42. Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni (B). 43. Il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto. 44. Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facolta' di succedergli nel contratto. 45. Nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parita' di condizioni, i conviventi di fatto. 46. Nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l'articolo 230-bis e' aggiunto il seguente: « Art. 230-ter (Diritti del convivente). - Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonche' agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di societa' o di lavoro subordinato». 47. All'articolo 712, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto». 48. Il convivente di fatto puo' essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all'articolo 404 del codice civile. 49. In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. 50. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. 51. Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullita', con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformita' alle norme imperative e all'ordine pubblico. 52. Ai fini dell'opponibilita' ai terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 53. Il contratto di cui al comma 50 reca l'indicazione dell'indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto puo' contenere: a) l'indicazione della residenza; b) le modalita' di contribuzione alle necessita' della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacita' di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. 54. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza puo' essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalita' di cui al comma 51. 55. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignita' degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza. 56. Il contratto di convivenza non puo' essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti. 57. II contratto di convivenza e' affetto da nullita' insanabile che puo' essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso: a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza; b) in violazione del comma 36; c) da persona minore di eta'; d) da persona interdetta giudizialmente; e) in caso di condanna per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile. 58. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento. 59. Il contratto di convivenza si risolve per: a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti. 60. La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51. Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza. 61. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l'atto e' tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all'altro contraente all'indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilita' esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullita', deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione. 62. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all'altro contraente, nonche' al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto di matrimonio o di unione civile. 63. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l'estratto dell'atto di morte affinche' provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l'avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza. 64. Dopo l'articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, e' inserito il seguente: «Art. 30-bis (Contratti di convivenza). - 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza e' prevalentemente localizzata. 2. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima». 65. In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del codice civile. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati ai sensi dell'articolo 433 del codice civile, l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma e' adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle. 66. Agli oneri derivanti dall'attuazione dei commi da 1 a 35 del presente articolo, valutati complessivamente in 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, in 6,7 milioni di euro per l'anno 2017, in 8 milioni di euro per l'anno 2018, in 9,8 milioni di euro per l'anno 2019, in 11,7 milioni di euro per l'anno 2020, in 13,7 milioni di euro per l'anno 2021, in 15,8 milioni di euro per l'anno 2022, in 17,9 milioni di euro per l'anno 2023, in 20,3 milioni di euro per l'anno 2024 e in 22,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, si provvede: a) quanto a 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, a 1,3 milioni di euro per l'anno 2018, a 3,1 milioni di euro per l'anno 2019, a 5 milioni di euro per l'anno 2020, a 7 milioni di euro per l'anno 2021, a 9,1 milioni di euro per l'anno 2022, a 11,2 milioni di euro per l'anno 2023, a 13,6 milioni di euro per l'anno 2024 e a 16 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307; b) quanto a 6,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2017, mediante corrispondente riduzione delle proiezioni, per gli anni 2017 e 2018, dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2016-2018, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2016, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero. 67. Ai sensi dell'articolo 17, comma 12, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei dati comunicati dall'INPS, provvede al monitoraggio degli oneri di natura previdenziale ed assistenziale di cui ai commi da 11 a 20 del presente articolo e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze. Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 66, il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere risultante dall'attivita' di monitoraggio, delle dotazioni finanziarie di parte corrente aventi la natura di spese rimodulabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nell'ambito dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 68. Il Ministro dell'economia e delle finanze riferisce senza ritardo alle Camere con apposita relazione in merito alle cause degli scostamenti e all'adozione delle misure di cui al comma 67. 69. Il Ministro dell'economia e delle finanze e' autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
------------------------------------------------ (A) Vedi la Circolare del Ministero dell'Interno 1° giugno 2016 , n. 7 e la Circolare del Ministero dell'Interno 5 agosto 2016, n. 3511. (B) In riferimento al presente comma vedi la Risposta Agenzia delle Entrate 12 ottobre 2018, n. 37. - In riferimento alla Dichiarazione di successione e diritto di abitazione vedi: Risposta Agenzia delle Entrate 04/11/2019 n. 463. [1] Comma sostituito dall'articolo 29, comma 6, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197. [2] La Corte Costituzionale, con sentenza 22 aprile 2024, n. 66, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile senza prevedere, laddove l’attore e l’altra parte dell’unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. [3] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5. [4] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7. [5] In riferimento alla presente lettera vedi i D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5 e D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6. [6] Per il regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile, ai sensi del presente comma vedi il D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144. InquadramentoLa l. 20 maggio 2016, n. 76 prevede e regolamenta due diverse tipologie di relazioni affettive tra due persone e ciò, come risulta dalla stessa intitolazione, da un lato le unioni civili e dall'altro le convivenze proprie sia di coppie di sesso diverso, sia dello stesso sesso. Ne consegue che alle coppie dello stesso sesso può essere applicata la disciplina che riguarda le unioni civili e le convivenze, mentre alle coppie eterosessuali solo quella che riguarda le convivenze. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza, redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un Notaio o da un Avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico. Ai fini dell'opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica, o ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 dell'art. 1 della l. n. 76/2016, deve trasmetterlo al Comune di residenza della coppia, entro dieci giorni, per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli artt. 5 e 7 del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223. Secondo la giurisprudenza di merito rappresenta un diritto per il parter extracomunitario di un cittadino del comune di ottenere il riconoscimento della convivenza di fatto, mediante l'iscrizione nelle liste anagrafiche del Comune di residenza e la registrazione del patto di convivenza, purché sia stata validamente accertata (Trib. Salerno, ordinanza del 16 novembre 2023). I primi commentatori hanno rilevato come la previsione per le convivenze del contratto di convivenza non fornisca una risposta organica e soddisfacente dell'istituto, sostanzialmente affidato alla regolamentazione pattizia, e quindi privo di disciplina organica. Con la l. n. 76/ 2016, ai conviventi di fatto il legislatore ha assicurato la tutela di diritti già riconosciuti dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, intervenuta per garantire parità di trattamento tra i rapporti fondati sul matrimonio e le convivenze more uxorio. La l. n. 76/ 2016 (art. 1, commi 38-49) prevede i seguenti diritti dei conviventi: a) I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. b) In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza, nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. c) Ciascun convivente di fatto può designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati; in caso di malattia che comporta incapacità di intendere o di volere, per le decisioni in materia di salute; in caso di morete, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie; d) Salvo quanto previsto dall'art. 337-sexies c.c., in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni. e) Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato (art. 230-bis c.c.). f) Il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all'art. 404 c.c. Diritti nei casi previsti dall'ordinamento penitenziarioIl comma 38 recepisce alcuni principi stabiliti dalla legislazione penitenziaria che assicurano al convivente l'esercizio di alcuni diritti, espressione del tentativo di recupero del condannato che non può prescindere dal mantenimento di legami affettivi. La legge 26 luglio 1975, n. 354, rappresenta una carta dei diritti del detenuto. In particolare l'art. 15 stabilisce che il trattamento del condannato e dell'internato deve agevolare i «rapporti con la famiglia» e, all'art. 28, prescrive che «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie». In passato vi era stata una interpretazione non riduttiva di alcune disposizioni, come l'art. 18 della l. n. 354/ 1975, consentendosi i colloqui ai conviventi more uxorio, ai compagni del detenuto in ipotesi di stabile rapporto, anche di tipo omosessuale, ma che ai fidanzati, ai padri spirituali come l'allenatore, il professore, il parroco, il confessore. Con la legge n. 76/ 2016, i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario, che in sostanza erano già riconosciuti. È così, per esempio, per quanto riguarda i colloqui (art. 37 legge n. 354/1975), anche in caso di sorveglianza speciale (art. 14-quater legge n. 354/1975), e nel contesto del regime del c.d. carcere duro (art. 41-bis legge n. 354/1975); la corrispondenza telefonica (art. 39 o.p.); i permessi al detenuto/a per far visita al coniuge o convivente in imminente pericolo di vita o comunque in casi di particolare gravità (art. 30 legge n. 354/1975), ovvero affetto da grave disabilità (art. 21-ter legge n. 354/1975); l'invio di parte del peculio da parte del detenuto (art. 25 legge n. 354/1975, art. 57 d.P.R. n. 230/2000). Si tratta di una affermazione certamente importante sul piano di principio, che però, abbiamo visto, non ha portata innovativa. L'ordinamento penitenziario, infatti, parifica già oggi a diversi effetti i diritti del convivente a quelli del coniuge. L'efficacia innovativa della disposizione sembra limitata all'art. 57 legge n. 354/1975, che estende la legittimazione alla richiesta di alcune misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, liberazione anticipata), ai «prossimi congiunti» del condannato (compreso pertanto il «coniuge», a mente della definizione legale di cui all'art. 307, comma 4, c.p.) adesso quindi al convivente, emerge chiaramente un difetto di coordinamento tra la prassi interpretativa anteriore e la legge n. 76 del 2016 che, anche ai fini dell'esercizio dei diritti riconosciuti dall'ordinamento penitenziario, richiede non una convivenza qualunque, ma una convivenza qualificata dal possesso dei requisiti di cui al comma 36 dell'art. 1. In tema di equiparazione di diritti, con riferimento al processo penale, va segnalato che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza Cass. S.U. n. 10381/2021 si è pronunciata positivamente sull'applicabilità dell'art. 384 comma 1 c.p.c. anche ai conviventi. La disposizione prevede la non punibilità, rispetto ad alcuni delitti contro l'amministrazione della giustizia, di coloro che abbiano posto in essere illeciti ‘per essere stati costretti dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile noncumento nella libertà o nell'onore' . Il convivente malato: diritti e doveri nelle convivenze di fattoTra i diritti più attesi in tema di rapporti tra conviventi, vi erano senza dubbio quelli riguardanti l'assistenza reciproca in caso di malattia Anche con riferimento a questa specifica previsione non sono ravvisabili contenuti innovativi significativi. Va detto però che prima dell'entrata in vigore della legge n. 76/2016 al convivente more uxorio non era riconosciuto né il diritto di assistere il proprio partner ricoverato in una struttura sanitaria, né di ottenere informazioni sullo stato di salute di quest'ultimo. Non erano rari i casi di conviventi di pazienti ricoverati, trattati come estranei da medici ed infermieri o addirittura allontanati dalle corsie, qualora ciò fosse stato richiesto dai familiari «legittimi» del ricoverato. Ovviamente, situazioni del genere non sorgevano quando il convivente ricoverato fosse stato in grado di manifestare la propria volontà. Problemi potevano sorgere, di contro, quando il malato, per cause oggettive legate alla propria condizione psico-fisica, non fosse stato più in grado di manifestare la propria volontà di avere accanto il partner, né lo avesse fatto in precedenza in forma scritta o dinanzi a testimoni. In tale ipotesi, il convivente non poteva avanzare alcun diritto di fare visita e/o di assistere il proprio compagno, né tanto più di avere informazioni circa i trattamenti terapeutici cui era sottoposto o di accedere alla sua cartella clinica. Con le disposizioni in tema di diritto all'assistenza introdotte dalla l. n. 76/2016, il legislatore ha finalmente colmato un grave vuoto di tutela, allineandosi a quello che è il comune sentire della società. In tema di diritti dei conviventi in caso di malattia, ricovero e morte a disporre sono gli artt. 82 e 83 del d.lgs. n. 196/2003. La prima disposizione stabilisce che, nel caso in cui l'informazione ed il consenso ad un trattamento sanitario possano intervenire solo successivamente alla prestazione sanitaria, che, senza ritardo, si possa acquisire il consenso da alcuni terzi specificamente individuati: il rappresentante legale, il prossimo congiunto, un familiare o un convivente di colui che ha ricevuto la prestazione (o in assenza il responsabile della struttura presso cui dimora chi ha ricevuto la prestazione). Sono richiamate dalla norma categorie di soggetti che non trovano specifica rispondenza con gli istituti codificati dal codice civile, il quale non menziona, infatti, i prossimi congiunti, né i familiari. Il convivente che prima della legge veniva individuato sulla base delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza è ora il soggetto legittimato in ragione del vincolo riconosciuto ai sensi dell'art. 1, comma 36. L'art. 83 del codice della privacy si occupa, invece, delle misure da adottare durante la somministrazione di prestazioni sanitarie. Tali misure sono ispirate alla finalità cautelativa e precauzionale finalizzata ad evitare che persone non legittimate vengano a conoscenza di dati sanitari del malato. In tema di spese sanitarie, la legge Cirinnà non ha esteso i benefici riferiti al coniuge anche al convivente. Pertanto, le spese sanitarie del convivente non sono detraibili . L' Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 7 del 2021, ha chiarito che: “ Il convivente non può fruire della detrazione relativa alle spese sostenute nell'interesse dell'altro convivente”. Una eccezione riguarda le spese di recupero del patrimonio edilizio, che al contrario possono essere detratte. La disponibilità dell'immobile, sulla base della convivenza, consente la possibilità di beneficiare dell'agevolazione. La Circolare dispone, infatti, che “ Il convivente di fatto che sostiene le spese di recupero del patrimonio edilizio, nel rispetto delle condizioni previste dal richiamato art. 16 bis del TUIR, può, quindi, fruire della detrazione alla stregua di quanto chiarito per i familiari conviventi. Così, ad esempio, può beneficiare della detrazione anche per le spese sostenute per interventi effettuati su una delle abitazioni nelle quali si esplica il rapporto di convivenza, anche se diversa dall'abitazione principale della coppia”. Il Garante della Privacy con provvedimento del 9 novembre 2005 (1191411), ha chiarito chi sono i soggetti legittimati a ricevere notizie o conferme su prestazioni di pronto soccorso che riguardano il familiare, il prossimo congiunto, il convivente o il sottoposto a tutela che ha dato disposizioni in ordine alle modalità attraverso le quali i sanitari possono informare i terzi in occasione del ricovero. Conviventi di fatto e diritto reciproco di assistenza. L'art. 1 comma 39 della Legge n. 76/2016 stabilisce che in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita e di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole previste dai regolamenti ospedalieri o delle strutture di assistenza pubbliche, previste per i coniugi e i familiari. In tale ambito, come in pochi altri, la Legge n. 76/2016 ha equiparato i conviventi di fatto ai coniugi, dovendosi però rilevare come il legislatore abbia attribuito ai conviventi di fatto unicamente il diritto all'assistenza reciproca, ma non l'obbligo reciproco di assistenza. La Legge n. 76/2016, all'art. 1 comma 36, nel fornire la definizione di convivenza di fatto fa riferimento a due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale. Diverso il discorso per le unioni civili, per le quali il legislatore ha previsto espressamente l'obbligo giuridico reciproco di assistenza morale e materiale (art. 1 comma 11 legge n. 76/2016). Alla luce di ciò, può affermarsi che la previsione normativa contenuta nell'art. 1 comma 39 è volta a tutelare il convivente nei confronti di quei terzi che avrebbero potuto (legittimamente) escluderlo dalla possibilità di assistere il convivente malato. In seguito a questa disposizione, non è più necessario per il convivente, al fine di poter far visita al proprio convivente, il consenso dei parenti di quest'ultimo. Conviventi di fatto e diritto di accesso alle informazioni. Il comma 39 dell'art. 1 l. n. 76/2016 ha introdotto anche il diritto di accesso alle informazioni personali del convivente malato, quindi il diritto di chiedere ed ottenere informazioni dal personale medico ed infermieristico sulle condizioni di salute e sui trattamenti sanitari in corso o da intraprendere. Anche sotto tale profilo, i conviventi sono stati equiparati ai coniugi e ai familiari ed infatti la Legge 76/2016 prevede che il diritto di informazione possa essere esercitato secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. Come si è detto sopra, la disposizione non introduce novità rilevanti, atteso che il Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) prevedeva, all'art. 84 comma 1, che i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute potessero essere resi noti all'interessato o ai soggetti di cui all'articolo 82, comma 2, lettera a), tra cui era espressamente contemplato il convivente. Tale previsione era diretta al personale sanitario, nel senso di indicargli i soggetti cui sono legittimati a fornire informazioni sanitaria, nel senso che era prevista una facoltà di informazione, senza tuttavia prevedere un corrispondente diritto dei conviventi ad ottenere tali informazioni. Di conseguenza, i medici erano autorizzati a fornire dati sanitari solo alle persone espressamente indicate dal paziente, salvo che il paziente fosse in pericolo di salute o di vita. Diritto di accesso alla cartella clinica del convivente di fatto. Un caso particolare di accesso alle informazioni sanitarie è rappresentato dall'accesso alla cartella clinica del convivente, che non sembra rientrare nella previsione della l. n. 76/2016. L'argomento è strettamente ricollegato al più generale diritto di accesso agli atti amministrativi (disciplinata dagli artt. 22 ss. l. n. 241/1990) e al regime del trattamento dei dati personali in ambito sanitario, contenuta nel Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n. 196 agli artt. 7,9,60,82 e 92. Come più volte affermato dalla giurisprudenza, la cartella clinica ha natura di atto pubblico ed è caratterizzata dalla produttività di effetti incidenti su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica (Cass. pen. V, n. 42917/2011) Le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un'azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 c.c. e segg. (Cass. n. 27471/2017). Tra i casi maggiormente dibattuti in giurisprudenza vi è la richiesta di accesso alla cartella sanitaria promossa dal convivente al fine di valutare la capacità di intendere e di volere del defunto testatore. L'art. 9 d.lgs. n. 196/2003 regola compiutamente ed esaustivamente la questione del trattamento dei dati personali delle persone decedute, giacché indica chi può esercitare l'insieme dei diritti previsti dall'art. 7 dello stesso Codice, che, nel disciplinare il trattamento dei dati medesimi, considera non solo le posizioni soggettive di chi può esercitare il diritto di accesso, ma anche quello di chi può opporsi ad esso (Cons. St.III, n. 3459/2012). I diritti di cui all'art. 7 riferiti a dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione. L'art. 92 d.lgs. n. 196/2003 consente l'accesso alla cartella clinica e all'acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall'interessato, solo se giustificato dalla documentata necessità: a) di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria di rango pari a quello dell'interessato, cioè consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell'interessato, in altre parole consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. L'Autorità Garante per la protezione dei dati personali, già nel 2009, aveva espresso il parere secondo cui il convivente del defunto ha diritto di ottenere copia della cartella clinica e dei referti diagnostici del deceduto, anche contro il parere dei parenti (Autorità Garante per la protezione dei dati personali, decisione del 19 settembre 2009). Nella specie, il convivente di una donna deceduta durante una degenza ospedaliera aveva richiesto copia della cartella clinica al fine di intraprendere un giudizio per responsabilità professionale medica, ritenendo che il decesso del convivente fosse stato determinato da imperizia medica, precisando nella richiesta di essere stato espressamente autorizzato dal proprio compagno quando era in vita.. L'ospedale aveva negato l'accesso per motivi di privacy, in ottemperanza ad un regolamento interno dell'ospedale secondo cui in caso di morte di un paziente, copia della documentazione sanitaria ad esso riferita, può essere rilasciata esclusivamente ai prossimi congiunti, tra i quali non rientravail convivente, oltre al fatto che i parenti della vittima avevano proprio negato l'accesso. Precisa, infatti, il Garante che — a prescindere da un'autorizzazione specifica — il diritto di accesso ai dati sensibili di persone defunte spetta a tutti coloro i quali abbiano un proprio interesse alla conoscenza dei dati, o per ragioni familiari meritevoli di protezione, secondo quanto previsto dall'art. 9 comma 3 del Codice per la protezione dei dati personali. E, continua l'Autorità, a nulla rileva l'opposizione dei parenti che vogliano ostacolare l'accesso ai dati sensibili, posto che il Codice per la protezione dei dati personali non prevede in nessun punto che sia richiesto il parere degli altri legittimati né alcuna forma di autorizzazione. In una recente sentenza, il Tar ha dichiarato che è diritto del coniuge visionare ed estrarre copia di tutta la documentazione facente parte della cartella clinica del marito malato, non potendo la casa di cura opporre alcun diritto alla riservatezza, né l'obiezione di non essere una Pubblica Amministrazione, e ciò ancor più qualora tra i coniugi sia in corso in giudizio di separazione fondato sulla pretesa malattia del coniuge (T.A.R. Lazio, III quater, 15 dicembre 2014 n. 12583). In tema di accesso ai documenti amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto privato ponga in essere un'attività che corrisponda ad un pubblico interesse affinché lo stesso assuma la veste di Pubblica Amministrazione e, come tale, sia assoggettato alla specifica normativa dettata dalla l. 7 agosto 1990 n. 241 in materia in accesso (Cons. St. V, n. 4923/2013; T.A.R. Trento I, 12 ottobre 2012, n. 305). Altri diritti del convivente di fatto in ambito medico. In ambito medico-sanitario, un altro limitato riconoscimento al convivente more uxorio era già stato introdotto dalla legge in tema di espianto degli organi (Legge 1 aprile 1999 n. 91) laddove aveva previsto che all'inizio del periodo di osservazione ai fini dell'accertamento di morte (ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578, e del decreto del Ministro della sanità 22 agosto 1994, n. 582) i medici delle strutture ospedaliere erano tenuti a fornire informazioni sulle opportunità terapeutiche per le persone in attesa di trapianto nonché sulla natura e sulle circostanze del prelievo al coniuge non separato o al convivente more uxorio o, in mancanza, ai figli maggiori di età o, in mancanza di questi ultimi, ai genitori ovvero al rappresentante legale. Si trattava, però soltanto di un diritto ad essere informati. La questione emersa nella prassi riguardava la possibile per il convivente di essere designato ad esprimere le volontà del compagno riguardanti la destinazione del proprio cadavere. Potere di rappresentanza del convivente di fatto in caso di malattia e di morteLa novella all'art. 1 comma 40 oggi prevede la facoltà per ogni convivente di fatto di designare l'altro quale proprio rappresentante per le decisioni in materia di salute nelle seguenti ipotesi: a) malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie .I commi 40 e 41 si occupano delle dichiarazioni anticipate con cui un convivente designa direttamente l'altro quale soggetto legittimato a prendere per suo conto decisioni di carattere strettamente personale che egli sia impossibilitato ad assumere in proprio, a causa di sopravvenuta incapacità naturale o a causa di suo decesso. Prima della recente approvazione in via definitiva del ddl. n. 2801 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, la dottrina ha espresso perplessità sulla possibilità se le disposizioni di cui ai commi citati consentissero anche l'indicazione di manifestazione di volontà specificamente finalizzate a vincolare l'esecuzione o l'astensione da un determinato atto in presenza di ben precise circostanze. Quanto all'ambito di estensione del potere di rappresentanza in caso di malattia, il legislatore fa riferimento genericamente alle «decisioni in materia di salute», senza indicarle in via tassativa. L'indirizzo prevalente ritiene che al rappresentante possano essere attribuiti poteri riguardanti: - interventi chirurgici - terapie - scelta del medico - scelta della struttura sanitaria - cure farmacologiche. Tale previsione sembra coincidere con la cosiddetta «procura sanitaria» con la quale verrebbe garantita al firmatario la facoltà di indicare la persona alla quale intenda delegare la decisione sui trattamenti sanitari o terapeutici cui possa essere sottoposto, sempre per il caso in cui egli stesso non sia più in condizione di compiere direttamente la scelta. La disciplina non è molto chiara, perché va posta l'attenzione sulla scelta dell'istituto della rappresentanza per comprendere quali possano essere i poteri del convivente designato. Si potrebbe ritenere sussistere una rappresentanza volontaria molto vicina a quella del tutore, che interviene agendo in nome e per conto di chi, «in condizioni di abituale infermità di mente», risulti incapace di provvedere ai propri interessi (art. 414 c.c.) « in tutti gli atti civili e ne amministra i beni» (art. 357 c.c.). Problematica è apparsa subito la questione se sia possibile o meno far rientrare nel potere di rappresentanza del convivente anche le scelte di fine vita (es. rifiuto ai trattamenti di sostegno vitale e alle cure palliative), ma alla luce della recente riforma in tema di direttive anticipate, si deve ritenere che il convivente possa esprimere certamente le volontà del compagno. In caso di morte, l'ambito di estensione dei poteri di rappresentanza del convivente è, invece, indicato in modo tassativo. Esso è esteso a: 1) donazione degli organi 2) modalità di trattamento del corpo (es: cremazione, sepoltura, ecc.) 3) celebrazioni funerarie (es: rito religioso o laico, ecc.). Con specifico riferimento alla donazione di organi, in assenza di indicazioni da parte dell'interessato, deve valere quanto disposto dall'art. 3 l. 1 aprile 1999, n. 91, il quale prevede che, all'inizio del periodo di osservazione ai fini dell'accertamento della morte, i medici forniscano informazioni sulle opportunità terapeutiche per le persone in attesa di trapianto nonché sulla natura e sulle circostanze del prelievo al coniuge non separato o al convivente more uxorio. Il potere di rappresentanza attribuito al convivente può essere pieno o limitato, nel senso che nell'atto di designazione il convivente può impartire le proprie direttive o delegare in toto al convivente le scelte, oppure ancora limitare il potere di quest'ultimo solo a determinate questioni. Per quanto concerne le formalità, l'art. 1 comma 41 l. n. 76/2016 richiede la forma scritta e la sottoscrizione del disponente. Non è richiesta l'autentica. Nell'ipotesi in cui non sia possibile redigere una procura scritta, ad esempio per incapacità a muoversi o per mancanza di tempo in caso di emergenze, la designazione può anche essere fatta alla presenza di un testimone. Sarà sufficiente in questo caso la forma orale e, ai fini probatori, la dichiarazione di un testimone per provare che un convivente abbia designato l'altro quale rappresentante delle proprie volontà. La designazione del convivente quale rappresentante configura un'ipotesi di procura, ossia di negozio unilaterale e recettizio. La nomina del rappresentante attribuisce a quest'ultimo unicamente poteri e non obblighi giuridici. Ovviamente, si pone il problema di chi possa validamente prendere decisioni in materia di salute, nel caso in cui non sia stato possibile designare un rappresentante in nessuna delle modalità previste, ed il convivente malato non sia più nelle condizioni psico-fisiche per farlo. In tale situazione, sarebbe possibile agire con un'istanza di nomina di amministratore di sostegno, che potrà essere validamente depositata dal convivente del malato. La questione delle direttive anticipate di trattamento (c.d. testamento biologico) La possibilità, prevista dal comma 40 dell'art. 1 l. n. 76/2016, di nominare il proprio convivente quale rappresentante con poteri pieni o limitati sulle decisioni in materia di salute, si collega al tema delle direttive anticipate di trattamento (c.d. testamento biologico). Con l'espressione «testamento biologico» s'intende la dichiarazione con la quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Dal 31 gennaio 2018 (legge 2 dicembre 2017, n. 219) è entrata in vigore in Italia la legge sul testamento biologico. È espressione della volontà da parte di una persona, ancora capace di intendere e volere, di decidere in merito alle terapie che intende o non intende accettare nel caso di trovi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di consentire o alle cure . La legge prevede la possibilità di nominare un fiduciario che sostituisca il disponente divenuto incapace nei rapporti con i medici e la struttura sanitaria, eventualmente consentendo di disattenderle, di concerto con il medico, solo nel caso in cui appaiano palesemente incongrue, non siano corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, siano sopravvenute terapie non prevedibili alla data della redazione del testamento biologico. Il principio generale al quale il contenuto delle dichiarazioni anticipate dovrebbe ispirarsi può essere così formulato: ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri, anche in modo anticipato, in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale. Si tratta di un diritto inviolabile sancito dall'articolo 32 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. In tema, l'art. 9 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo del 1997 stabilisce che sono tenuti in considerazione i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà (Legge 28 marzo 2001, n. 145). Ratifica ed esecuzione della “Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano” riguardo all'applicazione della biologia e della medicina: “Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina”, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, nonché del “Protocollo addizionale del 12 gennaio 1998, n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani”). L'art. 38 del Codice di Deontologia Medica prevede che il medico tenga conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un'informazione medica, di cui resti traccia documentale. Il Codice di Deontologia prevede, tuttavia, una serie di temperamenti al dovere del medico di attenersi alle direttive dei pazienti, prevedendo che sia comunque tenuto a verificare la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto, ispirando la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente. Il medico coopera con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente giudizio previsto dall'ordinamento e, riguardo alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili. Prima delle novità introdotte con la legge n. 219 del 2017, la giurisprudenza di merito si era già espressa in tema di disposizioni anticipate. Si segnalano a tal fine due provvedimenti emessi dal Giudice Tutelare del Tribunale di Modena, che hanno confermato la possibilità di rilasciare disposizioni anticipate tramite la nomina di un amministratore di sostegno. Le decisioni concernono, entrambe, il caso di coniugi, ma i principi in essi espressi potrebbero validamente essere applicati anche tra conviventi ed uniti civilmente. Con il decreto depositato il 5 novembre 2008, il Giudice Tutelare di Modena accoglieva la richiesta di un uomo che, ancora in buone condizioni di salute, aveva chiesto di nominare la moglie «proprio amministratore di sostegno», vale a dire «garante delle sue volontà di fine vita», per il caso di malattia invalidante. Con il decreto del 13 maggio 2008, lo stesso Giudice Tutelare accoglieva la richiesta di una donna, intenzionata a rifiutare ogni cura che potesse prolungare le sue sofferenze, di nominare il marito amministratore di sostegno, in altre parole una persona autorizzata a decidere in caso di perdita delle facoltà intellettive. La donna era affetta da una malattia incurabile (sclerosi laterale amiotrofica) e aveva comunicato al marito e ai figli di non volere interventi né accanimenti terapeutici rifiutando, quindi, anche la respirazione artificiale. Secondo il giudice tutelare, il dissenso del paziente a determinate cure poteva essere espresso anche da un diverso soggetto, indicato dallo stesso paziente quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l'esistenza del proprio potere rappresentativo, confermi tale dissenso all'esito della ricevuta informazione da parte dei medici. Testamento biologico ed eutanasia Il discorso del testamento biologico si collega a quello, molto dibattuto, dell'eutanasia. Con tal espressione s'intende l'atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo, la cui qualità di vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica. Nel nostro ordinamento vige il principio dell'indisponibilità della vita umana, tutelato dalla codificazione di precise ipotesi di reato, in questo modo manifestandosi una propensione per un modello repressivo verso ogni forma di lesione. In tale contesto entra però in gioco il discorso dell'autodeterminazione del paziente e del consenso alle cure, potendosi quindi ritenere possibile esprimere consensi o indicazioni anticipate. L'art. 32, comma 2 Cost. espressamente stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Tale irrinunciabile principio è riconosciuto anche dall'art. 5 della Convenzione di Oviedo, laddove stabilisce che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. L'art. 35 del Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre 2006, precisa che alla presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Tale disposizione si scontra, però con l'art. 17 del medesimo Codice di Deontologia Medica, il quale statuisce che il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte. Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica sul consenso informato rileva che nonostante la sofferenza del sanitario che vede morire il proprio assistito senza poter espletare l'atto terapeutico probabilmente risolutivo, egli deve ispirare il proprio comportamento al principio secondo cui il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico, non essendo consentito alcun trattamento sanitario contro la volontà del paziente. Nel nostro ordinamento, la condotta di chi pratichi l'eutanasia è sanzionata penalmente dall'art. 529 c.p., secondo cui chiunque cagiona la morte di un uomo, con il suo consenso, commette il reato di omicidio del consenziente. Più in particolare è configurabile il reato di omicidio volontario nel caso in cui manchi la prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima (Cass. pen. I, n. 43954/2010). Il rilievo penale dell'eutanasia passa anche attraverso altre norme specifiche del nostro codice penale. Oltre all'art. 50 c.p. (sulla scriminante del consenso dell'avente diritto), all'art. 62 c.p. (sull'attenuante per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale), all'art. 575 c.p. (sull'omicidio in generale), spicca l'art. 590 c.p. (aiuto ed istigazione al suicidio). Tutte le condotte, quali l'omicidio comune, del consenziente, l'aiuto al suicidio, possono, ai sensi dell'art. 40 c.p., configurarsi con modalità omissive, in presenza di un obbligo giuridico di attivarsi in capo ai terzi per evitare la morte del soggetto passivo. Un problema si pone per quanto concerne l'alimentazione con sondino naso-gastrico attuata nei confronti di pazienti in stato vegetativo, per il quale si discute circa la natura terapeutica o di sostegno vitale. Secondo il Comitato Nazione di Bioetica detto trattamento, così come la ventilazione artificiale, non avrebbe natura terapeutica, ma avrebbe un'ordinaria forma di assistenza. L'alimentazione e le ventilazioni artificiali, infatti, sono finalizzate non alla cura di una malattia, ma al soddisfacimento di bisogni primari del paziente, incapace di provvedervi autonomamente. La sospensione dell'alimentazione o della ventilazione artificiale, quindi, non potendo definirsi come l'accanimento terapeutico, senza consenso del paziente, configura un'eutanasia attiva, e quindi una condotta illecita. La Corte di Cassazione, in una storica sentenza del 2007, sulla dolorosa vicenda di Eluana Englaro, ha riconosciuto le rilevanza alle direttive anticipate di vita, precisando che ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice — fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente — può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente alla compresenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa (Cass. n. 21748/2007). Il principio espresso dalla Collegio è che nel caso in cui un soggetto adulto non sia in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, si deve dare valore alla ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza, ricostruita alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell'integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza. In mancanza di dichiarazioni anticipate, è stata riconosciuta validità all'attività del rappresentante giacché rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all'identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Il confine tra accanimento terapeutico ed eutanasia nelle sue varie forme è sottile e può essere così schematizzato: 1) eutanasia passiva consensuale (es. sospensione delle cure): è da ritenersi lecita solo in presenza di un dissenso del paziente verso le terapie consapevole ed attuale. Non dovrebbero valere a rendere lecita tale forma di eutanasia né il consenso presunto, né quello prestato dall'eventuale tutore o rappresentante legale, né, tantomeno, fino ad oggi, il c.d. testamento biologico. In tali ipotesi di configura, dunque, una normale ipotesi di eutanasia passiva non consensuale illecita, e sanzionabile come omicidio comune, nella forma passiva, ex art. 40 c.p., trovandosi il medico in una situazione di obbligo giuridico di impedire l'evento. 2) eutanasia indiretta. È da ritenersi lecita solo se, senza il dissenso del paziente, sulla scorta delle valutazioni del caso concreto, possa ritenersi rientrante nel dovere curativo del medico somministrare cure palliative a costo di accorciare la vita del paziente. Ciò occorre quando la terapia del dolore risulta proporzionata all'esigenza di alleviare quest'ultimo. Ove tali condizioni non avvengano, si configurerà una responsabilità penale per omicidio comune, ex art. 575 c.p. La sospensione dell'accanimento terapeutico è sempre lecita, essendo illecito l'accanimento stesso. A livello di legislazione sovra nazionale, ci si domanda se, accertato che un paziente si trovi in uno stato neurovegetativo cronico, anche nel caso in cui non abbia reso per iscritto le proprie volontà, può essere autorizzata la sospensione delle cure (nella specie idratazione e nutrimento con sondino naso gastrico), previo accertamento delle sue volontà espresse quando era in grado di intendere e di volere, senza che ciò costituisca violazione dell'art. 2 CEDU (Diritto alla vita) (Fasano, Il diritto alla «buona morte» e la Corte EDU: l'Affaire Lambert e et autres c. France, in Ilfamiliarista.it.). La Corte EDU si è pronunciata di recente sulla delicata vicenda di Vincent Lambert, caduto in un accertato stato vegetativo cronico in seguito ad un incidente stradale (Corte EDU, 5 giugno 2015 n. 48043/14). La vicenda giudiziaria è complessa perché la volontà della moglie di Vincent e quella dei genitori sono contrastanti. Il 9 maggio 2013, infatti, i genitori di Lambert si rivolgono al Tribunale amministrativo per assicurare l'alimentazione e l'idratazione normale di Vincent. La moglie, invece, ritiene necessario rispettare la volontà del marito, che in vita avrebbe manifestato il desiderio di non essere tenuto in vita. Il 24 giugno del 2014, il Consiglio di Stato Francese si pronuncia a favore dell'interruzione dei trattamenti medici che tengono in vita Lambert, accogliendo le richieste della moglie. Avverso questa decisione i genitori di Lambert decidono di appellarsi alla Corte EDU, sostenendo che l'eutanasia del proprio figlio violerebbe l'art. 2 CEDU. In estrema sintesi la sentenza della Corte di Strasburgo afferma che spetta alle autorità nazionali sia verificare la compatibilità della decisione di sospendere il trattamento con la normativa nazionale e la CEDU, sia chiarire la volontà del paziente conformemente al diritto nazionale. Inoltre, atteso che non esiste consenso tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa sull'interruzione dei trattamenti che mantengano artificialmente in vita, è opportuno concedere ai Governi un certo margine di discrezionalità in materia. Secondo la Corte, considerato che la normativa francese contro l'accanimento terapeutico delinea un quadro sufficientemente chiaro della materia e ritenuto che la stessa è stata correttamente interpretata e applicata dal Consiglio di Stato, con l'attuazione della citata decisione del Consiglio non si configurerebbe una violazione dell'art. 2 CEDU (diritto alla vita). La vicenda di Vincent Lambert integra un caso di eutanasia passiva consensuale (c.d. sospensione delle cure), che è da ritenersi lecita solo in presenza di un dissenso, espresso dal paziente verso le terapie, consapevole ed attuale. Non dovrebbero valere a rendere lecita tale forma di eutanasia né il consenso presunto, né quello prestato dall'eventuale tutore o rappresentante legale, né, tanto meno, fino ad oggi, il c.d. testamento biologico. In tale ipotesi si configura, dunque, una normale ipotesi di eutanasia passiva non consensuale illecita, sanzionabile come omicidio comune, nella forma passiva, ex art. 40 c.p., trovandosi il medico in una situazione di obbligo giuridico di impedire l'evento. La vicenda processuale dell'Affaire Lambert investe anche il problema dell'ammissibilità delle direttive anticipate o testamento biologico, tenuto conto che il consenso o il dissenso alle cure espresso in un determinato momento della vita di un individuo potrebbe non valere in un momento successivo. Il consenso deve essere, infatti, libero, consapevole ed attuale. Inoltre, dovrebbe anche ammettersi la vincolatività delle dichiarazioni, in tal modo potendosi integrare anche un grave attentato al principio di autodeterminazione del paziente, oltre al fatto che in tal modo s'impone al medico l'automatica esecuzione della volontà del malato, privandolo di spazi di autonomia decisionale, necessari proprio per salvaguardare la stessa volontà del soggetto, soprattutto quando il quadro clinico è mutato favorevolmente. Il paziente poi potrebbe avere difficoltà di definire in modo esatto le situazioni cliniche di riferimento alle quali intende riferire le proprie dichiarazioni, e la sua incompetenza medica potrebbe essere fonte di ambiguità e quindi di dubbi al momento della sua applicazione. Tornando al ruolo del convivente-rappresentante in tema di decisioni sanitarie, ci si domanda se costui possa anche validamente esprimere il consenso all'interruzione di cura vitali o se sia necessaria la forma di una rappresentanza legale. In passato, la Corte Suprema (Cass., ordinanza n. 8291/2005) aveva stabilito che in mancanza di specifiche disposizioni, non può sussistere neanche in capo al tutore un generale potere di rappresentanza con riferimento ai cc.dd. atti personalissimi, richiedendo la nomina di un curatore speciale dell'incapace che potesse fungere da polo dialettico per il tutore. Anche nella più recente sentenza sul cd. «caso Englaro», il Collegio fa riferimento alla richiesta al giudice del tutore che rappresenta il paziente in stato vegetativo, in contraddittorio con il curatore speciale. Sulla possibilità che il consenso all'astensione dalle cure sia prestato da un rappresentante legale, si è espressa favorevolmente la giurisprudenza di merito. Sembra, quindi, potersi sostenere che non sia sufficiente la dichiarazione del rappresentante-convivente per esprimere un valido consenso all'interruzione delle terapie e del sostentamento del paziente incapace, trattandosi di atto personalissimo e di natura straordinaria. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Consulta ha precisato che “riguardo ai fatti anteriori, la non punibilità dell'aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l'agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti. Occorrerà, dunque, che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell'aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell'interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative segnatamente con riguardo all'accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto”. Secondo un indirizzo dottrinale, la Corte costituzionale ha creato una nuova causa di giustificazione in presenza della quale l'agevolazione all'esecuzione del suicidio non è punibile. La nuova scriminante individua i seguenti requisiti ai fini della non punibilità: a) deve essere stato accertato da un medico che la patologia era irreversibile; b) deve essere stato verificato da un medico che il malato pativa una grave sofferenza fisica o psicologica; c) deve essere stato oggetto di verifica in ambito medico che il paziente dipendeva da trattamenti di sostegno vitale; d) un medico deve avere accertato che il malato era capace di prendere decisioni libere e consapevoli; e) la volontà dell'interessato deve essere stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; f) il paziente deve essere stato adeguatamente informato in ordine alle sue condizioni, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all'accesso alle cure palliative. Designazione del rappresentante Ai sensi del comma 41, art. 1, l. n. 76/2016, la designazione del rappresentante che abbia pieni o limitati doveri di cui al comma 40, è effettuata in forma scritta e autografa, oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone. Seguendo il senso letterale della norma, se la designazione riguarda solo le decisioni in materia di salute e nell'ipotesi di malattia invalidante dell'interessato, il suo ambito è così ristretto da non dare luogo alla figura dell'amministratore di sostegno, e la forma scritta quindi non necessita di essere sottoposta a particolari controlli. Quindi il convivente delegato sarebbe una sorta di fiduciario, una figura che si andrebbe ad aggiungere a quelle del rappresentante dell'incapace e dell'amministratore di sostegno, con un ruolo di speciale rappresentanza che consiste più specificamente nel far conoscere e realizzare la volontà del compagno. Se invece la designazione riguarda decisioni relative alla cura e agli interessi dell'interessato si applicherà l'art. 408 c.c. Pertanto, i poteri del convivente designato interessa un ambito più limitato rispetto ai poteri dell'amministratore di sostegno per la cui nomina è prevista la forma scritta assoggettata a controllo notarile (Mecenate, Successioni, forma e pubblicità, diritto internazionale privato, in La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016). Nell'ipotesi di impossibilità a redigere la forma scritta, la norma in esame prevede la forma verbale alla presenza di un testimone. Si tratta, senza ombra di dubbio, di una forma speciale prevista in caso di urgenza creata da situazioni che rendano impossibile fare ricorso alla forma ordinaria. Con riferimento all'amministrazione di sostegno vi era il dubbio, risolto negativamente dalla Corte di Cassazione (Cass. n. 23707/2015) che potesse essere nominato in ipotessi di mancanza, al momento della designazione, dei presupposti previsti dalla legge. Un convivente in buone condizioni di salute non può designare un amministratore di sostegno affidandogli il compito di agire per pretendere il rispetto delle proprie volontà manifestate in una scrittura privata allegata alla proposta di designazione. La casa familiare dei conviventi di fattoI commi 42 – 45 garantiscono al convivente il diritto di abitazione: un diritto tutelato dalla Costituzione, dalla giurisprudenza della Corte EDU e dalla giurisprudenza di legittimità e di merito. La casa familiare deve essere intesa come «quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l'esistenza domestica della comunità familiare» e, pertanto, pur in assenza di una definizione legislativa di casa familiare, è unanime l'opinione secondo cui «l'oggetto dell'assegnazione non sia soltanto l'immobile in quanto tale, il luogo fisico in cui la famiglia vive, ma anche il complesso di confort e di servizi che durante la convivenza hanno segnato lo standard di vita dei membri della comunità familiare e che trova nell'immobile il centro di aggregazione e di unificazione» (Jannarelli, 1382). Nel rapporto di convivenza, la casa familiare è il luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e la continuità delle relazioni domestiche, centro di aggregazione e di unificazione dei componenti del nucleo, complesso di beni funzionalmente organizzati per assicurare l'esistenza della convivenza, che, in forza dei caratteri di stabilità e continuità che ne costituiscono l'essenza, si profila concettualmente incompatibile con un godimento segnato da provvisorietà ed incertezza (Cass. S.U., n. 13603/2004). È un bene caratterizzato da tratti particolari, costituito da oggetti funzionalmente destinati all'esistenza quotidiana della famiglia. Essa non è rappresentata dal solo immobile, ma è un'entità che ricomprende tendenzialmente anche le suppellettili che ne costituiscono l'arredo. Può essere considerato una realtà unitaria, anche se composta da più beni mobili di vario genere, di varia natura e provenienza (ex artt. 219 c.c. e 540 c.c.). Ne consegue che oltre all'appartamento, rientrano tutti gli elementi che costituiscono lo standard della comunità domestica, quindi il garage, gli elettrodomestici, i servizi, con l'ovvia eccezione di quanto è strettamente personale (Cass. n. 6865/1994). La giurisprudenza di legittimità ha precisato che per effetto della concorde volontà delle parti viene così a configurarsi un vincolo di destinazione, anche, dell'immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all'uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alla finalità a cui tende. Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno precisato che tale vincolo non può considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi familiare (Cfr. Cass. S.U. , n. 13605/2004). In linea generale, la giurisprudenza che si è formata in sede di separazione e divorzio ha chiarito che l'assegnazione della casa familiare, rispondendo all'esigenza di conservare l'habitat domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell'immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi avessero la disponibilità (Cass. n. 14553/2011). Le soluzioni cui è giunta la giurisprudenza di legittimità e di merito, con riferimento al consorzio familiare fondato sul matrimonio, si devono ritenere valide anche per la convivenza more uxorio, sussistendo una sostanziale assimilazione. Alcune delle tutele che regolano il consorzio familiare possono essere ricondotte ai conviventi «more uxorio», anche se la copertura normativa non va ricercata nel diritto di famiglia, ma nell'ambito del diritto delle persone. Come autorevole dottrina ha evidenziato, il diritto di abitazione si configura come un diritto fondamentale della persona, che gode di una tutela di rango costituzionale, così come quello di potersi unire in matrimonio e costituire una famiglia. E per tale ragione deve essere garantito anche alle unioni non fondate sul matrimonio, purché fondate sulla stabilità del rapporto. Il concetto stesso di famiglia non può essere disgiunto da quello di casa familiare, intesa come «focolare» indispensabile perché s'instauri la comunione di vita tra i singoli componenti. Per tale ragione, la tutela della casa familiare richiede, anche nell'ambito di un consorzio familiare non fondato sul matrimonio, una disciplina ad hoc, diventando la proprietà un istituto che assume un aspetto recessivo davanti ad altri valori di rango costituzionale più elevato. Per valutare esattamente gli istituti che più si collegano a quelli tipici dell'unione familiare fondata sul matrimonio, si deve tenere conto del fatto che questo modello alternativo alla famiglia aspira a ricevere l'ampio complesso di tutele attribuite alla famiglia fondata sul matrimonio, pur in assenza di una doverosa definizione di univoci e circostanziati requisiti minimi necessari, in un contesto di rinuncia alla formalizzazione (e regolamentazione) dell'unione, laddove tale rinuncia risulta comunque espressione dei principi costituzionali di autodeterminazione, libertà e solidarietà sociale. L'abitazione quando ci sono figli Trattandosi del luogo dove si sviluppa la vita familiare, essa è sottoposta ad una precipua regolamentazione, per il caso in cui intervenga la rottura del vincolo affettivo. L'assegnazione dell'abitazione risponde fondamentalmente all'esigenza di assicurare ai figli l' habitat domestico, dove esplicare la loro personalità. La tutela della prole, inoltre, prescinde dal vincolo giuridico che lega i genitori, con la conseguenza che la disciplina normativa è comune ai figli nati da o fuori dal matrimonio (a partire dalla pronuncia della Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166, oggi ius receptum per effetto della l. n. 219/2012). Prima dell'entrata in vigore della riforma del 1975, non era dato rinvenire nell'ordinamento una specifica norma che consentisse al giudice di disporre della casa coniugale. Il coniuge proprietario o titolare di un diritto reale o personale sulla casa stessa non poteva essere privato del godimento dell'immobile, neanche se colpevole della crisi coniugale. Le ragioni proprietarie s'intendevano prevalenti sia sul diritto al mantenimento, sia sull'affidamento dei figli. Con la riforma, il nuovo art. 155, comma 4, c.c., ha disciplinato l'istituto e nel 1987, con l'entrata in vigore della legge n. 74, l'assegnazione della casa familiare entra a fare parte della disciplina del divorzio. L'esigenza prevalente è quella di salvaguardare l'equilibrio psico — fisico della prole, e dunque la necessità della tutela del residuo nucleo familiare, per evitare ai figli minorenni o anche ai maggiorenni economicamente dipendenti (art. 155-quinquies, comma 1, c.c.) non per propria colpa, l'ulteriore trauma di un allontanamento dall'abituale ambiente di vita e di aggregazione di sentimenti (Cass. S.U., n. 11096/2002). La casa familiare, quindi, sarebbe da includere nella categoria dei beni destinati ad uno scopo, di solito interpretata come deroga al sistema generale dei diritti reali, in ragione del perseguimento dell'interesse dei figli minori. Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 13603/2004), già citate, hanno affermato che per effetto della concorde volontà delle parti viene a configurarsi un vincolo di destinazione dell'immobile alle esigenze abitative familiari, idoneo a conferire all'uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alla finalità cui si tende: né tale vincolo può considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi familiare. Nell'impostazione della Corte, tuttavia, tale vincolo deve essere desunto da un accertamento di fatto, basato sulla verifica della «comune intenzione delle parti», sulla natura dei rapporti tra le medesime, dagli interessi perseguiti e da ogni altro elemento idoneo a consentire di evincere la «effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare». Un altro indirizzo della dottrina ritiene, invece, che il vincolo di destinazione basato sul principio di solidarietà coniugale sia destinato ad operare solo a livello enunciativo, anche in considerazione del fatto che proprio a seguito della riforma sull'affido condiviso il criterio dell'assegnazione della casa familiare tende a tutelare anche i figli naturali nati fuori dal matrimonio. L'assegnazione è connessa al principio della «responsabilità genitoriale» di cui all'art. 30 Cost., che rappresenta il fondamento di «quell'insieme di regole che costituiscono l'essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole» (Corte cost. n. 166/1998). La giurisprudenza è unanime nel ritenere che l'assegnazione della casa coniugale va revocata se il il figlio maggiorenne non è più convivente (Cass. n. 16134/2019), La Corte di legittimità ha precisato che ‘la nozione di convivenza rilevante ai fini dell'assegnazione della casa familiare ex art. 337-sexies c.c. comporta la stabile dimora del figlio maggiorenne presso la stessa, sia pure con eventuali sporadici allontanamenti per brevi periodi e con esclusione, quindi, dell'ipotesi di rarità dei ritorni, ancorché regolari, configurandosi, in tale caso, invece, un rapporto di mera ospitalità; deve pertanto sussistere un collegamento stabile con l'abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione che, ancorché non quotidiana, sia compatibile con l'assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché vi faccia ritorno appena possibile e l'effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese)”. La funzione sociale della casa familiare Come noto, la casa familiare costituisce il luogo di formazione e sviluppo della personalità psicofisica del minore, per tale ragione la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 155, comma 4, c.c., nella parte in cui non consentiva, in caso di cessazione della convivenza, l'assegnazione della casa familiare al convivente non proprietario affidatario della prole, in quanto «la tutela del figlio naturale è immanente nell'ordinamento e deve essere attuata sulla base di un'interpretazione sistematica degli artt. 147,148 e 261 c.c.» e quindi, mediante l'estensione al convivente dei doveri inderogabili facenti capo ai genitori (Corte cost. n. 166/1998). Queste regole, pertanto, devono trovare applicazione uniforme indipendentemente dalla natura giuridica o di fatto del vincolo che lega i genitori (art. 337-sexies c.c.). Infatti, il luogo (già) familiare residua alla fase patologica solo avendo riguardo alla tutela della prole, minorenne o maggiorenne non autosufficiente, anche di genitori non uniti in matrimonio (Corte cost. n. 308/2008), purché discendente da entrambi i genitori (Cass. n. 20668/2007). La dottrina ha puntualizzato la «funzione sociale» della casa familiare. Tale specifica destinazione determina l'incompatibilità dell'istituto con i caratteri della provvisorietà e dell'incertezza, dovendosi dare rilievo alla funzione precipua dei beni rispetto alle questioni che riguardano la loro titolarità (Passerella, 264). Il diritto di godimento dell'abitazione verrebbe attribuito all'ex convivente non proprietario non in quanto membro dell'unione di fatto e quindi, per questa ragione, titolare di un diritto personale riconosciutogli dall'ordinamento, ma nella sua qualità di genitore affidatario dei figli minori. La dottrina più attenta ha criticato severamente la nuova normativa in materia di regolamentazione dell'assegnazione della casa familiare, sostenendo che rappresenta l'aspetto meno riuscito della riforma dell'affidamento dei minori. (Così Quadri, 424 ss. che sottolinea come la recente normativa non abbia tenuto in considerazione la faticosa elaborazione della dottrina e della giurisprudenza in materia). In base all'art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, l'art. 155-quater, comma 1, c.c., si applica allo scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, quindi conviventi more uxorio. Prima della riforma l'assegnazione della casa familiare era disciplinata, in sede di separazione, dalla comma 4 del previgente art. 155 c.c., e, in sede di divorzio, dal comma 6 dell'art. 6 della legge sul divorzio (l. n. 898 del 1978, come modificata dalla legge n. 74 del 1987). I problemi più rilevanti hanno riguardato le due cause di estinzione previste dal citato art. 155-quater c.c., che si verificano quando l'assegnatario conviva «more uxorio» ovvero contragga nuovo matrimonio. Se il godimento della casa deve essere attribuito, secondo la previsione della norma, tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli, esso non può venire meno per effetto di circostante che prescindono da tale interesse, con la conseguenza che un'immediata ed incondizionata incidenza sull'assegnazione della casa familiare di tali circostanze evidenzia profili di illegittimità costituzionale, essendo irragionevolmente in contrasto proprio con l'esigenza di tutela dell'interesse dei figli posta a base dell'assegnazione. (Con riferimento a questo aspetto, ha espresso dubbi di legittimità costituzionale Sesta, 666; Napolitano, 217). Tali criticità sono emerse anche nella giurisprudenza che ha evidenziato l'esistenza di un possibile profilo d'incostituzionalità della norma rispetto all'art. 3 Cost., giacché essa determinerebbe un'inammissibile disparità di trattamento tra la prole di un soggetto che non abbia contratto nuove nozze o iniziato la convivenza more uxorio e quella di un genitore che abbia invece intrapreso una nuova unione, facendo in tal modo gravare sui figli le conseguenze pregiudizievoli delle scelte esistenziali dei loro ascendenti. Inoltre, è stato evidenziato come, in violazione dell'art. 30 Cost., il legislatore, in contrasto con l'esigenza di protezione dell'interesse dei minori posta a base della norma, avrebbe previsto la possibilità di modificare il provvedimento di assegnazione della casa familiare, per ragioni che non hanno a che vedere con detta esigenza. (Si segnalano le seguenti decisioni: Trib. Busto Arsizio, 27 ottobre 2006; Trib. Ragusa, 15 maggio 2007; App. Bologna, 22 febbraio 2007). Il dibattito è stato molto accesso, ma si propende per la tesi per cui nella specie sia comunque lasciato un certo margine di discrezionalità al giudice, con la conseguenza che, sebbene la lettura del norma sembra privarlo di possibilità di scelta nell'adozione del provvedimento di revoca, una volta accertata la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio dell'assegnatario, vi è sempre la possibilità che tali circostanze costituiscano elementi della valutazione affidata al giudice sull'opportunità che i figli convivano nella nuova famiglia ricostituita. La Corte costituzionale, con sentenza del 29 luglio 2008, n. 308, ha espresso la sua posizione interpretativa, chiamata a decidere delle questioni di legittimità costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, fornendo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 155-quater c.c., affermando che essa vada interpretata «nel senso che l'assegnazione della casa coniugale, non venga meno di diritto al verificarsi di eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza more uxorio, nuovo matrimonio), ma che la decadenza della stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all'interesse del minore». Nella sentenza si ribadisce che «l'attribuzione dell'alloggio viene espressamente condizionata all'interesse dei figli», anche se vale la regola «della modificabilità in ogni tempo del provvedimento per fatti sopravvenuti», sebbene tale intrinseca provvisorietà non incide sulla natura e sulla funzione della misura, posta ad esclusiva tutela della prole, con la conseguenza che anche in sede di revisione resta imprescindibile il requisito dell'affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti (...) nonché quello dell'accertamento dell'interesse prioritario della prole. Si precisa ancora che: «emerge il rilievo che non solo l'assegnazione della casa familiare, ma che la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all'interesse della prole». Da qui la conclusione, secondo la quale «convivenza more uxorio e nuovo matrimonio dell'assegnatario non possono costituire circostanze idonee per sé a determinare la cessazione del provvedimento di assegnazione, in quanto in contrasto con la finalità di tutela della prole, per il quale l'istituto è sorto» (Cubeddu, 386; Villani, 1257). Nell'ambito di un rapporto di convivenza cessato, quindi, l'assegnazione della casa familiare al genitore collocatario dei figli minori, si giustifica con la necessità di conservare, anche dopo la rottura dell'unità familiare, l'habitat domestico in cui si è svolto sino ad allora la loro esistenza, inteso non soltanto come luogo fisico, ma anche come centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita. Tanto che l'assegnazione è consentita unicamente con riguardo a quell'immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi abbiano la disponibilità (Cass. n. 4816/2009, in Giur. it., 2009, p. 2676, con nota di Bellezza, La casa familiare e la valutazione degli interessi rilevanti ai fini del provvedimento di assegnazione). Il provvedimento di assegnazione dell'abitazione non ha lo scopo di attribuire ad uno dei conviventi un titolo di legittimazione ad abitare, ma ha lo scopo di mantenere la destinazione dell'immobile a residenza della comunità familiare ed è giustificato esclusivamente dall'interesse morale e materiale della prole affidatagli. La casa familiare sarebbe da includere nella categoria dei beni destinati ad uno scopo, generalmente interpretata quale deroga al sistema generale dei diritti reali, in ragione del perseguimento dell'interesse superiore dei figli. La Suprema Corte, con sentenza Cass. I, n. 17971/2015 ha stabilito che: «in presenza di figli minori nati da una relazione di convivenza more uxorio, l'immobile adibito a casa familiare è assegnato al genitore collocatario dei predetti minori, anche se non proprietario dell'immobile, o conduttore in virtù di rapporto di locazione, o comunque autonomo titolare di una situazione giuridica qualificata rispetto all'immobile, la cui posizione, peraltro, è comunque di detentore qualificato, assimilabile al comodatario (anche quando proprietario esclusivo sia l'altro convivente) attesa la pregressa affectioconiugalische costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza». La stessa nozione dell'istituto, sottoposto a «vincolo di destinazione» deriva da una concretizzazione degli obblighi di contribuzione solidale ai bisogni della famiglia (artt. 143, comma 3, 144 e 147 c.c.) o dal principio costituzionale della solidarietà coniugale (artt. 29,30,31 cost.) propri della famiglia tradizionale fondata sul matrimonio. Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 13603/2004), hanno affermato che per effetto della concorde volontà delle parti viene a configurarsi un vincolo di destinazione dell'immobile alle esigenze abitative familiari, idoneo a conferire all'uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata ma è strettamente correlata alla destinazione impressa ed alle finalità cui tende: né tale vincolo può considerarsi autonomamente caducato per il sopravvenire della crisi del rapporto. Nell'impostazione offerta dalle Sezioni Unite, tuttavia, tale vincolo deve essere desunto da un accertamento in fatto, basato sulla verifica della «comune intenzione delle parti», sulla natura dei rapporti tra le medesime, dagli interessi perseguiti e da ogni altro elemento idoneo a consentire di evincere la «effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare». Le indicazioni espresse dalla Corte di Cassazione, ma ormai unanimamente condivise della dottrina, sono riferite al matrimonio, ma si tratta di principi estensibili anche alle unioni non matrimoniali, in ragione della tutela di rango costituzionale di cui gode il diritto di abitazione. Altri autori ritengono che il vincolo di destinazione basato sul principio di solidarietà coniugale sia destinato ad operare solo a livello enunciativo, anche in considerazione del fatto che proprio a seguito della riforma sull'affido condiviso il criterio dell'assegnazione della casa familiare tende a tutelare anche i figli naturali nati fuori dal matrimonio (art. 155-quater c.c.). Il vincolo di destinazione impresso all'immobile è connesso al principio della «responsabilità genitoriale», di cui all'art. 30 Cost., che rappresenta il fondamento di «quell'insieme di regole, che costituiscono l'essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole» (Corte cost. n. 166/1998), regole che debbono trovare uniforme applicazione indipendentemente dalla natura giuridica o di fatto del vincolo che lega i genitori (art. 337-sexies c.c.). In sostanza, pur dovendosi condividere che il vincolo impresso al bene immobile sia riconducibile alla necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona, e quindi il diritto di abitazione che riceve riconoscimento dalla carta costituzionale, è la finalità di garantire tutela alla prole che impone il carattere recessivo alle logiche della proprietà. In tempi quasi recenti, questo indirizzo è stato ribadito anche dalla Suprema Corte, con sentenza 15 settembre 2011, n. 18863, secondo cui in tema di assegnazione della casa familiare, l'art. 155-quater c.c. (abrogato dal d.lgs. n. 154/ 2013), applicabile «ratione temporis» anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, tutela l'interesse prioritario della prole a permanere nell'habitat domestico, postulando, oltre alla permanenza del legame ambientale, la ricorrenza del rapporto di filiazione legittima o naturale cui accede la responsabilità genitoriale. L'assegnazione impone che i soggetti, alla cui tutela è preordinata, siano figli di entrambi i conviventi, a prescindere dal titolo di proprietà dell'abitazione, con la conseguenza che deve escludersi tale diritto a favore del convivente con un figlio minore che non sia figlio anche del compagno. Con la novella legislativa, va precisato che il vincolo di destinazione impresso all'immobile in ragione della tutela della prole, ha prevalso sulle logiche proprietarie, superando anche i diritti successori. In sostanza, il legislatore ha inteso garantire ai figli minori del compagno superstite, non legati da rapporto di filiazione con l'altro convivente deceduto, il diritto ad abitare l'immobile per un periodo temporale preciso, opponibile ai terzi titolari di diritti successori. E' interessante la recente pronuncia della Corte di Cass. n. 24106 del 2023, con cui si è stabilito che l'assegnazione della casa familiare ad un coniuge è consentita unicamente con riguardo all'immobile che abbia effettivamente costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza e nell'esclusivo interesse del figlio minore. Attenendosi a questo parametro, il giudice può limitare l'assegnazione della casa familiare ad una porzione dell'immobile, consentendo che la rimanente porzione di abitazione sia abitata dal padre. Il principio espresso per le coppie unite da vincolo matrimoniale è ovviamente estensibile per identità di ratio anche alle convivenze. Ai sensi dell'art. 1, comma 42,della legge n. 76 del 2016, si stabilisce che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni. Tale diritto viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto (art. 1, comma 43). Ovviamente, se al momento della fine del rapporto, i conviventi non sono più investiti della responsabilità genitoriale, il giudice della famiglia non può disporre della casa familiare, che resta regolata dalle norme di diritto comune, applicabili sulla base del titolo vantato dai titolari. La tutela del convivente di fatto viene garantita in caso di morte del compagno, anche in assenza di figli, ai sensi dell'art. 1, comma 42, secondo cui al verificarsi dell'evento, il convivente di fatto superstite ha diritto di abitare nella casa di comune residenza per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. In caso di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (art. 1, comma 44). Mentre nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto. La tutela del convivente di fatto non intestatario con riguardo agli apporti conferiti per l'acquisto della casa familiare Frequentemente la Corte di Cassazione si è dovuta occupare della tutela della convivente «more uxorio» che contribuisce con le proprie sostanze all'acquisto dell'abitazione adibita a casa familiare. Nel caso di decesso del partner si configura la difficoltà di provare il proprio diritto di proprietà e di renderlo opponibile all'erede. Con riferimento alla vicenda di un convivente che si oppone alla domanda divisoria proposta dall'erede dell'altro convivente, deceduto, rivendicando l'intera proprietà dell'immobile acquistato in comunione per quote uguali con il compagno, ma con denaro esclusivamente di sua provenienza, secondo l'indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, l'attribuzione patrimoniale effettuata dalla convivente more uxorio che, nel corso della relazione paramatrimoniale, ha proceduto all'acquisto di un immobile in comunione con il partner per quote uguali, pur avendo sborsato l'intero prezzo per l'acquisto, è qualificabile alla stregua di una donazione indiretta della quota dell'immobile stesso. Tale liberalità è valida sebbene il mancato rispetto delle forme solenni previste per la donazione, inapplicabili alla donazione indiretta. Nessuna forma d'invalidità è poi riconducibile al fatto che il denaro impiegato per l'acquisto fosse stato conseguito dalla donna quale provento della sua attività di prostituta, atteso che tale profilo attiene ad una fase pregressa rispetto alla donazione, che è invece frutto dello spirito di liberalità con il quale la donna aveva inteso arricchire il suo convivente. Partendo proprio dalla concreta assimilazione che allo stato sussiste tra la famiglia legittima e la famiglia di fatto, la soluzione giuridica non appare innovativa, in ragione del fatto che il convivente paga interamente con denaro proprio per l'acquisto dell'immobile. Pertanto, senza un apposito chiarimento delle parti in sede di stipulazione del contratto, o mediante accordo di convivenza, l' ex non potrebbe rivendicare l'esclusiva titolarità del bene immobile. In assenza di apposita pattuizione, le attribuzioni patrimoniali effettuate fra conviventi quale espressione di reciproca contribuzione, nonché di assistenza morale e materiale, compiute in qualunque forma, in proporzione ai propri redditi, alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo, costituiscono un adempimento di obbligazione naturale ai sensi dell'art. 2034 c.c. Con la legge n. 76 del 2016, che ha formalizzato gli accordi di convivenza, oggi il problema non si pone, ma già in passato la dottrina più attenta ha ritenuto valide le intese preventive tra i conviventi, finalizzate ad attribuire (o a negare) un determinato significato negoziale alle attribuzioni effettuate durante il rapporto, anche con riferimento all'attività negoziale verso i terzi (Oberto, 2012; Roppo, 1999, 1; Mengoni, La famiglia in una società complessa, in Justitia 1990, 6 ss.; Grassetti, 192; Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir. priv. 2000, 468 - 469; Spadafora, 960). Si ritiene che le contribuzioni in denaro per l'acquisto della casa familiare si basino sul rapporto di convivenza, con la conseguenza che venuto meno questo fondamento negoziale, l'autore avrebbe la possibilità di ripetere o comunque ottenere una sorta di revisione del negozio (Cass. n. 11330/ 2009; Cass. n. 3713/ 2003; Cass. n. 1007/1980). La Corte di Cassazione ha precisato che in caso di acquisto ‘pro indiviso' di un immobile effettuato da due conviventi ‘more uxorio' per quote uguali in difetto di diversa indicazione nel titolo, stante la presunzione di cui all'art. 1101 c.c., il maggior apporto fornito dal co-acquirente nella corresponsione del prezzo non può presumersi effettuato in favore dell'altro a titolo di liberalità, avente giustificazione nella mera convivenza, senza che sia fornita dimostrazione, anche mediante presunzioni, purchè serie, dell'animus donadi. Pertanto, in difetto di tale prova, il convivente che abbia sborsato una somma maggiore ha il diritto di ottenere dall'altro il rimborso della parte eccedente la sua quota (Cass. n. 20062/2021). Se s'inquadrasse la fattispecie nell'ambito della donazione (diretta) del denaro, si potrebbe ottenere la ripetizione del finanziamento erogato per l'acquisto di beni di proprietà esclusiva dell'altro, sotto il profilo della nullità per mancato rispetto della forma solenne che, molto spesso, nella prassi non viene mai rispettata. Anche questa soluzione non convince chi, invece, ricorre all'istituto dell'ingiustificato arricchimento avvenuto senza una giusta causa. Si ritiene che l'istituto potrebbe rappresentare una valida risposta alle istanze di chi, non intestatario, abbia contribuito all'acquisto della casa familiare. Il convivente che lamenti di aver subito un esborso economico, al quale sia corrisposto un ingiustificato incremento del patrimonio della controparte, potrebbe esercitare, dunque, un'azione diretta ad ottenere un ristoro che compensi l'avvenuto impoverimento, nei limiti del correlativo arricchimento (Paradiso, 110; Oberto, 72). Secondo questo orientamento, tale rimedio, analogamente a quello dell'obbligazione naturale, può certamente servire ad integrare la disciplina del regime patrimoniale della famiglia di fatto. La via della ripetizione dell'indebito è stata seguita soprattutto da una parte della giurisprudenza di merito. Ad esempio, la Corte di Appello di Genova, nel 2001, ha riconosciuto la parziale fondatezza della domanda proposta da un ex convivente che aveva corrisposto somme per l'acquisto e la ristrutturazione di un alloggio che la ex convivente «si era poi intestato» (Cfr. App. Genova, 26 marzo 2001). Il Collegio ha ritenuto che fosse idonea a descrivere la situazione l'ipotesi disciplinata dall'art. 2033 c.c., in quanto il mancato verificarsi dello scopo aveva vanificato la causa del pagamento, ed era assolutamente irrilevante, per l'applicazione della norma in parola, che la causa del negozio mancasse all'origine, o venisse meno successivamente, per essere il negozio annullato, sottoposto a condizione o risolto, giacché il difetto della causa solutionis rilevava in sé e per sé, legittimando il solvens alla ripetizione. La soluzione non può essere offerta in via preventiva, essendo necessario verificare caso per caso, sulla base del rapporto di convivenza, e dei reciproci obblighi dei soggetti coinvolti, come si giunge all'acquisto di un immobile con esborsi in denaro del convivente non intestatario. Da parte di alcuni si ritiene che la qualificazione della convivenza more uxorio, come rapporto interindividuale dal quale scaturiscono doveri di reciproca solidarietà tra i suoi componenti, comporta che su ciascuno di essi gravino oneri economici corrispettivi in favore del consorzio familiare. Pertanto, l'eventuale corresponsione di somme di denaro, da parte del soggetto non intestatario del bene, per l'acquisto di un immobile destinato alla famiglia stessa, potrebbe essere interpretata come l'adempimento di un'obbligazione naturale, per la prosecuzione della relazione di fatto, con conseguente irripetibilità delle somme versate. In questo caso, l'eventuale richiesta di restituzione delle somme versate da parte dell'altro convivente potrebbe trovare accoglimento solo nel caso in cui il compagno non abbia in alcun modo contribuito ai bisogni della famiglia, con ingiustificato arricchimento da parte di quest'ultimo. L'indagine finalizzata ad accertare se l'impoverimento lamentato da uno dei conviventi sia da addebitare, o meno, all'assolvimento di un dovere morale e sociale a carico di quest'ultimo, non può non tenere conto della consistenza della prestazione, in modo che questa possa essere misurata al fine di verificare se, nel caso concreto, essa esorbiti dai limiti di una normale contribuzione ai bisogni della famiglia, e, pertanto, esuli dallo schema dell'obbligazione naturale. Questa precisazione è di fondamentale importanza, perché solo gli apporti che, per il loro ammontare, cioè per le circostanze in cui vengono compiuti, dovessero eccedere i limiti di una normale collaborazione in vista di una corretta gestione della vita familiare, non avrebbero una concreta giustificazione causale, e pertanto possono diventare oggetto di un'azione restitutoria. L'ordinamento italiano non sembra offrire altro rimedio se non quello, di natura meramente obbligatoria e di difficile esperimento, che consente al convivente, che abbia contribuito con le proprie sostanze all'acquisto, da parte del partner, di un immobile destinato all'uso comune, di recuperare le proprie risorse, anche se entro i limiti di quanto dimostrerà essere stato il corrispondente arricchimento goduto dalla sua controparte. Il bene, quindi, non può essere assoggettato ad alcun vincolo reale che sia opponibile ai terzi aventi causa dell'unico intestatario e che, per questo, riesca a soddisfare il vero interesse di natura proprietaria del convivente escluso dalla titolarità del bene. La casa familiare in godimento a titolo di locazione. Nel settore delle locazioni d'immobili urbani ad uso abitativo si è sempre registrato il lento e costante fenomeno del riconoscimento da parte dell'ordinamento della rilevanza dell'unione di fatto. La legge 23 maggio 1950, n. 253, all'art. 1, comma 4, si preoccupò di precisare che, in caso di morte del conduttore, la proroga dei contratti di locazione e sublocazione in corso, operava soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi. Successivamente l'art. 2-bis, della legge 12 agosto 1974, n. 351, modificò l'elencazione dei soggetti beneficiari del diritto di proroga, menzionando specificatamente il coniuge, i figli, i genitori e i parenti entro il secondo grado del defunto con lui «anagraficamente conviventi» con l'eliminazione del riferimento alla vasta categoria degli eredi. Questa precisazione nel corso degli anni settanta indusse la giurisprudenza a non trovare ostacoli all'estensione del beneficio al convivente, sulla base del rilievo che non solo la famiglia di fatto poteva sicuramente ritenersi una formazione sociale tutelata dall'art. 2 Cost., ma la stessa novella del 1975 aveva espresso un esplicito riconoscimento a tali forme di unione nel disposto dell'art. 317-bis c.c., che, attribuendo l'esercizio congiunto della potestà sui figli naturali ad entrambi i genitori «se conviventi», sembrava assimilarlo, almeno sotto il profilo dell'educazione della prole, alla famiglia legittima. Le posizioni dei giuristi non erano concordanti, in ragione del fatto che le norme in materia di proroga dei contratti di locazione avevano portata eccezionale. La Corte costituzionale, investita per risolvere il problema della proroga, ritenne non fondate le questioni evidenziando le profonde diversità intercorrenti tra la posizione giuridica del convivente e quella del coniuge, soprattutto sulla base del rilievo che convivenza, essendo basata sulla spontaneità, non rivestiva caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività tipici del rapporto di coniugio (Scalisi, 331. Le questioni di costituzionalità furono sollevate da Pret. Genova, 16 luglio 1977, in Riv. giur. ed., 1978, I — 541; in riferimento all'art. 2 — bis, della legge 12 agosto 1974, n. 351, e Trib. Milano, 18 gennaio 1979, in Giur. cost., 1979, II — 1408, in riferimento all'art. 1, comma 4, della legge 23 maggio 1950, n. 253). La giurisprudenza di legittimità era, invece, pronta a riconoscere che le unioni di fatto non rappresentavano una situazione assimilabile ad un rapporto di mera ospitalità, ma erano idonee a conferire alla abitazione in cui essa si svolge, i caratteri di uno stabile e duraturo alloggio. La questione della tutela del diritto di abitazione del convivente diventò di rilievo a seguito della promulgazione della legge 27 luglio 1978, n. 392, che introduceva, per il caso di decesso dell'originario conduttore, un'ipotesi di vera e propria successione legittima anomala «mortis causa», nel rapporto di locazione di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione, fino alla prevista scadenza. Numerose furono le rimessioni alla Corte costituzionale, per sospetto contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. dell'art. 6 della legge n. 392/1978. La Consulta, (con sentenza Corte cost. n. 404/1988), intervenne alla soluzione del problema, introducendo l'estensione sollecitata dal diritto vivente, anche se tenne a precisare che il richiamo dell'art. 3 Cost., non rendeva equiparabile la condizione giuridica del convivente a quella del coniuge, ma evitava soltanto di incorrere nella contraddittorietà logica di escludere quel soggetto dall'applicazione di una norma evidentemente diretta alla tutela di una situazione di coabitazione, che accomunava un aggregato suscettibile di ricomprendere anche estranei, potendo, infatti, tra gli eredi esservi persone diverse dai familiari e dai parenti. Questa interpretazione si rendeva possibile perché il regime dell'equo canone, determinando una minore compressione del diritto del proprietario — locatore, aveva segnato il definitivo superamento della legislazione in tema di proroga, alla quale, infatti, rimaneva estraneo il concetto stesso di successione. Oggi, la legge n. 76/ 2016 stabilisce all'art. 1, comma 44, che nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, quindi in assenza di prole, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto. La pronuncia della Consulta ebbe anche a riconoscere al convivente il diritto di subentrare, inter vivos, nel rapporto locatizio, qualora, nonostante l'interruzione della convivenza da parte dell'originario conduttore, vi fosse prole naturale. La tutela del convivente collocatario di figli minori, naturalmente, s'ispira a criteri diversi, poiché l'assegnazione della casa familiare, nell'ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti (o disabili), deve essere regolata mediante applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tutela tempestiva alle esigenze del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status. Anche prima della l. n. 219/2012, con la quale è stata sancita l'eliminazione di ogni residua discriminazione tra i figli, la giurisprudenza, con indirizzo consolidato, ha sempre riconosciuto che il diritto di continuare ad abitare nella casa familiare al coniuge cui sono affidati i figli minorenni o che conviva con i figli maggiorenni, non ancora autosufficienti, vada esteso al convivente di fatto. La Suprema Corte ha, infatti, stabilito che: «In presenza di figli minori nati da una relazione di convivenza “more uxorio”, l'immobile adibito a casa familiare è assegnato al genitore collocatario dei predetti minori, anche se non proprietario dell'immobile, o conduttore in virtù di rapporto di locazione o comunque autonomo titolare di una situazione giuridica qualificata rispetto all'immobile, la cui posizione, peraltro, è comunque di detentore qualificato, assimilabile al comodatario (anche quando proprietario esclusivo sia l'altro convivente), attesa la pregressa “affectio familiaris” che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza» (Cass. 17901/2015). È stato, invece, oggetto di contrasti la particolare situazione di avvicendamento nel contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo, prevista dall'art. 37, comma 1, legge 27 luglio 1978, n. 392, per il caso di morte del conduttore. In giurisprudenza sul punto si sono registrate isolate pronunce, per il fatto che il convivente more uxorio può certamente rientrare tra coloro che, per successione o per precedente rapporto risultante da atto di data certa anteriore all'apertura della successione ha diritto di continuare l'attività. Pertanto, egli potrà succedere nel rapporto locatizio in base ad una disposizione testamentaria dell'azienda o dello studio professionale in suo favore, oppure in base ad un atto che comprovi la sua precedente titolarità, anche solo parziale, dell'attività considerata. A tale conclusione si giunge indipendente da un giudizio di meritevolezza giuridica del legame «parafamiliare» con il de cuius. Un eventuale coniuge separato o divorziato superstite «che continui nell'immobile la stessa attività già ivi esercitata assieme all'altro coniuge», prima della separazione o del divorzio, potrà concorrere, in forza del secondo comma della medesima norma, col convivente avente diritto. Secondo l'indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione (Cass. III, n. 3251/2008). La convivenza con il conduttore defunto, cui, ai sensi della legge n. 392 del 1978, è subordinata la successione nel contratto di locazione d'immobile adibito ad uso di abitazione, costituisce una situazione complessa caratterizzata da una convivenza « stabile ed abituale», da una «comunanza di vita», preesistente al decesso, non riscontrabile qualora il pretendente successore si sia trasferito nell'abitazione locata soltanto per ragioni transitorie. Convivenza e tutela possessoria dell'immobile adibito a casa familiare. Come noto, il presupposto della tutela accordata ai conviventi di fatto non va ricercata nel diritto di famiglia, ma nell'ambito del più ampio diritto comune delle persone, in virtù della tutela accordata ai diritti fondamentali della persona anche all'interno delle formazioni sociali. A seguito della fine della convivenza cessa l'obbligo di coabitazione; allo stesso tempo divengono inefficaci gli accordi di indirizzo anche con riferimento alla casa familiare. Le conseguenze giuridiche della cessazione dell'obbligo di coabitazione in ordine ai diritti sulla casa familiare dipendono da una serie di fattori. Inoltre, la fase della crisi del rapporto e quindi della rottura della convivenza determina molte criticità, poiché si è in assenza di vincolatività e di libera revocabilità del consenso, pertanto il momento della patologia porta a conseguenze differenti rispetto allo scioglimento del vincolo matrimoniale. Secondo l'indirizzo tradizionale della giurisprudenza di legittimità, il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sé in essere nelle persone che convivono con chi possiede il bene un potere sulla casa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compossesso (Cass. II, n. 2555/1974; Cass. II, n. 8047/2001). Per questo indirizzo, il consolidamento della relazione tra conviventi non dà luogo, in capo al soggetto proprietario dell'immobile, ad una situazione tutelabile con l'azione di spoglio. Per quanto riguarda il diritto del convivente more uxorio sulla casa familiare, oggi non si dubita più del riconoscimento di una posizione di detenzione autonoma. (La Cass. n. 9786/2012, ha affermato che il convivente «more uxorio» del soggetto possessore dell'immobile in cui risiede la famiglia di fatto, in ragione di tale sola convivenza, pur qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall'ordinamento, non è compossessore con quello, ma detentore autonomo dell'immobile stesso, che, dunque, non può usucapire), il cui titolo è da rinvenirsi in un «rapporto negoziale di fatto», o in «negozio atipico a contenuto personale» (i patti di convivenza). La convivenza rappresenta un titolo giuridico costitutivo della detenzione, che consente al convivente l'azione di spoglio, sia nei confronti dell'altro che, alla sua morte, degli eredi che non potranno invocare l'art. 460 c.c. e dovranno esperire l'azione petitoria o di restituzione. Lo stesso rapporto di convivenza rappresenta il titolo giuridico che giustifica le azioni possessorie da parte del convivente, senza necessità di ricorrere agli schemi causali del comodato, delle liberalità d'uso o del contratto atipico di godimento. Secondo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, la tesi per la quale la relazione di fatto del convivente sarebbe un mero strumento di possesso o della detenzione di altro soggetto, paragonabile a quella dell'ospite o del tollerato, è contraria alla rilevanza giuridica e alla dignità stessa del rapporto di convivenza di fatto. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 21 marzo 2013, n. 7214, ha affermato testualmente che la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio. Come si è già detto nel capitolo sulle unioni di fatto, la rilevanza giuridica di questi consorzi familiari si basa essenzialmente sulla stabilità, quale garanzia di certezza dell'unione familiare. Ne consegue che le convivenze occasionali, precarie, intermittenti sono da considerarsi estranee al modello di famiglia socialmente tipico e non dà titolo alla detenzione autonoma, non consentendo di esercitare le azioni a tutela del possesso. Maggiore tutela riceve dall'ordinamento la situazione di unione familiare che vede la presenza di figli minori, con la conseguenza che la tutela della prole impone una regolamentazione differente della casa familiare. Un provvedimento giudiziale di attribuzione della casa familiare impone un riguardo particolare all'interesse dei figli, come prevedono le norme sull'affidamento condiviso, le quali trovano applicazione anche ai figli di genitori non coniugati, e impongono un particolare provvedimento giudiziale di attribuzione del godimento della casa familiare, avuto riguardo prioritario all'interesse dei minori, con la conseguenza che può essere sacrificato il diritto personale o reale di godimento del genitore convivente, il cui interesse non coincida con l'interesse del figlio. In assenza di prole venuta meno l'unione, a fronte del rifiuto dell'ex convivente non proprietario di abbandonare l'immobile adibito a casa familiare, è certamente riconosciuto al partner, esclusivo proprietario, il diritto di ottenere giudizialmente l'immediata liberazione dell'immobile, difettando in capo al primo un valido titolo giuridico che lo legittimi, anche dopo la rottura del rapporto, a proseguire il godimento, tenendo conto ovviamente dei temperamenti introdotti dalla l. n. 76/ 2016 in ipotesi di convivenza di “fatto”. Con sentenza Cass. n. 7/2014, la Suprema Corte ha ulteriormente precisato che in presenza di una convivenza «more uxorio», in assenza di figli, il convivente, non proprietario della casa familiare, è qualificabile come comodatario, il quale pur non avendo il possesso del bene è comunque detentore della casa e può tutelarsi con l'azione di spoglio (ex art. 1168 c.c.). In particolare, ha affermato il principio secondo il quale «la qualità di convivente more uxorio del comodatario di un appartamento destinato ad abitazione legittima ad esperire l'azione di spoglio contro il terzo, in quanto la convivenza determina sulla casa ove si svolge e si attua il programma di vita comune un potere di fatto bastato sull'interesse proprio del convivente, ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare». Secondo la Suprema Corte il principio di buona fede e correttezza impone al convivente proprietario che cessata l'affectio intenda recuperare, come è suo diritto, l'esclusiva disponibilità dell'immobile, di avvisare il compagno e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione. Nella prassi spesso si incontrano difficoltà, non esistendo un giudice che possa ordinare, come avviene per le coppie coniugate il rilascio dell'immobile a favore del convivente già titolare del diritto reale o del godimento del bene. Spesso accade, purtroppo, che quest'ultimo provveda a cambiare la serratura o ad estromettere in via di fatto l'ex compagno, soprattutto quando la convivenza diviene intollerabile. Il detentore qualificato che non restituisce il bene allo spirare del titolo commette un mero inadempimento e non uno spoglio, legittimando l'azione di restituzione e non l'actio spolii (Cass. n. 3700/1995; Cass. n. 178/1993). Pertanto, il partner titolare dovrà agire con l'azione petitoria, in modo da fare accertare giudizialmente l'estinzione del titolo legittimante la detenzione in capo all'ex compagno e ottenere il rilascio dell'immobile. La legge n. 76/2016 ha cercato di risolvere le varie problematiche connesse all'utilizzo della casa familiare nel momento della crisi. Ai sensi dell'art. 1, comma 61, nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione. La questione si pone comunque in termini di tutela del convivente, anche laddove il rapporto non possa essere riconosciuto come convivenza “di fatto” ai sensi della l. n. 76/2016. La Suprema Corte, con sentenza n. 10377/ 2017 ha stabilito che: «La convivenza more uxorio, quale formazione sociale dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio di tipo familiare, ma non incide, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull'immobile, sicché tale detenzione del convivente non proprietario, né possessore, è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente proprietario- possessore, si estingue anche il relativo diritto; ne deriva che, in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato), restando a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere a quest'ultimo un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza ». Comodato di immobile e destinazione ad abitazione della convivenza di fatto. Nel caso in cui la casa familiare sia oggetto di comodato vengono in considerazione anche gli interessi del comodatario giacché proprietario dell'immobile e terzo rispetto ai membri della famiglia. Per questa ragione il tema della destinazione a casa familiare dell'immobile concesso in comodato è oggetto di vivaci dibattiti ed ha reso necessario l'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione per ben due volte nell'arco di un decennio. Con particolare riferimento al caso di comodato di immobile destinato ad abitazione di conviventi more uxorio le conclusioni a cui si deve pervenire non sono diverse da quelle a cui si perviene nel caso di coniugi legati dal vincolo matrimoniale anche perché non è tanto la presenza o meno del vincolo matrimoniale ad orientare le decisioni del giudici di legittimità e di merito, quanto la presenza di figli conviventi e la necessità di tutelare la permanenza degli stessi nell'habitat domestico nel quale hanno vissuto prima della crisi genitoriale. Secondo la Suprema Corte di Cassazione, sentenza, Cass. III, n. 13592/2011, (per un commento alla sentenza, Colucci, 2011, 1111), il comodato, stipulato senza termine, di un immobile successivamente adibito, per in equivoca e comune volontà delle parti contraenti, ad abitazione di un nucleo familiare di fatto, costituito dai conviventi e da un figlio minore, non può essere risolto in virtù della mera manifestazione di volontà ad nutum espressa dal comodante ai sensi dell'art. 1810, comma 1, ultima parte, c.c., dal momento che deve ritenersi impresso al contratto un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all'uso cui la costa è destinata il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi familiare tra i conviventi. Ne consegue che il rilascio dell'immobile, finché non cessano le esigenze abitative familiari cui esso è stato destinato, può essere richiesto, ai sensi dell'art. 1809, secondo comma, c.c., solo nell'ipotesi di un bisogno contrassegnato dall'urgenza e dall'imprevedibilità. Inoltre, la Suprema Corte, con sentenza, Cass. I, n. 7/2014, ha stabilito che la qualità di convivente «more uxorio» del comodatario di un appartamento destinato ad abitazione legittima ad esperire l'azione di spoglio contro un terzo, in quanto la convivenza determina sulla casa, ove si svolge e si attua il programma di vita comune, un potere di fatto basato sull'interesse proprio del convivente, ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una «detenzione qualificata « avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Il principio enunciato si collega a quello già espresso dalla Corte con riferimento alla famiglia legittima (v. Cass.S.U., n. 13603/2004; Cass. n. 13260/2006; Cass. n. 19939/2008) e confermato dalle Sezioni Unite con sentenza —Cass.S.U., n. 20448/2014, non senza critiche da parte della dottrina (per una critica all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite a proposito della casa familiare concessa in comodato, Colucci, 2015, 1, 13). Per le Sezioni Unite il comodato di un immobile destinato a casa familiare e successivamente assegnato al coniuge o al convivente affidatario dei figli non può ritenersi «precario», ex art. 1810 c.c. Nella specie era accaduto che due coniugi avevano concesso in comodato un immobile di loro proprietà al figlio che, successivamente, lo aveva adibito ad abitazione propria e della sua convivente dalla quale aveva avuto, a sua volta, un figlio. I rapporti tra i conviventi si erano interrotti e la convivente, unitamente al figlio minore, aveva continuato a detenere l'immobile oggetto di comodato, ma la comodante (madre del comodatario) richiedeva la restituzione della casa. La soluzione offerta dalla giurisprudenza di legittimità fa intendere l'avvenuta estensione al convivente more uxorio di un diritto riconosciuto dalla legge al coniuge. Come precisato dalla dottrina «gli effetti giuridici connessi al fatto della convivenza similconiugale sono, per lo più, dipendenti dal positivo apprezzamento da parte dell'ordinamento giuridico di un interesse che (volta per volta differente), da un lato, non coincide con quello della promozione e/o protezione del vincolo pseudo — familiare e, dall'altro, è addirittura esterno ad esso, in quanto finisce per salvaguardare pur sempre l'interesse del singolo (sia pure in relazione al fatto della convivenza more uxorio), piuttosto che l'interesse dell'aggregazione in sé considerata» (sono parole di Segreto, 1658). Con riferimento al rapporto di coniugio, secondo la Suprema Corte, quando l'immobile oggetto di comodato viene adibito a casa familiare, tale uso conferisce al contratto un termine implicito che corrisponde al venir meno delle esigenze familiari; prima che siano venute meno le esigenze familiari il comodatario può richiedere la restituzione dell'immobile solo in caso di sopravvenuto urgente ed impreveduto bisogno. Secondo la Corte, il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante o alcuno uno dei coniugi il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tal evenienza, il rapporto riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per uso determinato ed ha, in assenza di una espressa indicazione della scadenza, una durata determinabile, per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venire meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l'assegnazione. La Corte, con ordinanza interlocutoria del 17 giugno 2013, n. 15113, ha manifestato la volontà di sollecitare un revirement giurisprudenziale rispetto a quanto statuito, dalle stesse Sezioni Unite, dieci anni prima, con la sentenza del Cass.S.U., n. 13603/2004, ed affronta la questione della qualificazione di questa particolare tipologia di comodato, laddove la peculiarità va identificata nella destinazione e nelle esigenze che lo stesso deve soddisfare, che ne giustificano un trattamento speciale. A partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite, 7 settembre 2004, n. 13603, la giurisprudenza ha costantemente affermato che quando un terzo (nella specie, il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché destinato a casa familiare, il successivo provvedimento, pronunciato nel giudizio di separazione o divorzio, di assegnazione in favore del coniuge (nella specie, la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenne non autosufficiente senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento dell'immobile, atteso che l'ordinamento non stabilisce una «funzionalizzazione assoluta» del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a tempo indeterminato, il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvivenza di un urgente ed imprevisto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c. Questo indirizzo era stato messo in dubbio dalla Suprema Corte, con ordinanza del 17 giugno 2013, n. 15113, mentre nella decisione Cass. n. 20448/2014, riprendendosi il principio statuito dalle Sezioni Unite del 2004, il comodato viene qualificato non come «precario» ex art. 1810 c.c., ma come comodato «ordinario», soggetto alla disciplina di cui agli artt. 1803 e ss., con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione anche oltre l'eventuale crisi coniugale, salva la sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno. Secondo le Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 1809 c.c., il bisogno che motiva la richiesta del comodante di restituzione del bene non deve essere grave ma imprevisto ed urgente, senza che rilevino bisogni non attuali, né concreti o solo astrattamente ipotizzabili. In caso di coppia di coniugi senza figli, invece, è stato riconosciuto il diritto del comodante alla restituzione dell'immobile detenuto dalla nuora dopo la separazione dal comodatario/figlio del comodante, affermando che il diritto ad abitare la casa familiare è «strumentale alla conservazione della comunità domestica e giustificato esclusivamente dall'interesse morale e materiale della prole», con la conseguente esclusione di qualsiasi diritto a favore della nuora senza figli (Cass. n. 9253/2005). La tesi argomentativa si basa essenzialmente sulla destinazione a casa familiare dell'immobile oggetto di comodato. In particolare, si precisa che la destinazione a casa familiare imprime al contratto un termine il cui spirare coincide con il venire meno della destinazione a casa familiare. I diritti dei terzi sulla casa coniugale L'assegnazione della casa non pregiudica le situazioni giuridiche soggettive dei terzi che vantino diritti di credito verso il genitore che ne sia proprietario. Il provvedimento di assegnazione, infatti, non impedisce al creditore di quest'ultimo di pignorarlo o determinarne la vendita coattiva (Cass. n. 12466/2012). L'esistenza di un provvedimento di assegnazione non è elemento che possa incidere sulla pignorabilità del bene. Secondo la giurisprudenza consolidata, ai sensi dell'art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall'art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero, ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto, anche oltre i nove anni (Cass. n. 11096/2002). Infatti, la mancata trascrizione del provvedimento di assegnazione esclude l'opponibilità del vincolo, oltre il periodo di nove anni dall'assegnazione, al terzo che abbia successivamente acquistato l'immobile dal coniuge che ne era proprietario, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che il titolo di acquisto del terzo contenga l'indicazione specifica dell'esistenza del diritto del coniuge assegnatario (Cass., n. 20144/2009). La giurisprudenza di legittimità ha anche stabilito che con riferimento all'opponibilità al terzo, a seguito di assegnazione della casa familiare (anche se non trascritta), disposta in favore dell'altro coniuge in occasione della separazione, sia giudiziale che consensuale, o in sede di divorzio, la clausola della separazione consensuale istitutiva dell'impegno futuro di vendita dell'immobile adibito a casa coniugale non è inscindibile rispetto alla pattuizione relativa all'assegnazione di detta abitazione, ma si configura come del tutto autonoma rispetto al regolamento concordato dai coniugi in ordine a detta assegnazione, riguardando un profilo compatibile con detta assegnazione in quanto sostanzialmente non lesivo della rispondenza di detta assegnazione all'interesse del figlio minorenne tutelato attraverso tale istituto; pertanto tale pattuizione non è modificabile nelle forme e secondo le procedure di cui agli artt. 710 e 711 c.p.c. (Cass. n. 24321/2007). Va anche detto che il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge, o al convivente, affidatario di figli minori (o maggiorenni non autosufficienti) è opponibile, nei limiti del novennio, ove non trascritto, anche al terzo acquirente dell'immobile, ma solo finché perdura l'efficacia della pronuncia giudiziale, sicché il venire meno del diritto di godimento del bene (ad esempio, perché la prole è divenuta maggiorenne ed economicamente autosufficiente) legittima il terzo acquirente dell'immobile, divenutone proprietario, a proporre un'ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna degli occupanti al pagamento della relativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento (Cass. I, n. 15367/2015). Con specifico riferimento alla convivenza di fatto, la Suprema Corte ha precisato che: «il diritto di godimento dell'immobile adibito a casa familiare attribuito al convivente more uxorio collocatario dei figli minori è opponibile all'avente causa dell'ex convivente proprietario dell'immobile, indipendentemente dall'anteriorità del trasferimento immobiliare rispetto al provvedimento di assegnazione, sempre che il terzo acquirente sia a conoscenza del pregresso rapporto di stabile convivenza e del vincolo di destinazione impresso al bene in data antecedente all'alienazione» (Cass. I, n. 17971/2015). I diritti dei terzi entrano certamente in conflitto con quelli del convivente titolare del diritto di godimento del bene, adibito a residenza familiare, nelle situazioni contemplate dalla legge n. 76/2016. Il diritto degli eredi a succedere subisce qualche limitazione nelle situazioni in cui, in ragione dell'art. 1, comma 42, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. La norma dispone, altresì, che ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni. Si consideri, altresì, la possibilità per i conviventi di stipulare un contratto di convivenza nel quale venga stabilito un il diritto al godimento dell'immobile adibito a casa familiare, quale corrispettivo di dazioni in denaro o prestazioni assistenziali, versate dal convivente superstite durante il rapporto more uxorio. Inserimento nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare Il comma 45 parifica la convivenza al matrimonio al fine di formare le graduatorie per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Detto altrimenti, il comma in commento prevede che il titolo o la causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare relativo all'appartenenza a un nucleo familiare, sia esteso anche ai conviventi di fatto, naturalmente a parità di condizioni. Si ritiene che la norma si estenda a tutta la disciplina riguardane l'edilizia popolare, quindi alle tradizionali sfaccettature dell'istituto, e rientranti nella categoria dell'edilizia pubblica, comunemente riconosciuta come edilizia popolare. In particolare: edilizia «sovvenzionata», mediante la quale i Comuni, con l'ausilio di enti pubblici a ciò dedicati, assegnano alloggi ai cittadini più bisognosi; quella «agevolata», che si manifesta nella previsione di tassi di interesse di favore, per i finanziamenti destinati alla costruzione di abitazioni di soggetti economicamente deboli; quella «convenzionata», che permette facilitazioni, di varia natura, alle imprese edili, che si impegnino a praticare prezzi accessibili ad un vasto pubblico. Affinché l'individuazione del soggetto non sia arbitraria e soggettiva, ma pubblica e regolata, l'assegnazione degli alloggi e.r.p. deve avvenire attraverso la pubblicazione di un bando. A fondamento dell'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica vi è il principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. nonché la precisa volontà di realizzare la dignità umana. Invero, gli alloggi e.r.p. devono essere considerati beni immobili destinati al perseguimento di finalità di interesse pubblico che devono, quindi, essere assegnati per legge solo agli aventi diritto. Di tutta evidenza risulta pertanto il fine ultimo che è quello di tutelare un bene primario quale quello dell'abitazione con riferimento a soggetti in condizioni di specifico e definito disagio. Nell'intento di individuare le caratteristiche dei nuclei familiari che hanno titolo per partecipare ai pubblici concorsi per l'assegnazione degli alloggi in questione, già a partire dalla seconda parte degli anni '90, le Regioni hanno mostrato un approccio particolarmente innovativo intendendo il più delle volte la famiglia in modo assai ampio, tanto da ricomprendervi unioni non matrimoniali. Da una breve indagine empirica effettuata per uno studio sulla convivenza more uxorio si è osservato, infatti, che la terminologia utilizzata dai legislatori regionali concerne sempre il singolo «convivente more uxorio», «la persona convivente», il «convivente abituale», «il convivente di fatto», «il convivente». Inoltre, si rileva che in quasi tutte le leggi regionali in materia è possibile rinvenire una sorta di enunciato dal seguente tenore: «Ai fini del presente articolo si intende per nucleo familiare la famiglia costituita da una persona sola ovvero dai coniugi, dai figli legittimi, naturali, riconosciuti, adottivi, dagli affiliati nonché dagli affidati per il periodo effettivo dell'affidamento, con i loro conviventi. Fanno, altresì, parte del nucleo familiare il convivente more uxorio, gli ascendenti, i discendenti, i collaterali fino al terzo grado, purché la stabile convivenza con il richiedente duri ininterrottamente da almeno due anni alla data di pubblicazione del bando di concorso e sia dimostrata nelle forme di legge». Domanda di interdizione e inabilitazioneI commi 47 e 48 dell'art. 1, della l. n. 76/2016, disciplinano la posizione del convivente nelle procedure per l'amministrazione di sostegno e per l'interdizione del partner. Il comma 47, va a colmare una lacuna di coordinamento tra la legge n. 6/2004, introduttiva dell'amministrazione di sostegno, e il codice di procedura civile (Lenti, Convivenze di fatto, 2016). L'art. 712, comma 2, c.p.c., con testo che risale al 1942, nell'elencare le persone il cui nome dev'essere indicato nel ricorso per l'interdizione, non menzionava il convivente. La citata legge n. 6/2004, se da un lato ha modificato l'art. 417, inserendo tra i legittimati alla richiesta anche il convivente, dall'altro lato invece ha omesso di fare tale aggiunta anche nell'elenco dell'art. 712, comma 2, c.p.c., visto lo stretto legame funzionale tra le due elencazioni. Il comma 47, quindi, stabilisce che «all'art. 712, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto». In tal modo, ne consegue che nel ricorso debbano essere indicati il nome, cognome e la residenza del convivente di fatto, in linea con quanto disposto dall'art. 407 c.c. per la disciplina dell'amministrazione di sostegno. Disciplina dell'amministrazione di sostegnoI commi 47 e 48 dell'art. 1, della l. n. 76/2016, disciplinano la posizione del convivente nelle procedure per l'amministrazione di sostegno e per l'interdizione del partner. Il comma 48 dell'art. 1, della l. n. 76/2016 dispone che il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all'art. 404 del codice civile. Tale normativa non ha apportato novità riguardo all'istituto dell'amministrazione di sostegno in quanto il legislatore ha confermato quanto già da tempo è previsto dal codice civile. La persona stabilmente convivente, infatti, fa parte dell'elenco delle persone sulle quali deve preferibilmente cadere la scelta del giudice per essere nominate come amministratore (all'art 408, comma 1 c.c.), o come tutore (art. 424, comma 3, c.c.), insieme con il coniuge non separato legalmente, i genitori, i figli, i fratelli e le sorelle e i parenti entro il 4 grado (Lenti, Convivenze di fatto., 2016) . La convivenza che giustifica la scelta del giudice deve essere connotata, per espressa previsione legislativa da stabilità. L'art. 408, comma 1, c.c., esclude dall'elenco il coniuge legalmente separato e lo sostituisce con l'inserimento del convivente, senza esigere lo stato libero ovvero lo scioglimento dell'eventuale matrimonio che leghi l'altro convivente. Quindi, indica chiaramente che la relazione familiare che giustifica la preferenza è data dal mero fatto del vivere insieme e non da un legame giuridico. Come evidenziato dalla dottrina, se si volesse far prevalere la lettera del combinato disposto dei commi 48 e 36 sull'art. 408, comma 1, c.c., sarebbero esclusi da questo elenco sia il convivente, se l'altro partner è ancora legato da un matrimonio, sia il coniuge, se legalmente separato (Lenti, Convivenze di fatto., 2016). Il comma 15 dell'art. 1, l. n. 76/2016, prevede, inoltre, che nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell'unione civile tra le persone dello stesso sesso. L'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell'unione civile, la quale può presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa. La parte unita civilmente, pur mancando una espressa previsione al riguardo, è legittimato a presentare ricorso per l'apertura dell'amministrazione di sostegno del partner in virtù del comma 20 dell'art. 1 della l. n. 76/2016. Con tale previsione (definita “clausola di salvaguardia”) il legislatore ha esteso alla parte unita civilmente tutte le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole coniuge, coniugi o termini equivalenti ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge e quindi, tutte le disposizioni del codice civile che regolano l'amministrazione di sostegno. Tale istituto si apre con decreto motivato del giudice tutelare quando concorrono congiuntamente i presupposti di cui all'art. 404 c.c. ovvero: 1) «la sussistenza di un'infermità o di una menomazione fisica o psichica» (requisito soggettivo); 2) «l'incidenza di tali condizioni sulle capacità del soggetto di provvedere ai propri bisogni» (requisito oggettivo). I compiti dell'amministratore di sostegno possono essere ampi e, nel concreto, sono precisati nel provvedimento del Giudice Tutelare (art. 405, comma 5, c.c.) il quale può, in ogni momento, modificare od integrare, anche d'ufficio, le decisioni assunti. L'amministratore, in ogni caso, è sempre tenuto ad informare con tempestività il beneficiario in merito agli atti da compiere, come pure il Giudice Tutelare nel caso di dissenso con lo stesso beneficiario (art. 410, comma 2, c.c.). Quindi, il Giudice Tutelare, all'atto della nomina dell'amministratore di sostegno, deve indicare, in relazione alla situazione e alle esigenze dell'amministrato, gli atti che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario e gli atti cui l'amministratore di sostegno deve dare il proprio assenso, prestando così assistenza al beneficiario . Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministrazione di sostegno. Costui può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. Per gli «atti di amministrazione straordinaria» il beneficiario o l'amministratore devono ottenere l'autorizzazione del Giudice Tutelare. La recente Riforma Cartabia (d.lgs. n. 149 del 2022) ha attribuito al notaio la competenza al rilascio delle autorizzazioni per il compimento di negozi giuridici per l'amministrazione di sostegno. L'autorizzazione del notaio dovrà essere comunicata alla Cancelleria del Tribunale competente e al Pubblico Ministero presso il medesimo tribunale. La Riforma prevede una disciplina transitoria ‘al fine di consentire un avvio consapevole, da parte degli operatori, delle novità normative'. Infatti, l'art. 35 del d.lgs. n. 149 del 2022 recita: “ Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”. La legge di Bilancio 2023 (Legge 29 dicembre 2022, n. 197) ha sostituito l'articolo 35 con il seguente tenore letterale: “ Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”. Il risarcimento del danno per morte o lesioni del conviventePrima della recente previsione legislativa, nel silenzio normativo, dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno subìto dal convivente more uxorio, per fatto illecito di un terzo, in caso di lesioni o morte del partner. La legge n. 76 /2016 ha equiparato, ai fini risarcitori, la posizione del convivente superstite con quella del coniuge superstite, limitandola all'ipotesi in cui in cui dal fatto illecito sia derivata la morte del convivente. Pertanto, la legge prevede che, in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da atto illecito di un terzo, per l'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri previsti per il risarcimento del danno del coniuge superstite (art. 1 comma 49 — l. n. 76/2016). La novità legislativa è la naturale evoluzione di un percorso che trova le sue radici nella giurisprudenza la quale, nonostante un'iniziale netta chiusura sul punto (Bardaro, 2011), aveva riconosciuto, con l'andare del tempo, il risarcimento dapprima del danno morale e poi di quello patrimoniale. Di fatto, essendo la convivenza sempre più diffusa nel nostro tessuto sociale, le sentenze di merito e di legittimità, avevano manifestato un'apertura verso il riconoscimento di alcune voci di danno a favore del partner superstite, a causa della morte del compagnocagionata dal terzo, sulla base di un giudizio di equità e giustizia sostanziale. La Suprema Corte (Cass. n. 2988/1994) aveva riconosciuto il diritto al risarcimento da fatto illecito causato da un evento mortale, con riguardo sia al danno morale sia a quello patrimoniale, anche al convivente more uxorio del defunto sul presupposto della prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto danneggiato, sulla base di una provata relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Anche recentemente la Corte ha riconosciuto che integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 c.c., giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell'art. 2 Cost., il pregiudizio arrecato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando sia contraddistinto da coabitazione. Mentre nell'ipotesi in cui le parti siano legate da un vincolo di fidanzamento, che, a prescindere da un rapporto di convivenza al momento dell'illecito, sarebbe stato destinato successivamente ad evolvere in matrimonio, il risarcimento del danno non patrimoniale trova fondamento nell'art. 29 Cost., inteso come norma di tutela costituzionale non solo della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, ma anche del diritto del singolo a contrarre matrimonio e ad usufruire dei diritti-doveri reciproci inerenti le persone dei coniugi, nonché a formare una famiglia quel modalità di piena realizzazione della propria vita individuale (Cass. n. 7128/2013). Per esempio in ipotesi di uccisione del figlio unilaterale del partner, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo il quale la sofferenza provata dal convivente «more uxorio» in conseguenza dell'uccisione del figlio unilaterale del partner, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l'attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, il quale non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione (Cass. n. 8037/2016) . Il risarcimento del danno da uccisione del prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Cass. n. 12278/2011). Tuttavia, in un primo momento la giurisprudenza non si era attestata su un univoco filone interpretativo atteso che vi erano state decisioni di merito che avevano ampiamente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale e non (Trib. Milano, 21 luglio 1998, in Resp. civ. prev., 2000, 763), ed altre che, al contrario, continuavano a negare al convivente more uxorio della vittima per illecito causato da un terzo qualsivoglia tutela, riportandosi al concetto per cui il danno è ingiusto soltanto giacché violativo di un diritto soggettivo. L'interpretazione restrittiva riteneva che il convivente more uxorio risultasse povero di legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni cagionati dall'uccisione del convivente, salva la dimostrazione della lesione di un proprio diritto, scaturente da legge o da patto nei confronti della persona offesa dal reato (Cass. I, 7 luglio 1992, in Giur. it., 1993, II, 659; Cass. 12 giugno 1987, in Arch. circolaz., 1988, 630; Cass. 5 novembre 1982, in Giust. pen., 1984, III, 243). In assenza di un diritto ascrivibile in capo al partner a godere di vantaggi e prestazioni da parte del convivente, nel caso di morte di quest'ultimo si riteneva che vi fosse, per il superstite, una mancanza di legittimazione a chiedere il risarcimento. La morte di una persona poteva essere fonte di risarcimento a favore di un terzo, solo nell'ipotesi in cui avesse provocato la lesione non solo di un interesse, ma di un diritto collegato alla sopravvivenza della vittima; ne conseguiva che, legittimati all'azione, erano solo i prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo non meramente affettivo ma affettivo-giuridico, per cui non era legittimato il convivente more uxorio, perché la sua pretesa non aveva fondamento giuridico nella legge (Cass. 21 settembre 1981, in Dir. e Pratica Assic., 1982, 716). Detta ricostruzione non fu più condivisibile già dal momento in cui il presupposto teorico sul quale si fondava l'orientamento suesposto, in altre parole, il «danno» in senso giuridico come la lesione di un diritto soggettivo perfetto, venne superato da una giurisprudenza che ridefiniva la fattispecie del «danno ingiusto» (ai sensi dell'art. 2043 c.c.) anche come lesione di qualsiasi situazione d'interesse «presa in considerazione dalla legge» (Cass. S.U., n. 500/1999). Cominciava, cioè, a farsi strada l'idea di poter contemplare il risarcimento del danno in questione in capo al convivente, purché fossero dimostrate la stabilità e la durevolezza del rapporto (Cass. III, n. 8976/2005; Cass. pen. IV, n. 33305/2002. Per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Milano, 21 febbraio 2007, in Fam. e dir., 2007, 938; Trib. Milano, 9 marzo 2004, in Danno e resp., 2005, 80; App. Milano 16 novembre 1993, in Foro it., 1994, I, 3212; Trib. Roma 9 luglio 1991, in Riv. giur. circ. trasp., 1992, 138) . Di fatto, non mancarono pronunce che riconoscevano la legittimazione ad agire in proprio, in caso di morte o lesione, in capo al titolare di una situazione di contatto con la vittima al di là, dunque, dei rapporti familiari, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame di fatto fosse consistito, se esso apparisse meritevole di tutela e in quale misura fosse stato effettivamente inciso (Cass. S.U., n. 9556/2002; Cass. n. 469/2009). Secondo tale mutato orientamento, nell'ambito della famiglia di fatto (ossia di quella relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplica in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale) la morte del convivente provocata da fatto ingiusto faceva nascere il diritto dell'altro al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c. (per il patema analogo a quello che s'ingenera nell'ambito della famiglia) e del danno patrimoniale ai sensi dell'art. 2043 c.c. (per la perdita del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere di stabilità, dal convivente defunto, essendo invece irrilevante la sopravvenuta mancanza di elargizioni meramente episodiche o di una mera ed eventuale aspettativa). Su questa base la Suprema Corte, con sentenza a Sezioni Unite n. 500/1999 aveva, poi, ampliato il novero dei legittimati ad agire riconoscendo un risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente more uxorio ed il figlio naturale non riconosciuto, sempre sul presupposto della sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Cass. n. 12278/2011; Cass. n. 7128/2013). In tema di danno morale va tenuto conto degli ultimi arresti della giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che: «In tema di liquidazione del danno morale, che, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni c.d. micro permanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinto dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico-relazionali, e che è risarcibile autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria, il giudice di merito non può limitarsi a liquidare la componente “sofferenza soggettiva” mediante applicazione automatica di una quota proporzionale del valore del danno biologico, né procedere alla riduzione, anche questa automatica, dell'importo corrispondente a quella del danno biologico commisurato alla durata della vita effettiva del danneggiato, ma deve preliminarmente verificare se a come tale specifica componente sia stata allegata e provata dal soggetto che ha azionato la pretesa risarcitoria, provvedendo successivamente, in caso di esito positivo della verifica, ad adeguare la misura della reintegrazione del danno non patrimoniale, indicando il criterio di “personalizzazione” adottato, che dovrà risultare coerente logicamente con gli elementi circostanziali ritenuti rilevanti ad esprimere l'intensità e la durata della sofferenza psichica» (Cass. n. 24075/2017). Con ordinanza n. 14746 del 2019 la Corte di Cassazione ha precisato che: “ In tema di danno non patrimoniale, qualora il giudice proceda alla liquidazione equitativa in applicazione delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa avere già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l' id quod plerumque accidit ; pertanto, nel caso di determinazione del danno a favore del convivente more uxorio del defunto, il giudice non può procedere ad una determinazione del relativo importo in misura inferire a quella minima prevista dalla corrispondente forbice tabellare, realizzando una discriminazione ontologica tra le convivenze di fatto e i rapporti coniugali fondati sul matrimonio, attesa l'espressa completa equiparazione, contenuta in dette tabelle, tra convivenze more uxorio e convivenze matrimoniali”. Pertanto, come rilevato anche da autorevole dottrina (Bardaro, 217), sussistendo un rapporto diretto tra il danno e il fatto lesivo, tutti coloro che avessero subito un danno, legati al soggetto leso da un rapporto di natura familiare o parafamiliare, avevano diritto al risarcimento. In assenza del riconoscimento giuridico della convivenza come situazione soggettiva dalla quale nascono diritti e doveri delle parti, la giurisprudenza di legittimità continuava a ritenere che il diritto al risarcimento del danno fosse da riconoscersi al convivente more uxorio soltanto quando risultasse dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale (Cass. n. 23725/2008), con riferimento sia al danno morale che patrimoniale i quali, a loro volta, presupponevano la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal compagno defunto e la previa dimostrazione dell'esistenza di uno stabile e duraturo legame affettivo che, per la significativa comunanza di vita e di affetti, fosse equiparabile al rapporto coniugale (Cass. n. 13654/2014). Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di legittimità, con ordinanza n. 8801 del 2023, la quale ha riconosciuto il risarcimento del danno per il decesso dovuto a fatto illecito anche al convivente more uxorio a patto però che la relazione sia caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Il risarcimento del danno dovrà comprendere sia quello non patrimoniale che quello patrimoniale, che, a sua volta, presuppone l'esistenza di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto danneggiato. Questo il percorso della giurisprudenza verso un'equiparazione che la novella espressamente riconosce (a prescindere dalla sottoscrizione di un contratto di convivenza) con applicazione dei medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Va precisato che l'art. 1 comma 49 della legge n. 76/2016 stabilisce, infatti, che soltanto in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite, mentre nessun riferimento viene fatto in ipotesi di lesioni. Va segnalata la recente apertura della giurisprudenza di legittimità, la quale recentemente ha affermato che la mancata convivenza non esclude il risarcimento del danno. La Corte di Cassazione, infatti, in tema di rapporto parentale, ha chiarito che il risarcimento del danno prescinde dalla semplice convivenza. Per provare di avere diritto al risarcimento del danno, ovvero per fornire una prova contraria, non ci si deve concentrare sull’aspetto della vicinanza fisica, ma sul legame affettivo. Ove si sia provata l’effettività e la consistenza di una relazione, la mancanza del rapporto di convivenza non è rilevante (Cass. n. 22397/2022). Danno da lesioni arrecate al convivente Il comma 49 della legge in commento stabilisce, in buona sostanza, che qualora il fatto illecito di un terzo cagioni la morte di un convivente di fatto, nell'individuazione del danno risarcibile in favore della parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno del coniuge superstite. Nell'ipotesi di lesioni subite a causa dell'illecito di un terzo dal partner, in assenza di un riconoscimento normativo, non esiste una parificazione tra la situazione giuridica del convivente e quella del coniuge. La svista legislativa appare incomprensibile, tenuto conto che le lesioni, soprattutto se gravi, causato all'unito civilmente, possono certamente arrecare un pregiudizio risarcibile al partner, anche in ragione del fatto che la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile, il diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni di una persona in favore del convivente more uxorio, pur essendo sempre sempre necessario fornire, con qualsiasi mezzo, la prova dell'esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di una vicendevole assistenza morale e materiale (Cass. II, n. 12278/2011. Si veda anche Cass. pen. I, n. 6587/2010). Si tratta di una prova che può essere fornita con qualsiasi mezzo, dovendo il convivente provare l'esistenza di uno stabile rapporto fondato su una relazione affettiva, mentre non può ritenersi sufficiente il certificato anagrafico con il quale si può provare, al più, la mera coabitazione, elemento non idoneo a dimostrare la condivisione di pesi e oneri di assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a quella matrimoniale. (Cass. III, n. 8976/2005). Risarcibilità della sofferenza morale del convivente Nel silenzio della legge ci s'interroga su quale tipo di ristoro possa essere riconosciuto, nella convivenza di fatto, al compagno di vita di colui che subisce lesioni per illecito di un terzo. Si parta dal presupposto che la sofferenza morale costituisce un danno risarcibile non solo quando è causata da lesioni patite direttamente dalla vittima, ma anche quando è causata da lesioni personali patite da un proprio congiunto. In passato, la risarcibilità di tale pregiudizio veniva negata dalla giurisprudenza sulla base del presupposto che solo il soggetto leso poteva considerarsi vittima del reato, e quindi solo questi aveva diritto al risarcimento del danno morale ex art. 185 c.p. (Cass. n. 11396/1997; Cass. n. 4671/1996; Cass. n. 11414/1992; Cass. n. 6854/1988; Cass. n. 1845/1976. Di contro: Trib. Napoli 31 dicembre 1996, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, 837; Trib. Verona 4 marzo 1991, in Giur. merito, 1992, 823. Trib. Milano 18 giugno 1990, in Giur. merito, 1992, 358). Dopo l'insorgere di vari contrasti su tale questione (Cass. n. 4186/1998; Cass. III, n. 13358/1999; Cass. III, n. 4852/1999), l le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 9556/2002, hanno stabilito che anche i prossimi congiunti della vittima primaria di lesioni personali hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale consistito nel dolore e nell'afflizione provati per la sofferenza del proprio caro (Cass.S.U.,n. 9556/2002). A tale conclusione le Sezioni Unite sono pervenute sulla base di due argomentazioni: - attraverso una rivisitazione del principio di «nesso causale», ammettendo che la sofferenza morale patita dai prossimi congiunti del leso non è un danno «da rimbalzo», ma è un danno immediato e diretto, come tale risarcibile sia in base all'art. 40 c.p., sia in base all'art. 1223 c.c.; - negando che gli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. fossero d'ostacolo alla risarcibilità del danno in esame, perché la persona danneggiata dal reato non deve necessariamente coincidere col titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Dopo l'intervento delle Sezioni Unite l'affermazione della risarcibilità della sofferenza morale patita dai congiunti del leso è divenuta ius receptum (Cass. III, n. 8546/2008; Cass. III, n. 14581/2007; Cass. III, n. 23865/2006; Cass. III, n. 19316/2005; Cass. III, n. 10816/2004; Cass. III, n. 4993/2004; Cass. III, n. 10996/2003; Cass. III, n. 7629/2003; Cass. III, n. 7379/2003; Cass. III, n. 2888/2003). La Suprema Corte con sentenza Cass. n. 8037/2016, ha chiarito che in caso di morte a seguito di sinistro stradale, al convivente more uxorio della madre della vittima può essere risarcito il danno tanatologico solo se viene provata una convivenza duratura. Secondo la Cassazione: «il danno non patrimoniale consiste nella violazione di interessi della persona non suscettibili di valutazione economica (Cass.S.U., n. 26972/2008), pertanto sarà ipotizzabile un danno non patrimoniale non risarcibile, in quanto: a) sia stato leso un interesse non patrimoniale della persona; b) l'interesse leso sia “preso in considerazione” dall'ordinamento. In aggiunta a queste due condizioni, la risarcibilità del danno non patrimoniale esige anche che: c) ricorra una delle ipotesi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.); d) la lesione dell'interesse sia stata di entità tale da superare la soglie minima di tollerabilità (Cass. n. 16133/2014)». Per la Suprema Corte il rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore può dirsi rilevante per il diritto quando si inserisca in quella rete di rapporti che sinteticamente viene qualificata come “famiglia di fatto”. Ed è solo in tale ipotesi che può dirsi costituita una formazione sociale ai sensi dell'art. 2 Cost., come tal meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio. Il risarcimento del danno da morte del convivente: i danni risarcibili iure hereditatis Si è detto che in caso di decesso del convivente di fatto, per fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite, l'art. 1 comma 49 della legge n. 76 del 2016 ha espressamente previsto l'applicazione dei medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Il convivente ha diritto, a tutti gli effetti, ad un risarcimento equivalente a quello del coniuge. Pertanto, il partner, così come il coniuge, in conseguenza dell'evento mortale del proprio compagno di vita, godrà delle conseguenze risarcitorie che si producono direttamente nel patrimonio della vittima, e dunque, destinate a trasmettersi in favore degli eredi secondo le ordinarie regole della successione mortis causa. In linea generale, si ricordi che al fine di riconoscere un risarcimento del danno biologico iure hereditatis in favore degli eredi del soggetto deceduto, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, era necessario che tra la data del fatto e quella del decesso fosse decorso un lasso di tempo sufficiente a permettere un consolidamento del danno in oggetto. Tale principio, confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale (Cass. n. 372/1994) era in linea con le Convenzioni internazionali a tutela dei diritti dell'Uomo, avendo la Suprema Corte, con sentenza n. 354923/2004, affermato che uno strumento di tutela del diritto alla vita è comunque apprestato dalla sanzione penale, non essendo possibile al giudice nazionale, non già disapplicare la norma interna in contrasto con quella sopranazionale, ma creare un diritto ex novo, come accadrebbe laddove si riconoscesse il diritto al risarcimento del cd. danno biologico da morte (Cass. n. 354923/04; Cass. III n. 870/2008). Una pronuncia da ultimo intervenuta (Cass. III, n. 1361/2013) ha individuato, come categoria di danno non patrimoniale risarcibile ex se, il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile. Si tratta di un danno del tutto autonomo rispetto al danno alla salute, in ragione del diverso bene tutelato. I danni risarcibili iure proprio agli eredi A quelli configurati in quanto ascrivibili alla sfera del defunto (e dunque trasmessi iure haereditatis), si aggiungono i c.d. danni iure proprioche, pur trovando la loro ratio nell'evento che colpisce la vittima principale, si producono nella sfera giuridica delle vittime secondarie, ossia, quei soggetti che acquistano il diritto al risarcimento del relativo pregiudizio, non in quanto eredi, ma in quanto danneggiati in proprio. Questi sono il danno biologico e il danno morale. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione proposta “iure proprio” dai congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrare l'ampiezza e la profondità (Cass. n. 21230/2016). Infatti, in caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (c.d. danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell'attore allegare e provare (Cass. n. 21060/2016). Quindi anche per gli uniti civilmente, alle suddette ipotesi di danno derivanti dall'uccisione di un congiunto, si aggiungono il danno morale e il danno derivante dalla perdita del rapporto parentale. In ipotesi di uccisione di un convivente ciò che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale è, fondamentalmente, il legame affettivo t, perfettamente idoneo a fondare, già di per sé (salvo prova contraria), la legittimazione attiva a pretendere il danno da morte . Con la conseguenza che il peculiare rapportocon la vittima, l'intensità del vincolo familiare, le abitudini di vita, le effettive sofferenze individualmente patite, la sussistenza di una situazione di convivenza tra i soggetti in questione ed ogni altro elemento della fattispecie, possono incidere esclusivamente sul quantum, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto. Ciò consente di comprendere meglio l'esigenza del legislatore che, da ultimo, ha ritenuto necessario riconoscere anche al convivente di fatto i medesimi diritti attribuiti al coniuge e ad altre figure della sfera familiare della vittima. La prova del rapporto di convivenza non può fondarsi sul fatto notorio, né sulle dichiarazioni dell'interessato che rivendichi il risarcimento, non avendo tali dichiarazioni alcuna rilevanza probatoria. Il relativo onere della prova grava sull'attore, che potrà avvalersi, a tal fine, di tutti i mezzi di prova previsti dall'ordinamento. Al riguardo, a conferma della tendenziale omologazione della convivenza allo stile matrimoniale al fine di accertarne la sussistenza, la giurisprudenza ha sottolineato che le dichiarazioni anagrafiche, pur attestando lo stato di coabitazione, non sono sufficienti a dimostrare altresì l'intensità del rapporto personale tra le parti, ossia la condivisione di pesi ed oneri di assistenza personale e di collaborazione domestica analoghi a quelli matrimoniali. Il giudice quindi dovrebbe accertare se i conviventi, oltre a coabitare stabilmente, siano legati da una reale volontà di piena unione, fatto di assistenza reciproca, condivisione dei pesi e oneri del mantenimento reciproco. La recente evoluzione della giurisprudenza in tema di risarcimento del danno può essere sintetizzata nel principio espresso recentemente dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 238/2017, secondo cui: «la perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto, del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva, del danno non patrimoniale. Nella valutazione dell'entità del danno da perdita del congiunto occorre considerare l'età della persona deceduta e dei figli superstiti, la composizione del nucleo familiare ed il rapporto di convivenza». Il danno patrimoniale Il risarcimento del danno patrimoniale espressione di un'istanza di giustizia che si concreta nelle relazioni reali tra gli individui che, come si è detto, ai sensi dell'art. 1 comma 49 va riconosciuto al convivente, a consistendo nella diminuzione dei vantaggi e delle utilità che egli trae a sé, purché suscettibili di valutazione economica. (Gazzoni in Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 730; Cass. n. 1690/2008). Per quanto attiene alla sfera del danno patrimoniale iure proprio questo si configura sia come danno emergente, consistente nelle spese causate dal decesso del convivente che saranno risarcite oppure nella perdita di utilità che, per legge (ad es., ex art. 230-bis, 315,433 c.c.) o per solidarietà familiare, sarebbero state conferite dal soggetto scomparso (Cass. n. 23/1988). Il risarcimento del danno patrimoniale subìto dal superstite, dunque, include quella quota di reddito prodotta dal defunto che il partner non può più utilizzare per le sue personali esigenze e sulla quale faceva pieno affidamento. Il risarcimento del danno patrimoniale dovuto al parente superstite, si ottiene combinando il reddito del defunto, la quota del reddito del defunto attribuibile al danneggiato prima della morte, gli anni di durata dell'obbligo giuridico di assistenza che il defunto aveva nei confronti del danneggiato, l'età del defunto e l'età del danneggiato. Nella quantificazione del risarcimento possono concorrere altri elementi utili, desumibili dal fatto concreto. Al fine di ottenere il risarcimento di tale tipo di danno, grava sul richiedente l'onere di provare — anche per presunzioni, ex art. 2727 c.c. — una stabile contribuzione del defunto in proprio favore (Trib. Roma 1 luglio 2002, Lincoln c. Uniass; Trib. Roma 17 febbraio 2002, Ford c. Di Francia; Cass. III, n. 12756/1999), oltre che la stabile convivenza, secondo i criteri individuati nei paragrafi che precedono. Il solo fatto della convivenza col defunto, pur costituendo un indizio circa l'esistenza della contribuzione, sono ritenuti elementi insufficienti a far presumere l'esistenza di una stabile contribuzione del defunto in favore del superstite, la quale si sarebbe potuta ammettere soltanto previa dimostrazione — ad esempio — dell'insufficienza dei redditi dei familiari conviventi al proprio sostentamento (Cass. III, n. 10085/1998). In sostanza, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta, a norma dell'art. 2043 c.c., ai congiunti di persona deceduta a causa dell'altrui fatto illecito, richiede l'accertamento in concreto che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro ove il de cuius non fosse venuto meno (Cass. III, n. 18177/2007; Cass. III, n. 2318/2007). E’ stato anche precisato che in caso di lesione dell’integrità fisica che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, è configurabile un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, la cui entità dipende non già dalla durata dell’intervallo tra la lesione e la morte bensì dall’intensità della sofferenza provata (Cass. n. 3260/2007; Cass. n. 1072/2011; Cass. n. 7126/2013; Contra v. Cass. S.U. n. 15350/2015). Dunque, non sussiste un incondizionato ed automatico diritto del convivente al risarcimento del danno patrimoniale da lutto; automatismo che, peraltro, manca anche riguardo al coniuge all'interno della famiglia fondata sul matrimonio. La morte della persona cara, invero, non si traduce ipso iure in un danno di natura patrimoniale, se non nei limiti in cui venga meno il suo contributo apportato in vita con carattere non meramente episodico. La responsabilità medica Anche nel caso di danno derivante da responsabilità medica che abbia causato la perdita del proprio familiare e, di conseguenza, del rapporto parentale con lo stesso, la legge riconosce al partner un diritto sovrapponibile a quello del coniuge. L'art. 1 comma 49 della legge n. 76/2016 stabilisce, infatti, che in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Pertanto, diversamente da un recente passato in cui sia in caso di morte che di lesione del prossimo congiunto, arrecata dal medico a danno del convivente non unito in matrimonio, non era riconosciuto in sé un diritto al risarcimento, oggi, a prescindere dalla formalizzazione del legame coniugale, tale diritto viene ascritto in capo al convivente superstite in caso di morte. Il danno risarcito è sempre ascrivibile al danno da perdita del rapporto parentale che, dunque, consiste nella privazione di un valore non economico ma personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto (coniuge o convivente) dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali. L'intensità del vincolo familiare, ai fini della valutazione del danno morale conseguente alla morte del convivente, può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la prova dell'esistenza del menzionato danno morale. Quanto sopra trova conferma in svariate pronunce della Cassazione tra le quali una recente sentenza (Cass. n. 46351/2014) che ha evidenziato come, in tema di risarcibilità dei pregiudizi di natura non patrimoniale, conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona, il riferimento ai «prossimi congiunti» della vittima primaria, quali soggetti danneggiati iure proprio, deve essere inteso nel senso che, in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra questi ultimi e la vittima, è proprio la lesione che colpisce tale peculiare situazione affettiva a connotare l'ingiustizia del danno e a rendere risarcibili le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate (se e in quanto queste siano allegate e dimostrate quale danno-conseguenza), a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali. Per ragioni di completezza si ricorda che in tema di responsabilità del medico e della struttura sanitaria è intervenuta la legge 8 marzo 2017, n. 24. La Corte di Cassazione (Cass. n. 5590/2015) ha stabilito che nell'attività medico chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del contratto sociale) e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per l'effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari ed allegare la colpa della struttura, restando a carico dell'obbligato — sia esso sanitario o struttura — la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Sotto un ulteriore profilo, la giurisprudenza ha affrontato la questione relativa all'eventuale peggioramento delle condizioni del paziente in seguito all'intervento chirurgico, precisando che, in tale circostanza, il paziente danneggiato deve provare esclusivamente di essersi sottoposto all'intervento presso la struttura e di aver riportato, a causa dell'intervento, un obiettivo peggioramento delle proprio condizioni fisiche che si trovi in rapporto di causalità con l'intervento stesso. Spetta invece al medico o alla struttura sanitaria dimostrare non soltanto che non siano stati compiuti errori nella esecuzione dell'intervento ma anche che l'obiettivo aggravamento sia dovuto a una causa individuata non imputabile alla struttura (Cass. n. 8826/2007; Cass. n. 24791/2008; Cass. n. 20904/2013). Per altro verso, nel sistema civilistico il nesso di causalità materiale consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso. Un'impostazione, questa, recepita e superata dalla legge n. 76/2016 che ha riconosciuto il diritto del partner superstite (sia nell'ambito di un'unione civile che di una convivenza di fatto) al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, per il grave perturbamento psichico subito e per la privazione di un sostegno morale e materiale. In conclusione, secondo la giurisprudenza prevalente la famiglia more uxorio e quella che si formalizza in una convivenza di fatto o in una unione civile assumono, nelle ipotesi di uccisione del congiunto, la stessa considerazione giuridica riconosciuta alla famiglia fondata sul matrimonio, senza discriminazione alcuna (Cass. n. 15760/2006; Cass. n. 2988/1994). La responsabilità per infortunio e sinistro stradale Anche alla fattispecie di infortunio o di incidente stradale ad opera di un terzo che abbia causato la morte del congiunto, si ricollega oggi, per espressa previsione normativa (art. 1 comma 49 della legge n. 76/2016), il diritto al risarcimento del danno del partner della vittima che sia convivente di fatto. Parimenti nell'ambito di un'unione civile, laddove la novella ha equiparato la posizione delle parti che la sottoscrivono a quella dei coniugi (art. 1 comma 20 legge n. 76/2016). Ne consegue che in capo al partner superstite, che si tratti di una coppia di fatto o di un'unione civile, è ascrivibile il diritto al risarcimento del danno per la morte del compagno causata da incidente stradale. A tale soluzione si è giunti conferendo un riconoscimento formale ad un percorso iniziato, come detto, dalla giurisprudenza che per prima aveva aperto la strada a tale fattispecie. Già prima dell'intervento normativo, in relazione alla responsabilità civile dalla circolazione di veicoli (Cass. n. 8976/2005) si era percepita, infatti, la necessità di riconoscere rilevanza sociale, etica e giuridica della convivenza; tuttavia con le dovute limitazioni. Presupposto per richiedere il risarcimento del danno derivante da lesione materiale, cagionata al convivente, era l'esistenza e la portata dell'equilibrio affettivo — patrimoniale instaurato con la medesima e, perciò, l'esistenza e la comunanza di vita e di affetti con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo a tal fine sufficiente la prova di una relazione amorosa, per quanto caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi poteva legittimare la richiesta di analoga tutela nei confronti dei terzi. Diritto agli alimentiAi sensi dell'art. 1, comma 65, della legge n. 76/ 2016, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. La disposizione è la naturale conseguenza dell'obbligo di assistenza materiale (e morale) che scaturisce dal rapporto ai sensi dell'art. 1, comma 36, legge cit . La disposizione impone delle riflessioni preliminari. Va precisato che la norma, come per tutta la disciplina in materia di convivenza, non può ritenersi applicabile ai rapporti di convivenza non riconducibili alla legge n. 76/2016, ossia a quei legami affettivi, sia pure stabili, caratterizzati da reciproca assistenza morale e materiale, ma non regolamentati da un contratto di convivenza. Il diritto agli alimenti sorge al momento in cui cessa la convivenza. Il venire meno della coabitazione non rappresenta un elemento di prova della cessazione della convivenza. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in tema di famiglia di fatto ha precisato che la coabitazione non è un elemento determinante per provare una convivenza more uxorio. Quindi il giudice è tenuto a verificare mediante un accertamento in fatto l'esistenza di un rapporto di stabile convivenza, individuato secondo i criteri stabiliti dalla legge n. 76/2016. Si è detto che l'interpretazione dominante non tiene conto del valore costitutivo della dichiarazione anagrafica, prevista dal comma 37, dell'art. 1, pertanto tale dichiarazione non può rappresentare elemento di prova per avere diritto agli alimenti. Gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'art. 438, secondo comma, del codice civile. Se è il giudice a dover stabilire la durata della convivenza, questo accertamento può anche non coincidere con quanto indicato nella dichiarazione anagrafica. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati ai sensi dell'art. 433 del codice civile, l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle. Il legislatore garantisce per il convivente la soddisfazione degli essenziali bisogni economici dei soggetti prevedendo, come espressione del dovere di solidarietà familiare, specifici obblighi di assistenza materiale a favore del compagno: gli alimenti. La tutela dell'individuo che si trova in stato di bisogno è imposta dalla legge ad una cerchia di soggetti determinati, che sono potenzialmente tenuti ad adempiere all'obbligo alimentare. Gli obbligati sono scelti in base ad un particolare legame che li unisce alla persona bisognosa: coniugio, parentela, affinità, donazione. Il legame tra potenziale obbligato e soggetto bisognoso, in virtù del quale viene imposto l'obbligo alimentare, può derivare da un rapporto di coniugio (art. 433, n. 1, c.c.; v. anche l'art. 129-bis c.c.), da un rapporto di parentela (legittima, legittimata, naturale o adottiva) in linea retta, sia discendente sia ascendente (con precedenza della linea discendente su quella ascendente) e senza limite di grado (con precedenza del grado prossimo rispetto al remoto), da un rapporto di affinità in linea retta di primo grado, limitatamente ai generi e alle nuore (art. 433, n. 4, c.c.) e ai suoceri e alle suocere (art. 433, n. 5, c.c.), da un rapporto di parentela in linea collaterale di secondo grado: fratelli e sorelle germani e unilaterali (consanguinei o uterini), con precedenza dei germani sugli unilaterali (art. 433, n. 6 c.c.). Gli alimenti (Titolo XIII, libro I, artt. 433 e 448-bis c.c.) sono appunto le prestazioni di assistenza materiale dovute per legge alla persona che si trovi in stato di bisogno, ossia nell'incapacità di provvedere economicamente a quanto necessario per le proprie esigenze di vita (art. 438, II c. c.c.) e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento (art. 438, I c. c.c.). Il diritto agli alimenti va tenuto distinto da quello al mantenimento. Il diritto al mantenimento è una forma di assistenza economica che ha un contenuto molto più ampio rispetto a quello agli alimenti e va ben oltre la soddisfazione dei semplici bisogni primari. La «ratio» dell'istituto è quella di garantire a chi lo riceve di mantenere le stesse condizioni di vita in costanza di matrimonio, sia al coniuge beneficiario dell'assegno, sia ai figli nati dal rapporto di coniugio. Questo diritto prescinde dallo stato di bisogno del beneficiario e spetta al coniuge che non ha avuto alcuna responsabilità nella separazione. In particolare, la richiesta di ricevere l'assegno di mantenimento può essere avanzata, in sede giudiziale, solo nel caso in cui non vi sia stato addebito della separazione. I presupposti dell'obbligo alimentare sono, invece, l'esistenza di un legame soggettivo fra avente diritto ed obbligato e, sotto il profilo oggettivo, l'esistenza di uno stato di bisogno dell'alimentando e la correlata incapacità dello stesso di provvedere al proprio mantenimento, oltre, ovviamente alla capacità economica dell'obbligato. Il diritto agli alimenti è quindi legato alla prova non soltanto dello stato di bisogno, ma anche dell'impossibilità, da parte dell'alimentando, di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento. Assume, pertanto, rilievo anche l'eventualità che lo stato di bisogno dipenda da colpa dell'alimentando stesso. Secondo la dottrina, questa circostanza va valutata con attenzione. Infatti, il diritto agli alimenti spetta, anche se lo stato di bisogno sia derivato da una condotta colpevole. In questo caso, ai sensi dell'art. 440, comma 1, c.c. la misura degli alimenti può essere ridotta in ragione della condotta disordinata e riprovevole tenuta dall'alimentando. Inoltre, in dottrina e giurisprudenza si sostiene che la possibilità dell'alimentando di lavorare non è sufficiente a farlo ritenere obbligato a provvedere autonomamente alla propria sussistenza. Ciò in quanto l'alimentando ha diritto di trovare una occupazione confacente alla sua età, alle sue attitudini fisiche e psichiche, alle sue abitudini di vita ed alle sua condizioni sociali. Ne consegue che laddove non sia possibile per circostanze intrinseche non imputabili all'alimentando, gli alimenti gli sono dovuti pur avendo capacità lavorativa. Lo stato di bisogno va valutato in concreto con riferimento alle effettive condizioni del soggetto. Nelle ipotesi contemplate dal comma 65 della l. n. 76/2016, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'art. 438, comma 2, del codice civile. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati, ai sensi dell'art. 433 c.c., l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle. Dunque, per l'attribuzione degli alimenti è richiesta l'esistenza di una convivenza e lo stato di bisogno ovvero l'incapacità di uno dei due conviventi di provvedere al necessario per vivere. Tale obbligo trova fondamento nella solidarietà familiare e grava in primo luogo proprio su coloro che fanno parte di uno stesso gruppo familiare. Lo stato di bisogno esiste quando la persona non ha redditi sufficienti a soddisfare le esigenze fondamentali di vita (Cass. n. 19579/2011, ha ritenuto in stato di bisogno il coniuge separato con addebito che percepiva una modesta pensione di invalidità ed era costretto a convivere con i propri genitori), né può procurarseli svolgendo una attività lavorativa (Cass. n. 25248/ 2013) e non ha beni da alienare per poi utilizzare il ricavato per il sopra citato fine (Cass. n. 2825 del 31 luglio 1958, in Giur. it., 59, I, 1, 558; Cass. n. 1748 del 21 maggio 1956, in Giust. civ., 56, I, 1678). Per «bisogni da soddisfare» si intendono il vitto, alloggio, vestiario, cure mediche e via discorrendo ovvero quelli che garantiscono un tenore di vita dignitoso. La persona nei cui confronti viene presentata richiesta di erogazione degli alimenti, ne è obbligata se titolare di un reddito tale da poter far fronte alle esigenze del bisognoso, dopo aver soddisfatto i propri bisogni di vita e della famiglia, altrimenti in caso contrario tale obbligo incombe sul congiunto di grado successivo. Secondo parte della giurisprudenza, debbano essere considerati non solo i redditi ma anche tutte le altre sostanze e risorse patrimoniali dell'obbligato. L'art. 438 c.c., comma 2, invece, nel far riferimento alle «condizioni economiche dell'obbligato» lascia intendere che debbano essere valutati i proventi, e non anche le potenzialità patrimoniali. Nel momento in cui si verificano i presupposti indicati, il familiare bisognoso al fine di vedersi riconosciuto il diritto agli alimenti deve proporre una domanda giudiziale (Cass. n. 25248/2013). Gli artt. 433 e 437 c.c., specificano tassativamente le persone obbligate a prestare gli alimenti che nell'ordine sono: donatario, coniuge, figli, discendenti prossimi, adottante, genitore, ascendenti prossimi, generi e nuore, suocero e suocera, convivente, fratelli e sorelle germani, fratelli e sorelle unilaterali, ex coniuge al quale sia stato imputato l'annullamento del matrimonio. L'art. 445 c.c., stabilisce che gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell'obbligato. Pertanto, anche se il diritto agli alimenti in teoria nasce nel momento in cui si verifica lo stato di bisogno, in pratica non decorre prima della domanda. Il giudice deve valutare l'esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del diritto alimentare, ovvero il rapporto di parentela, lo stato di bisogno, la capacità economica dell'obbligato. Inoltre, ai sensi dell'art. 440 c.c., comma 1, gli alimenti possono essere ridotti nel caso in cui si noti una condotta disordinata o riprovevole dell'alimentato, e ciò si verifica quando costui una volta ottenuto il diritto non utilizza i mezzi concessogli in modo conforme alla loro reale destinazione, ma li sperperi. Il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi, dopo la legge Cirinnà, sulla questione del diritto agli alimenti, ha (decreto del 23 gennaio 2017) precisato che gli alimenti sono dovuti soltanto se sorge lo stato di bisogno e una situazione di difficoltà economica estrema ben diversa dal mantenimento, finalizzato, infatti, a consentire la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. BibliografiaAa.Vv., Matrimonio, matrimonii, a cura di Brunetta D'Usseaux, D'Angelo, Milano, 2000; Balletti, Le coppie omosessuali, le istituzioni comunitarie e la Costituzione italiana, in Rass. dir. civ. 1996; Barbagli, Omosessuali moderni, Bologna, 2001; Bardaro, Il convivente della vittima, in Trattato dei nuovi danni, diretto da Cendon, vol. III, Uccisione del congiunto. Responsabilità familiare. Affido, Adozione, Padova, 2011; Bellezza, La casa familiare e la valutazione degli interessi rilevanti ai fini del provvedimento di assegnazione, nota a Cass. 27 febbraio 2009, n. 4816, in Giur. it., 2009, 2676; Bonini Baraldi, Società pluraliste e modelli familiari: il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Olanda, in Familia 2001; Colucci, Comodato di casa familiare: la SS.UU. confermano il criticabile orientamento precedente, in Immobili&Proprietà 2015, 1; Colucci, Comodato di immobile e destinazione ad abitazione della famiglia di fatto, in Contratti 2011; Coppola, La famiglia non fondata sul matrimonio, in Tratta di diritto di famiglia, diretto da Bonilini, I, Assago, 2016; Cubeddu, La casa familiare, Milano, 2005; De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016; Del Prato, Patti di convivenza, in Familia 2002; Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. e dir. n. 10/2016; Dosi, La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, Milano, 2016; Fanchiotti, Diritto alla privacy, in Indice penale 1994; Fasano-Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle Unioni Civili, Milano, 2016; Ferrando, La disciplina dell'atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir. n. 10/2016; Fiandaca, Musco, Diritto penale, parte speciale, II, Bologna, 2007; Finocchiaro, Basta la dichiarazione all'ufficiale dello stato civile, in Unioni civili e convivenze, in Guida dir. n. 06/2016; M. Finocchiaro, Risarcito il decesso provocato da un altro se il legame è duraturo, in Guida dir. 2016, n. 25, 79; Forder, Riconoscimento e regime giuridico delle coppie omosessuali in Europa, in Riv. critica dir. priv. 2000; Grassetti, Famiglia, in Dig. disc. priv. sez. civ., Torino, VIII, 1990; Grillini, Omosessuali e diritti. Il Pacs in Francia e il confront con la situazione italiana, in Riv. critica dir. priv. 2000; Jannarelli, L'assegnazione della «casa familiare» nella separazione personale dei coniugi, in Foro it. 1981, I; Longo, Le convivenze «registrate» nei paesi dell'U.E., in Notariato 2000; Lenti, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in juscivile.it, 2016; Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir. 2016; Mecenate, Successioni, forma e pubblicità, diritto internazionale privato, in La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016; Napolitano, L'affidamento dei minori nei giudizi di separazione e di divorzio, Torino, 2006; Nardocci, Dai moniti del Giudice costituzionale alla condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo. Brevi note a commento della sentenza Oliari e altri c. Italia, in Forum di Quaderni costituzionali, in forumcostituzionale.it, 2015; Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettiva in Italia ed Europa, Padova, 2012; Pacia, Unioni civili e convivenze, in juscivile.it, 2016; Padovani, Violenza in famiglia, in Guida dir. 2007, 5; Pocar, Destrutturazione della famiglia e relazione della coppia, in Indice penale 1994; Paradiso, La comunità familiare, Milano, 1984; Passerella, Concessione di comodato di immobile con vincolo di destinazione a casa, in I contratti, Riv. di dottrina e giurisprudenza, 2013, 3; Quadri, Affidamento dei figli ed assegnazione della casa familiare: la recente riforma, in Familia 2006; Roppo, Famiglia di fatto, in Enc. giur., XVI, Roma, 1999; Ruscello, La famiglia tra diritto interno e normative comunitaria, in Familia 3, 2001; Sbabo, Sub art. 612-bis, in Codice penale ipertestuale, Torino, 2009; Schlesinger, Una risoluzione del Parlamento Europeo sugli omosessuali, in Corr. giur. 1994; Segreto, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della corte costituzionale e della Corte di Cassazione, in Dir. Fam. 1998, 4; Sesta, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, in Familia 2006; Scalisi, Famiglia di fatto e diritto del convivente more uxorio alla proroga del rapporto locativo, in Riv. giur. edil. 1980, I; Simeone, Lo scioglimento dell'unione civile: il legislatore furioso ha fatto le norme cieche, in IlFamiliarista.it 30 maggio 2016; Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001; Trimarchi, Il disegno di legge sulle unioni civili e sulle convivenze: luci ed ombre, in Juscivile.it, n. 05/2016; Trimarchi, Unioni civili e convivenze, in Fam. e dir. n. 10/2016; Valsecchi, sub art. 612 bis c.p., in Codice penale commentato E. Dolcini, G. Marinucci, Milano, 2011; Villani, Assegnazione della casa familiare e cause della perdita del diritto al godimento dell'immobile: l'interpretazione dell'art. 155 - quater c.c. operata dalla Corte costituzionale, in Nuova leggi civ. comm. 2008, 09; Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tr. Res., III, II Torino, 1996. |