Il diniego dell'esecuzione.
Fermo il rinvio all'ordinamento dello Stato richiesto, la disciplina dei casi di diniego dell'esecuzione espressamente contemplati dal legislatore europeo (che, come detto, non possono essere pregiudicati dalle regole nazionali) è dettata al secondo paragrafo dell'articolo 21 il quale pone la distinzione tra casi in cui il diniego (totale o parziale) dell'esecuzione è obbligatorio e casi nei quali, invece, il diniego (totale o parziale) dell'esecuzione è rimesso ad una valutazione discrezionale del giudice (ferma sempre la necessaria iniziativa di parte).
Il diniego è obbligatorio nel caso in cui il giudice dell'esecuzione ritenga fondata l'eccezione di prescrizione del diritto. Peraltro, con una previsione che, ancora una volta, conferma il favor creditoris immanente al regolamento in materia di obbligazioni alimentari, l'art 21 dispone che il diniego può essere pronunciato solo ove sia decorso il termine di prescrizione del diritto di portare ad esecuzione la decisione più lungo tra quello contemplato dalla legge dello Stato membro d'origine e quello previsto dalla legge dello Stato membro dell'esecuzione.
Il diniego è invece facoltativo per l'ipotesi in cui l'esecuzione della decisione emessa nello Stato d'origine risulti «inconciliabile»con una decisione emessa nello Stato membro dell'esecuzione o in un altro Stato membro o in uno Stato terzo che soddisfi i requisiti necessari al suo riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione.
L'articolo 21.2 (analogamente all'articolo 24.1, lettere c) e d) è, sotto questo profilo, espressione della volontà del legislatore europeo di creare non solo un sistema di mero riconoscimento automatico delle decisioni, ma, anche, un sistema di riconoscimento automatico delle decisioni che sia in grado di evitare, con riferimento alle stesse parti ed allo stesso oggetto, una pluralità di decisioni di tenore contrastante e, tutte, suscettibili di libera circolazione.
Tale obiettivo è, senza dubbio, perseguito in via principale attraverso lo strumento della litispendenza. Tuttavia gli artt. 21.2 e 24.1 lettere c) e d) del regolamento individuano un meccanismo residuale destinato a salvaguardare (in sede di esecuzione) l'armonia delle decisioni.
La residualità del meccanismo in esame è apprezzabile non solo in una prospettiva temporale (le norme da ultimo citate sono infatti destinate ad operare solo ove la litispendenza — istituto da applicare prioritariamente — non abbia consentito la realizzazione dello scopo perseguito), ma, anche, in una dimensione «effettuale». Se, infatti, la litispendenza preclude (anche nell'ordinamento interno) l'adozione di una decisione in contrasto con quella adottata dal giudice previamente adito, il diniego dell'esecuzione (o il diniego del riconoscimento) precludono solo la circolazione della decisione contrastante nello Stato richiesto, ma non valgono ad escludere gli effetti, nello Stato d'origine, della decisione adottata in violazione delle regole sulla litispendenza.
Tanto premesso con riferimento alla ratio della norma, deve rilevarsi come la disposizione in esame desti problemi di non poco conto; ciò è a dirsi, in particolare, con riferimento all'interpretazione del riferimento letterale alla «inconciliabilità» delle decisioni.
In dottrina (Castellaneta — Leandro, 2009, 1097 ss.) si è condivisibilmente ritenuto che l'«inconciliabilità» cui ha riguardo l'articolo 21 corrisponde al «contrasto» che, ai sensi dell'art. 34.1 n. 3 del regolamento (CE) n. 44/2001, costituisce limite al riconoscimento delle sentenze emesse in altro Stato membro.
Una simile conclusione è stata sostenuta alla luce di argomenti letterali, teleologici e sistematici.
Nel primo senso si è fatto riferimento al confronto tra i testi delle due disposizioni da ultimo citate nelle versioni in inglese e francese (le quali utilizzano il medesimo vocabolo).
Sotto il secondo profilo si è osservato che, ove si voglia differenziare la portata dei termini qui in esame, si dovrebbe inevitabilmente ritenere che la nozione di «inconciliabilità» sia più ampia di quella di «contrasto». Tale circostanza finirebbe tuttavia (nonostante lo scopo del regolamento CE n. 4/2009 sia chiaramente nel senso di rendere più semplice e celere l'effettiva realizzazione del credito alimentare) con l'ampliare (rispetto al regime del regolamento CE n. 44/2001) i limiti all'esecuzione delle decisioni straniere.
Da ultimo, si è rilevato come una soluzione diversa rispetto a quella proposta imporrebbe di delineare la differenza esistente tra l'«inconciliabilità» cui ha riguardo l'articolo 21 e l'«incompatibilità» che costituisce presupposto della connessione (art. 13.3, regolamento CE n. 4/2009); differenza che è concretamente percepibile solo attribuendo alla inconciliabilità dell'articolo 21 il significato di contrasto adoperato dall'art. 34 del regolamento CE n. 44/2001 (Castellaneta — Leandro, 2009, 1097).
Analogamente a quanto previsto all'art. 34 del regolamento (CE) n. 44/2001 (il quale, tra l'altro, pone l'obbligo — e non la facoltà — per il giudice dello Stato richiesto di non riconoscere la decisione straniera), anche l'articolo 21 del regolamento (CE) n. 4/2009 non precisa se la sentenza dello Stato richiesto (o quella di altro Stato membro o di uno Stato terzo che soddisfi i requisiti necessari al suo riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione) debba essere anteriore alla sentenza della quale si chieda l'esecuzione o debba essere passata in giudicato.
Quanto al primo aspetto, la soluzione per la quale l'inconciliabilità cui ha riguardo l'art. 21 prescinde dai tempi incui le decisioni sono state adottate pare preferibile sotto il profilo tanto letterale, quanto teleologico.
La formulazione della norma, innanzitutto, è tanto ampia da indurre a ritenere che il legislatore europeo abbia inteso prescindere del tutto dai tempi in cui le decisioni inconciliabili sono state adottate. In questo senso, del resto, depone anche la mancata riproduzione del riferimento alla «decisione anteriore» pronunciata in uno Stato membro o in un paese terzo contenuto invece all'art. 21 del regolamento (CE) n. 805/2004 (in termini, con riferimento alla speculare previsione dell'art. 34, n. 3 del regolamento CE n. 44/2001, D'Alessandro, 2007, 245).
Sotto il profilo teleologico, inoltre, si è osservato che la soluzione qui accolta è l'unica in grado di salvaguardare il principio di uniforme interpretazione ed applicazione nelle norme dell'Unione nello spazio giudiziario europeo; ove si aderisse alla soluzione contraria, infatti, alcuni Stati membri potrebbero respingere le decisioni straniere contrastanti con una propria decisione successiva ed altri no a seconda che le norme processuali interne attribuiscano in generale al giudicato formatosi per secondo l'effetto di prevalere su quello precedente (D'Alessandro, 2007, 245-246).
Assai eterogenee sono le posizioni emerse in dottrina quanto alla necessità, ai fini del diniego dell'esecuzione, che la decisione interna incompatibile con quella straniera sia passata in giudicato.
La soluzione negativa è stata, con riferimento all'art. 34, n. 3 del regolamento (CE) n. 44/2001, argomentata alla luce dell'ampia formulazione della norma la quale non fa alcun riferimento alla necessità di un giudicato (Coscia, 1995, 270). In senso critico si è tuttavia osservato che, in tal modo, si consente, a fronte del mero mancato accoglimento da parte del giudice di primo grado dell'eccezione di giudicato straniero, di opporre (vittoriosamente) la sopravvenuta inefficacia della decisione straniera per effetto dell'art. 34, n. 3 del regolamento del 2001 allorquando la parte riproponga la medesima eccezione in sede di impugnazione della decisione interna; possibilità che risulta in contrasto con l'obiettivo di realizzare un'armonica circolazione delle decisioni nello spazio giudiziario europeo (D'Alessandro, 2007, 247; Merlin, 2005, 508).
Altri ha ritenuto che sia necessario valutare se, per l'ordinamento dello Stato richiesto, la decisione interna sia o meno munita di effetti (pur non integranti il giudicato) più forti o, quanto meno, equivalenti rispetto a quelli che la sentenza straniera ha alla luce delle norme dello Stato d'origine; in un simile caso, infatti, dovrebbe prevalere la decisione interna con conseguente inefficacia di quella straniera. Tale soluzione presenta tuttavia (quanto meno) la difficoltà di individuare quale tipo di efficacia (e, in particolare, se sia necessaria o meno un'efficacia di accertamento extraprocessuale) delle due decisioni debba essere oggetto di comparazione (sul punto, amplius, D'Alessandro, 2007, 248 ss.).
Da ultimo, si è osservato come l'art. 34, n. 3 del regolamento (CE) n. 44/2001 (il quale, si ribadisce, presenta, con riferimento al profilo qui in esame, una formulazione analoga all'art. 21 del regolamento in materia di obbligazioni alimentari) non potrebbe operare sino a quando sia possibile, nell'ordinamento richiesto, risolvere il conflitto mediante l'impugnazione (anche straordinaria) della decisione nazionale (D'Alessandro, 2007, 250 ss.; Merlin, 2005, 512 ss.). Una simile conclusione, fondata sul principio generale per il quale i rimedi operanti sul piano dell'annullamento delle sentenze come atti hanno (quali modalità di composizione del conflitto) la precedenza rispetto ai rimedi operanti sull'efficacia delle decisioni (D'Alessandro, 2007, 251; Merlin, 2005, 513), risulterebbe inoltre preferibile anche alla luce dell'obiettivo di armonizzazione dello spazio giudiziario europeo perseguito dal legislatore dell'Unione.
In una differente prospettiva si è infine osservato come la norma in esame debba essere valutata avendo riguardo alla sola nozione di «inconciliabilità», senza attribuire rilievo alla natura dei provvedimenti. Anche con riferimento alla portata di un simile contrasto (alla luce della condivisa dottrina sopra citata si ritiene che l'inconciliabilità cui ha riguardo il regolamento CE n. 4/2009 sia equivalente al contrasto oggetto di disciplina da parte del regolamento CE n. 44/2001), tuttavia, sono emerse posizioni estremamente eterogenee.
Secondo un primo orientamento, infatti, il contrasto rilevante ai fini del regolamento ricorre solo quando gli effetti extraprocessuali di accertamento o di modificazione giuridica delle due decisioni sono in contrasto diretto. Un diverso indirizzo (che, come si vedrà, pare esser stato accolto anche dalla Corte di Lussemburgo) ha invece elaborato una nozione più ampia (e di portata sostanziale) destinata a ricomprendere nel contrasto tutti i casi nei quali il riconoscimento del bene della vita oggetto della decisione interna sarebbe, sulla base della decisione straniera, del tutto annichilito in via diretta, perché la decisione straniera accerta l'inesistenza del bene della vita ritenuto invece esistente dalla pronuncia interna, o in via indiretta, perché la decisione straniera attribuisce in modo permanente, tra le stesse parti, un bene della vita diverso, ma incompatibile con quello riconosciuto dalla pronuncia interna (sulla nozione di contrasto accolta all'art. 34 del regolamento CE n. 44/2001 si rinvia a D'Alessandro, 2007, 258 ss.).
Fermo quanto detto, occorre rilevare come sarà il giudice dello Stato richiesto a dover verificare l'opportunità di un rifiuto dell'esecuzione (che, per l'ipotesi qui in esame, è — come detto — facoltativo). Nel compiere una simile valutazione l'interprete dovrà valutare la portata della nozione di inconciliabilità (questione non semplice alla luce di quanto sopra brevemente osservato) accolta dalla norma tenendo peraltro presente che l'art. 21 è norma imperativa, fondata sulla necessità di assicurare la certezza del diritto e di evitare che l'ordine sociale di uno Stato sia turbato dall'esistenza di due decisioni contraddittorie (in termini, con riferimento all'art. 27 della convenzione di Bruxelles del 1968, la relazione Jenard relativa alla convenzione di Bruxelles — G.U.C.E. 1979, C 59, 1).
Il secondo paragrafo dell'articolo 21 si preoccupa anche di precisare che, ai fini del medesimo articolo, non è inconciliabile una decisione che modifichi una precedente statuizione in materia di obbligazioni alimentari sulla base di un mutamento delle circostanze.
La precisazione è quanto mai opportuna ove si consideri per un verso che, come detto, la portata della inconciliabilità non è sempre delineabile in modo netto e, per altro verso, che assai frequenti sono, a fronte del mutamento delle circostanze di fatto (a mero titolo esemplificativo: mutamento delle esigenze o dei luoghi di vita dell'alimentando), le modifiche delle decisioni in materia di obbligazioni alimentari. In dottrina (Castellaneta — Leandro, 2009, 1098) si è peraltro osservato che, oltre a tale ipotesi espressamente contemplata, i limiti di applicazione del regolamento imporrebbero di escludere l'inconciliabilità tra la decisione in materia di alimenti e la decisione relativa alla esistenza o alla modifica del rapporto dal quale deriva l'obbligo alimentare (in senso contrario sembra, tuttavia, la decisione di seguito richiamata).
Da ultimo, con riferimento al diniego di esecuzione per inconciliabilità con una decisione emessa in uno Stato terzo che soddisfi i requisiti necessari al suo riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione occorre rilevare come i requisiti necessari al riconoscimento nello Stato membro dell'esecuzione dovranno essere individuati sulla base della disciplina internazionalprivatistica di diritto interno.
Con riferimento al caso in cui lo Stato membro dell'esecuzione sia l'Italia, sarà in particolare necessario avere riguardo alla disciplina dettata dall'art. 64 della l. 31 maggio 1995, n. 218. Sarà pertanto necessario, tra l'altro, che la decisione straniera sia passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata (art. 64, lettera d). Non sussiste quindi il problema (sopra indicato) relativo alla possibilità di rinvenire un ostacolo nell'esecuzione con riferimento ad una decisione che non sia ancora passata in giudicato.
Nei limiti in cui la sentenza dello Stato terzo sia passata in giudicato e (più in generale) rispetti tutti gli ulteriori requisiti contemplati all'art. 64 della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato prima dell'emanazione della decisione da parte del giudice di uno Stato membro, tale ultima decisione non potrà trovare esecuzione in Italia.
Quando invece la decisione dello Stato terzo sia emessa prima di quella — incompatibile — adottata dal giudice di uno Stato membro, ma passi in giudicato solo successivamente alla pronuncia della seconda, potrà circolare la decisione dello Stato membro e non, invece, quella (non riconoscibile, pur se emessa prima) dello Stato terzo.
Corte giustizia UE, 26 settembre 2013, C-157/12, Salzgitter Mannesmann Handel GmbH c. SC Laminorul SA, ha precisato che l'elenco dei motivi di non esecuzione contemplati all'art. 34 del regolamento (CE) n. 44/2001 è esaustivo; tali motivi devono quindi essere interpretati in termini restrittivi con la conseguenza che di essi non è possibile un'interpretazione analogica. La stessa decisione ha anche osservato che i motivi di non esecuzione contemplati all'art. 34 del regolamento (CE) n. 44/2001 svolgono una funzione precisamente circoscritta nella struttura del medesimo regolamento il quale pone un sistema globale destinato a disciplinare la competenza giurisdizionale internazionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni. La portata dei motivi di non esecuzione, secondo la Corte, deve in particolare essere delineata avendo riguardo al nesso esistente tra gli stessi motivi e le disposizioni relative alla connessione poste dal medesimo regolamento (CE) n. 44/2001 che sono tese a ridurre al minimo la possibilità di pendenza di procedimenti paralleli e l'adozione, in due Stati membri, di decisioni tra loro incompatibili. Ne discende che il limite alla circolazione delle decisioni straniere non può essere invocato ove il contrasto sussista tra decisioni emesse entrambe nello stesso Stato membro. Una simile conclusione (non argomentabile alla luce della lettera dell'art. 34) sarebbe infatti in contrasto con il corretto funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria; sistema fondato sulla fiducia reciproca tra giudici degli Stati membri che preclude la possibilità per il giudice di uno Stato membro di riesaminare nel merito la decisione adottata dal giudice di altro Stato membro. In definitiva, secondo la Corte, il contrasto tra decisioni provenienti dal medesimo Stato membro deve essere composto in base alla legge processuale interna dello Stato d'origine.
Corte giustizia CE, 4 febbraio 1988, C-145/86, Horst Ludwig Martin Hoffmann c. Adelheid Krieg, ha esaminato (tra le altre) la questione relativa alla possibilità, per il giudice nazionale chiamato a dare esecuzione ad una decisione straniera contenente la condanna di un coniuge al pagamento, in favore dell'altro coniuge, degli alimenti sulla base di un obbligo di mantenimento derivante dal matrimonio, di ritenere incompatibile (ai sensi dell'art. 27 n. 3 della convenzione di Bruxelles) o comunque in contrasto con l'ordine pubblico (ai sensi dell'art. 27 n. 1 della medesima convenzione) tale decisione con una decisione nazionale che ha pronunciato il divorzio tra le medesime parti del rapporto alimentare. La Corte, esclusa la possibilità di invocare la clausola dell'ordine pubblico ogni volta che (come nel caso concreto) venga in rilievo una questione relativa alla compatibilità di una decisione interna con una decisione straniera, osserva che per stabilire se vi sia inconciliabilità, ai sensi dell'art. 27 n. 3 della convenzione, è necessario verificare se le decisioni controverse producano effetti giuridici che si escludono reciprocamente. Tanto premesso e rilevato che la decisione straniera è stata munita della formula esecutiva, che la decisione nazionale sul divorzio era passata in giudicato e che la controversia nella causa principale era relativa al periodo successivo al divorzio, il giudice di Lussemburgo conclude nel senso che le due decisioni producono effetti giuridici che si escludono reciprocamente, atteso che la decisione straniera (la quale presuppone necessariamente l'esistenza del matrimonio) dovrebbe essere eseguita nonostante sia ormai sciolto (sulla base di una decisione resa tra le medesime parti nello Stato richiesto) il rapporto che costituisce il presupposto dell'obbligazione alimentare.
Corte giustizia CE, 6 giugno 2002, C-80/00 Italian Leather SpA c. WECO Polstermöbel GmbH & Co., ha ritenuto che, ai fini dell'art. 27, n. 3 della convenzione di Bruxelles, non rileva che le decisioni in contrasto siano state pronunciate nell'ambito di procedimenti sommari o di procedimenti di merito, atteso che la convenzione utilizza il termine «decisioni» senza ulteriore precisazione. Ne deriva che anche le decisioni emesse all'esito di procedimenti sommari sono assoggettate alle regole poste dalla convenzione in materia di contrasto. Nello stesso senso, sostanzialmente, Cour de Cassation, 20 giugno 2006, n. 1024 (in Int'lis, 2006, 134 ss.), per la quale il requisito previsto dall'art. 27 n. 3 della convenzione di Bruxelles del 1968 (successivamente trasfuso nell'art. 34 n. 3 del regolamento CE n. 44/2001) impedisce il riconoscimento e l'esecuzione della sentenza straniera in conflitto con una qualsiasi decisione resa nello Stato richiesto, comprese le pronunce sommario-provvisorie emesse all'esito di un procedimento per référé, pur non essendo queste idonee ad acquisire l'autorità del giudicato.