Codice Civile art. 1134 - Gestione di iniziativa individuale (1).Gestione di iniziativa individuale (1). [I]. Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente. (1) Articolo modificato dall'art. 13, l. 11 dicembre 2012, n. 220. è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo precedente recitava: «Spese fatte dal condomino - [I]. Il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente». InquadramentoIl novellato art. 1134 c.c. affida all'assemblea il compito di autorizzare il singolo condomino alla gestione delle parti comuni. La norma è stata sensibilmente modificata rispetto al testo originario contenuto nel codice civile, sia per quanto riguarda la rubrica (all'originaria dizione «spese fatte dal condomino» è stata sostituita quella, attuale, di «gestione di iniziativa individuale»), che per ciò che concerne il contenuto, laddove la precedente versione di essa faceva riferimento al sostenimento di «spese per le cose comuni senza autorizzazione» ed oggi, al contrario, essa discute di «spese per la gestione delle parti comuni». I primi commentatori, dopo avere osservato che quest'ultima espressione («gestione delle parti comuni») fa comprendere, più chiaramente di quanto facesse la vecchia formulazione, che rientra sotto l'ambito di operatività della norma in commento «ogni e qualsiasi attività che riguardi l'immobile: ovvero, non soltanto l'attività diretta al puro e semplice mantenimento delle parti comuni, ma anche e proprio tutti gli interventi occorrenti per il godimento e la fruizione delle parti comuni stesse» (Costabile 2016, 485; Scalettaris 2017, 1323), hanno evidenziato come l'impianto della norma non sia stato però modificato, nel senso che «come la precedente norma non vietava che il condomino potesse sostenere spese per le cose comuni ma si limitava ad escludere che di queste egli avesse diritto al rimborso (salvo che si trat tasse di spese urgenti), anche la regola oggi enunciata non risulta diretta a vietare la «gestione» delle parti comuni da parte del singolo condomino se non autorizzata dall'amministratore o dall'assemblea ma si limita invece a prevedere che nel caso di «gestione» individuale non possa pretendersi il rimborso della spesa sostenuta a meno che questa non sia spesa urgente. Il che conduce a pensare che la regola enunciata dall'art. 1134 c.c. come ora modificato consenta – nella sostanza – la gestione individuale delle parti comuni e stabilisca solo che gli oneri che ne derivano debbano restare a carico esclusivo del condomino che abbia intrapreso la gestione di sua iniziativa, a meno che si tratti di spese urgenti e, cioè, tali da essere dirette ad evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, sì da dovere essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini: alla luce di ciò dunque la «gestione di iniziativa individuale» dovrebbe vedersi, nel quadro della materia, tutt'al più come ipotesi rara, ma non come ipotesi in sé vietata». L'art. 1110 c.c. in tema di comunione ordinariaPuò accadere, dunque, che determinate spese concernenti le parti comuni siano anticipate, senza previa deliberazione assembleare ovvero autorizzazione dell'amministratore, da un solo condomino: si pone, allora, il problema di individuare la disciplina concretamente applicabile per ciò che concerne la possibilità di invocarne la ripetizione nei confronti degli altri condomini. In ambito condominiale, la regola è fissata dall'art. 1134 c.c., alla cui stregua tali esborsi cedono a carico del condomino che li ha sostenuto, salvo che si tratti di spese urgenti. La corretta disamina del precetto non può, tuttavia, prescindere dal congiunto e preliminare (dapprima, parallelo, poi) esame dell'art. 1110 c.c. che – in tema di comunione ordinaria – prevede che il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell'amministratore, ha sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune ha diritto al loro rimborso. Le due fattispecie solo apparentemente appaiono sovrapponibili tra loro giacché, ad un più attento esame, esse divergono sensibilmente. L'art. 1110 c.c., in particolare, trae origine dall'art. 676 del codice civile abrogato del 1865, nella cui vigenza, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Cassazione (Cass., 1 maggio 1928, citata da Branca, 263) il partecipante alla comunione aveva la possibilità di percorrere due strade: a) interpellare gli altri comunisti ed accordarsi con loro per le spese, ovvero b) provvedere direttamente all'esecuzione degli atti conservativi, chiedendo poi il rimborso delle spese all'uopo sostenute, con il rischio, però, in questo ultimo caso, che ove gli esborsi fossero stati ritenuti eccessivi o non necessari, di vedersi diminuire il rimborso nei limiti dell'effettiva utilità arrecata alla cosa comune ovvero, nei casi estremi di spese voluttuarie, vederselo finanche negare (Cass., 31 luglio 1925, citata da Branca, 263). Gli attuali artt. 1104 e 1110 c.c. hanno dunque sdoppiato l'originario art. 676 c.c.: in particolare, codificando l'orientamento giurisprudenziale di cui si è detto, l'art. 1110 c.c. assume la specifica funzione di garantire il comunista, che si sia fatto parte diligente ed abbia sostenuto delle spese per la cosa comune, circa il loro rimborso, ove le stesse siano state necessarie e sopportate nella trascuranza degli altri compartecipi. Sebbene, poi, la norma ricondotta comunemente ad un'ipotesi di negotiorum gestio – si riferisca espressamente ai soli esborsi (necessari) sostenuti per la conservazione della cosa comune, la dottrina (Lener, 312) ha ritenuto poterne estendere l'operatività anche alle spese necessarie per il godimento della cosa, con esclusione, però, di quelle volte a renderlo più comodo o redditizio o, in genere, a migliorarlo che necessiterebbero sempre, invece, di una deliberazione della maggioranza ai sensi degli artt. 1106 e 1108 c.c. A sostegno di tale conclusione militerebbe la considerazione per cui l'art. 1110 c.c. rappresenterebbe una applicazione del principio, contenuto all'art. 1104, comma 1, prima parte c.c., per cui ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento. Dopo un'originaria condivisione di tale principio (si fa riferimento, in particolare, a Cass. II, n. 12568/2002, la quale ebbe ad affermare che, come l'obbligo di partecipare alle spese relative alle parti comuni di un bene incombe su tutti i comunisti, in quanto appartenenti alla comunione ed in funzione delle utilità, che la cosa comune deve a ciascuno di essi garantire, così il diritto al rimborso pro quota delle spese necessarie per consentire l'utilizzazione del bene comune secondo la sua destinazione spetta al partecipante alla comunione, che le abbia anticipate per gli altri in forza della previsione dell'art. 1110 c.c., le cui prescrizioni debbono ritenersi applicabili, oltre che a quelle per la conservazione, anche alle spese necessarie perché la cosa comune mantenga la sua capacità di fornire l'utilità sua propria secondo la peculiare destinazione impressale. Negli stessi termini anche Cass. II, n. 11982/1998, la quale, sia pure in via incidentale, ha affermato che l'art. 1110 c.c. sarebbe estensibile, oltre che alle spese di conservazione, anche a quelle per il godimento della cosa comune e Cass. II, n. 3600/1994. Addirittura App. Milano, 5 aprile 1955, superando le posizioni più «estreme» della dottrina, ha ritenuto di potere estendere la norma anche alle spese dovute per i miglioramenti), la giurisprudenza si è però assestata su di una posizione tesa ad escludere una tale possibilità, sulla base di un'interpretazione letterale della norma: stante, infatti, la diversità di funzione e di fondamento delle spese per la conservazione e delle spese per il godimento delle parti comuni – si legge in Cass. II, n. 21392/2013 – nel caso di trascuranza degli altri comunisti il comproprietario che le abbia anticipate ha diritto al rimborso esclusivamente delle spese per la conservazione del bene comune, alle quali fa espresso riferimento l'art. 1110 c.c. e non pure per quelle relative al godimento (in senso conforme Cass. II, n. 7763/2012). Analogamente, si è detto che il comunista ha diritto al rimborso delle spese affrontate per la necessaria conservazione e non per il godimento della cosa comune, solo laddove esse abbiano il carattere della ragionevole indifferibilità, dovendosi altrimenti ricorrere alla procedura di cui all'art. 1105 c.c.: ed infatti, la disposizione di cui all'art. 1110 c.c. ha natura eccezionale e derogativa dell'ordinaria disciplina, che consente al condomino di ricorrere all'autorità giudiziaria per la nomina di un amministratore se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione o non si forma una maggioranza (fattispecie nella quale non sono state ritenute necessarie per la conservazione dell'edificio comune le spese di riscaldamento e di manutenzione del relativo impianto, e di acqua potabile ed irrigua, Trib. Verona, 9 aprile 2001). Ha assunto una posizione «mediana», invece, Trib. Verona 17 settembre 1999, con riferimento al rimborso delle spese fatte da un condomino per le cose comuni, nel caso di condominio minimo, ed in relazione alla ritenuta applicabilità (oggi non più predicabile) dell'art. 1110 c.c., ha ritenuto che la norma dovesse essere interpretata estensivamente, nel senso, cioè, che il potere di gestione del condomino deve ritenersi sussistere non solo con riferimento alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ma anche con riferimento alle spese «realmente» indispensabili per il godimento della cosa stessa. La differenza tra l'una e l'altra tipologia di spese (e dunque, la non percorribilità della tesi volta ad estendere il campo di applicazione dell'art. 1110 c.c., fino a ricomprendervi il rimborso delle spese necessarie al mero godimento, sia pur sostenute – anch'esse – a seguito di trascuranza degli altri comproprietari) è stata rimarcata in maniera cristallina da Cass. II, n. 13144/2003 la quale, affrontando ex professo l'argomento, così ha statuito:«il tentativo di estendere l'applicazione dell'art. 1110 cit., in funzione delle rinnovate esigenze abitative, in conformità con le istanze della società attuale, è degno di considerazione e di apprezzamento. Ma la soluzione accolta contrasta con la disciplina positiva delle spese, che si fonda sulla netta distinzione tra le spese per la conservazione e quelle per il godimento della cosa comune e che i due tipi di spese regola secondo un regime differente. Ai sensi dell'art. 12, comma 1, disp. sulla legge in generale, conviene muovere dalla distinzione tra il significato proprio delle parole «conservazione» e «godimento», in quanto il significato proprio del termine «conservazione» differisce nettamente da quello della espressione «godimento». La conservazione designa l'attività di custodire, mantenere una cosa in modo che duri a lungo, che non si sciupi. Per contro, il godimento attiene all'uso (effettuato nell'esercizio del diritto): godimento, quindi, significa ricavare dalla cosa le utilità, di cui la stessa è suscettibile secondo la natura intrinseca e la destinazione, in conformità con i poteri e le facoltà compresi nel diritto esercitato. La distinzione è confortata dalla disamina del sistema. Occupandosi della distinzione delle spese in tema di condominio negli edifici, la suprema corte (Cass. II, 19 giugno 2000, n. 8292) ha avuto occasione di sottolineare la diversità di funzione e di fondamento delle spese per la conservazione e delle spese per il godimento delle parti comuni, con argomenti che possono applicarsi alla comunione, in quanto desunti dall'intero sistema e principalmente dal disposto dell'art. 1104 cit. La suddivisione si riconduce al fine, che l'obbligazione di contribuire alle spese persegue, ed al fondamento, da cui l'obbligazione medesima ha origine. Del tutto evidente è la differenza tra il valore capitale di un bene ed il costo del suo uso. La funzione ed il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione del valore capitale, vale a dire per la tutela o il ripristino della sua integrità, sono diversi rispetto alla funzione ed al fondamento delle spese per il godimento. Le spese per la conservazione sono quelle necessarie per custodire, mantenere la cosa comune in modo che duri a lungo, che non si sciupi. Le spese per il godimento riguardano l'uso effettuato nell'esercizio del diritto: per ricavare dalla cosa le utilità che la stessa può offrire. La diversità della funzione e del fondamento si riflette sui soggetti, cui i contributi vanno imputati, perché alla conservazione sono oggettivamente interessati tutti i comproprietari; al godimento sono invece soggettivamente interessati soltanto coloro i quali si trovino, in concreto, ad esercitarlo (oltre lo stesso proprietario, l'usufruttuario, il conduttore etc.). Le spese per la conservazione, dovute in ragione della appartenenza, si ascrivano e si ripartiscano in proporzione con le quote; le spese per il godimento, originate da un fatto soggettivo e personale, si imputano e si suddividono in proporzione all'uso ed alla misura di esso. Per la verità, le spese per la conservazione costituiscono delle obbligazioni propter rem, nelle quali il nesso immediato tra l'obbligazione e la res non è modificato dalla interferenza di nessun elemento soggettivo. Per conseguenza, il quantum resta sempre commisurato alla proporzione espressa dalla quota che, per determinazione normativa, esprime la misura dell'appartenenza L'obbligazione di concorrere alle spese per il godimento, invece, scaturisce dall'uso, cioè da un fatto personale e mutevole e, ciò che più conta, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza. Pertanto, il contributo è adeguato al godimento che, in ordine alla stessa cosa, può cambiare da un partecipante all'altro in modo del tutto autonomo rispetto al valore della quota. Quanto alla imputazione ed alla ripartizione dei due tipi di spese, l'ordinamento attribuisce rilevanza decisiva a due dati non omogenei: esclusivamente al rapporto di diritto, nel primo caso; essenzialmente alla relazione di fatto, nel secondo. Relativamente alle spese per la conservazione, al rapporto di diritto costituito dalla proprietà comune commisurato alla quota; alle spese per il godimento, alla relazione di fatto consistente nell'uso compiuto nell'esercizio di una facoltà inerente al diritto di comproprietà (ovvero a quello di usufrutto o al rapporto di locazione) e ragguagliato all'uso. Quanto detto spiega perché nell'art. 1104 cit. siano previsti due diversi tipi di spese (per la conservazione e per il godimento), contrassegnate da una diversa funzione e da un differente fondamento, mentre nell'art. 1110 siano contemplate le sole spese per la conservazione. La ragione del trattamento difforme – prosegue la Corte – è chiara. Le spese per conservazione, nel caso di «trascuranza» degli altri comproprietari, possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse. È perciò coerente che possa chiederne il rimborso il comunista, che le ha anticipate. Quanto alle spese per il godimento, le quali invece debbono essere sostenute solamente da chi concretamente gode della cosa comune, non avrebbe senso prevedere il rimborso in quanto il singolo comunista le anticipate per un godimento soggettivo, che è suo personale che non può riguardare anche gli altri partecipanti alla comunione. Per completare il discorso, dal collegato disposto degli artt. 1105, comma 4, e 1110 c.c. si desume che la seconda disposizione è norma di stretta interpretazione. La regola generale per i casi, nei quali non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione o non si forma una maggioranza, è che ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria (art. 1105, comma 4, c.c.). Hanno carattere meramente residuale l'ipotesi della anticipazione delle spese nel caso di «trascuranza» degli altri comunisti e del diritto al rimborso, che resta circoscritta alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, le quali oggettivamente interessano tutti i comproprietari». In conclusione, dunque, vanno tenute distinte le spese per la conservazione, che sono quelle necessarie per custodire, mantenere la cosa comune in modo che duri a lungo senza deteriorarsi (quali, ad es., le spese per l'acqua occorrente per la irrigazione del giardino), dalle spese per il godimento, che riguardano le utilità che la cosa comune può offrire (quali, ad es., le spese per il combustibile e per l'energia elettrica necessarie per il funzionamento dell'impianto di riscaldamento e per l'acqua potabile): soltanto le prime, nel caso di inattività degli altri comproprietari, possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli stesso e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse, e solo di esse può essere chiesto il rimborso. Le spese per il godimento, invece, devono essere sostenute soltanto da chi concretamente gode della cosa comune e il rimborso non è previsto, in quanto il singolo comunista le ha anticipate per un godimento soggettivo che è suo personale e non riguarda anche gli altri partecipanti alla comunione. Tali principi, ribaditi successivamente da Cass. II, n. 253/2013 (per cui il partecipante alla comunione, che le abbia anticipate in caso di trascuranza degli altri, ha diritto al rimborso «pro quota», ai sensi dell'art. 1110 c.c., soltanto delle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, e cioè per il mantenimento della sua integrità, in modo che duri a lungo senza deteriorarsi, e non anche delle spese occorrenti per la migliore fruizione della cosa stessa, come l'illuminazione di un immobile, o per l'adempimento di obblighi fiscali, come l'accatastamento) e da Cass. II, n. 7457/2015 (per cui esula dall'ambito di operatività dell'art. 1110 c.c., che attiene alle sole spese necessarie per la conservazione della cosa comune, la domanda di rimborso delle spese derivanti dalla prestazione di un servizio condominiale di fornitura di acqua potabile a vantaggio di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva ed alla conseguente ripartizione interna del consumo unitario dell'intero complesso, come fatturato dall'ente erogatore, sulla base dei contatori di sottrazione installati nelle singole porzioni ovvero dei rispettivi valori millesimali), sono stati infine condivisi anche la dottrina più accreditata. Quest'ultima (Triola, 364 ss.), in maniera pressoché speculare a Cass. II, n. 13144/2003, cit., di cui si è appena dato conto, onde sostenere la validità di una lettura «piana» della norma, che non ne consenta l'estensione alle spese di godimento, ha fatto perno: a ) sulla differenza di formulazione tra l'art. 1104 c.c. (che contempla sia le spese di conservazione che quelle per il godimento della cosa comune), e l'art. 1110 c.c. (il quale prevede solo le prime); b ) sulla circostanza che l'art. 1110 c.c. riconosce in favore del comproprietario il diritto al rimborso delle spese «necessarie» alla «conservazione» della cosa comune, categoria alla quale appare difficile ricondurre spese quali, ad esempio quelle per la fornitura di acqua o di combustibile per l'impianto di riscaldamento, semplicemente «utili» ai fini di un migliore «godimento» della cosa comune; c ) sull'impossibilità di ricorrere, al fine di ricondurre anche le spese di godimento sotto l'ambito di operatività dell'art. 1110 c.c., all'analogia, anzitutto per il carattere eccezionale della previsione, siccome derogatoria del principio fissato dall'art. 1105 c.c., per cui i provvedimenti relativi all'amministrazione della cosa comune devo essere deliberati dalla maggioranza o, in via sussidiaria, dall'autorità giudiziaria e, quindi, per difettare comunque l'eadem ratio, trovando la possibilità per uno dei comproprietari di ottenere il rimborso delle spese necessarie per la conservazione della cosa comune anticipate in caso di trascuranza degli altri partecipanti alla comunione o dell'amministratore, la propria giustificazione nell'opportunità di mantenere integrità la cosa comune (circostanza che, al contrario, non viene in rilievo allorché si discute di mero godimento del bene). Va tuttavia dato conto del recente riproporsi, in materia, per quanto non si comprende se consapevolmente o meno, dell'orientamento propugnato da Cass. II, n. 12568/2002. Ed infatti, richiamandosi espressamente a tale precedente, Cass. I, n. 2195/2016 afferma che il principio per il quale in tema di spese relative alle parti comuni di un bene, come l'obbligo di partecipare ad esse incombe su tutti i comunisti in quanto appartenenti alla comunione ed in funzione delle utilità che la cosa comune deve a ciascuno di essi garantire, così il diritto al rimborso pro quota delle spese necessarie per consentire l'utilizzazione del bene comune secondo la sua destinazione spetta al partecipante alla comunione che le abbia anticipate per gli altri in forza della previsione dell'art. 1110 c.c., le cui prescrizioni debbono ritenersi applicabili, oltre che a quelle per la conservazione, anche alle spese necessarie perché la cosa comune mantenga la sua capacità di fornire l'utilità sua propria secondo la peculiare destinazione impressale. Si dubita, però, della consapevolezza del contrasto ad opera della Corte giacché, in motivazione, la stessa pronunzia afferma, nel periodo immediatamente successivo e senza soluzione di continuità, che «le spese per la conservazione, nel caso di inattività degli altri comproprietari, da accertare in fatto, possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli stesso e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse, e di esse può essere chiesto il rimborso (Cass. II, n. 11747/2003; Cass. II, n. 253/2013)», mentre nulla dice rispetto a quelle di godimento: così dando ad intendere (nuovamente) che le uniche spese rimborsabili ex art. 1110 c.c. – alle quali, peraltro, la stessa decisione in commento fa espresso riferimento – sarebbero quelle volte alla conservazione e non anche quelle per il mero godimento del bene. Segue. Gli «altri» presupposti del diritto al rimborso nel caso dell'art 1110 c.c. Assodato, dunque, che l'art. 1110 c.c. è norma che trova applicazione limitatamente all'anticipazione di spese per la conservazione della cosa comune, il diritto al rimborso ivi previsto è subordinato a due ulteriori requisiti e, cioè, che: a) la spesa fosse necessaria; b) essa fu sostenuta nella trascuranza degli altri comproprietari. Essi sono complementari tra loro, nel senso che la trascuranza rappresenta la giustificazione delle spese, il cui diritto al rimborso sorge in conseguenza della loro necessità per la conservazione della cosa comune. Procedendo, dunque, alla loro disamina, quanto alla necessità della spesa, tale presupposto implica che, ancorché non urgente, l'esborso non possa essere differito, se non con grave pregiudizio per la cosa comune: deve trattarsi, dunque, di spese che rispondono all'esigenza di una congrua ed evidente indilazionabilità, tale da non tollerare l'attesa del ricorso di cui all'art. 1105 c.c. (Trib. Genova, 11 agosto 2009; Trib. Bari, 20 ottobre 2008; Trib. Verona, 9 aprile 2001, cit.). Si è poi chiarito, in dottrina (Branca, 266), che tra le spese necessarie rientrano sempre quelle imposte ex lege (orientamento confermato, come si vedrà tra breve, dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. II, n. 2748/1978) Ben più complessa è, invece, la questione, avuto riguardo al requisito della trascuranza, con tale espressione volendosi fare riferimento ai concetti di negligenza, trascuratezza, omessa cura come si dovrebbe (Cass. S.U., n. 2046/2006): relativamente alle spese necessarie per la conservazione delle cose comuni, l'art. 1110 c.c. riconduce, cioè, il diritto al rimborso all'inattività degli altri comproprietari (Cass. II, n. 10738/2001). Si tratta, dunque, di spese che vengono realizzate dal partecipante senza il supporto di alcuna delibera (Greco, 68) – ipotesi in cui, al contrario, venendo in gioco gli artt. 1104, comma 1, c.c. o 1108 c.c., diversamente dal rimborso è più corretto discorrere di ripetizione di quanto anticipato in esecuzione del deliberato assembleare – e che il compartecipe può intraprendere solo dopo aver inutilmente interpellato gli altri (Cass. II, n. 10738/2001. In dottrina Fedele, 389): ed infatti il concetto di «trascuranza degli altri compartecipi» implica necessariamente che questi – ovvero l'amministratore della comunione, se nominato – sebbene fossero a conoscenza della necessità della spesa per la conservazione del bene comune, siano tuttavia rimasti inerti (Cass. II, n. 11223/1997; Cass. II, n. 5914/1993). Tale necessità di preventivo interpello fonda, d'altronde, sulla circostanza per cui, in virtù del diritto di ogni singolo comunista alla partecipazione all'amministrazione della cosa comune, garantito dall'art. 1105 c.c., nessuno dei partecipanti ha, per legge, il potere di rappresentare gli altri nell'amministrazione della cosa comune, vigendo, al contrario, il principio del concorso di tutti i comunisti, che si attua indiscutibilmente tramite la convocazione dell'assemblea, la quale delibera a maggioranza (Cass. II, n. 8876/2000; Cass. II, n. 5298/1998): sicché, pur non occorrendo forme speciali per la convocazione dell'assemblea, è comunque necessario che tutti i compartecipi siano stati tempestivamente posti in grado di conoscere l'argomento della decisione, costituendo la preventiva convocazione dell'assemblea requisito essenziale per la validità di qualsiasi deliberazione (Cass. II, n. 7126/1991). Informata, pertanto, la collettività dei compartecipi, ovvero l'amministratore ove presente, e rispettato il principio del pari concorso nell'amministrazione della cosa comune, è lo stesso interesse comune – che deve essere protetto dall'intervento necessario – che legittima, dunque, l'attivazione anche solo di uno dei partecipi, il quale rappresenta, in tale circostanze e con le peculiarità previste dalla norma, la collettività. Nel medesimo senso la giurisprudenza ha chiarito che, poiché la norma esclude ogni rilievo dell'urgenza dei lavori e subordina il diritto al rimborso alla condizione che il compartecipe abbia precedentemente interpellato o preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l'amministratore, ne deriva che, solo in caso di inattività di questi ultimi, il comunista può procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, gravando sullo stesso, peraltro, l'onere della prova sia della trascuranza che della necessità dei lavori (Cass. VI-2, n. 5465/2022; Cass. II, n. 20283/2017; Cass. II, n. 20652/2013; Cass. II, n. 10738/2001; Trib. Genova 10 novembre 2005). Né ostano al rimborso il mancato consenso da parte degli interpellati (Trib. Parma, 20 luglio 2017; Trib. Arezzo, 11 aprile 2016) o l'eventuale divieto opposto dagli altri partecipanti a che vengano eseguite opere indispensabili a conservare alla cosa la sua destinazione comune, potendo gli altri partecipanti, ciononostante, direttamente provvedere a dette opere, con diritto ad essere rimborsati pro quota della relativa spesa (Cass. II, n. 2748/1978 cit., a proposito di una fattispecie in cui la trasformazione di un impianto di riscaldamento, in comunione fra i proprietari di fabbricati limitrofi, era imposta dalla legge). Alla luce di quanto precede è allora chiaro che il requisito dell'urgenza è escluso dai presupposti applicativi della norma, sebbene parte della dottrina (Greco, 117) ne richieda la presenza – in aggiunta agli altri presupposti di cui si è detto – allorché sia presente un amministratore della comunione, poiché in simile frangente solo l'urgenza consentirebbe di non attendere che effettui la spesa chi ha il potere di gestire la cosa comune ex lege ovvero per previa delibera assembleare. Conforme, circa l'estraneità del presupposto dell'urgenza all'ambito di operatività dell'art. 1110 c.c. è l'orientamento della giurisprudenza monolitica sul punto: in tema di spese di conservazione della cosa comune – si legge costantemente nei provvedimenti massimati – l'art. 1110 del cc, escludendo ogni rilievo dell'urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il partecipante alla comunione, il quale, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell'amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l'amministratore, sicché solo in caso di inattività di questi ultimi egli può procedere a esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l'onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessità dei lavori (ex multis, Cass. II, n. 20283/2017, cit. Nella giurisprudenza di merito, più recentemente, cfr. anche Trib. Firenze, 3 novembre 2023). Il rimborso Nella ricorrenza dei presupposti suddetti di operatività della norma (necessità, trascuranza degli altri comproprietari e spese che ineriscano alla conservazione della cosa comune), ciascun degli altri comunisti è tenuto al rimborso di quanto anticipato da quello, tra loro, che si è attivato; ciascuno di costoro può poi essere escusso solo in proporzione della rispettiva quota (Cass. II, n. 11747/2003; Cass. II, n. 632/1972). Il diritto al rimborso ha, inoltre, natura di credito di valuta (Favale, 478) soggetto al principio nominalistico (Branca, 267) e spetta anche in caso di opposizione del compartecipe, giacché – come innanzi esposto – l'opposizione implica una volontà implicita di non volere provvedere ai lavori e, dunque, ridonda nella trascuranza (Cass. II, n. 5664/1988). Perfino superfluo evidenziare che, trattandosi di comunione ordinaria, il compartecipe cui sia chiesto il rimborso della propria quota può liberarsi dal relativo obbligo mediante rinunzia al suo diritto sulla cosa, ex art. 1104, comma 1, ultima parte, c.c. Né rileva che la spesa sia stata resa necessaria dallo stesso compartecipe che abbia provveduto poi all'anticipazione, non distinguendo la norma tale ipotesi dalle altre di intervento del singolo. Il rimborso, come detto, è subordinato alla circostanza che il compartecipe che ha eseguito la spesa abbia provveduto al previo interpello degli altri giacché, in mancanza (ma lo stesso è da dirsi per il caso di difetto di ciascuno degli altri elementi condizionanti l'operatività della norma), lo stesso non potrà invocare solo il diritto all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa comune, ex art. 1150, comma 2, c.c. (Alpa-Mariconda, 3151). Vi sia stata trascuranza, o meno degli altri compartecipi, se il comunista ha speso più di quanto fosse necessario, il rimborso che gli spetta ai sensi dell'art. 1110 c.c. va comunque commisurato a all'intervento che fosse indispensabile: l'eventuale eccedenza potrà essere dunque dallo stesso invocata non già in applicazione della norma in esame, ma secondo le regole – ancora una volta – dell'art. 1150, comma 2, c.c. ovvero della negotiorum gestio (Branca, 266). Non osta al rimborso, invece, la circostanza che, al momento della richiesta, l'opera realizzata non vi sia più. L'art. 1134 c.c.: il regime delle spese anticipate dal condominoL'art. 1134 c.c. consente al condominio che abbia assunto la gestione della cosa comune, di provvedere alle spese per il suo godimento e la sua conservazione, potendone però ottenere il rimborso, ove non previamente autorizzato dall'assemblea o dall'amministratore, solo in caso di urgenza. Il precedente testo della norma, anteriore alla Riforma del 2012, non discorreva di gestione delle cose comuni, ma semplicemente poneva l'accento sulla «spesa sostenuta per la cosa comune»: come detto, però, la differenza terminologica tra le due formulazioni non determina una differenza di sostanza tra di esse, giacché la regola oggi enunciata non sembra diretta a vietare tuot court la «gestione» delle parti comuni da parte del singolo condomino, se non autorizzata dall'amministratore o dall'assemblea, limitandosi piuttosto a prevedere che nel caso di «gestione» individuale non possa pretendersi il rimborso della spesa sostenuta a meno che questa non sia spesa urgente: in sostanza, a fronte di una gestione individuale delle parti comuni, gli oneri che ne derivano cedono a carico esclusivo del condomino che l'abbia intrapresa, a meno che si tratti di spese urgenti. La prima – e anche meno problematica – evenienza contemplata dalla norma concerne l'eventualità che il condominio abbia ricevuto l'autorizzazione, dall'assemblea ovvero dall'amministratore, ad «assumere la gestione delle parti comuni»: in tal caso il rimborso è dovuto, indipendentemente dall'urgenza dell'esborso sostenuto. Rispetto a tale evenienza, di difficile enucleazione può tuttavia apparire l'ipotesi di autorizzazione concessa dell'amministratore: «premesso infatti che l'ipotesi considerata dà per presupposta l'assenza di autorizzazione da parte dell'assemblea, vi è da chiedersi se e – nel caso – a quali condizioni e con quali limiti l'amministratore possa, di propria iniziativa e senza l'autorizzazione dell'assemblea, affidare o delegare ad un condomino la gestione individuale delle cose comuni ed il compimento delle operazioni di spesa a questa connesse. Quale che sia la risposta che si dia a questo interrogativo, è certo che l'ipotesi può prospettarsi solamente con riguardo ad attività di gestione e di spesa che sia di competenza dell'amministratore (e dunque solamente con riguardo ad attività che sia riconducibile ai compiti dell'amministratore elencati nell'art. 1130 c.c. ovvero – deve ritenersi – anche ai diversi ed ulteriori compiti che fossero assegnati all'amministratore dal regolamento del condominio o dall'assemblea) (Scalettaris 2015, 690). Con riferimento, invece, alla seconda evenienza, quella, cioè, in cui l'autorizzazione manchi, il discorso è decisamente più complesso. La disposizione trova il proprio precedente nell'art. 11 del r.d. n. 56 del 1934, che consentiva il rimborso delle spese, urgenti o meno che fossero, anticipate da uno dei condomini, a condizione che non vi fosse opposizione da parte dell'assemblea o dell'amministratore: riprodotta pressoché in maniera identica nel progetto di codice civile del 1942, nella versione finale essa è stata poi modificata nei termini in cui attualmente vige – limitativa, cioè, della possibilità di rimborso, solamente alle spese urgenti. Proprio tale considerazione ha spinto parte della dottrina ad indagare se la disposizione potesse essere (recte, possa, essendo il ragionamento valevole anche rispetto all'attuale regime) ampliata nella sua portata, giacché essa precluderebbe al condominio un diritto al «rimborso» che, sia pure con altro nome e con altra natura giuridica, potrebbe essere avanzato dal terzo exartt. 936,1150 o 2041 c.c.: si è dunque proposto di interpretare il requisito in questione con una certa larghezza ed elasticità (così espressamente anche Cass. II, n. 261/1966), giacché (cfr. infra) sembrerebbero precluse al singolo condomino sia l'azione di ingiustificato arricchimento (per l'assenza del requisito della sussidiarietà) sia l'azione di gestione di affari altrui (per mancanza del requisito della carenza del titolare del diritto). Si è allora avanzata anche la possibilità di intendere urgenza e necessità (art. 1110 c.c.) come sinonimi, come peraltro mostra di confondere App. Catania, 3 giugno 2008, per cui, il condomino che abbia agito in mancanza dell'autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea ha diritto al rimborso delle spese affrontate per la cosa comune, così come espressamente previsto dall'art. 1134 c.c., nella sola ipotesi in cui l'intervento sia stato determinato dalla necessità e dalla urgenza, a nulla rilevando, in siffatte occasioni, la circostanza della mera disponibilità degli altri condomini a provvedere, seguita di fatto dalla loro inerzia, acquistando una tale evenienza rilievo solo nella diversa fattispecie di cui all'art. 1110 c.c., in relazione al riconoscimento del diritto al rimborso di spese necessarie, non già per interventi urgenti, bensì per la mera conservazione della cosa. Tale proposta di ampliamento dell'ambito di operatività della disposizione per via interpretativa è stata, tuttavia, immediatamente criticata in dottrina (Branca, 616), essendosi osservato come ostano a tale equiparazione almeno tre ragioni: a ) innanzitutto, dall'esame dei lavori preparatori al codice e della Relazione al Re (n. 532) si evince che l'art. 1134 c.c. ha visto la luce, con la limitazione di cui si è detto, proprio per evitare «dannose interferenze» (così espressamente, in motivazione, anche Cass. II, n. 1542/1973) del singolo condomino nell'amministrazione della cosa comune, riservata agli organi del condominio (assemblea ed amministratore); b ) si è osservato, inoltre, che tale conclusione appare avvalorata dalla collocazione della previsione immediatamente dopo le norme dedicate all'amministratore e subito prima di quelle rivolte a delineare i poteri gestori all'assemblea (art. 1135 c.c.) e le modalità di loro esplicazione (art. 1136 c.c.): sicché la possibilità di «amministrazione» riconosciuta al singolo non può esondare al di là dei limiti in cui ciò è espressamente consentito. In sostanza, la disposizione, nel vietare al condomino di assumere iniziative individuali, ha la finalità di impedire interferenze nell'amministrazione della cosa comune, che è attribuita all'amministratore (per quanto concerne la manutenzione ordinaria) ovvero all'assemblea dei condomini (relativamente alla manutenzione straordinaria): il che significa che la norma non può che essere necessariamente di stretta interpretazione, salvo – diversamente opinando – sovvertire i principi che presiedono alla gestione del gruppo. D'altra parte – si osserva ulteriormente – la disciplina in materia di condominio è regolata dalle specifiche disposizioni dettate dagli artt. 1117-1138 c.c., che derogano per molti aspetti alle norme sulla comunione in generale, giacché ciò che caratterizza il condominio è la relazione di accessorietà fra proprietà individuali e parti comuni dell'edificio che sono destinate al servizio delle prime: a differenza che nella comunione ordinaria, infatti, i beni di cui all'art. 1117 c.c. non sono suscettibili di godimento ed utilizzazione autonomi rispetto alle proprietà esclusive (Cass. II, n. 14791/2003). Ciò implica la peculiarità del c.d. diritto di condominio, in virtù del quale l'art. 1139 c.c. rinvia alle norme sulla comunione in generale soltanto «per quanto non espressamente previsto»; c ) infine, che necessità ed urgenza siano concetti diversi è dimostrato dal fatto che vi sono spese che, pur necessarie, non sono tuttavia – per ciò stesso – urgenti. Rispetto a tali notazioni – e, in particolare a quella sub (b) – si è però evidenziato (Scalettaris 2017, 1323) in senso critico che la regola enunciata non appare volta – quanto meno in maniera esplicita – a vietare la «gestione» individuale delle parti comuni da parte del singolo condomino, se non autorizzata dall'amministratore o dall'assemblea, quanto, piuttosto, a prevedere che nel caso in cui questa si verifichi (possibilità peraltro consentita in virtù di quanto previsto dall'art. 1102 c.c.), chi abbia assunto la gestione individuale della cosa comune non possa poi pretendere sic et simpliciter il rimborso della spesa sostenuta. Sostanzialmente concorde con la posizione della dottrina è anche la giurisprudenza, per cui i limiti posti dall'art. 1134 c.c. alla facoltà del condomino di affrontare spese per le cose comuni (ovvero di assumerne la gestione, come recita l'art. 1134 c.c. dopo la Riforma del 2012) senza alcuna autorizzazione dell'assemblea o dell'amministratore trovano la loro ragione proprio nell'esigenza di evitare dannose interferenze del singolo condomino in forma di amministrazione parcellizzata delle cose comuni, dovendosi esprimere il concorso dei distinti proprietari alla gestione delle cose comuni essenzialmente in forma assembleare (Cass. II, n. 10865/2016). Segue. I presupposti del diritto al rimborso nel caso dell'art. 1134 c.c. Quanto ai presupposti di operatività dell'art. 1134 c.c., viene costantemente affermato che, per aver diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, il condomino che vi ha provveduto deve dimostrare, ai sensi dell'art. 1134 c.c., che ne sussisteva l'urgenza, ossia la necessità di eseguirla senza ritardo e senza poter avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini. A quanto precede aggiungasi che l'esborso deve concernere parti comuni. Quanto all'urgenza, sotto la vigenza dell'originaria formulazione dell'art. 1134 c.c. (con conclusioni valide a tutt'oggi, pur con la precisazione di cui si è detto circa le conseguenze derivanti dalla novellazione del precetto), è stato sempre pacifico che, per aver diritto al rimborso della spesa affrontata per la cosa comune senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, il condomino che vi avesse provveduto dovesse dimostrare, ai sensi dell'art. 1134 c.c., che ne sussisteva l'esigenza di eseguirla senza ritardo (da ultimo, Cass. II, n. 4684/2018). Chiarificatrice sul concetto di urgenza è stata, però, Cass. S.U., n. 2046/2006, la quale ha affermato che esso, per come impiegato nell'art. 1134 c.c., va ricavato dal significato proprio della parola, che designa la stretta necessità, la necessità immediata ed impellente. La ratio della disposizione è, infatti, quella di impedire indebite e non strettamente indispensabili interferenze dei singoli nella gestione dell'immobile riservata agli organi del condominio, a meno che non vi sia la necessità di eseguire opere urgenti, intendendosi per tali quelle che secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiono indifferibili onde evitare un possibile anche se non certo nocumento alla res comune: la legge intende trattare con rigore, cioè, la possibilità che il singolo possa intervenire nell’amministrazione dei beni in proprietà (Cass. II, n. 27106/2021). Il requisito dell'urgenza deve, altresì, essere valutato con riferimento al possibile intervento dell'assemblea o dell'amministratore, con la conseguenza che esso sussiste quando è necessario intervenire non potendo aspettare la convocazione formale dell'assemblea o la deliberazione dell'amministratore (Trib. Roma, 11 febbraio 2020). In concreto, dunque, va considerata urgente la spesa la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, nell'attesa che l'amministratore (o l'assemblea dei condomini), valutandone l'indispensabilità, possa impartire le necessarie disposizioni per compierla (Cass. II, n. 4684/2018. Nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Salerno, 2 novembre 2017; Trib. Bologna, 11 marzo 2010). Estremamente chiara App. Napoli, 28 ottobre 2020, la quale osserva che l'urgenza che, sola, consente di soprassedere dalla previa autorizzazione si connota nell'indifferibile necessità di eseguire un'opera sulle parti comuni dell'edificio per evitare un possibile nocumento a sé, a terzi o alla cosa comune, senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini. L'urgenza, quindi, deve essere commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell'edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità. Nel condominio – in particolare – la trascuranza degli altri condomini e dell'amministratore non è sufficiente: il condomino, infatti, non può, senza interpellare gli altri condomini e l'amministratore e, quindi, senza il loro consenso, provvedere alle spese per cose comuni, salvo si tratti di spese urgenti, intendendosi per tali quelle che – secondo il criterio del buon padre di famiglia – appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune, sicché l'urgenza va commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell'edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità (Cass. II, n. 20151/2013). Il che porta a concludere – mediante un tipico argomentum a contrario – che ove la spesa sia necessaria, ma non tale da dovere essere eseguita senza ritardo, la disposizione non trova applicazione ed il condomino, prima di procedere all'esborso – sempre che intenda ottenerne il rimborso, beninteso – deve investire della questione l'amministratore ovvero l'assemblea, per munirsi della relativa autorizzazione. Con l'ulteriore conseguenza che ne discende per cui, ove tale autorizzazione sia negata, non residua altra possibilità, per lo stesso che rivolgersi all'assemblea contro il provvedimento di diniego preso dall'amministratore, ex art. 1133 c.c. ovvero all'autorità giudiziaria, ex artt. 1105, 1133 (in caso di conferma, da parte dell'assemblea, del diniego opposto dall'amministratore) e 1137 c.c. Deve invece escludersi il diritto al rimborso allorché, nonostante la ricorrenza dei requisiti di cui si è detto, l'esigenza di manutenzione e riparazione della cosa comune abbia trovato la sua causa in una specifica condotta illecita attribuibile al condominio medesimo e le opere fatte eseguire dal singolo abbiano, perciò, dato luogo ad una forma di risarcimento del danno in forma specifica (Cass. VI, n. 13293/2018): tale condotta, infatti, fa sorgere a carico dell'autore l'obbligo di risarcire il danno complessivamente prodotto al condominio, ex art. 2043 c.c., e non anche l'obbligo degli altri partecipanti di contribuire alle spese ai sensi dell'art. 1123 c.c. e ss. (arg. da Cass. III, n. 23308/2007; Cass. II, n. 3568/1999). La prova dell'indifferibilità della spesa incombe sul condomino che chiede il rimborso, il quale deve dimostrare, a tal fine, la sussistenza delle condizioni che imponevano di provvedere senza ritardo e che impedivano di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini (così da ultimo Cass. II, 4684/2018, cit.; Cass. VI-2, n. 27235/2017; Cass. II, n. 5256/1980). La casistica giurisprudenziale è abbastanza ampia. Tra le pronunzie più interessanti si segnalano all'attenzione: 1) Cass. II, n. 9743/2010, che, in applicazione di tali principi, ha riconosciuto il diritto del condomino al rimborso delle spese sostenute per l'opera di consolidamento del fabbricato condominiale, ritenendole senz'altro urgenti in virtù dell'esistenza di un'ordinanza comunale che aveva imposto l'esecuzione di tali lavori; 2) diversamente, è stato escluso il diritto del condomino al rimborso delle spese sostenute per l'opera di tinteggiatura e di rifacimento degli intonaci del fabbricato condominiale, in quanto non urgenti, anche alla luce del provvedimento del Sindaco del Comune che aveva imposto al condominio l'esecuzione di opere urgenti e indifferibili tra le quali non rientravano quelle di tinteggiatura (Cass. II, n. 27519/2011); 3) in tema di rimborso delle spese per la conservazione e manutenzione delle parti comuni effettuate da un solo condomino, la disciplina prevista all'art. 1134 c.c., la quale prevede che tale diritto sia riconosciuto solo ove le spese abbiano carattere urgente, non trova applicazione allorché si verta solo in ipotesi di trascuratezza, da parte degli altri condomini, nella manutenzione dei beni comuni (Cass. II, n. 23244/2017); 4) il requisito dell'«urgenza» previsto dall'art 1134 c.c. per il rimborso delle spese per le parti comuni anticipate dal condomino, applicabile anche nel caso del condominio minimo, è stato ritenuto altresì sussistente nell'ipotesi di oggettiva convenienza economica di effettuare tutti i lavori necessari nell'unico contesto temporale (Cass. II, n. 17393/2017 e, nel merito, Pret. Firenze, 17 giugno 1986). Il caso esaminato dalla Corte ha riguardato, in particolare, un piccolo condominio composto di tre unità abitative al cui interno uno dei condomini, ipotizzando una situazione di urgenza, aveva effettuato motu prroprio e senza previa autorizzazione assembleare, lavori di restauro delle parti comuni dell'immobile. Adita l'autorità giudiziaria per conseguire il rimborso della quota anticipata, gli viene opposta, tra l'altro, la mancata autorizzazione dell'assemblea, non versandosi in presenza di spese urgenti. Nella specie, dunque, la Corte ha interpretato il requisito della indifferibilità e urgenza ricomprendendovi anche la oggettiva convenienza economica di lavori secondo una valutazione empirica per cui, pur non versandosi in presenza di un immediato pericolo per le persone né trattandosi di opere finalizzati ad evitare immediati, sostanziali e gravi deterioramenti della proprietà comune, cionondimeno le stesse possono essere ricondotte al concetto di «urgenza» per la convenienza economica derivante dalla loro realizzazione in un unico contesto temporale; 5) è stato negato il diritto al rimborso delle spese sostenute per opere di tinteggiatura e di intervento sugli impianti tecnologici, giacché non urgenti ma volte solo ad un miglioramento dell'immagine «commerciale» del condominio (Cass. II, n. 18759/2016); 6) è stato escluso il carattere dell'urgenza nella richiesta del condominio di restituzione della quota di spese riferibile alla controparte per una serie di lavori di impermeabilizzazione, non essendosi ritenuto sufficiente, a giustificare l'urgenza, la sola ammissione del convenuto di aver notato, un anno prima, una macchia di umidità nel soffitto (Cass. II, n. 7457/2015); 7) sono state ritenute rimborsabili le spese sostenute per il rifacimento di un tetto (App. Potenza, 8 marzo 1961) ovvero di un lastrico solare di copertura (Trib Milano, 27 maggio 1993); 8) del pari, sono state ritenute suscettibili rimborso le spese sostenute a fronte di opere la cui esecuzione è stata ordinata dalla Pubblica Amministrazione (Cass. II, n. 2619/1961); 9) non è stato considerato rimborsabile, al contrario il pagamento, effettuato da un condomino, di un'imposta non dovuta dal condominio (priva, siccome tale, non solo del carattere dell'urgenza, ma anche di quello della necessità) (Cass. II, n. 2926/1974); 10) non rientrano tra le spese ex art. 1134 c.c. quelle sostenute per la pavimentazione della terrazza comune (App. Napoli, 14 febbraio 1969). Quanto, poi, all'impossibilità di avvertire, per tempo, l'amministratore e gli altri condomini, si è chiarito che trattasi di un accertamento di fatto che compete al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata (Cass. II, n. 4364/2001). In ordine, infine, al regime proprietario della porzione interessata dall'anticipazione, l'art. 1134 c.c. trova applicazione (tanto più a seguito della novella sua formulazione, che discorre espressamente di assunzione della gestione di parti comuni) solo nel caso in cui le spese si riferiscono a cose comuni e non pure allorché afferiscono ad opere effettuate nell'ambito della proprietà individuale, sia pure con riflessi di comune utilità per gli altri condomini (Cass. II, n. 5264/1983) come, ad esempio, avviene allorquando il condomino esegua nell'ambito della proprietà individuale, al fine di accertare le cause del danno verificatosi e la sua derivazione o meno dalla rottura di un impianto condominiale (Cass. II, n. 8252/2025). Chiarissima, in merito, la recente Cass. II, n. 199/2017, la quale, nel caso di lavori eseguiti ad un lastrico solare di proprietà esclusiva, ha escluso l'applicabilità dell'art. 1134 c.c. proprio sulla scorta del regime proprietario individuale della porzione interessata dalle lavorazioni: «correttamente, poi, il Tribunale ha negato l'applicabilità nel caso in esame – si legge in motivazione – tanto dell'art. 1110, che dell'art. 1134 c.c. Queste due norme recano, invero, una diversa disciplina in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, disciplina che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell'altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell'urgenza. Il Tribunale [...] ha osservato come i lavori di rifacimento del terrazzo fossero stati comunque commissionati dall'amministrazione condominiale, e non derivassero, quindi, da iniziative di gestione prese dal singolo partecipante. D'altro canto, si ha riguardo, nella specie, a spese non inerenti una cosa comune (come postulato dagli artt. 1110 e 1134 c.c.), quanto un lastrico o terrazzo di proprietà esclusiva, sicché il dovere di contribuire ai costi di manutenzione rinviene la sua ragione, ex art. 1126 c.c., nell'utilità che i condomini sottostanti traggono dal bene». In senso contrario, però Cass. II, n. 3221/2014 che, proprio a proposito di lavorazioni anticipate per la riparazione di un lastrico solare di proprietà esclusiva, ed avuto riguardo al testo originario dell'art. 1134 c.c., ha invece ritenuto sussistente il diritto del condomino ad ottenere il rimborso della spesa fatta «per la cosa comune» e, cioè, sostenuta in funzione dell'utilità comune, indipendentemente, pertanto, dalla circostanza che la spesa stessa sia stata fatta su cosa comune o di proprietà esclusiva: «formulando il quesito di diritto – si legge in motivazione – [il ricorrente] chiede se nel condominio sia o meno applicabile l'art. 1134 c.c., alla terrazze a livello non costituendo parti comuni, ma solo utilità comuni e se integra il requisito dell'urgenza il rifacimento delle terrazze definite dall'amministratore in pessime condizioni con ristagni e infiltrazioni sulla proprietà sottostante, posto che il proprietario ha l'obbligo di provvedere quale custode ad eliminare le caratteristiche dannose del bene comune e se la delibera con la quale l'assemblea approva il rifacimento della copertura del condominio costituita in parte da tetto a falde e in parte da terrazze di proprietà esclusiva debba intendersi come approvativa anche del rifacimento delle terrazze in assenza di contraria volontà dell'assemblea. L'art. 1134 c.c., stabilisce che il diritto al rimborso compete al condomino che abbia sostenuto spese per la cosa comune e non sulla cosa comune e pertanto sorge solo in funzione dell'utilità che la spesa abbia avuto sulla cosa comune indipendentemente che la stessa sia stata sostenuta sulla cosa di sua proprietà [...]». Aderisce a questo orientamento anche App. Cagliari, 22 settembre 2020. Come più sopra anticipato, però, la novella formulazione della disposizione, a seguito dell'intervento manipolatore del Legislatore del 2012, non sembra consentire ulteriore spazio di operatività a questa interpretazione della norma. Segue. Il rimborso L'obbligazione che attiene al rimborso delle spese fatte da un condomino sulla cosa comune ha originariamente natura pecuniaria e tale carattere conserva fino alla soluzione del debito che grava sugli altri condomini, in relazione alla rispettiva quota: ne consegue che, essendo soggetto al regime dei crediti di valuta, non è automaticamente rivalutabile ma può dar luogo, in caso di mora, solo ad una pretesa risarcitoria che, ai sensi dell'art. 1224 c.c., si esaurisce nella misura degli interessi legali sulla somma dovuta, salvo la prova del maggior danno (così Cass. II, n. 7834/1996. In termini cfr. anche Cass. II, n. 705/1963. Quanto alla modalità di computo del maggior danno si richiama Cass. S.U., n. 19499/2008, per cui esso può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale). Grava sul condominio che abbia anticipato l'esborso, poi, la prova degli elementi costitutivi della fattispecie e, cioè, dell'indifferibilità della spesa, nonché delle condizioni che imponevano di provvedere senza ritardo e che impedivano di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini (Cass. II, n. 5256/1980) e la richiesta di rimborso va avanzata nei confronti del solo amministratore, da identificarsi quale unico legittimato passivo anche in sede processuale (Cass., 12 luglio 1976, citata da Branca, 617). Interessante, a tale riguardo, la problematica concernente la possibilità di “non contestazione” circa la ricorrenza delle condizioni necessarie a conseguire il rimborso: tematica affrontata, sia pure sinteticamente, da Cass. II, n. 4684/2018, la quale non esclude affatto l'operatività dell'istituto in subiecta materia. Nel caso in cui non sussistano gli estremi contemplati dall'art. 1134 c.c. per ottenere il rimborso, non è invece dato al condomino, che abbia anticipato le spese, il ricorso ad azioni alternative o sussidiarie, trattandosi di attività che lo stesso ha comunque compiuto nonostante un espresso divieto di legge: tale profilo è stato chiarito per prima da Cass. II, n. 9629/1994, che, partendo dal presupposto per cui l'esperibilità dell'azione generale di arricchimento senza causa, ex art. 2041 c.c. postula, per il disposto del successivo art. 2042 c.c., la non esperibilità di altra azione per conseguire l'indennizzo del pregiudizio subito, sicché il giudice in presenza di una pluralità di domande – oltre quella ex art. 2041 c.c. – fondate su titoli diversi, deve preliminarmente decidere sulla fondatezza di queste ultime e solo ove decida di non accoglierle potrà esaminare l'azione sussidiaria di arricchimento, sempreché l'impossibilità di proporre quest'ultima non derivi da un divieto stabilito dalla legge, ha infine escluso che ad un condomino, che aveva chiesto il rimborso della spesa sostenuta per la manutenzione della cosa comune, in base ad un triplice titolo (l'accordo di tutti i condomini, l'urgenza della spesa ex art. 1134 c.c. e l'arricchimento senza causa), competesse il rimedio residuale dell'azione di arricchimento in caso di spesa non urgente, stante il divieto di rimborso stabilito dall'art. 1134 c.c. al di fuori delle ipotesi ivi previste. La recente Cass. II, n. 20528/2017, facendo proprie tali argomentazioni e ricostruendo il «sistema» sotteso all'art. 1134 c.c. consente di comprendere con maggiore semplicità le motivazioni sottese alla indicata soluzione: «i ricorrenti lamentano avere la corte territoriale omesso la pronuncia – in relazione al n. 4) e ove occorra nn. 3) e 5) dell'art. 360 c.p.c., comma 1 – sulla domanda, in quanto formulata, in via principale, ai sensi dell'art. 1110 c.c.; essendosi invece limitata la corte alla valutazione in base all'art. 1134 c.c., titolo dedotto in secondo luogo; ed avere altresì omesso di esaminare sempre la domanda sulla base della subordinata istanza ex art. 2041 c.c. La censura è infondata. Per quanto attiene alla prima parte di essa, con cui si lamenta la mancata trattazione della domanda sub specie dell'applicazione dell'art. 1110 c.c., non può ravvisarsi nella sentenza impugnata alcuna omissione di pronuncia, atteso che avendo la corte territoriale rettamente esaminato l'istanza giudiziale sotto il profilo dell'art. 1134 c.c., quale norma applicabile al condominio, implicitamente è restata esclusa l'applicabilità dell'art. 1110 c.c., norma dettata per le comunioni diverse dai condomini negli edifici [...] Per quanto attiene alla seconda parte della censura, sarebbe stata invece effettivamente necessaria una pronuncia espressa da parte della corte d'appello circa l'infondatezza della domanda subordinata ex art. 2041 c.c., una volta ritenuta ammissibile seppure poi infondata nel merito – l'azione tipica ex art. 1134 c.c.. La lacuna può peraltro essere colmata, procedendosi a integrazione della motivazione della sentenza impugnata, senza che il motivo possa peraltro essere accolto. Al riguardo, va infatti chiarito al di là di qualche diversa pronuncia emersa in giurisprudenza che: in generale, tenuto conto della nozione di sussidiarietà – come esplicata dalla giurisprudenza di questa corte (Cass. S.U., n. 28042/2008, e tra le altre Cass. VI, n. 29916/2011) – dell'azione di arricchimento senza causa ai sensi degli artt. 2041 e 2042 c.c., quest'ultima è disponibile solo allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, non possa esercitare un'altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito; nel caso di specie, invece, è disponibile appunto l'azione ex art. 1134 c.c., salvo quanto in appresso circa altre attività processuali disponibili; – in particolare, non è a ritenersi che, essendo negato l'utile esperimento dell'azione ex art. 1134 c.c. in carenza del presupposto dell'urgenza, debba dunque ammettersi l'azione sussidiaria ex art. 2041 c.c.; al contrario, la giurisprudenza di questa corte (Cass. II, n. 9629/1994), cui va nella presente sede data continuità, ha chiarito che l'azione di arricchimento non possa essere esercitata in presenza del divieto posto dalla legge di esercizio di azioni tipiche in assenza di determinati presupposti; e tale divieto è da ravvisarsi nella subordinazione al requisito dell'urgenza di cui all'art. 1134 c.c., per cui se la spesa non è urgente – come afferma il citato precedente del 1994 – nessuna azione spetta, neanche quella di arricchimento, in quanto ammettere l'azione di arricchimento nel caso di spesa non urgente significherebbe contravvenire al divieto di rimborso stabilito dal legislatore. Ciò a tacere – come rileva altresì il predetto precedente del 1994 – ogni altra considerazione sia circa la ratio cui è ispirato l'art. 1134 c.c. (norma significativamente estesa nello spettro applicativo dalla riforma di cui alla l. n. 220/2012, ora riferito alla «gestione di parti comuni»), volta ad evitare, come si esprime la relazione ministeriale, «dannose interferenze nell'amministrazione del condomino», riservata all'amministratore e all'assemblea secondo le rispettive competenze, tenuto conto che se la spesa non è urgente ma è necessaria, il condomino interessato può agire perché sia fatta, ai sensi del combinato disposto degli art. 1133 (ricorso all'assemblea) e 1137 e 1105 c.c. (ricorso al giudice), dato questo idoneo, per altro verso e secondo alcune tesi che qui non mette conto esaminare, a escludere anche la stessa affermazione dell'indisponibilità di altre azioni». Nel medesimo senso, ancora, Cass. III, n. 17027/2018(nonché Cass. II, n. 33158/2019), la quale, osservato in via preliminare come l'azione di arricchimento senza causa non possa rappresentare uno strumento per aggirare divieti di rimborsi o di indennizzi posti dalla legge, ha ulteriormente ribadito che al condomino – al quale non sia riconosciuto il diritto al rimborso delle spese sostenute per la gestione delle parti comuni, per essere carente il presupposto dell'urgenza (richiesto dall'art. 1134 c.c.) – non spetta neppure il rimedio sussidiario dell'azione di arricchimento senza causa: sia perché detta azione non può essere esperita in presenza di un divieto legale di esercitare azioni tipiche in assenza dei relativi presupposto; sia perché – nel caso in cui la spesa, per quanto non urgente, sia necessaria – il condomino interessato ha facoltà di agire perché sia sostenuta, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1133 c.c., (con ricorso all'assemblea) e 1137 e 1105 (con ricorso all'autorità giudiziaria), con conseguente inesperibilità dell'azione ex art. 2041 c.c., per difetto del carattere della sussidiarietà. (cfr. anche, nella giurisprudenza di merito, Trib. Ragusa, 17 dicembre 2019). Resta, però, che l'assemblea, ai sensi dell'art. 1135 c.c. (si rinvia al relativo commento), nell'esercizio dei poteri di gestione del condominio, ha comunque il potere di ratificare la spesa effettuata direttamente da parte di alcuni condomini in ordine a lavori di manutenzione straordinaria delle parti comuni, ancorché non indifferibili ed urgenti (arg. da Cass. VI-2, n. 10845/2020) Artt. 1110 e 1134 c.c.: differenze disciplinariDa quanto finora esposto emergono con chiarezza, dunque, le differenze strutturali e sostanziali tra le due discipline di cui si è dato conto, alcune di carattere oggettivo, altre di carattere soggettivo: esse si collegano, invero, alla stessa diversità di struttura dell'istituto della comunione rispetto al condominio ed alla specificità del ruolo che le parti comuni dell'edificio svolgono nel caso del condominio (Scalettaris 2017, 1323). Ed infatti, la diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 c.c. trova fondamento nella considerazione che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione (così Cass. S.U., n. 2046/2006, cit. conf. Cass. II, n. 21015/2011). Dall'analisi complessiva degli istituti regolati rispettivamente dagli artt. 1110 e 1134 c.c. emerge, in sostanza, che mentre la prima prevede come normale il rimborso delle spese anticipate dal comunista, la seconda lo considera eccezionale (limitatamente alle spese urgenti): l'iniziativa individuale di effettuare riparazioni, di agire contro terzi o altro, se da un canto si concilia e si armonizza con la struttura della comunione ordinaria, è dall'altro soltanto tollerata nel condominio. L'art. 1110 c.c., nel prevedere una cooperazione individuale ed autonoma (seppure molto limitata ed eventuale) nell'amministrazione collegiale del bene comune, si pone come strumento normativo per sopperire alla trascuranza degli altri comunisti, mentre l'art. 1134 c.c. ha la finalità di escludere qualsiasi ingerenza del condomino nella gestione delle cose comuni, prevedendo una semplice eccezione alla riserva assoluta in favore degli organi condominiali. La ratio della differente disciplina si fonda sulla diversità dei criteri che ispirano la normativa delle parti comuni nella comunione e nel condominio: a differenza di quanto accade nella prima, in cui le questioni relative ai rapporti fra i comunisti vengono risolti in funzione del conflitto di interessi al godimento della stessa res, generata dalla contitolarità del diritto, nel condominio la disciplina è dettata in funzione dell'interesse reale alla piena utilizzazione del piano o porzione di piano di proprietà esclusiva. Passando, dunque, all'esame «comparato» delle emarginate differenze, innanzitutto rileva la natura della spesa di cui si invoca il rimborso, giacché, mentre nel caso della comunione ordinaria occorre che questa sia finalizzata alla conservazione del bene comune, nel caso del condominio, al contrario, tale limitazione non è affatto prevista, facendosi riferimento (più genericamente) alle spese sostenute per la gestione (la vecchia formulazione della norma parlava, ancor più genericamente, di «spese fatte per le cose comuni»): la nuova formulazione fa dunque comprendere – ancor più chiaramente di quanto consentisse il vecchio testo di essa – che quella considerata per l'ipotesi del condominio è ogni e qualsiasi attività che riguardi l'immobile, non soltanto, pertanto, l'attività diretta al puro e semplice mantenimento delle parti comuni, ma anche tutti gli interventi, di qualunque tipo essi siano, occorrenti per il godimento e la fruizione delle parti comuni stesse. La differenza, sul punto, è dunque rilevante. Si è già osservato, d'altra parte, che il concetto di spese relative ai beni comuni reca in sé, secondo quanto impone la lettera degli artt. 1104 (per cui ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune, concorrendovi in ragione della propria quota, ex art. 1101, comma 2, c.c.) e 1123, comma 1, c.c. (per cui le spese necessarie, tra l'altro, per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione) la distinzione tra spese di conservazione e spese di godimento: si pensi, per essere ancora più chiari, alla formulazione dell'art. 1118, comma 4, c.c. che, in caso di distacco legittimo dall'impianto di riscaldamento centralizzato, il rinunziante è esonerato dal concorso nelle spese di gestione, mentre resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma. Dunque, non contenendo – diversamente dall'art. 1110 c.c. – alcuna specificazione limitativa in ordine alla nature delle spese anticipate, l'art. 1134 c.c. necessariamente ricomprende tutte le spese sostenute dal compartecipe, anche quelle per il «semplice» godimento del bene comune. Ulteriore profilo di differenza tra i due istituti si rinviene nel presupposto caratterizzante la disciplina dell'art. 1134 c.c. ed assente – salvo quell'opinione dottrinaria, di cui si è dato conto, che ritiene che esso ricorra in ipotesi di comunione ordinaria in cui sia presente un amministratore – al contrario, in quella dettata dall'art. 1110 c.c. e, cioè, nell'urgenza della spesa (cfr. anche Cass. II, n. 27106/2021). Differenza non sfuggita neppure a Cass. S.U., n. 2046/2006: «il diverso il regime del rimborso delle spese anticipate dal condomino e dal comproprietario, a seguito della inerzia degli altri partecipanti (o dell'amministratore) – è noto – si fonda sul diverso presupposto oggettivo dell'urgenza e della trascuranza. In materia di condominio negli edifici, il concetto di urgenza, impiegato nell'art. 1134 c.c., viene ricavato dal significato proprio della parola, che designa la stretta necessità: la necessità immediata ed impellente. Afferma la giurisprudenza che, ai fini dell'applicabilità dell'art. 1134 c.c. concernente il rimborso delle spese per le cose comuni fatte da un condomino, va considerata urgente la spesa, che deve essere eseguita senza ritardo (Cass. II, n. 4364/2001); la spesa, la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia (Cass. II, n. 5256/1986). Trascuranza, invece, significa negligenza, trascuratezza, omessa cura come si dovrebbe. Relativamente alle spese necessarie per la conservazione delle cose comuni, l'art. 1110 cit. riconduce il diritto al rimborso alla semplice inattività (Cass. II, n. 10738/2001). Il maggior rigore della disciplina in tema di condominio negli edifici rispetto alla comunione dipende dalla diversa utilità dei beni, che formano oggetto dei differenti diritti; l'utilità strumentale per i beni in condominio e l'utilità finale per i beni in comunione. La indivisibilità dei beni in condominio (art. 1119 c.c.) dipende dalla utilità strumentale, essendo strettamente legata al godimento delle unità immobiliari. Dalla virtuale perpetuità del condominio deriva l'opportunità che i condomini non interferiscono nella amministrazione delle parti comuni dell'edificio. Dalla normale divisibilità nella comunione, invece, segue che il comunista insoddisfatto dell'altrui inattività, se non vuole chiedere lo scioglimento (art. 1111 c.c.), può decidere di provvedere personalmente». Circa il rapporto tra necessità ed urgenza, raccogliendo gli esiti argomentativi di altri contributi e della giurisprudenza «meno severa», recente dottrina (Scalettaris 2017, 1323) ha evidenziato che la nozione di spesa urgente, da un lato, andrebbe intesa con una certa larghezza ed elasticità, comprendendo tutte le spese che appaiano, secondo il criterio del bonus pater familias, indifferibili allo scopo di evitare il possibile, anche se non certo, nocumento della cosa comune: dunque, citando Cass. S.U., n. 2046/2006, spese che devono essere eseguite senza ritardo e la cui erogazione non può essere differita senza danno. Ma urgenti sono anche quelle le spese che vanno affrontate entro tempi così stretti da non consentire che l'amministratore o l'assemblea possano utilmente provvedervi o, addirittura, tali da non consentire che l'amministratore o gli altri condomini siano avvisati per tempo. Ancora, i due istituti difettano sotto il profilo dei rimedi residuali offerti in favore di chi abbia anticipato l'esborso: mentre l'art. 1110 c.c. non preclude, infatti, al comunista la possibilità di agire, in via sussidiaria, ai sensi dell'art. 1150, comma 2, c.c. ovvero secondo i principi della negotiorum gestio (dunque, il diritto al rimborso muterà natura giuridica, sarà diminuito nell'importo, ma non per questo il comunista resta privo di tutela), discorso assolutamente opposto è da fare in relazione all'art. 1134 c.c. che, al contrario, non consente al condomino che abbia sostenuto spese, non urgenti, senza la previa autorizzazione dell'assemblea o dell'amministratore, neppure il ricorso al rimedio sussidiario dell'azione di arricchimento ex art. 2041 c.c. in quanto, per un verso, essa non può essere esperita in presenza di un divieto legale di esercitare azioni tipiche in assenza dei relativi presupposti e, per altro verso ed avuto riguardo al suo carattere sussidiario, esso difetta giacché, se la spesa non è urgente ma è necessaria, il condomino interessato può comunque agire perché sia sostenuta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1133 c.c. (con ricorso all'assemblea) e 1137 e 1105 c.c. (con ricorso all'autorità giudiziaria) (Così Cass. II, n. 20528/2017, cit.) Infine, sotto il profilo dei presupposti soggettivi, mentre l'art. 1110 c.c. richiede, affinché sia riconosciuto il diritto al rimborso in favore del comunista che si è attivato ed ha sostenuto esborsi in anticipazione per la collettività, che la sua attività sia stata posta in essere in a seguito di trascuranza degli altri comproprietari e/o dell'amministratore (dunque, occorre una vera e propria inerzia «qualifica» degli uni o dell'altro, nel senso che non sarebbe sufficiente all'uopo, un fatto meramente e genericamente omissivo, occorrendo, come più volte detto, una posizione di voluta inattività a fronte di una segnalazione o di un'espressa richiesta di iniziativa), l'art. 1134 c.c. prevede solo che difetti – anche perché semplicemente non richiesta – l'autorizzazione dell'assemblea o dell'amministratore (cfr., ex multis, Cass. II, n. 19022/2016 per cui il condomino non può, senza interpellare gli altri condomini e l'amministratore e, quindi, senza il loro consenso, provvedere alle spese per le cose comuni, salvo che si tratti di «spese urgenti», non essendo sufficiente la mera trascuranza degli altri partecipanti e dell'amministratore). Da tali diversità strutturali emerge, infine, l'impossibilità di «concorrenza» delle due disposizioni in ambito condominiale: chiarisce, infatti, Cass. S.U., n. 2046/2006, cit. (ma cfr. anche, in senso conforme Cass. II, n. 18759/2016; Cass. II, n. 2105/2011; Cass. II, n. 9743/2010) –sia pure con intervento reso a proposito del condominio minimo (cfr. infra), ma con motivazione ampia ed estremamente articolata, applicabile con riguardo a qualsivoglia caso di condominio- che l'art. 1110 c.c. non è applicabile in materia condominiale e ciò neppure in virtù del richiamo generale contenuto all'art. 1139 c.c. alle disposizioni dettate in tema di comunione, essendo la materia (compimento di attività sulle parti comuni da parte del singolo condominio) in tal caso regolata unicamente dall'art. 1134 c.c., il quale prevede che il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente. In particolare, la diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 c.c. trova fondamento nella considerazione per cui, mentre nella comunione ordinaria i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, nel condominio – diversamente – i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. La disciplina da applicare al cd. «condominio minimo»Si è posta con insistenza, nel passato, la questione concernente la disciplina da applicare nel caso di rimborso delle spese necessarie alla conservazione della cosa comune, ove affrontate da uno dei compartecipi ad un condominio minimo: nello specifico, stante la peculiarità di tale formazione condominiale, la questione ha riguardato l'applicabilità o meno, in tal caso, della disciplina dettata in materia di condomino degli edifici (e, in specie, dall'art. 1134 c.c.) ovvero in materia di comunione ordinaria (e, quindi, l'art. 1110 c.c.), con i limiti connaturati all'una ed all'altra normativa (la questione, in realtà, era parte di un più ampio dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, in ordine dalla disciplina cui ricorrere nella regolamentazione del fenomeno: se quella della comunione in generale ovvero quella del condominio). Orbene, come noto si definisce piccolo condominio quello formato (a seguito della Riforma del 2012) da un numero di partecipanti non superiore a otto, circostanza in cui, ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c., non è necessaria la nomina dell'amministratore. Particolare interesse assume, in tale contesto, la disciplina di quelle particolare ipotesi di piccolo condominio rappresentata dal condominio costituito da due soli partecipanti (cd. «condominio minimo»), essendo stata, nel passato, controversa l'applicabilità (integrale) ad esso delle norme di cui agli artt. 1117-1138 c.c. Si è detto, infatti, che, poiché la disciplina in materia di condominio degli edifici deve essere ricavata, ai sensi del tassativo disposto di cui all'art. 1139 c.c., dagli artt. 1117-1138 c.c. e, soltanto per quanto non espressamente previsto da tali norme, dalle disposizioni dettate per la regolamentazione sulla comunione in generale, da ciò dovrebbe trarsi la conclusione per cui tale principio dovrebbe valere per ogni tipo di condominio e, quindi, per quanto per essi né esplicitamente né implicitamente derogato, anche per i condomini minimi, cui sarebbero inapplicabili soltanto le norme procedimentali sul funzionamento dell'assemblea, destinato ad essere regolato dagli artt. 1104 e 1105 c.c. (Cass. II, n. 5914/1993), non potendo trovare applicazione le disposizioni relative alla costituzione dell'assemblea condominiale ed all'approvazione delle relative delibere previste dall'art. 1136 c.c. che, nel calcolo delle maggioranze, fanno riferimento non soltanto al valore della quota di comproprietà ma anche al numero dei partecipanti. Sicché, in ultima analisi, attuandosi nel condominio il principio maggioritario mediante un sistema misto, che presuppone un numero di partecipanti al condominio superiore a due, nel caso di condominio composto da due comproprietari sarebbe obiettivamente impossibile il funzionamento dell'assemblea anche di seconda convocazione con riferimento alle deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore e le altre indicate dal quarto comma dell'art. 1136 c.c.: donde il ricorso, limitatamente a tali profili, alla disciplina dettata dalle norme sulla comunione in virtù del rinvio di cui all'art. 1139 c.c., destinata a trovare applicazione non soltanto nell'ipotesi di mancanza di una specifica disciplina, ma anche nel caso di inapplicabilità delle norme sul condominio (Cass. II, n. 4721/2001; Cass. II, n. 5664/1988; Cass. II, 1604/1975). La discussione ha coinvolto, tuttavia, anche il regime delle anticipazioni sostenute da uno dei condomini, essendosi sviluppati due orientamenti tra loro contrastanti: a) secondo una prima impostazione (riconducibile a Cass. II, n. 5664/1988), nel condominio costituito da due soli partecipanti il comproprietario, che abbia sostenuto spese necessarie alla conservazione della cosa comune, ha il diritto al rimborso nei confronti degli altri partecipanti alla sola condizione che questi o l'amministratore trascurino di provvedervi. La soluzione – che, dunque, nega l'applicabilità, in materia, dell'art. 1134 c.c. – fonda sulla considerazione che nei condomini minimi è impossibile la costituzione dell'assemblea e dell'amministratore nominato dall'assemblea ex art. 1129 c.c., sicché il condomino non può ottenere l'autorizzazione preventiva richiesta dall'art. 1134 c.c.: tale norma pertanto non trova applicazione, dovendo operare – in virtù del rinvio di cui all'art. 1139 c.c. – la disciplina «ordinaria» dettata per la comunione in generale dall'art. 1110 c.c.; b) secondo il contrapposto orientamento (riconducibile a Cass. II, n. 5914/1993; Cass. II, n. 7181/1997), al contrario, nei condomini costituiti da due partecipanti si applica la disciplina dettata dall'art. 1134 c.c. fondando tale affermazione sulla premessa per cui, ai sensi del tassativo disposto di cui all'art. 1139 c.c., la disciplina in materia di condominio deve essere ricavata dagli artt. 1117-1138 c.c. e, soltanto per quanto non espressamente previsto da tali norme, possono osservarsi le disposizioni sulla comunione in generale. Poiché, dunque, la regolamentazione relativa al rimborso delle spese erogate dal condomino ha, in ambito condominiale, una sua specifica, espressa ed organica disciplina, diversa da quella dettata con riguardo alla comunione ordinaria, il ricorso all'art. 1110 c.c. sarebbe precluso. D'altra parte – si sostiene – la ratio dell'art. 1134 c.c. sarebbe quella di impedire interferenze nell'amministrazione della cosa comune, che è riservata agli organi del condomini e tale esigenza – non avvertita nella comunione in generale (art. 1110 c.c.) – sussiste anche nei condomini minimi. La norma, dunque, deve trovare applicazione anche nei casi in cui non possa costituirsi l'organo deputato all'amministrazione delle parti comuni dell'edificio o lo stesso non sia in grado di esprimere una valida maggioranza: d'altra parte nel condominio costituito da due partecipanti, in difetto del consenso o dell'autorizzazione dell'altro, il comproprietario potrà fare ricorso al procedimento di cui all'art. 1105 c.c., non essendo consentito alcuna iniziativa individuale, salvo per quanto riguarda le spese necessarie ed urgenti. Orbene, la questione è stata infine risolta, come già anticipato nel paragrafo che precede, con intervento reso a Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (Cass., S.U., n. 2046/2006). La motivazione è particolarmente articolata e merita di essere riproposta sia pure per brani: «l'espressione «condominio» designa il diritto soggettivo di natura reale (la proprietà comune) concernente le parti dell'edificio di uso comune e, ad un tempo, l'organizzazione del gruppo dei condomini, composta essenzialmente dalle figure dell'assemblea e dell'amministratore: organizzazione finalizzata alla gestione delle cose, degli impianti e dei servizi. La specifica fisionomia giuridica del condominio negli edifici – la tipicità, che distingue l'istituto dalla comunione di proprietà in generale e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo – si fonda sulla relazione che, nel fabbricato, lega i beni propri e comuni, riflettendosi sui diritti, dei quali i beni formano oggetto (la proprietà esclusiva e il condominio). Le norme dettate dagli artt. 1117,1139 c.c. si applicano all'edificio, nel quale più piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse e un certo numero di cose, impianti e servizi di uso comune sono legati alle unità abitative dalla relazione di accessorietà [...] Il regime del condominio negli edifici – inteso come diritto e come organizzazione – si istaura per legge nel fabbricato, nel quale esistono più piani o porzioni di piano, che appartengono in proprietà esclusiva a persone diverse, ai quali dalla relazione di accessorietà è legato un certo numero di cose, impianti e servizi comuni. Il condominio si costituisce (ex lege) non appena, per qualsivoglia fatto traslativo, i piani o le porzioni di piano del fabbricato vengono ad appartenere a soggetti differenti. Segue che, in un edificio composto da più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a persone diverse, la disciplina delle cose, degli impianti e dei servizi di uso comune, legati ai piani o alle porzioni di piano dalla relazione di accessorietà, sia per quanto riguarda la disposizione sia per ciò che concerne la gestione, è regolata dalle norme sul condominio. In definitiva, l'esistenza del condominio e l'applicabilità delle norme in materia non dipende dal numero delle persone, che ad esso partecipano. [...] D'altra parte, nessuna norma prevede che le disposizioni dettate per il condominio negli edifici non si applichino al «condominio minimo», composto da due soli proprietari. Per la verità, le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina dell'amministratore ed il regolamento di condominio [...] Nessuna norma dettata in materia di condominio contempla il numero minimo (due) dei condomini. Pertanto, se nell'edificio almeno due piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse, il condominio – considerato come situazione soggettiva o come organizzazione – sussiste sulla base della relazione di accessorietà tra cose proprie e comuni e, per conseguenza, indipendentemente dal numero dei partecipanti trovano applicazione le norme specificamente previste per il condominio negli edifici. Si contesta l'applicabilità di talune delle norme di organizzazione (artt. 1120, 1121, 1129, 1130, 1131, 1132, 1133, 1135, 1136, 1137, 1138 c.c.), specialmente di quelle riguardanti il funzionamento del collegio sulla base del principio di maggioranza. Ciò sulla base dell'asserita inapplicabilità del metodo collegiale e del principio maggioritario in presenza di due soli condomini. Ma non è esatta l'affermazione che l'impossibilità di impiegare il principio maggioritario renda inapplicabili ai condomini minimi le norme procedimentali sul funzionamento dell'assemblea e determini automaticamente il ricorso alle norme sulla comunione in generale [...] Nessuna norma contempla l'impossibilità, logica e tecnica, che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso da quello maggioritario. In altre parole, nessuna norma impedisce che l'assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all'unanimità decida validamente. Dalla interpretazione logico-sistematica non si ricava la necessità di operare sempre e comunque con il metodo collegiale e con il principio maggioritario, quindi il divieto categorico di decidere con criteri diversi dal principio di maggioranza (per esempio, all'unanimità): si ricava la disciplina per il caso in cui non si possa decidere, a causa della impossibilità pratica di formare la maggioranza: il che vale non soltanto per il condominio minimo. La disposizione dell'art. 1136 c.c. è applicabile anche al condominio composto da due soli partecipanti: peraltro, se non si raggiunge l'unanimità e non si decide, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all'autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 c.c. L'ipotesi del condominio minimo è del tutto simile ad altre, nelle quali la maggioranza in concreto non si forma [...] a fortiori non sussistono ostacoli all'applicazione anche al condominio minimo delle norme concernenti la situazione soggettiva [...] Quindi, nulla osta che nel caso delle spese anticipate da un condomino trovi applicazione l'art. 1134 c.c. Per la verità, il contemperamento di interessi dettato da questa disposizione si fonda sulla relazione di accessorietà tra beni propri e comuni, essendo la disciplina del rimborso delle spese per le cose, gli impianti ed i servizi comuni dell'edificio stabilita in funzione del carattere strumentale di queste parti rispetto al godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà solitaria, avuto riguardo alla necessità che i condomini sulla gestione interferiscano il meno possibile». La soluzione adottata dalla Corte nel 2006 trova ormai conferma generalizzata: chiarito che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali e riscontrandosi la medesima situazione nel condominio cd. «minimo», ne discende che anche rispetto a quest'ultimo trova applicazione, sia per l'organizzazione interna dell'assemblea che per le situazioni soggettive dei partecipanti, la disciplina di cui agli artt. 1117 e ss. c.c. (Cass. VI-II, n. 20071/2017), la recente Cass. II, n. 9280/2018 ne trae la conseguenza per il condomino facente parte di un condominio minimo ha diritto al rimborso delle spese sostenute per la gestione della cosa comune nell'interesse degli altri proprietari senza autorizzazione degli organi condominiali, solo qualora, ai sensi dell'art. 1134 c.c., dette spese siano urgenti, secondo quella nozione che distingue l'urgenza dalla mera necessità, poiché ricorre quando, secondo un comune metro di valutazione, gli interventi appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa, mentre nulla è dovuto in caso di mera trascuranza dell'altro comproprietario, non trovando applicazione le norme in materia di comunione (in senso del tutto conforme si sono pronunziate anche Cass. VI-2, n. 620/2019; Cass. VI,-2 n. 23740/2017; Cass. II, n. 17393/2017; Cass. II, n. 7457/2015; Cfr. anche Trib. Palmi, 19 novembre 2018). I rapporti tra l'art. 1134 e l'art. 1135 c.c.Interessante, infine, la questione del rapporto, rispetto ai poteri dell'assemblea dei condomini, tra le previsioni contenute nell'art. 1134 c.c. e 1135, comma 2, c.c., ai sensi del quale l'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria (di competenza assembleare, ai sensi del precedente comma 1, n. 4) della medesima disposizione), salvo che rivestano carattere urgente, dovendo però in tal caso riferirne nella prima assemblea. In entrambi i casi, dunque, l'urgenza rappresenta l'elemento discretivo tra ciò che può imputarsi al condominio e ciò, che, al contrario resta ad esso estraneo: diverse, però, sono le conclusioni che la giurisprudenza e la dottrina hanno tratto dall'applicazione dei due precetti. Invero, per quanto concerne l'art. 1135 c.c., nella ricorrenza del presupposto dell'urgenza (non rileva, invece, in senso ostativo all'insorgere del rapporto direttamente tra condominio e terzo, la mancata comunicazione all'assemblea, ad opera dell'amministratore, della spesa: ed infatti, l'obbligo di avviso all'assemblea rientra nel dovere generale che incombe all'amministratore di rendere conto della sua gestione ai condomini e non va, invece, confuso con la necessità di ratifica di un atto esorbitante dal mandato. In termini, cfr. Cass. II, n. 10144/1996; Trib. Salerno, 10 settembre 2010), spetta all'intero condominio retribuire la ditta appaltatrice, senza potersi questa rivalere sull'amministratore, quale «unico» ed effettivo committente (Cass. II, n. 2807/2017), dovendosi il rapporto negoziale ritenersi sorto ex tunc tra condominio (quale committente, sia pure rappresentato dall'amministratore) e terzo appaltatore; quest'ultimo, conseguentemente potrà direttamente esigere, da parte dei condomini, l'adempimento delle obbligazioni conseguenti alla stipulazione dell'appalto (cfr. anche, in termini, Cass. II, n. 6557/2010; Cass. II, n. 4232/1987). Tale soluzione risponde al principio – pacifico e desumibile non solo dall'art. 1131 c.c., che fa riferimento alle attribuzioni elencate nel precedente articolo 1130 c.c., ma anche dall'art. 1133 c.c., che prevede l'obbligatorietà, per tutti i condomini, dei provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri – per cui l'amministratore, allorché agisce nei limiti dei poteri attribuitigli dalla legge o di quelli, eventualmente maggiori, conferitigli dall'assemblea o dal regolamento, rappresenta il condominio, e pertanto, ove ne abbia legittimamente speso il relativo nome, in realtà contrae per conto dello stesso, con conseguente riferibilità diretta dei relativi rapporti all'anzidetto ente di gestione. Ha rappresentato, invece, oggetto di discussione, la questione concernente i rapporti tra amministratore e condominio in ipotesi di difetto del requisito dell'urgenza: problematica risolta in dottrina sostenendo l'estraneità ad essi dei principi di cui all'art. 1134 c.c. (norma volta a regolare solamente i rapporti tra condominio e condomini e che esclude in radice il diritto al rimborso in ipotesi di mancanza di urgenza), con conseguente possibilità, per l'amministratore (diversamente dal condomino – cfr. supra), di agire nei confronti del condominioexart. 2041 c.c., per l'utilità che la propria attività ha comunque arrecato al condominio stesso (Branca, 630). Diversamente è da dirsi, invece, per la possibilità di ratifica della spesa, sostenuta in assenza del carattere dell'urgenza. È noto, infatti, che resta comunque integro il potere dell'assemblea di ratificare la spesa straordinaria disposta dall'amministratore: l'assemblea, cioè, ben può riconoscere, a posteriori e con effetto di ratifica di quanto l'amministratore abbia potuto porre in essere al di là dei poteri conferitigli dalla legge, lavori opportunamente e vantaggiosamente realizzati, ancorché non previamente deliberati, ovvero, a suo tempo, non deliberati validamente, ed approvarne la relativa spesa, restando in tal caso, la preventiva formale deliberazione dell'opera surrogata dall'approvazione del consuntivo della spesa e della conseguente ripartizione del relativo importo fra i condomini (Cass. II, n. 18192/2009; Trib. Bologna, 8 febbraio 2018. In senso contrario, però, Trib. Napoli, 1 giugno 1994). Chiarisce, infatti, Cass. II, n. 4430/2017, che, ove sia mancata la preventiva approvazione assembleare della spesa relativa al progetto originario di opere di manutenzione straordinaria o a sue varianti, non vi è ragione per cui alla ratifica di tale spesa e all'approvazione del relativo riparto, con la necessaria maggioranza, non si possa procedere in sede di rendiconto consuntivo, pur essendo questo la sede in cui – di regola – l'assemblea provvede ad approvare l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e quelle relative ai servizi comuni essenziali. Orbene, non si incontrano ragioni ostative a che tale autorizzazione possa essere «postuma» – e, dunque, intervenire mediante una delibera di «ratifica» della spesa – anche rispetto ad un esborso «non urgente» sostenuto dal condomino non previamente abilitato, dall'assemblea ovvero dall'amministratore, alla gestione della cosa comune. 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