Segni di riconoscimento dell’offerta imputabili al concorrente e “test di intenzionalità”

Flaminia Aperio Bella
23 Luglio 2018

La regola dell'anonimato non può essere intesa in modo tanto tassativo e assoluto da comportare l'invalidità delle prove ogni volta che sussista un'astratta possibilità di riconoscimento, essendo invece necessario che emergano elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il suo elaborato, desunta, per via indiretta o presuntiva, dalla natura in sé dell'elemento riconoscibile e dalla sua suscettività oggettiva di comportare la riferibilità dell'elaborato stesso a un determinato soggetto.

La vicenda fattuale. Nell'ambito di un concorso di progettazione per la realizzazione di un'infrastruttura nella Provincia autonoma di Trento, il secondo classificato impugnava l'aggiudicazione contestando la violazione del principio di anonimato e segretezza delle offerte. In particolare le contestazioni attenevano (i) all'apposizione, sul plico contenente il progetto tecnico dell'aggiudicatario, di un codice alfanumerico (codice 10CL06) nel quale uno 0 risultava anteposto al numero finale, in violazione delle prescrizioni di gara che prevedevano l'elaborazione di un codice a due cifre – due lettere – una cifra; (ii) alla presenza di altri asseriti “contrassegni”, quali la “sorta di lettera D rossa” negli elaborati descrittivi e lo stampiglio del “numero seriale della stampante” su due pagine dell'elaborato H.

Il TRGA respingeva il ricorso ritenendo che l'anteposizione al quinto carattere del codice alfanumerico di una cifra (0) in più, poteva essere ricondotto ad un mero lapsus calami, inidoneo a consentire, tantomeno intenzionalmente, l'identificazione del concorrente e che gli altri asseriti “contrassegni” discendevano da un (mero) ricalco dello sviluppo planimetrico del progetto, comunque non lesivi del principio dell'anonimato.

La questione controversa e gli insegnamenti della Plenaria. Il Consiglio di Stato, investito della questione, si sofferma sull'insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 26/2013, in materia di prove scritte di pubblici concorsi, secondo cui occorre distinguere due differenti ipotesi in cui viene in rilievo la violazione della regola dell'anonimato posta a garanzia del principio di imparzialità dell'azione amministrativa.

Nell'ipotesi statisticamente più frequente, si tratta di controversie innescate dalla esclusione (o meno) da procedure concorsuali di candidati che abbiano apposto al proprio elaborato segni di riconoscimento. Al riguardo, la giurisprudenza è costante nell'affermare che la regola dell'anonimato degli elaborati scritti non può essere intesa in modo tanto tassativo e assoluto da comportare l'invalidità delle prove ogni volta che sussista un'astratta possibilità di riconoscimento, perché se così fosse sarebbe materialmente impossibile svolgere concorsi per esami scritti, giacché non si potrebbe mai escludere a priori la possibilità che un commissario riconosca una particolare modalità di stesura: è invece necessario che emergano elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il suo elaborato. In tali ipotesi, l'annullamento di un elaborato per riconoscibilità dell'autore ne presuppone l'intenzionalità, che va desunta, per via indiretta o presuntiva, dalla natura in sé dell'elemento riconoscibile e dalla sua suscettività oggettiva di comportare la riferibilità dell'elaborato stesso a un determinato soggetto. Nella diversa ipotesi, in cui la mancata osservanza della regola dell'anonimato è addebitabile all'Amministrazione nel contesto di una selezione comparativa, l'orientamento prevalente considera invece tale violazione rilevante in sé, senza che sia necessario (per inferirne la illegittimità) ricostruire a posteriori il possibile percorso di riconoscimento degli elaborati da parte dei soggetti chiamati a valutarli.

La soluzione offerta dal Consiglio di Stato. Applicando i principi affermati al caso di specie, il Collegio, vertendosi in un'ipotesi in cui il segno di riconoscimento era imputabile al concorrente, procede al “test di intenzionalità”, sub specie alla verifica dell'idoneità del segno a consentire il riconoscimento e al suo utilizzo intenzionale.

Il primo elemento è ritenuto sussistente, essendo incontestabile l'oggettiva difformità del codice alfanumerico utilizzato rispetto allo standard (due cifre – due lettere – una cifra) richiesto dal bando di gara, tale da costituire elemento astrattamente idoneo a fungere da elemento identificativo. Passando all'elemento dell'intenzionalità, il Collegio ne esclude la ricorrenza, non emergendo elementi idonei a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del vincitore di rendere riconoscibile la propria offerta. L'irregolare inserimento nel codice identificativo della busta di un numero aggiuntivo, infatti, è da ricondurre a un mero lapsus calami, peraltro “innocuo” e ultroneo, alla luce della considerazione che, al fine dell'aggiramento dell'anonimato, sarebbe stata sufficiente la semplice comunicazione del codice scelto.

Parimenti non superano il “test di intenzionalità” neppure gli ulteriori asseriti “contrassegni” individuati dal ricorrente in quanto il Collegio non ritiene sostenibile che da un ricalco a forma di lettera “D” (peraltro interamente coperto da una fascia grigia) e da un numero seriale di una stampante, possa identificarsi, seppur in astratto, l'autore e, quindi, l'offerta di un determinato concorrente in gara.

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