Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 17 bis - Il reclamo e la mediazione 1 (A)

Andrea Antonio Salemme

Il reclamo e la mediazione 1 (A)

[1. Per le controversie di valore non superiore a cinquantamila euro, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e puo' contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell'ammontare della pretesa. Il valore di cui al periodo precedente e' determinato secondo le disposizioni di cui all'articolo 12, comma 2. Le controversie di valore indeterminabile non sono reclamabili, ad eccezione di quelle di cui all'articolo 2, comma 2, primo periodo2.

1-bis. Sono esclusi dalla mediazione i tributi costituenti risorse proprie tradizionali di cui all' articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/335/UE , Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014 3.

2. Il ricorso non e' procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica, entro il quale deve essere conclusa la procedura di cui al presente articolo. Si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale4.

3. Il termine per la costituzione in giudizio del ricorrente decorre dalla scadenza del termine di cui al comma 2. Se la Commissione rileva che la costituzione e' avvenuta in data anteriore rinvia la trattazione della causa per consentire l'esame del reclamo.

4. Le Agenzie delle entrate, delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, provvedono all'esame del reclamo e della proposta di mediazione mediante apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l'istruttoria degli atti reclamabili. Per gli altri enti impositori la disposizione di cui al periodo precedente si applica compatibilmente con la propria struttura organizzativa.

5. L'organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo o l'eventuale proposta di mediazione, formula d'ufficio una propria proposta avuto riguardo all'eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilita' della pretesa e al principio di economicita' dell'azione amministrativa. L'esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali e assistenziali la cui base imponibile e' riconducibile a quella delle imposte sui redditi.

6. Nelle controversie aventi ad oggetto un atto impositivo o di riscossione, la mediazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di sottoscrizione dell'accordo tra le parti, delle somme dovute ovvero della prima rata. Per il versamento delle somme dovute si applicano le disposizioni, anche sanzionatorie, previste per l'accertamento con adesione dall'articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Nelle controversie aventi per oggetto la restituzione di somme la mediazione si perfeziona con la sottoscrizione di un accordo nel quale sono indicate le somme dovute con i termini e le modalita' di pagamento. L'accordo costituisce titolo per il pagamento delle somme dovute al contribuente.

7. Le sanzioni amministrative si applicano nella misura del trentacinque per cento del minimo previsto dalla legge. Sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi.

8. La riscossione e il pagamento delle somme dovute in base all'atto oggetto di reclamo sono sospesi fino alla scadenza del termine di cui al comma 2, fermo restando che in caso di mancato perfezionamento della mediazione sono dovuti gli interessi previsti dalle singole leggi d'imposta.

9. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche agli agenti della riscossione ed ai soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446.

9-bis. In caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta, per la parte soccombente, la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell'eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione 5.

10. Il presente articolo non si applica alle controversie di cui all'articolo 47-bis6.]

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(A) In riferimento al presente articolo vedi: Circolare Agenzia delle Entrate 12 febbraio 2014, n. 1/E; Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate 3 marzo 2016, n. 9/E.

[1] Articolo aggiunto dall' articolo 39, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, successivamente modificato dall'articolo 1, comma 611, lettera a), della Legge 27 dicembre 2013, n. 147 e da ultimo sostituito dall'articolo 9, comma 1, lettera l), del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, a decorrere dal 1° gennaio 2016. Vedi inoltre Corte Costituzionale, sentenza 16 aprile 2014, n. 98 (in Gazz.Uff., 23 aprile, n. 18). Articolo successivamente abrogato dall'articolo 2, comma 3, lettera a), del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220. Per l'applicazione vedi l'articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 220/2023 medesimo. Da ultimo, la presente abrogazione è stata ribadita, a decorrere dal 1° gennaio 2026, dall'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo.

[2] Comma modificato dall'articolo 10, comma 1, del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96 . A norma del comma 2 del medesimo articolo 10, la presente modifica si applica agli atti impugnabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018.

[3] Comma aggiunto dall'articolo 10, comma 3 bis , del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96 .

[4] Per una sospensione del termine di cui al presente comma, vedi l'articolo 83, comma 2, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 aprile 2020, n. 27.

[6] Per una proroga delle disposizioni di cui al presente articolo, vedi l'articolo 149, comma 1, lettera c), del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77.

L’abrogazione dell’art. 17- bis

 

L’abrogazione dell’art. 17- bis a decorrere dal 4 gennaio 2024

L'art. 17-bis in commento è stato abrogato dall'art. 2, comma 3, lett. a), D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220 (recante “Disposizioni in materia di contenzioso tributario”), a decorrere dal 4 gennaio 2024, ai sensi di quanto disposto dall'art. 4, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 220/2023. L'abrogazione dell'istituto della mediazione è una conseguenza diretta dell'introduzione nell'ordinamento tributario del contraddittorio preventivo e del potenziamento dell'istituto dell'autotutela. La previsione generalizzata del contraddittorio preventivo in sede accertativa prevista dall'articolo 17 della legge delega (L. 9 agosto 2023, n. 111, con la quale è stata conferita delega al Governo per la riforma fiscale) garantisce il confronto tra contribuente e Amministrazione in una fase antecedente a quella contenziosa e, dunque, rende sostanzialmente inutile l'istituto della mediazione precontenziosa.

L'art. 17, co. 1, lett. b), L. n. 111/2023, nel dettaglio, ha delegato il Governo ad applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio, a pena di nullità, fuori dei casi dei controlli automatizzati e delle ulteriori forme di accertamento di carattere sostanzialmente automatizzato, prevedendo inoltre una disposizione generale sul diritto del contribuente a partecipare al procedimento tributario, secondo le seguenti caratteristiche: 1) previsione di una disciplina omogenea indipendentemente dalle modalità con cui si svolge il controllo; 2) assegnazione di un termine non inferiore a sessanta giorni a favore del contribuente per formulare osservazioni sulla proposta di accertamento; 3) previsione dell'obbligo, a carico dell'ente impositore, di formulare espressa motivazione sulle osservazioni formulate dal contribuente; 4) estensione del livello di maggiore tutela previsto dall'articolo 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000.

Il principio del contraddittorio ( preventivo )

In attuazione della richiamata delega, sono stati emanati diversi decreti attuativi, tra i quali il D.lgs. 30 dicembre 2023 n. 219, recante “Modifiche allo statuto dei diritti del contribuente”.L'art. 1, comma 1, lett. e), del cit. D.Lgs. n. 219/2023, introduce nello Statuto del contribuente il principio del diritto al contraddittorio (nuovo art. 6-bis). Tale principio riguarda tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria (comma 1 del nuovo articolo). Essi sono preceduti, a pena di annullabilità, da un contraddittorio informato ed effettivo. Il diritto al contraddittorio è escluso per gli atti per gli atti automatizzati, sostanzialmente automatizzati, di pronta liquidazione e di controllo formale delle dichiarazioni individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, nonché per i casi motivati di fondato pericolo per la riscossione (comma 2). Il Governo ha chiarito che l'intervento è volto ad adeguare la protezione dei diritti fondamentali dei contribuenti agli standard di tutela internazionale e a quelli applicabili in base al diritto dell'Unione Europea, rispettando altresì i canoni interpretativi del giusto processo applicati alla materia tributaria dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU, 23.11.2006, Jussila v Finlandia, App. n. 73053/01, parr. 36 ss.) e ricorda che il successivo articolo 7-bis dello Statuto, introdotto anch'esso dal D.Lgs. n. 219/2023, menziona espressamente, tra le cause che determinano l'annullabilità degli atti dell'amministrazione finanziaria, la violazione delle norme concernenti la partecipazione del contribuente. Il comma 3 del nuovo art. 6-bis,individua le modalità atte a garantire il contradditorio. In particolare, l'Amministrazione finanziaria comunica al contribuente, con modalità idonee a garantirne la conoscibilità, lo schema di atto, assegnando un termine non inferiore a sessanta giorni per consentirgli eventuali controdeduzioni ovvero, su richiesta, per accedere ed estrarre copia degli atti del fascicolo. L'atto non è adottato prima della scadenza del termine di cui al primo periodo. Se la scadenza di tale termine è successiva a quella del termine di decadenza per l'adozione dell'atto conclusivo ovvero se fra la scadenza del termine assegnato per l'esercizio del contraddittorio e il predetto termine di decadenza decorrono meno di centoventi giorni, tale ultimo termine è posticipato al centoventesimo giorno successivo alla data di scadenza del termine di esercizio del contraddittorio. Il successivo comma 4 dispone, infine, che l'atto adottato all'esito del contraddittorio tiene conto delle osservazioni del contribuente ed è motivato con riferimento a quelle che l'Amministrazione ritiene di non accogliere.

Si ricorda che altre disposizioni dell'ordinamento, per singole fattispecie, già prevedono l'obbligo di attivare un contraddittorio preventivo in fase istruttoria. In particolare gli articoli 5 e 5-ter del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, già contemplano delle ipotesi, facoltative o obbligatorie, di invito al contraddittorio preventivo finalizzato all'accertamento con adesione. Tali norme, peraltro, sono state interpretate estensivamente dall'Agenzia delle entrate che negli anni ha invitato le proprie strutture di controllo ad attivare il contraddittorio preventivo anche nei casi di non obbligatorietà dello stesso, allo scopo di attuare il principio di collaborazione e tutela della buona fede, nonché per deflazionare il contenzioso tributario (cfr. Circolare del 22 giugno 2020, n. 17/E). In relazione agli atti di irrogazione delle sanzioni, l'attuale procedimento, di cui all'articolo 16 del decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 472, prevede che l'atto di irrogazione delle sanzioni sia preceduto, a pena di invalidità, da un atto di contestazione che consente al contribuente, entro 60 giorni, di presentare memorie e osservazioni che l'Ufficio procedente deve valutare entro 12 mesi. Ulteriori specifiche ipotesi di contraddittorio preventivo obbligatorio sono regolate dall'articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (accertamento delle fattispecie abusive); dall'articolo 6 del decreto legislativo 24 ottobre 2015, n. 156 (accertamento delle fattispecie elusive specifiche); dall'articolo 11 del decreto legislativo 29 novembre 2018, n. 142 (accertamento delle fattispecie ibride); dall'articolo 167, comma 11, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (accertamento in materia di società estere controllate).

In definitiva, quanto agli effetti derivanti dall'abrogazione dell'articolo 17-bis del D.Lgs. n. 546/1992, come si è già detto, la previsione generalizzata del contraddittorio preventivo in sede accertativa prevista dall'articolo 17 della legge delega garantisce il confronto tra contribuente e Amministrazione in una fase antecedente a quella contenziosa. Gli atti impositivi saranno quindi emessi tenendo espressamente conto delle valutazioni e considerazioni del contribuente, rendendo di fatto non più efficace la fase di confronto in sede di mediazione.

L’autotutela

Le garanzie per il contribuente, finalizzate ad anticipare l'analisi delle potenziali criticità degli atti impositivi rispetto alla fase contenziosa, sono ulteriormente incrementate dalla modifica all'istituto dell'autotutela, prevista dall'articolo 4 della legge delega fiscale, che dispone di “potenziare l'esercizio del potere di autotutela estendendone l'applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell'atto, prevedendo l'impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate”. A tal fine, il D.lgs. n. 219/2023 ha introdotto nello Statuto dei contribuenti i nuovi artt. 10-quater e 10-quinquies. L'introdotto articolo 10-quater, rubricato “Esercizio del potere di autotutela obbligatoria”, al comma 1, indica gli specifici casi in cui  l'Amministrazione finanziaria procede all'annullamento o alla rinuncia ad atti di imposizione. La norma, in particolare, stabilisce che l'amministrazione finanziaria procede in tutto o in parte all'annullamento di atti di imposizione ovvero alla rinuncia all'imposizione, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi, nei seguenti casi di manifesta illegittimità dell'atto o dell'imposizione: a)  errore di persona; b)  errore di calcolo; c)  errore sull'individuazione del tributo; d)  errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'amministrazione finanziaria; e)  errore sul presupposto d'imposta; f)  mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti; g)  mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza. Tale obbligo, non sussiste in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all'amministrazione finanziaria, nonché decorso un anno dalla definitività dell'atto viziato per mancata impugnazione (comma 2). Nella relazione illustrativa si evidenzia che la normativa pre-vigente, per come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass., n. 18992/2019), prevedeva che l'esercizio in capo all'Amministrazione finanziaria dell'autotutela in campo tributario (sotto forma di annullamento d'ufficio, rinuncia alla imposizione o rimborso di somme non dovute) avesse essenzialmente natura discrezionale. Tale posizione, che risente evidentemente del consolidato orientamento formatosi con riferimento all'analogo istituto esistente in campo amministrativo, non sembra, ad avviso del Governo, tuttavia tenere in debita considerazione la peculiarità del rapporto tributario che afferisce a diritti soggettivi (e non interessi legittimi) e che trova il suo fondamento nell'articolo 53 della Costituzione, sia in senso positivo (obbligo di pagare le imposte previste dalla legge), sia in senso negativo (divieto di pagare imposte non dovute in base alla legge). Conseguentemente l'articolo 4, comma 1, lett. h), della legge delega (l. n. 111/2023) consente un intervento diretto a prevedere come obbligatoria l'autotutela in taluni specifici casi. Infine, il comma 3 dell'art. 6-quater, circoscrive l'ambito della responsabilità dell'amministrazione finanziaria nelle valutazioni prese. Si prevede che: con riguardo alle valutazioni di fatto operate dall'amministrazione finanziaria ai fini del presente articolo, in caso di avvenuto esercizio dell'autotutela, la responsabilità di cui all'articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e successive modificazioni, è limitata alle ipotesi di dolo. Il citato art. 1, co. 1, stabilisce che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso. In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo.

Il successivo articolo 10-quinquies, rubricato “Esercizio del potere di autotutela facoltativa”, reca norme volte a disciplinare l'esercizio del potere di autotutela facoltativa da parte dell'amministrazione finanziaria. Al comma 1, indica i casi in cui l'esercizio del potere di autotutela non è obbligatorio. Nello specifico si prevede che fuori dei casi di cui all'articolo 10-quater (dove l'esercizio di autotutela è obbligatorio), l'Amministrazione finanziaria può comunque procedere all'annullamento, in tutto o in parte, di atti di imposizione, ovvero alla rinuncia all'imposizione, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi, in presenza di una illegittimità o dell'infondatezza dell'atto o dell'imposizione. Il comma 2 circoscrive l'ambito della responsabilità dell'amministrazione finanziaria nelle valutazioni prese ai fini dell'applicazione del presente articolo, stabilendo che trova applicazione il comma 3 dell'articolo 10-quater, di cui si è già detto.

Conclusioni

In conclusione, si osserva che, laddove l'istituto previsto all'articolo 17-bis del Dlgs n. 546 del 1992non fosse stato abrogato, il contraddittorio preventivo generalizzato avrebbe comportato un allungamento ingiustificato dei tempi del procedimento accertativo, con conseguente incremento degli oneri per l'Agenzia delle entrate, in contrasto con i principi di efficienza che devono sovraintendere l'operato della pubblica amministrazione. L'abrogazione dell'istituto della mediazione è quindi conseguenza diretta dell'introduzione nell'ordinamento tributario del contraddittorio preventivo e del potenziamento dell'istituto dell'autotutela. Conseguenza diretta dell'abrogazione dell'art. 17-bis, è l'abrogazione del comma 2-septies dell'art. 15 del D.lgs. n. 546 del 1992, che dispone che “Nelle controversie di cui all'articolo 17-bis le spese di giudizio di cui al comma 1 sono maggiorate del 50 per cento a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento”.

Inquadramento

L’art. 17-bis ante abrogazione

 

L'istituto del reclamo si configura come uno strumento che consente alle parti pubbliche un esame preventivo della fondatezza dei motivi del ricorso in confronto alla sostenuta legittimità della pretesa tributaria, nonché una verifica circa la possibilità di evitare, anche mediante il raggiungimento di un accordo di mediazione, che la controversia prosegua davanti al giudice.

L'art. 17-bis in commento è stato introdotto dalla manovra finanziaria varata con il d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011: nella sua versione originaria, disciplinava gli istituti del reclamo e della mediazione in ambito tributario per liti di valore non superiore a ventimila euro e relative ad atti emessi dall'agenzia delle entrate, rispetto ai quali il contribuente, che intendeva proporre ricorso, era tenuto a presentare preliminarmente reclamo, sotto pena dell'improcedibilità del ricorso.

Detti istituti sono stati radicalmente riformati dal d.lgs. n. 156 del 2015 – recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23» – che, con l'art. 9 («Modifiche al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546») del Titolo II («Revisione del contenzioso tributario e incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria»), ha sostituito integralmente il previgente testo dell'art. 17-bis, agendo su due fronti: quanto all'ambito oggettivo di applicazione, i novellati commi 1 e 10 specificano che non sono reclamabili le controversie di valore indeterminabile e gli atti aventi ad oggetto il recupero di aiuti di Stato ex art. 47-bis, mentre, di converso, a prescindere dal valore, sono reclamabili gli atti relativi al classamento e all'attribuzione della rendita catastale; quanto all'ambito soggettivo di applicazione, il reclamo è stato esteso a tutti gli enti impositori ed ai comuni. Inoltre, alla luce della novella, anche le controversie proposte avverso atti reclamabili possono costituire oggetto di conciliazione. Infine, importante novità appare quella relativa all'aumento della soglia-limite entro la quale è possibile ricorrere alla mediazione come mezzo deflattivo del contenzioso, elevata, ad opera dell'art. 10 d.l. n. 50/2017,convertito, con modificazioni, dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, da 20 mila a 50 mila euro.

Reclamo tributario e questioni di legittimità costituzionale

In relazione alla ipotizzata incostituzionalità dell'art. 17 bis in commento, la Corte costituzionale si è espressa diverse volte. La prima risale alla sentenza Corte cost. n. 98/2014 (in Riv. Dir. Proc., 2015, 3, 813, con nota di Sandulli, 815), a seguito della quale l'art. 17-bis è stato riformulato con l'enunciato attuale. Il comma 2 stabiliva la sanzione dell'inammissibilità del ricorso per la mancata presentazione del reclamo, nonché la rilevabilità d'ufficio di tale inammissibilità in ogni stato e grado del giudizio. Il giudice delle leggi, nell'affermare la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri quando questi siano finalizzati al perseguimento di interessi generali, ha tuttavia precisato che, anche laddove ricorra tale evenienza, il legislatore «è sempre tenuto ad osservare il limite imposto dall'esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa» e dunque «deve contenere l'onere nella misura meno gravosa possibile», operando un «congruo bilanciamento» tra l'esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell'accesso alla tutela giurisdizionale intende perseguire. Per vero, in linea con tale prospettiva, la Corte ha più volte dichiarato l'illegittimità, per violazione dell'art. 24 Cost., di disposizioni che contemplavano la sanzione della decadenza dall'azione giudiziaria in conseguenza del mancato previo esperimento di rimedi di carattere amministrativo. Coerentemente con tali precedenti, essa ha affermato dunque che la previsione, di cui al censurato comma 2 nel testo originario, anteriore alla sostituzione ad opera dell'art. 1, comma 611, lettera a), numero 1), della legge n. 147/2013, comportando la perdita del diritto di agire in giudizio e, quindi, l'esclusione della tutela giurisdizionale, si poneva in contrasto con l'art. 24 Cost.

Successivamente, con l'ord. n. 38 del 15 febbraio 2017, la Corte si è nuovamente pronunciata relativamente ad un dubbio di costituzionalità avanzato dalla Commissione Tributaria di Milano, questa volta, però, sulla nuova formulazione dell'art. 17-bis: secondo i giudici milanesi, esso violerebbe l'art. 111 Cost., con particolare riferimento all'effettiva garanzia del diritto di difesa, non essendo idonea ad assicurare la terzietà e l'autonomia della struttura che gestisce la procedura della mediazione, pur prevedendo che la relativa fase precontenziosa sia gestita da soggetti — intesi come persone fisiche – diversi da quelli addetti, per così dire, all'amministrazione attiva; ma la Corte ha opposto che, trattandosi di una procedura conciliativa situata fuori dal processo eppure attenta a porre le parti in una posizione di assoluta parità, come evidenziato dalla constatazione che l'esito positivo della conciliazione stessa acquisisce efficacia solo con l'accettazione (e quindi con il consenso) del contribuente, deve escludersi alcuna violazione del diritto di difesa, a maggio ragione sotto il profilo del diritto della parte di non essere distolta dal giudice naturale precostituito per legge (dovendosi peraltro osservare che «la Costituzione italiana non contiene regole imperative che vietano l'inserimento nell'ordinamento di rimedi di natura amministrativa che ritardino l'accesso all'azione giudiziaria»).

Più di recente, con la sentenza n. 97 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 4, lett. a), del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, nella parte in cui prevede l'esperimento della mediazione all'esito delle pronunce di cui agli artt. 648 e 649 c.p.c. nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, a fronte dell'esclusione della necessità di tentare la negoziazione assistita nei medesimi giudizi di opposizione, poiché in quest'ultimo caso l'attività conciliativa è condotta direttamente dalle parti e dai loro avvocati mentre nella mediazione è richiesto l'intervento di un terzo neutrale.

Pur non essendo oggetto della questione costituzionale l'art. 17-bis in commento, incidentalmente, la Corte ha avuto modo di affermare che nella mediazione tributaria disciplinata dall'art. 17-bis d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 l. 30 dicembre 1991, n. 413), la mancanza di un soggetto terzo che, come avviene per la mediazione delle controversie civili e commerciali disciplinata dal d.lgs. n. 28/2010, svolga la mediazione, se da un lato comporta l'impossibilità di ricondurre la mediazione tributaria al modello di quella civilistica, dall'altro induce a dubitare della stessa riconducibilità dell'istituto all'ambito mediatorio propriamente inteso. Detta disomogeneità delle due fattispecie poste a confronto ne preclude, dunque, una comparabilità idonea a integrare la violazione dell'art. 3 Cost.

Ambito di applicazione

Nell'originaria previsione, il reclamo ha trovato applicazione soltanto per le controversie tributarie di valore non superiore a 20 euro «relative ad atti emessi dell'agenzia delle entrate».

Tale inciso non figura più nel testo novellato dell'art. 17-bis in commento; pertanto l'istituto, pur restando circoscritto alle sole liti fino a 50 mila euro di valore (valore applicabile dal primo gennaio 2018, giacché fino a tale data il limite rimane fissato in 20 mila euro), è ora esteso a tutte le controversie tributarie, anche qualora parte in giudizio sia un ente impositore diverso dall'agenzia delle entrate (ad esempio, l'Agenzia delle dogane e dei monopoli o un ente locale) ovvero l'agente o il concessionario della riscossione.

La scelta del legislatore di ampliare la platea degli enti coinvolti nel procedimento di reclamo si giustifica in base al principio di economicità dell'azione amministrativa, preso atto dell'efficacia deflattiva riscontrata in relazione al contenzioso sugli atti emessi dall'agenzia delle entrate e dell'elevato numero di controversie di modesto valore che caratterizza in generale il contenzioso tributario.

Tenuto conto della natura degli atti degli agenti e dei concessionari privati della riscossione, si ritiene che il reclamo possa trovare applicazione per le impugnazioni concernenti, in particolare: cartelle di pagamento per vizi propri; fermi di beni mobili registrati di cui all'art. 86 d.P.R. n. 602 del 1973; iscrizioni di ipoteche sugli immobili di cui all'art. 77 d.P.R. n. 602 del 1973.

Nel vigore della nuova disciplina, l'individuazione delle controversie soggette a reclamo avviene dunque sulla base di un unico criterio, cioè il valore della lite non superiore a 50 mila euro. Per la determinazione di detto valore si fa riferimento alle disposizioni del novellato art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, che sullo specifico punto sono rimaste invariate (l'art. 12, comma 2, prevede che per individuare il valore della lite occorre aver riguardo all'importo del tributo, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni, irrogate con l'atto impugnato; per le cause relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somme di queste).

L'estensione del reclamo con mediazione agli atti tipici della riscossione è stata prevista anche in considerazione del consolidato orientamento della S.C. secondo cui «l'azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell'ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente creditore» (Cass. S.U., n. 16412/2007, richiamata da numerose sentenze successive).

Il comma 6 dell'art. 17-bis in commento contempla espressamente l'ipotesi che oggetto di reclamo sia il rifiuto tacito alla restituzione di tributi, sanzioni, interessi o altri accessori, ipotesi, peraltro, già profilata dall'agenzia delle entrate in via interpretativa nella propria Circ. n. 9/E del 2012.

L'art. 10, comma 3-bis, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, che inserisce nell'art. 17-bis il “nuovo” comma 1-bis,  esclude dalla mediazione i tributi costituenti risorse proprie tradizionali di cui all' art. 2, par. 1, lett. a), della decisione 2014/335/UE , Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014 (relativa al sistema delle risorse proprie dell'Unione europea). Si tratta di risorse proprie iscritte nel bilancio dell'Unione di entrate provenienti [lett. a)]: dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni dell'Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell'ambito di applicazione del trattato, ormai scaduto, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell'ambito dell'organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero.

Si conferma invece l'esclusione dall'ambito di applicabilità del reclamo delle controversie di valore indeterminabile, ad eccezione delle liti in materia catastale, individuate dall'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992. Il valore indeterminabile, infatti, non permette a sua volta di quantificare l'entità delle rinunce, con conseguente oggettiva impossibilità di controllo quantomeno “a maglie larghe” sulla correttezza dell'agire delle parti pubbliche.

Infine, il comma 10 – nel riprodurre integralmente il contenuto del previgente comma 4 – parimenti conferma l'esclusione dal reclamo delle liti in materia di aiuti di Stato individuate dal successivo articolo 47-bis. Si tratta delle controversie aventi ad oggetto il recupero degli aiuti di Stato incompatibili con il diritto europeo, in esecuzione di una decisione adottata dalla Commissione europea, ai sensi dell'articolo 14 reg. (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, nonché dei relativi interessi e sanzioni. Il comma 10, la cui ratio è evidente sol che si consideri che non è consentito far sconti su un terreno che impegna la responsabilità internazionale dello Stato, a norma del diritto europeo tenuto al recupero, costituisce tuttavia un fuor d'opera, dal momento che attualmente – per effetto dell'art. 49 l. n.234 del 2012 – la cognizione delle controversie sul recupero stesso è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

Semplificazione delle modalità di instaurazione del procedimento

Il nuovo comma 1 stabilisce che «il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell'ammontare della pretesa».

Ciò significa che la proposizione dell'impugnazione produce, oltre agli effetti sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli, apprezzabili sul piano del procedimento amministrativo, del reclamo. In sostanza, il reclamo è introdotto automaticamente con la presentazione del ricorso.

La pregressa disciplina prevedeva, invece, un'apposita istanza di reclamo, motivata sulle stesse ragioni che sarebbero state portate all'attenzione del giudice nell'eventuale fase giurisdizionale con il successivo deposito del ricorso, decorsi i termini previsti per la conclusone del procedimento (a tal proposito si vedano Cass. V, n. 9173/2011, con nota di Turis, 3178; Cass. V, n. 16565/2012; Cass. V, n. 18373/2012).

Il venir meno della necessità di presentazione di un'apposita istanza giustifica anche la mancata riproposizione della previgente disposizione che dichiarava espressamente applicabili al procedimento di reclamo, in quanto compatibili, le norme sulla proposizione del ricorso. Nella nuova configurazione il procedimento di reclamo è, infatti, connaturato al processo, ancorché viva prima e al di fuori di esso.

Per le controversie in questione il contribuente ha, comunque, la facoltà di inserire nel ricorso una proposta di mediazione con rideterminazione dell'ammontare della pretesa, già esercitabile, sulla base del testo normativo antecedente, attraverso la presentazione del reclamo.

Nell'ambito delle controversie relative alle operazioni catastali, tale proposta potrà avere ad oggetto, ad esempio, la modifica del classamento o della rendita catastale determinati dall'ufficio.

Natura giuridica del reclamo

Il reclamo e la mediazione sono strumenti profondamente differenti tra loro, seppur legati a una comune e dichiarata finalità deflattiva e da un nesso di dipendenza procedimentale.

L'art. 17-bis in commento utilizza il termine «reclamo» per indicare quell'istituto, finalizzato a scongiurare la lite, consistente nella sollecitazione dell'annullamento totale o parziale dell'atto in sede amministrativa. In altre parole, il reclamo rappresenta un'istanza obbligatoria di autotutela in cui il contribuente denunzia l'illegittimità della pretesa impositiva (Boria, 15).

Si tratta, dunque, di un istituto che formalizza l'obbligo degli uffici di verificare se l'autotutela sia o meno esercitabile, almeno per le controversie di valore inferiore a 20 mila euro (dal 1° gennaio 2018, 50 mila euro) (Boria, 499).

In dottrina, vi sono difficoltà interpretative in merito alla qualificazione giuridica del suddetto istituto, date dalla duplice funzione del reclamo: risolvere in via amministrativa la controversia e, in caso di esito negativo, fungere da atto introduttivo del giudizio (Gioè, 15). Da questa, il problema di esaminare se ad esso andasse riconosciuta natura meramente amministrativa ovvero giurisdizionale.

A favore della prima soluzione si pone quella parte della dottrina che classifica il reclamo come un'istanza preventiva obbligatoria di autotutela (Basilavecchia, 2493; Pistolesi, 70). L'orientamento di cui si tratta si fonda essenzialmente su due elementi: il dato testuale della disposizione e la struttura del procedimento di reclamo. Secondo il dettato dell'art. 17-bis in commento, il reclamo è «volto all'annullamento totale o parziale dell'atto contro cui è proposto», finalità quest'ultima perfettamente coincidente con quella perseguita con l'istanza di annullamento in autotutela. Peraltro, a livello più strettamente procedurale, il contribuente che intende proporre reclamo si rivolge, come per l'istanza di annullamento in autotutela, alla stessa autorità amministrativa, anche se ad un ufficio differente da quello che ha emanato l'atto impositivo (Boria, 17).

In un studio dedicato ad un tentativo di inquadramento sistematico degli istituti del reclamo e della mediazione tributaria, c’è (Corasaniti, 46) chi è giunto alla conclusione che, con la procedura amministrativa del reclamo, l’Amministrazione finanziaria è chiamata a svolgere non già una funzione di amministrazione attiva, bensì un’attività di riesame giustiziale dell’atto impositivo oggetto di reclamo, ossia un’attività di riesame della legittimità dell’atto impositivo su domanda diretta del contribuente e sulla base dei motivi di censura dallo stesso formulati. Chiaramente, ciò non significa che all’Amministrazione finanziaria, in pendenza della procedura del reclamo, resti preclusa tout court la possibilità di annullare d’ufficio (totalmente o parzialmente) l’atto impositivo sulla base di motivi diversi rispetto a quelli dedotti nel reclamo. Al contrario, l’Amministrazione finanziaria, a prescindere dal reclamo, resta sempre titolare del generale potere di autotutela, in forza del quale può procedere “spontaneamente” all’annullamento d’ufficio dell’atto impositivo oggetto di reclamo sulla base di motivi differenti rispetto a quelli dedotti nel reclamo stesso, e lo può fare tanto in pendenza della procedura amministrativa, quanto in pendenza dell’eventuale processo e finanche dopo la formazione del giudicato ovvero a seguito della definitività dell’atto impositivo (Corasaniti, 970).

Di diversa opinione è invece quella parte della dottrina (Tesauro, 149; Cantillo, cit., 8) che, all'istituto in commento, riconosce natura giurisdizionale. Secondo l'impostazione che si va esponendo, il reclamo non sarebbe un atto diverso dal ricorso, ma si identificherebbe con esso, anche prima di valere come domanda rivolta al giudice, ed opererebbe come atto rivolto alla competente A.F. per l'avvio del procedimento amministrativo (Corasaniti, 467). Ciò in ragione del fatto che, sebbene la denominazione «reclamo» faccia evidente riferimento alla funzione di accesso immediato alla fase amministrativa, il contenuto e la forma dell'atto non si discostano invece da quelli richiesti per il ricorso giurisdizionale. Ed invero, l'atto presentato ai sensi dell'art. 17-bis in commento deve possedere gli stessi requisiti, formali e sostanziali, richiesti per il ricorso giudiziale, stante l'analitico rinvio alle norme processuali all'interno del quale si inserisce l'istituto in esame. La sostanziale identificazione del reclamo con il ricorso deriverebbe da molteplici fattori. In primo luogo, dal fatto che mediante la notificazione del reclamo si producono gli effetti giuridici che si riconducono alla proposizione della domanda giudiziale (come, ad es., l'effetto interruttivo della prescrizione del diritto al rimborso ex artt. 2943 e 2945 c.c.). In secondo luogo, al reclamo si applicano le stesse norme relative al contenuto, al modo ed al termine di presentazione del ricorso e deve sempre contenere la causa petendi ed il petitum consistente nella richiesta di annullamento (totale o parziale) dell'atto, cui può aggiungersi un'istanza di riesame ovvero una proposta di mediazione. Inoltre, l'assimilazione tra reclamo e ricorso deriverebbe dalla vicenda processuale conseguente al mancato accoglimento del primo: infatti, nel caso in cui il reclamante intenda proseguire l'azione giudiziaria, non avrebbe che da compiere la stessa operazione che compete al ricorrente ossia costituirsi in giudizio (Cantillo, cit., 8).

Si deve evidenziare, infine, che esiste anche un terzo, ed ultimo, orientamento dottrinario, che attribuisce al reclamo natura ibrida. In accordo con tale interpretazione, il reclamo cumulerebbe in sé, oltre alla funzione di ricorso amministrativo, quella di ricorso giurisdizionale (Giovannini, 53). Se è vero, infatti, che attraverso il reclamo si introduce un procedimento amministrativo essenzialmente volto al riesame dell'atto ed all'eventuale perfezionamento di una mediazione, è altrettanto vero che il termine per ricorrere avverso l'atto continua a decorrere dalla notifica dello stesso. A conferma di ciò, rilevasi che è applicabile alla presentazione del reclamo-ricorso il termine di sospensione feriale previsto per i ricorsi e che per l'individuazione della soglia di applicabilità si ha riguardo al momento di proposizione. In altri termini, il reclamo-ricorso può assumere una veste differente a seconda del momento in cui viene esaminato: in una fase iniziale, che si apre con l'invio del reclamo all'A.F., l'atto assume la veste di atto introduttivo della fase amministrativa; ma in una seconda fase, eventuale, esso può trasformarsi ex se in atto giudiziario, per effetto del mancato accordo tra le parti nella fase precontenziosa, una copia viene depositata presso la commissione tributaria provinciale per la costituzione in giudizio; il semplice deposito in costituzione di un atto in sé unico è idoneo ad avviare l'iter giurisdizionale.

Dall'analisi delle teorie sopra accennate e delle diverse motivazioni addotte a sostegno di ciascuna di esse, risulta evidente la difficoltà di inquadrare univocamente la natura giuridica da attribuire al reclamo (Boria, 19). Tuttavia la soluzione che appare oggi maggiormente condivisa propende per il riconoscimento di natura amministrativa al reclamo, che fonda una parentesi amministrativa precontenziosa volta ad attivare poteri di revisione in autotutela della P.A.

Reclamo tributario e questioni di legittimità costituzionale

La Corte cost. si è confrontata più volte con l'art. 17-bis in commento. La prima risale alla sentenza Corte cost. n. 98/2014 (in Riv. dir. proc., 2015, 3, 813, con nota di Sandulli, 815), cui ha fatto seguito la riformulazione con l'enunciato attuale. Il comma 2 stabiliva la sanzione dell'inammissibilità del ricorso per la mancata presentazione del reclamo, nonché la rilevabilità d'ufficio di tale inammissibilità in ogni stato e grado del giudizio. Il giudice delle leggi, nell'affermare la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri quando questi siano finalizzati al perseguimento di interessi generali, ha tuttavia precisato che, anche laddove ricorra tale evenienza, il legislatore «è sempre tenuto ad osservare il limite imposto dall'esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa» e dunque «deve contenere l'onere nella misura meno gravosa possibile», operando un «congruo bilanciamento» tra l'esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell'accesso alla tutela giurisdizionale intende perseguire. Per vero, in linea con tale prospettiva, la Corte ha più volte dichiarato l'illegittimità, per violazione dell'art. 24 Cost., di disposizioni contemplanti la sanzione della decadenza dall'azione in conseguenza del mancato previo esperimento di rimedi di carattere amministrativo. Coerentemente con tali precedenti, dunque, essa ha ritenuto che la previsione di cui al censurato comma 2 nel testo originario, anteriore alla sostituzione ad opera dell'art. 1, comma 611, lettera a), numero 1), della legge n. 147 del 2013, comportando la perdita del diritto di agire in giudizio e, quindi, l'esclusione della tutela giurisdizionale, violasse l'art. 24 Cost.

Più di recente, con l'ord. n. 38 del 2017, la Corte si è nuovamente pronunciata relativamente ad un dubbio di costituzionalità avanzato dalla commissione tributaria provinciale di Milano, questa volta, però, a proposito della nuova versione dell'art. 17-bis: secondo i giudici milanesi, esso violerebbe l'art. 111 Cost.sub specie dell'effettiva garanzia del diritto di difesa, non assicurando effettive terzietà ed autonomia della struttura che gestisce la procedura di reclamo con mediazione, sebbene ne riconnetta la gestione a soggetti – intesi però come persone fisiche pur sempre dipendenti dall'apparato amministrativo emanante l'atto – diversi da quelli addetti, per così dire, all'amministrazione attiva; ma la Corte ha condivisibilmente opposto che, trattandosi di una procedura conciliativa situata fuori dal processo eppure di per sé attenta a porre le parti in una posizione di parità, come evidenziato dal rilievo che l'esito positivo della conciliazione stessa acquisisce efficacia solo con l'accettazione (e quindi con il consenso) del contribuente, deve escludersi alcuna violazione del diritto di difesa, a maggior ragione in relazione al diritto della parte di non essere distolta dal giudice naturale precostituito per legge (fermo peraltro l'insegnamento ormai recetto per cui «la Costituzione italiana non contiene regole imperative che vietano l'inserimento nell'ordinamento di rimedi di natura amministrativa che ritardino l'accesso all'azione giudiziaria»).

La mediazione

Per quanto riguarda, invece, la mediazione il discorso appare persino più complesso.

Infatti, nonostante l'identità terminologica, la mediazione“tributaria” introdotta dall'art. 17-bis è un istituto differente dall'omologo civilistico. La base di partenza è che la mediazione“civile” si riferisce alle sole controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi disponibili, con espressa esclusione delle controversie relative ad atti di natura fiscale. Del resto tale esclusione era espressamente prevista dall'art. 1 Dir. n. 2008/52/CE, cui il legislatore italiano, con il d.lgs. n. 28 del 2010, si è adeguato nel prevedere e normare la mediazione “civile”.

Talché, sebbene dalla lettura dell'art. 17-bis in commento traspaia evidente il tentativo di estendere anche alla materia fiscale uno schema di composizione stragiudiziale della lite, che riservi la prospettiva giurisdizionale soltanto alle controversie non altrimenti componibili, è indubbio che, così come disciplinata, la mediazione “tributaria” non sia riconducibile – né avrebbe potuto esserlo – al modello previsto in materia civile, con il quale condivide unicamente la finalità del raggiungimento di un accordo stragiudiziale tra la parti in funzione deflattiva (Gioè, 21). La qual cosa equivale a dire che, sulla scia del procedimento di mediazione di recente introdotto nel rito civile ad opera del d.lgs. n. 28 del 2010, il legislatore tributario ha ritenuto che una sorta, per così dire, di “filtro con finalità conciliative”, preventivo rispetto all'avvio del processo tributario, avrebbe potuto ridurre l'instaurazione delle liti di modesto valore.

Ed invero, a differenza dell'istituto civilistico, la mediazione “tributaria” non ha di mira l'accertamento della natura e dell'entità del rapporto controverso, ma è percorsa da una valenza transattiva, come dimostrano le ragioni che devono sorreggere la proposta di mediazione dell'ufficio in punto di incertezza delle questioni controverse, di grado di sostenibilità della pretesa e di principio di economicità dell'azione amministrativa (Giovannini, cit., 55; Pistolesi, 70). Per l'effetto, la mediazione in senso contrattuale non può essere accostata alla «proposta dimediazione» introdotta con l'art. 17-bis in commento, in quanto difetta di due elementi essenziali: il “mediatore” e l'“affare da concludere”, dovendosi concludere che la mediazione “tributaria” esula da prospettive disciplinari contrattualistiche ancorché residuali.

Anche le condizioni di procedibilità della mediazione “tributaria” e di quella “civile” non coincidono. Ad essere considerata condizione di procedibilità nella mediazione “tributaria”, a seguito delle modifiche della l. n. 147 del 2013, non è la proposta di mediazione, bensì la presentazione dell'istanza di reclamo. La proposta di mediazione, accedendo al reclamo ma non sovrapponendosi ad esso, è meramente facoltativa, sia d'impulso della parte istante che dell'ufficio (diversamente, la mediazione “civile” può essere facoltativa, cioè scelta dalle parti, ovvero demandata dal giudice nel caso in cui le parti si siano rivolte a quest'ultimo, oppure obbligatoria quando essa deve essere esperita come “condizione di procedibilità dell'azione”).

Alcune differenze vi sono altresì in tema di rilevabilità dell'eccezione di improcedibilità. Tanto per cominciare, l'ufficio chiamato a valutare la proposta di mediazione “tributaria” è lo stesso che assume, nel processo, il ruolo di parte resistente. Par evidente, quindi, che esso non risponde ai requisiti di disinteresse e di imparzialità richiesti per la mediazione “civile”: infatti, in sede civile, il mediatore è un soggetto terzo e imparziale, estraneo alle parti, appartenente a un organismo di mediazione iscritto in apposito registro tenuto presso il Dipartimento per gli Affari di Giustizia del Ministero della Giustizia, il quale ha il compito di coadiuvare due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole, o bonario, per la composizione di una controversia (mediazione facilitativa), sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa (mediazione aggiudicativa) (Benedetto, 2). Fermo quanto precede, v'è anche dell'altro. Mentre, infatti, la mediazione “civile” ha ad oggetto la composizione inter privos di controversie riguardanti diritti disponibili, la mediazione “tributaria”, invece, riguarda la rideterminazione dell'obbligazione tributaria, o meglio, la rideterminazione della base imponibile o della relativa imposta, e non la conclusione di un certo affare. Infine, ulteriore, evidente, differenza attiene all'obbligo di riservatezza del mediatore rispetto alle «dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento di mediazione» exartt. 9 e 10 d.lgs. n. 28 del 2010: l'art. 10, comma 1, stabilisce che «le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite durante il procedimento non sono utilizzabili nell'eventuale successivo giudizio salvo che la parte dichiarante non vi acconsenta»; invece l'art. 17-bis in commento non dispone nulla di tutto ciò ed anzi è da ritenere che tanto le dichiarazioni ed informazioni provenienti dall'A.F. quanto quelle del contribuente siano ben accette dalle commissioni tributarie, le quali ne colgono la rilevanza probatoria (Boria, 21).

In definitiva, confermasi che, tanto da un punto di vista formale quanto da un punto di vista sostanziale, il procedimento di mediazione “tributaria” e quello “civile” hanno in comune, oltre al nomen iuris, soltanto l'obiettivo di ridurre le pendenze processuali, fungendo da filtro rispetto al radicamento del processo.

Le superiori considerazioni hanno indotto parte della dottrina a ricercare altri istituti presenti nell'ordinamento tributario che meglio potessero inquadrare forme classiche di mediazione, determinandosi, grazie al richiamo che l'art. 17-bis in commento fa all'art. 48 d.lgs. n. 546 del 1992, a rinominare la mediazione “tributaria” di cui si è discorso come un'ipotesi di «conciliazione pregiurisdizionale» (Giovannini, 51). Tuttavia, mancando nella mediazione “tributaria” il requisito della terzietà, proprio invece della conciliazionegiudiziale, l'istituto appare oggi più vicino ad un «accordo tra due parti», che può qualificarsi, almeno esteriormente, quanto alla forma, come una «transazione» (Boria, 22).

La mediazione tributaria e la normativa europea

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la sent. 18 marzo 2010 in causa C-317/08, si è pronunciata sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo obbligatorio di conciliazione pre-giudiziale in materia di telecomunicazioni. Il rilievo della questione anche ai fini del discorso sulla mediazione “tributaria” è palese. Afferma la Corte – similmente peraltro agli approdi da tempo raggiunti dalla giurisprudenza costituzionale interna – che «il diritto alla tutela giurisdizionale, quale diritto fondamentale dell'individuo, può anche soggiacere a restrizioni, purché le stesse risultino proporzionate e funzionali al soddisfacimento di interessi generali, quali, appunto, il decongestionamento dei tribunali o la definizione più spedita e meno onerosa delle controversie», precisando che «in mancanza di una disciplina dell'UE in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascun Stato membro [...] stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'UE, fermo restando che gli Stati membri sono tenuti a garantire in ogni caso la tutela effettiva di tali diritti».

Uscendo dalla materia delle telecomunicazioni per approdare a quella tributaria, deriva dalle parole della Corte che la mediazione “tributaria” e per vero a monte il sostegno procedurale su cui essa si appoggia, ossia il reclamo, sono “tendenzialmente” compatibili con il diritto europeo, perché anelano ad una definizione delle controversie ad un tempo più spedita, siccome non necessitante neppure di entrare nel circuito giurisdizionale, e meno onerosa, siccome svincolata dalla sopportazione delle spese di giudizio, che, indipendentemente dalla parte a carico della quale sono poste, si aggiungono al dovuto in forza del rapporto tributario e perciò abbattono il valore netto della lite. Da un punto di vista sistemico, poi, è innegabile che la finalità di evitare l'instaurazione di contenziosi inutili risponde all'interesse generale sia dell'Italia sia della stessa Unione Europea, favorendo una generalizzata abbreviazione dei tempi di evasione delle pendenze ed un migliore funzionamento della macchina giudiziaria.

La riserva di tendenzialità cui si accennava poc'anzi, tuttavia, si spiega in ciò che, attribuita la mediazione alla stessa P.A. emanante l'atto, e perciò ad un soggetto pregiudicato da un interesse partigiano, con riguardo ai tributi armonizzati (in primis l'IVA) e per vero soltanto ad essi, potrebbe non essere integrato l'ulteriore requisito della proporzionalità rispetto alla declinazione europea dei suddetti obiettivi di interesse generale.

Il punto di partenza è rappresentato da quella giurisprudenza euro-unitaria ormai consolidata (cfr., a mero titolo d'es., CGUE, sent. 29 ottobre 2009 in causa C-63/08) secondo cui le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'UE non devono essere meno favorevoli di quelle riguardanti i ricorsi analoghi di natura interna, alla stregua del principio di equivalenza, e non devono, comunque, ossia a prescindere da una pur sussistente equivalenza, rendere impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio di tali diritti, alla stregua del principio di effettività. L'effettività, che ingloba e supera l'equivalenza in un certo senso come il più contiene il meno, in quanto riferita alla tutela giurisdizionale, costituisce un principio generale del diritto dell'Unione Europea derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tanto da essere codificato sia dagli artt. 6 e 13 della Convenzione EDU sia e soprattutto dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Orbene, subordinando, ancorché non la ricevibilità, ma la procedibilità, rectius, la proseguibilità, dei ricorsi giurisdizionali proposti in materia tributaria al preventivo esperimento di un reclamo con per di più con il seguito aggiuntivo di una mediazione, la normativa nazionale ha introdotto una tappa supplementare per l'accesso al giudice, astrattamente idonea ad incidere sull'effettività della tutela giurisdizionale. Vero è, in definitiva, che i diritti fondamentali, al cui novero appartiene la tutela giurisdizionale, non si configurano come prerogative assolute, «ma possono essere sottoposte a restrizioni», ancorché «a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (in termini, tra le altre, CGUE, sent. 15 giugno 2006 in causa C-28/05); ma è anche vero che lo standard cui parametrare la protezione dei diritti fondamentali involgenti posizioni soggettive radicate nel diritto dell'Unione Europea non è quello interno, ma quello della stessa Unione Europea: il quesito fondamentale, a questo punto, si sposta dal reclamo con mediazione come da qualsiasi altro immaginabile istituto deflattivo alla sostenibilità euro-unitaria degli snodi fondamentali di un processo tributario italiano malato, che detti istituti dovrebbero contribuire a curare.

Rapporto tra la Mediazione e la conciliazione giudiziale

Va posta l'attenzione sul venir meno, con la riforma operata dal d.lgs. n. 156 del 2015, della disposizione che escludeva la conciliazione giudiziale nelle ipotesi in cui fosse obbligatoria la procedura di cui all'art. 17-bis. Da tale previsione discendeva l'alternatività della procedura alla conciliazione giudiziale. Ebbene il fatto che sia venuta meno la riferita esclusione e che, pertanto, è possibile avvalersi della conciliazione giudiziale anche dopo aver esperito la procedura di reclamo-mediazione, non significa affatto che sia cambiata la natura di quest'ultima. La modifica si deve al fatto che il legislatore – lo stesso d.lgs. n. 156 del 2015 – ha razionalizzato la disciplina e opportunamente eliminato le (immotivate) limitazioni circa la possibilità di avvalersi della conciliazione giudiziale: essa, infatti, era possibile una volta soltanto, nel giudizio di primo grado e alla prima udienza (“La conciliazione può aver luogo solo davanti alla commissione provinciale e non oltre la prima udienza, nella quale il tentativo di conciliazione puo` essere esperito d'ufficio anche dalla commissione”). Con il risultato che la conciliazione è ora possibile non soltanto oltre la prima udienza del giudizio di primo grado, ma anche nei gradi successivi di giudizio sia pure con una graduazione dei benefici per il contribuente. In altre parole, ammessa una generale e diffusa conciliabilità delle liti tributarie non aveva più senso mantenere la esclusione della conciliazione nelle ipotesi di obbligatorietà della procedura di cui all'art. 17-bis. Ne consegue che la procedura di cui all'art. 17-bis può continuare ad essere definita come un'anticipazione della conciliazione giudiziale, nella consapevolezza che l'esito negativo della prima non esclude la possibilità di conciliare successivamente la lite nella sede processuale, come del resto la mancata conciliazione della lite in primo grado non esclude che alla conciliazione si giunga in secondo grado. Non deve meravigliare che al contribuente si offrano più possibilità di prevenire e comporre le controversie tributarie, visto che la coesistenza di tali possibilità: era già presente nel sistema (si pensi ad esempio alla possibilità di conciliare una lite, nonostante l'esito negativo dell'accertamento con adesione) ed è stata avallata proprio dall'introduzione della procedura di reclamo-mediazione (anch'essa possibile nonostante l'esito negativo dell'accertamento con adesione); esprime un atteggiamento di generale favor del legislatore verso gli istituti di prevenzione e composizione delle liti, di cui semmai andrebbe fatta – e qui possono probabilmente appuntarsi alcune critiche – una valutazione di coerenza complessiva. Né vale osservare che all'unitaria conciliazione giudiziale corrispondano in limine litis due istituti diversi, visto che la mediazione consente di pervenire a risultati che al reclamo (di per sé volto alla demolizione dell'atto impugnato) sono preclusi e che la conciliazione consente di pervenire a risultati che sono propri sia del reclamo che della mediazione: il che, piuttosto, conferma la sovrapponibilità della procedura di reclamo-mediazione e della conciliazione (GUIDARA, 111).

Profili procedurali: effetti della presentazione del reclamo

Il novellato comma 2 dell'art. 17-bis in commento stabilisce che «il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica, entro il quale deve essere conclusa la procedura di cui al presente articolo». Ciò significa che con la proposizione del ricorso si apre una fase amministrativa di durata pari a novanta giorni entro la quale deve svolgersi il procedimento di reclamo e mediazione. Tale fase, che si colloca temporalmente tra l'avvio dell'azione giudiziaria (coincidente con la notifica del ricorso) e l'eventuale instaurazione del giudizio (restando nel frattempo sospesi i termini di costituzione per il ricorrente), è finalizzata all'esame del reclamo e dell'eventuale proposta di mediazione, con l'obiettivo di evitare, in caso di esito positivo, che la causa sia portata a conoscenza del giudice.

Il termine di novanta giorni va computato dalla data di notifica del ricorso all'ente impositore; se la notifica del ricorso è effettuata a mezzo del servizio postale, decorre dalla data di ricezione del ricorso da parte dell'ente destinatario, in analogia con quanto accade per la decorrenza del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente, alla luce del prevalente indirizzo della giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. V, n. 9173/2011; Cass. n. 16565/2012; Cass. ord. n. 18373/2012).

Come esplicitato dall'ultimo periodo del comma 2, il termine di cui si tratta è inoltre soggetto alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (a norma dell'art. 1 l. n. 742 del 1969, come modificato dall'art. 16 d.l. n. 132 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 162 del 2014, il decorso dei termini processuali è sospeso di diritto dal 1° al 31 agosto di ciascun anno).

Alla stregua del comma 2, durante la pendenza del procedimento di reclamo, e cioè a decorrere dalla notifica del ricorso e nei successivi novanta giorni, calcolati applicando le regole dei termini processuali, il ricorso è improcedibile, nel senso che l'azione – rectius, l'impugnazione – non può essere proseguita, attraverso la costituzione in giudizio del ricorrente. Come chiarito dal comma 3, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente, previsto dall'art. 22 d.lgs. n. 546 del 1992, decorre solo dopo lo scadere del termine, sul piano del processo da considerarsi dilatorio, di novanta giorni. Nondimeno l'improcedibilità che ne occupa non determina la chiusura anticipata del processo in rito, atteso che il giudice, se rileva che la costituzione in giudizio è avvenuta prima dello scadere dei novanta giorni, rinvia la trattazione della causa per consentire l'esame del reclamo. Medio tempore sono sospesi ex lege la riscossione e il pagamento delle somme dovute in base all'atto oggetto di contestazione, come previsto dal comma 8, il quale, onde scongiurare dilazioni capziose, soggiunge che, passati però i novanta giorni senza che vi sia stato accoglimento del reclamo o perfezionamento della mediazione, il contribuente è tenuto a corrispondere gli interessi previsti dalle singole leggi d'imposta per il periodo di sospensione. La disciplina sul punto ricalca quella previgente, fatta eccezione per la previsione — contenuta nel vecchio comma 9-bis, ultimo periodo, e non riproposta nel nuovo testo — che dichiarava inoperante la sospensione legale per i casi d'improcedibilità del ricorso a seguito di prematura costituzione in giudizio del ricorrente. Pertanto, si deve ritenere che ora la sospensione legale della riscossione, che consegue automaticamente alla presentazione del ricorso, operi anche nel caso in cui il contribuente si costituisca prima dello scadere del termine di novanta giorni.

È bene specificare, tuttavia, che gli effetti sopra descritti si producono esclusivamente nel caso di rituale instaurazione di controversie alle quali è applicabile l'art. 17-bis in commento. Pertanto, qualora il ricorso sia di per sé inammissibile (perché ad esempio presentato tardivamente) oppure sia proposto avverso un atto non rientrante nell'ambito di applicazione del reclamo con mediazione, i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente decorrono dalla notifica del ricorso stesso, né ovviamente opera la sospensione legale della riscossione.

Istruttoria del reclamo e perfezionamento dell'accordo di mediazione

La fase dell'istruttoria del reclamo segue le regole dettate dalla previgente disciplina. È stata infatti ribadita — dal comma 4 dell'articolo 17 bis in commento — l'autonomia, all'interno dell'ente, del soggetto che deve decidere sul reclamo, per consentire un corretto esercizio del relativo potere. Più precisamente, con riferimento alle agenzie fiscali, il novellato comma 4 affida l'esame del reclamo e, per ragioni di opportunità, della proposta di mediazione ad apposite strutture diverse ed indipendenti da quelle che curano l'istruttoria degli atti reclamabili (con riferimento agli altri enti impositori ai quali è stato esteso l'istituto del reclamo, il legislatore ha invece rimesso alla organizzazione interna di ciascuno di essi l'individuazione della struttura eventualmente deputata alla trattazione dei reclami, fermo restando che il principio di autonomia di quest'ultima, ove gli organici lo consentano, costituisce il faro cui conformare il modello organizzativo).

L'opzione di istituire un soggetto autenticamente “terzo” deputato all'istruttoria, come previsto per la mediazione civile, è stata esclusa atteso che – come si legge nella relazione illustrativa – in campo tributario l'istituto del reclamo con mediazione si configura maggiormente «come espressione dell'esercizio di un potere di autotutela nonché più adeguata determinazione dell'ente impositore, che va stimolato ed incoraggiato, allo scopo di indurre ogni Amministrazione a rivedere i propri errori prima dell'intervento del giudice». In realtà, il vizio d'origine sta forse nell'aver previsto la mediazione come accessoria al reclamo, se è vero, come che sia, che il reclamo risponde bensì alle logiche dell'autotutela, ma la mediazione a quelle delle transazione.

La commistione fra reclamo e mediazione si atteggia a pericolosa confusione nel comma 5, che riproduce sostanzialmente la previsione secondo cui l'organo competente per l'istruttoria, se non intende accogliere il reclamo o l'eventuale proposta di mediazione del contribuente, formula d'ufficio una propria proposta di mediazione.

Le valutazioni dell'ufficio devono fondarsi sui tre criteri specifici – coincidenti con quelli pregressi – della «eventuale incertezza delle questioni controverse», del «grado di sostenibilità della pretesa» e del «principio di economicità dell'azione amministrativa».

Restano pressoché invariate anche le modalità di perfezionamento dell'accordo di mediazione, che avviene, in sintesi o con il pagamento, entro venti giorni dalla data di sottoscrizione dell'accordo, dell'importo dovuto a termini della mediazione o, in caso di pagamento rateale, della prima rata, se la controversia ha ad oggetto un atto impositivo o di riscossione; ovvero con la sottoscrizione dell'accordo stesso, se la controversia ha ad oggetto il rifiuto espresso o tacito alla richiesta di restituzione di somme (già s'è visto che sul punto il diritto positivo ratifica la prassi dell'A.F. di cui alla Circ. Ag. En. n. 9/E del 2012, il cui par. 7 precisa che, «nel caso di accordo avente ad oggetto il rifiuto espresso o tacito di un rimborso, la mediazione si perfeziona con la conclusione del relativo accordo»): in tal caso, l'accordo ha valore – espressamente riconosciuto dal comma 6 – di «titolo per il pagamento delle somme dovute al contribuente», titolo che dunque consente al contribuente, qualora non venga data esecuzione al pagamento concordato, l'azione esecutiva davanti al giudice – non tributario ma – ordinario; ovvero, ancora, con la sottoscrizione dell'accordo, se la controversia ha ad oggetto operazioni catastali: in questo caso, esemplificamente rappresentato da ricorsi concernenti classamento e rendita, gli atti catastali verranno aggiornati a seguito del perfezionamento della mediazione nei termini risultanti dall'accordo.

A beneficio della certezza in punto di somme e di tempi, come si conviene alla gestione delle entrate pubbliche, l'accordo deve contenere, tra l'altro, l'indicazione specifica degli importi risultanti dalla mediazione (tributo, interessi e sanzioni) e le modalità di versamento degli stessi, comprese le eventuali rateizzazioni.

È stata infine confermato dall'ultimo periodo del comma 5 che l'esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali ed assistenziali la cui base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi: disposizione quanto mai opportuna onde evitare ingiustificate differenze di trattamento a seconda dei settori dell'ordinamento coinvolti.

L'aspetto premiale a senso unico della positiva conclusione della mediazione

Il comma 7 dell'articolo 17 bis in commento ridetermina, in senso più favorevole per il contribuente, il beneficio della riduzione delle sanzioni dovute a seguito dell'intervenuto accordo di mediazione, nella misura del «trentacinque per cento del minimo previsto dalla legge». La disciplina risulta più favorevole per il contribuente sotto un duplice aspetto: le sanzioni sono ridotte al 35 per cento (mentre in precedenza la percentuale era fissata al 40 per cento) ed irrogabili sulla base del minimo edittale previsto dalla legge (e non più in rapporto dell'ammontare del tributo risultante dalla mediazione). Insomma: ponti d'oro al nemico che fugge! Ma l'analisi non può fermarsi a tanto.

Si osserva come la nuova percentuale si colloca quale entità intermedia tra le due misure – un terzo pari al 33,3 per cento e 40 per cento – quantificanti la riduzione delle sanzioni previste, rispettivamente, per l'accertamento con adesione e per la conciliazione conclusa nel corso del primo grado di giudizio. Ciò consente di affermare che si configura ormai una sorta di scala crescente di premialità nella composizione bonaria delle controversie tributarie in funzione del grado di anticipazione rispetto all'investitura giurisdizionale: la ragionevolezza sistemica è rispettata; l'effetto deflattivo pure.

Il comma 7, ultimo periodo, ripropone poi la previgente disposizione secondo cui sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi: passino le sanzioni; non si scorge però per quale ragione non siano dovuti neppure gli interessi, da cui esula completamente qualsivoglia connotato di afflittività.

Rammentasi, inoltre, che, a seguito della riforma del sistema sanzionatorio tributario recata dal d.lgs. n. 158 del 2015, è stato modificato l'art. 12 d.lgs. n. 472 del 1997 su concorso di violazioni e continuazione. In particolare, è stata estesa anche alla mediazione su reclamo la disciplina – prima prevista solo per le ipotesi di accertamento con adesione – del comma 8 dell'art. 12 (secondo cui le disposizioni sulla determinazione di una sanzione unica in caso di progressione si applicano separatamente per ciascun tributo e per ciascun periodo d'imposta).

Occorre inoltre precisare che, in caso di accoglimento parziale del reclamo, si rende applicabile l'art. 2-quater, comma 1-sexies, d.l. n. 564 del 1994, introdotto dall'art. 11, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 159 del 2015, ai sensi del quale, «nei casi di annullamento o revoca parziali dell'atto[,] il contribuente può avvalersi degli istituti di definizione agevolata delle sanzioni previsti per l'atto oggetto di annullamento o revoca alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell'atto purché rinunci al ricorso. In tale ultimo caso le spese del giudizio restano a carico delle parti che le hanno sostenute». In conseguenza di tale previsione, par di potersi concludere che il contribuente che abbia ottenuto l'accoglimento parziale del reclamo, previa rinuncia a coltivare il ricorso con riguardo agli altri motivi di doglianza non accolti, è rimesso in termini per ottenere eventualmente la riduzione delle sanzioni ad un terzo prevista dall' art. 15 d.lgs. n. 218 del 1997 (il quale ammette la riduzione delle sanzioni ad un terzo «se il contribuente rinuncia ad impugnare l'avviso di accertamento o di liquidazione e a formulare istanza di accertamento con adesione, provvedendo a pagare, entro il termine per la proposizione del ricorso, le somme complessivamente dovute, tenuto conto della predetta riduzione. In ogni caso la misura delle sanzioni non può essere inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo»).

Nuove regole per il pagamento delle somme dovute a seguito dell'accordo di mediazione

Come noto, nelle controversie aventi ad oggetto un atto impositivo o di riscossione, la condizione indispensabile per il perfezionamento dell'accordo di mediazione è il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di sottoscrizione del predetto accordo, delle intere somme dovute o, in caso di versamento rateale, della prima rata, in relazione all'accordo stesso.

Ai sensi del comma 6 dell'articolo 17-bis in commento, per il versamento delle somme dovute «si applicano le disposizioni, anche sanzionatorie, previste per l'accertamento con adesione dall'articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218». Il legislatore ha così inteso uniformare le regole che presiedono alle modalità di pagamento delle somme dovute a seguito di accertamento con adesione, reclamo, mediazione e conciliazione, nell'ottica della considerazione dell'accertamento con adesione quale sorta di matrice di meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie. Pertanto, (anche) nella mediazione su reclamo, è ammessa la possibilità di pagamento rateale delle somme «in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo o in un massimo di sedici rate trimestrali se le somme dovute superano i cinquantamila euro», secondo quanto previsto dall'art. 8, comma 2, d.lgs. n. 218 del 1997 (come sostituito dall'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2015): rilevato che; in precedenza, la rateizzazione era ammessa in un massimo di otto rate, elevate a dodici nel caso di somme superiori ai 50 mila euro, secondo quanto stabilito dal previgente articolo 48 d.lgs. n. 546 del 1991, richiamato dal comma 8 del previgente articolo 17-bis, l'estensione alla mediazione della disciplina dianzi evocata è da salutarsi con favore in considerazione dell'incremento del numero di pagamenti dilazionabili; nondimeno, tenuto presente che in mediazione appare poco probabile che le somme complessivamente dovute superino i 50 mila euro, costituenti una cifra tutt'altro che esigua, segnando tra l'altro il limite massimo di reclamabilità ex comma 1, avrebbe potuto forse cogliersi l'occasione di una definitiva maggiore flessibilità sul numero delle rate, anche a costo di dover introdurre una loro più stringente periodicità, rimettendone determinazione, periodicità ed importi al prudente apprezzamento delle parti entro una cornice invalicabile. Ad ogni buon conto, oggi, le rate successive alla prima devono essere versate entro l'ultimo giorno di ciascun trimestre e sull'importo delle stesse sono dovuti gli interessi calcolati dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata.

In caso di inadempimento dei pagamenti rateali, la disciplina va mutuata da quella prevista dall'art. 15-ter, comma 2, d.P.R. n. 602 del 1973 (inserito nel d.P.R. n. 602 del 1973 dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2015 ed applicabile all'accertamento con adesione per espressa previsione contenuta nell'art. 8, comma 4, d.lgs. n. 218 de 1997): sicché il contribuente decade dal beneficio della rateazione qualora si ometta di versare una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva; in conseguenza della decadenza, sono iscritti a ruolo i residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni ed è irrogata l'ulteriore sanzione prevista dall'art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997, «aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta». Il regime punitivo – di per sé criticabile perché non differenzia a seconda delle ragioni che hanno determinato il mancato pagamento all'origine della decadenza – risulta comunque mitigato dalla riforma, posto che nella pregressa disciplina la sanzione di cui all'art. 13 cit. si applicava sul residuo importo in misura doppia. Trova altresì applicazione il comma 3 dell'art. 15-ter d.P.R. n. 602 del 1973, secondo cui è esclusa la decadenza in caso di c.d. “lieve inadempimento”, dovuto a: «a) insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3 per cento e, in ogni caso, a diecimila euro; b) tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni». Nei casi in cui l'insufficiente o il tardivo pagamento integri un “lieve inadempimento”, si procede – ai sensi del comma 5 dell'art. 15-ter cit. – all'iscrizione a ruolo «dell'eventuale frazione non pagata, della sanzione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, commisurata all'importo non pagato o pagato in ritardo, e dei relativi interessi». La predetta iscrizione a ruolo non è eseguita – a norma del successivo comma 6 del solito art. 15-ter – se il contribuente si avvale del ravvedimento operoso di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997, entro il termine di pagamento della rata successiva ovvero, in caso di versamento in unica soluzione o di ultima rata, entro novanta giorni dalla scadenza del termine previsto per il versamento.

Con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto avvisi di accertamento esecutivi, emessi ai sensi dell'art. 29 d.l. n. 78 del 2010, il recupero delle somme non versate a seguito della mediazione va effettuato mediante l'intimazione ad adempiere al pagamento, disciplinata dalla medesima disposizione (le cui speciali previsioni, valevoli per tutti gli avvisi di accertamenti esecutivi, devono ritenersi applicabili anche in vigenza del nuovo art. 8 del d.lgs. n. 218 del 1997, richiamato dal nuovo comma 6 dell'art. 17-bis in commento).

Applicabilità della conciliazione giudiziale alle sole controversie reclamabili

Le controversie instaurate a seguito di rigetto dell'istanza di reclamo ovvero di mancata conclusione dell'accordo di mediazione rientrano pur tuttavia nell'ambito di applicabilità della conciliazione, disciplinata dai nuovi artt. 48,48-bis e 48-ter d.lgs. n. 546 del 1992. Trattasi di un'eclatante novità, derivante dal fatto che non consta riproposta la disposizione che imponeva – per vero non irragionevolmente, onde non svilire la serietà già del primo tentativo transattivo – l'alternatività tra reclamo con mediazione e conciliazione(si v. par. 6.2, supra).  Oggi la ratio della novità risponde all'esigenza di potenziare gli istituti deflativi sia nella fase anteriore al giudizio che in pendenza di causa: tuttavia, al fine di evitare che il contribuente possa dilungare la proposizione della transazione sciorinandola in proposte progressive che si adeguano alla pazienza dell'ufficio ed all'andamento del processo, il giudice è chiamato ad effettuare un'attenta opera di valutazione dell'intero excursus procedimentale-processuale, onde eventualmente sanzionare inutili perdite di tempo a titolo di responsabilità processuale aggravata ex art. 15 d.lgs. n. 546 del 1992 e 96 c.p.c.

Si precisa che possono essere oggetto di conciliazione anche le cause, pendenti al 1° gennaio 2016, di valore non superiore a ventimila euro e concernenti atti dell'agenzia delle entrate, per le quali sia stata esperita infruttuosamente la mediazione in applicazione della previgente disciplina.

Questioni di diritto inter-temporale

In merito all'entrata in vigore del nuovo art. 17-bis in commento, l'art. 12, comma 1, d.lgs. n. 156 del 2015 stabilisce che le nuove disposizioni sul processo tributario si applicano, in via generale, a decorrere dal 1° gennaio 2016. Siffatta indicazione non è perspicua. Vale – come chiarito dalla relazione illustrativa – che le novità dispiegano i propri effetti anche per giudizi pendenti a tale data: ciò che risponde al noto principio secondo cui, per le norme lato sensu processuali, tempus regit actum; tuttavia l'immediata applicabilità ai giudizi pendenti non può vulnerare il regime in sé di impugnabilità degli atti, sino al punto di estendere il reclamo a quelli prima esclusi, come gli atti di accertamento catastale o gli atti di enti impositori diversi dall'agenzia delle entrate, con la conseguenza che, rispetto a questi, la riforma opera a partire dai ricorsi notificati dal contribuente a decorrere dal 1° gennaio 2016, mentre le liti concernenti atti dell'agenzia delle entrate di valore non superiore a ventimila euro, già ricadenti nell'ambito di applicazione del reclamo in base alla previgente disciplina, beneficeranno della riduzione delle sanzioni, delle nuove modalità di pagamento e della possibilità di esperire la conciliazione giudiziale in caso di esito negativo del reclamo con mediazione; nondimeno, in ordine a tali liti, se alla data del 1° gennaio 2016 il reclamo con mediazione risulta già perfezionato attraverso il pagamento in unica soluzione o della prima rata, la misura della riduzione delle sanzioni e le modalità di pagamento restano disciplinati dalle norme pregresse alla stregua di un rapporto ormai concluso, difettando una disciplina transitoria in tal senso e non potendosi nel contempo sostenere che trovi ingressi il criterio della lex mitior segnatamente in tema di sanzioni, giacché non sono le sanzioni di per se stesse a venire in linea di conto, né una premialità collegata a comportamenti materiali del contribuente in funzione di attenuazione della gravità della condotta sanzionata, bensì una premialità direttamente collegata all'esercizio delle neo-introdotte declinazioni pre-processuali e perciò adese alle sorti delle stesse.

Infine, l'art. 10 d.l. n. 50/2017, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, innalzato, come visto in apertura, a 50 mila euro la soglia per l'assoggettamento degli atti impositivi al procedimento di reclamo con mediazione. Qui il regime di applicabilità temporale è di più agevole ricostruzione, dal momento che la novella incide su un istituto già conformato, soggiacendo all'espressa previsione di decorrenza in relazione ad atti impugnabili e a priori reclamabili notificati a decorrere dal 1° gennaio 2018. A proposito di tale data, pare il caso di richiamare la Circ. Ag. En. n. 9/E del 2012 nella quale viene precisato che occorre prendere in considerazione la data in cui il contribuente riceve la notifica dell'atto e non la data di spedizione da parte dell'amministrazione finanziaria).

Sospensione dei termini e dei pagamenti durante l’emergenza Covid-19

A causa dell'emergenza sanitaria, tutt'ora in corso, tra le varie misure di contrasto alla diffusione del virus Covid-19, il Governo, per quanto riguarda la mediazione tributaria, è intervenuto in due occasioni al fine di, da una parte, sospendere i termini per la conclusione della mediazione; dall'altra, di prorogare i termini di versamento delle somme dovute a seguito di accordo di mediazione.

Nel dettaglio, l'art. 83 d.l. n. 18/2020 (c.d. Cura Italia), convertito in l. n. 27/2020, ha disposto la sospensione del termine per la conclusione del procedimento di mediazione dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020. Pertanto, il termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento che risultava pendente alla data del 9 marzo 2020, si è inteso sospeso fino all'11 maggio 2020 e ha ripreso a decorrere dal 12 maggio 2020.

Sull'altro fronte, l' art. 149 (rubricato “Sospensione dei versamenti delle somme dovute a seguito di atti di accertamento con adesione, conciliazione, rettifica e liquidazione e di recupero dei crediti d'imposta), del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. Decreto rilancio), convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, ha prorogato al 16 settembre 2020 i termini di versamento delle somme dovute a seguito di accordo di mediazione [art. 149, lett. c)]. Detta proroga si applica(va) con riferimento agli atti i cui termini di versamento scadevano nel periodo compreso tra il 9 marzo 2020 e il 31 maggio 2020.

La riforma del processo tributario e il “nuovo” comma 9-bis

La legge 31 agosto 2022, n. 130, recante Disposizioni in materia di processo tributario, ha introdotto nell'articolo in commento il comma 9-bis. Se il ricorso-reclamo del contribuente non è accettato ovvero il contribuente non accetta la proposta di mediazione formulata dall'ente impositore, in relazione alle ragioni che sono state espresse nel ricorso introduttivo o nella fase di mediazione, la soccombenza di una delle parti comporta la sua condanna al pagamento delle spese del giudizio. La norma focalizza l'attenzione  non solo sul contribuente ma anche sull'ente impositore o, meglio, sul funzionario che immotivatamente ha rigettato il reclamo o non ha accettato la proposta di mediazione al quale può essere  addebitata l'eventuale responsabilità amministrativa.  In sostanza, il reclamo e la mediazione proposta dal contribuente devono avere una valutazione finalizzata a deflazionare il contenzioso (Mogorovich). 

[*DOTT*]  In merito alla citata novella, vi è chi (Fasano) ha sottolineato come i rimedi deflattivi in oggetto, nella prassi, hanno avuto scarsa applicazione, complice anche la circostanza che, in entrambi i casi, l'organo deputato alla gestione del reclamo e della mediazione è la stessa amministrazione impositrice, non un soggetto terzo. Proprio tale aspetto aveva attirato l'attenzione degli interpreti, posto che la mancanza di terzietà viene a sacrificare lo spirito deflattivo che è alla base di siffatti rimedi. In effetti, il diritto del contribuente a vedersi assicurato un effettivo esame delle sue ragioni da parte di soggetti terzi può esser relativamente garantito nelle grandi amministrazioni, in cui il reclamo e la mediazione possono esser affidati a uffici diversi da quelli che hanno emanato l'atto impugnato; mentre gli enti di piccole dimensioni, come gli enti locali, non hanno questa possibilità e il più delle volte un riesame effettivo della questione non si riesce ad ottenere. In tale scenario, lo spirito della riforma è di voler assicurare l'effettività di siffatti strumenti deflattivi facendo leva sulla responsabilizzazione delle parti, introducendo la responsabilità amministrativa del funzionario incaricato e rinnovando la responsabilità per soccombenza, lasciando tuttavia aperta la questione della mancanza di terzietà.

In aggiunta alla suddetta modifica, occorre tuttavia fare presente un'altra novità introdotta dalla l. n. 130 del 2022 che, sebbene non abbia ulteriormente scalfito la lettera dell'art. 17-bis, risulta comunque connessa all'istituto del reclamo/mediazione in merito alla necessità di consentire il ricorso ad ulteriori rimedi di natura extra-processuale in caso di fallimento della mediazione.

La l. n. 130 del 2022 ha inserito nel d.lgs. n. 546 del 1992 il nuovo art. 48-bis.1, rubricato “Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria”, il cui co. 1 prevede espressamente che: “Per le controversie soggette a reclamo ai sensi dell'articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all'oggetto del giudizio e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”.

La proposta può essere formulata in udienza o fuori udienza. Se è formulata fuori udienza è comunicata alle parti. Se è formulata in udienza è comunicata alle parti non comparse (comma 2). La causa può essere rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell'accordo conciliativo. Ove l'accordo non si perfezioni, si procede nella stessa udienza alla trattazione della causa (comma 3). Il comma 4 stabilisce che la conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale che costituisce titolo per la riscossione. Infine, in base al comma 5, il giudice, intervenuta la conciliazione, dichiara estinto il giudizio per cessazione della materia del contendere. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice (comma 6).

L'istituto in esame sembra ricalcare il modello della proposta di conciliazione del giudice di cui all'art. 185-bis c.p.c., anch'esso di recente modificato dalla c.d. riforma del processo civile, attuata con il d.lgs. 10 ottobre 202, n. 149, per attuare quanto previsto dalla l. delega: la proposta transattiva o conciliativa può essere ora formulata dal giudice fino al momento in cui fissa l'udienza di rimessione della causa in decisione.

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