Codice Civile art. 266 - Impugnazione del riconoscimento per effetto di interdizione giudiziale (1).Impugnazione del riconoscimento per effetto di interdizione giudiziale (1). [I]. Il riconoscimento può essere impugnato per l'incapacità che deriva da interdizione giudiziale [414 ss.] dal rappresentante dell'interdetto e, dopo la revoca dell'interdizione [429], dall'autore del riconoscimento, entro un anno dalla data della revoca [267, 2964]. (1) L’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito il Titolo, modificando la rubrica del Titolo (la precedente era «Della filiazione»), e sostituendo le parole «Capo II. "Della filiazione naturale e della legittimazione"»; «Sezione I. "Della filiazione naturale» e la rubrica del paragrafo 1 «Del riconoscimento dei figli naturali» con le parole: «Capo IV. "Del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio"». InquadramentoLa rilevanza attribuita all'interdizione giudiziale, ai fini dell'impugnazione del riconoscimento, si giustifica con l'esigenza di garantire l'attendibilità dell'accertamento in esso contenuto, atteso che l'interdizione giudiziale è causata dall'infermità di mente dell'autore del riconoscimento (Majello, 1982,163). Va comunque evidenziato che il soggetto incapace sarà comunque legittimato a riconoscere il figlio, pur se il riconoscimento sarà impugnabile (Ubaldi, 2012, 369). In definitiva, il riconoscimento rimane valido fintanto che non venga impugnato dal legale rappresentante, e, effettuata la revoca, dallo stesso interdetto, comunque entro un anno dalla medesima. Si applica la disciplina dell'interdizione e dunque l'impugnativa è sempre possibile, anche se si dimostrasse che il riconoscimento è stato fatto dall'interdetto in un lucido intervallo (Dogliotti, 2015, 379). L'inabilitato, invece, potrà effettuare il riconoscimento, assistito da un curatore speciale. Va certamente esclusa l'impugnazione del riconoscimento per interdizione legale, proprio perché la ratio di tale disciplina è quella di garantire un riconoscimento consapevole, il che non è escluso in questo caso, atteso che l'art. 32 quarto comma c.p. prevede la perdita o la sospensione della responsabilità genitoriale, ma non esclude certo il potere di riconoscere il figlio (Majello, 1982,164). Alla stessa conclusione deve pervenirsi in caso di amministrazione di sostegno, a meno che il giudice tutelare, nel relativo provvedimento, non avesse esplicitamente escluso il beneficiario dalla facoltà del riconoscimento. Solo in tal caso potrebbe ammettersi l'impugnazione del riconoscimento ad opera dello stesso (Dogliotti, 2015, 379). L'incapacità può derivare da mancanza dell'età minima richiesta dalla legge per effettuare il riconoscimento. Il riconoscimento compiuto da minore infrasedicenne, in mancanza di autorizzazione giudiziale, è da considerarsi invalido, ovvero annullabile, e di conseguenza impugnabile dallo stesso autore dell'atto divenuto maggiorenne, con prescrizione dell'azione nel termine un anno dal raggiungimento della maggiore età, in analogia a quanto previsto dall'art. 265 c.c. (Ubaldi, 2012, 370). Secondo una diversa tesi, invece, il riconoscimento compiuto dal minore infrasedicenne va regolato in base all'applicazione analogica derivante dalla disposizione di cui all'articolo 266 c.c. relativa all'interdetto giudiziale (Carbone, 2012, 599). Il riconoscimento compiuto da persona incapace di intendere e di volereCi sono contrasti in dottrina circa la rilevanza dell'incapacità naturale come causa di impugnabilità del riconoscimento. In particolare, alcuni autori reputano rilevante l'incapacità di intendere e di volere, proprio in virtù della ratio della disposizione in esame, che è quella di garantire un riconoscimento consapevole (Dogliotti, 2015, 379; Busnelli, 1962, 946; Besone, 1966, 270). Altra parte della dottrina si esprime in senso contrario, osservando come l'esigenza di tutela dell'autore del riconoscimento può essere consentita soltanto nel caso in cui la sua stessa incapacità naturale non gli consenta di effettuare un accertamento corrispondente alla realtà effettiva: in tal caso si impone il ricorso all'impugnazione per difetto di veridicità (Bianca, 2014, 401). Comunque, ammettere l'impugnativa per incapacità naturale pone alcuni problemi interpretativi, dovendosi ritenere applicabile l'art. 428 c.c., per cui gli atti possono essere annullati su istanza del soggetto che li ha compiuti, dei suoi eredi o aventi causa, in caso di grave pregiudizio per l'autore. Deve escludersi il requisito della malafede dell'altro contraente, che vale per i contratti, e peraltro non dovrebbe rilevare il pregiudizio per il suo autore, che, stante la natura dell'atto, dovrebbe sussistere in re ipsa (Dogliotti, 2015, 380). Secondo altri sussisterebbe pregiudizio grave per il riconoscente solo in caso di non veridicità del riconoscimento, per cui sarebbe esperibile il relativo rimedio (Majello, 1982,148). Per chi ammette l'azione, si pongono problemi relativi all'individuazione del termine dell'impugnazione, che vengono variamente risolti: per taluni l'azione sarebbe proponibile nel termine di decadenza di un anno da cui è cessata la causa di incapacità (Pietrobon, 1966, 473), mentre secondo altri, si applica il regime della prescrizione quinquennale previsto nell'ambito dell'annullabilità del contratto (Carresi, 1940, 161). La Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell'art. 266 c.c., l'atto di riconoscimento di figlio naturale compiuto in stato di incapacità di intendere e di volere non è, per ciò solo, impugnabile (Cass. I, n. 10838/1997). Secondo questo orientamento giurisprudenziale, si esclude fermamente la impugnabilità dell'atto considerato da parte del semplice incapace di intendere e volere, sulla base della tassatività delle cause di impugnazione previste dalla legge in modo espresso e della inapplicabilità alla fattispecie in esame dell'art. 428 c.c., contrastando la tesi contraria, secondo cui ripugna ad una valutazione condotta sul metro della comune coscienza etica la validità di una dichiarazione emessa da un incapace di intendere e di volere (Cass. I, n. 1869/1970). Profili di disciplinaLa disciplina del riconoscimento mostra chiaramente il favor del legislatore riguardo a questo istituto di diritto familiare, per il quale ha ritenuto di limitare i casi di impugnazione a quelli di violenza, di non rispondenza dell'atto alla finalità sua propria (difetto di veridicità) e di incapacità derivante da interdizione: tutto ciò in linea con la normativa innovativa che in allora era stata introdotta dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, al fine di privilegiare l'accertamento della verità biologica rispetto al tradizionale modello di famiglia fondato sul formale vincolo di matrimonio, unico compatibile col diritto previgente. Si ritiene, dunque, che gli artt. 263 e seguenti c.c. non hanno lo scopo di completare il sistema generale del codice, ma delineano una disciplina speciale in deroga ad esso, che trova il suo fondamento nell'esigenza di garantire certezza e stabilità nei rapporti di famiglia. Questa esigenza risulta, inoltre, chiaramente presa in considerazione dal legislatore, laddove statuisce la irrevocabilità del riconoscimento: il fatto che sia del tutto irrilevante un successivo ripensamento da parte dell'autore del riconoscimento circa l'opportunità di compiere questo atto, lascia intendere, infatti, come l'interesse tutelato in via primaria sia quello del figlio e dei terzi alla certezza dei rapporti di famiglia, e non quello del genitore, come vuole quella parte della dottrina che attribuisce assoluta prevalenza alla volontà effettiva di costui (Protetti, 1972, 253). Con riferimento al termine annuale previsto dalla norma, si discute se abbia natura di termine di decadenza (Majello, 1982, 169), o di prescrizione (Carbone, 2012, 598). Nel caso in cui il giudice tutelare imponga che l'amministrazione di sostegno debba estendere al beneficiario delle limitazioni alla capacità di riconoscere, analogamente a quanto previsto per l'interdizione, il termine per l'impugnazione del riconoscimento eventualmente compiuta dal beneficiario deve intendersi quello annuale, decorrente dalla cessazione dell'amministrazione, in deroga alla regola generale che, per l'impugnazione degli atti compiuti in violazione della disciplina sull'amministrazione di sostegno, prevede il termine prescrizione quinquennale (Carbone, 2012, 598). Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile, ha introdotto il rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di famiglia e di minori, disciplinato dagli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. Queste norme dettano le regole generali di disciplina del procedimento innovato ma gli artt. 473-bis.52 e successivi pongono disposizioni specifiche al procedimento per la dichiarazione di interdizione e di inabilitazione. Per quanto riguarda l'impugnazione del riconoscimento si osservano le regole proprie, in genere, al rito unificato in materia familiare. Il procedimento si instaura con ricorso. La competenza appartiene al tribunale territorialmente individuato secondo le regole del giudizio ordinario di cognizione (art. 473-bis.11). Se devono essere adottati provvedimenti riguardanti minori, è competente il tribunale del luogo di ultima residenza del minore; se vi è stato trasferimento non autorizzato, entro l'anno dal trasferimento la competenza spetta al tribunale dell'ultima residenza abituale del minore. Ricevuto il ricorso, il presidente del tribunale nomina con decreto il giudice relatore e fissa l'udienza di comparizione delle parti davanti a questi. Prima dell'udienza il convenuto deve costituirsi, a pena di decadenze da facoltà difensive. L'attore può controbattere con una memoria scritta alla comparsa del convenuto; il convenuto, a sua volta, può rispondere con memoria scritta che l'attore ha ancora facoltà di contestare, prima dell'udienza. Quando la causa è matura per la decisione il giudice relatore (o istruttore se vi è stata assunzione di mezzi probatori) fissa l'udienza nella quale rimetterà le parti alla decisione del collegio e assegna ad esse tre termini successivi entro i quali esse devono: depositare le conclusioni; depositare la comparsa conclusionale; depositare le memorie di replica (art. 473-bis.28). All'udienza il giudice si riserva di riferire al collegio. La decisione è pronunciata con sentenza depositata entro 60 giorni dalla rimessione. La sentenza è impugnabile con appello. Ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 149/2022, di riforma del processo civile, le sue disposizioni processuali si applicano ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023; ai procedimenti pendenti in tale momento continuano ad applicarsi le norme ante vigenti. BibliografiaAmadio, Macario, Diritto di famiglia, 2016; Amore, nota a Cass, 26097/2013 in Cass. Pen., 2014, 6, 2134; G.E. 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