Codice Civile art. 1135 - Attribuzioni dell'assemblea dei condomini (1).

Gian Andrea Chiesi

Attribuzioni dell'assemblea dei condomini (1).

[I]. Oltre a quanto è stabilito dagli articoli precedenti, l'assemblea dei condomini provvede:

1) alla conferma dell'amministratore e all'eventuale sua retribuzione;

2) all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini;

3) all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione;

4) alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, costituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti (2).

[II]. L'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea.

[III]. L'assemblea può autorizzare l'amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato.

(1) Articolo modificato dall'art. 13, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo precedente recitava: «[I]. Oltre a quanto è stabilito dagli articoli precedenti, l'assemblea dei condomini provvede: 1) alla conferma dell'amministratore e all'eventuale sua retribuzione; 2) all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini; 3) all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione; 4) alle opere di manutenzione straordinaria, costituendo, se occorre, un fondo speciale. [II]. L'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea».

(2) L'art. 1, comma 9, d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modif., in l. 21 febbraio 2014, n. 9, ha aggiunto il periodo: «; se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti».

Inquadramento

L'assemblea rappresenta, al pari dell'amministratore, un organo dell'amministrazione del condominio: tale espressione va tuttavia correttamente intesa giacché, se tale definizione è certamente coerente con la posizione di chi riconosce al condominio personalità giuridica, non altrettanto può dirsi avuto riguardo alla posizione di chi, al contrario, nega tale conclusione, riconoscendo nel condominio un ente di gestione sfornito non solo di personalità giuridica, ma finanche di limitata soggettività (Visco, 417). Sicché, appare più corretto, da un punto di vista definitorio, discuterne – sì – in termini di organo, ma in senso lato, senza darle quella caratterizzazione propria degli enti dotati di personalità giuridica.

D'altra parte, la stessa giurisprudenza non fornisce una definizione unitaria dell'assemblea, chiarendo alternativamente che essa sarebbe un organo costituito per la rappresentanza degli interessi della comunione (Cass. II, n. 2246/1961), ovvero l'organo supremo del condominio (Cass. II, n. 2985/1969) ovvero, ancora, la sede per la formazione della volontà del condominio (Cass. II, n. 2343/1976).

L'art. 1135 c.c. demanda alla competenza assembleare molteplici attività quali (1) la conferma dell'amministratore e la determinazione del suo compenso, (2) l'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e la relativa ripartizione tra i condomini, (3) l'approvazione del rendiconto annuale, (4) l'esecuzione di opere di manutenzione straordinaria, costituendo, ove occorra, un fondo speciale, (5) l'autorizzazione all'amministratore per partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato. L'elencazione contenuta nell'art. 1135 c.c. non è, tuttavia, tassativa (spettando all'assemblea il più generale compito di gestire il condominio e disciplinare l'uso e il godimento delle cose comuni) e, in ogni caso, ulteriori compiti dell'organo assembleare sono espressamente indicati in altre norme sparse all'interno del codice civile e delle leggi speciali quali, ad esempio, gli artt. 1117-ter e 1117-quater c.c., in tema di modifiche alle destinazioni d'uso delle parti comuni, gli artt. 1120 e 1121 c.c. in tema di innovazioni, gli artt. 1119 e 1128 c.c., in tema di scioglimento del condominio e ricostruzione dell'edificio parzialmente crollato, gli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c., a proposito della nomina e revoca dell'amministratore, nonché determinazione delle sue funzioni o l'art. 2 l. n. 13/1989 (ora art. 78, del d.P.R. n. 380/2001), in tema di eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici condominiali.

La natura giuridica dell'assemblea di condominio (e della delibera)

Il raffronto tra la normativa dettata in ambito condominiale e quella afferente la comunione ordinaria consegna all'osservatore una realtà più complessa nel primo caso che nel secondo: già da un cursorio e superficiale parallelo tra le due discipline si coglie che, mentre nel condominio il legislatore ha espressamente previsto e normato competenze e funzionamento dell'organo collegiale che coinvolge tutti i compartecipi della gestione delle cose e dei servizi comuni, non altrettanto è da dirsi avuto riguardo alla comunione, ove all'affermazione della giuridica rilevanza ed esistenza dell'assemblea si giunge, sostanzialmente, per via interpretativa, partendo dal principio fondamentale sancito nell'art. 1105, comma 1, c.c. (ai sensi del quale tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune) e sviluppando, poi, le indicazioni contenute nei commi successivi del medesimo articolo, nonché negli artt. 1106-1109 c.c., le quali presuppongono l'esistenza di un luogo ove i comunisti possano «deliberare» (a maggioranza semplice, qualificata o all'unanimità, a seconda dei casi).

La diversità sostanziale tra le due tipologie di assemblea emerge con chiarezza anche dall'esame della giurisprudenza sviluppatasi a proposito del rispettivo regime di convocazione: ed infatti, rappresenta principio costante quello per cui l'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., dettato in tema di condominio di edifici e che fissa in cinque giorni il termine minimo per la comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea ai partecipanti, non è applicabile analogicamente alla convocazione dell'assemblea della comunione, che è disciplinata dall'art. 1105 c.c., il quale non prevede un termine di convocazione, e, quindi, demanda al giudice la valutazione della congruità del termine in concreto concesso (Cass. II, n. 9291/1992). Ma non solo. Si pensi al meccanismo di calcolo delle maggioranze, che nella comunione ordinaria avviene sulla base delle sole quote, mentre nel condominio coinvolge anche i partecipanti, la cui presenza numerica in assemblea incide sui quorum costitutivo e deliberativo (Trib. Napoli, 29 gennaio 1987).

Come anticipato nel precedente paragrafo, la qualificazione della natura giuridica dell'assemblea ha rappresentato oggetto di indagine in dottrina: accanto alle posizioni di chi, riconoscendo al condominio personalità giuridica, ne parla in termini di «organo», non manca chi, riconoscendo nel condominio un ente di gestione sfornito non solo di personalità giuridica, ma finanche di limitata soggettività, la identifica quale «riunione di persone che non perdono la titolarità dei loro diritti» ovvero, ancora, di «organo di controllo con poteri sostitutivi» (Salis 1959, 275). Non manca, infine, chi ne discorre in termini di «organo deliberativo», pur riconoscendo pacificamente l'assenza di personalità giuridica in capo al condominio (Peretti Griva, 446). La questione è ancora attuale all'esito della Riforma del 2012, i cui lavori parlamentari pure avevano tentato la strada del riconoscimento, in favore del condominio, di personalità giuridica: si sosteneva, infatti, l'opportunità di «prevedere la possibilità di attribuire al condominio la capacità giuridica, in modo tale da consentire allo stesso, ove i condomini lo ritengano, di diventare un soggetto di diritto autonomo rispetto agli stessi condomini e, come tale, centro di imputazione di obblighi e diritti [...] L'attribuzione di una limitata capacità giuridica al condominio appare ai proponenti fondamentale ai fini degli atti di conservazione e di amministrazione delle parti comuni dell'edificio e per altri atti espressamente previsti dalla legge. Ciò consente di semplificare e di ridurre anche i costi a carico dei condomini, ad esempio quelli legati alla rappresentanza degli stessi nei confronti di terzi e in giudizio, giacché non vi è dubbio che il condominio costituisce un centro unitario di riferimento di interessi plurisoggettivi che ben può formare centro di imputazione dei rapporti giuridici». Sennonché, tale opzione – da cui sarebbe derivata, a cascata, la certa qualificazione dell'assemblea quale organo in senso proprio del condominio – non è stata accolta dal legislatore della novella, con l'effetto di determinare la persistente attualità della questione.

Né a soluzioni univoche è pervenuta la giurisprudenza la quale, oscillando tra pronunzie che hanno ravvisato in essa un organo costituito per la rappresentanza degli interessi della comunione (Cass. II, n. 2246/1961), ovvero l'organo supremo del condominio (Cass. II, n. 2985/1969) ovvero, ancora, la sede per la formazione della volontà del condominio (Cass. II, n. 2343/1976), si è piuttosto attardata sulla identificazione della natura dell'atto (e, cioè, la delibera) che la volontà assembleare licenzia: costante, a tale riguardo, è l'orientamento che ravvisa in essa un atto collettivo, quale conseguenza della sua natura di atto unilaterale plurisoggettivo (Cass. II, n. 1588/1972; Trib. Firenze, 14 marzo 1963), in cui la fusione delle volontà dei singoli avviene in modo completo solo verso l'esterno (vincolando, cioè, anche assenti e dissenzienti), mentre all'interno della parte dichiarante (i.e., il condominio) esse si mantengono distinte e tutelano l'interesse particolare di chi le ha emesse (nel senso che ciascun condomino agisce singolarmente come portatore di un proprio interesse).

Analogamente, in dottrina (Spoto, 92), si osserva che la struttura collegiale dell'organo deliberativo assembleare funziona attraverso l'applicazione del principio maggioritario, in deroga al principio dell'autonomia del singolo: la volontà di ciascun partecipante confluisce, dunque, nell'atto collettivo ma, per essere idonea a formare quella dell'organo, la volontà del singolo deve essere liberamente manifestata, tanto nella fase – conclusiva – del voto, ma anche nell'ambito dello svolgimento dei lavori assembleari (donde la conclusione nel senso dell'annullabilità della delibera assembleare allorché, nel corso della discussione, sia stato di fatto impedito ad uno dei partecipanti di intervenire o argomentare la propria tesi relativamente al punto dell'ordine del giorno oggetto di trattazione). Non sempre univoche sono state, al contrario, le conseguenze che da tali conclusioni si sono tratte, con precipuo riferimento alla legittimazione alla impugnazione del deliberato in ipotesi di mancata convocazione di un condomino (sul punto si tornerà, ad ogni modo, infra).

Al contrario, del tutto consolidate sono le conclusioni che, in relazione a fattispecie diverse da quella di cui si è appena detto, sono state fatte discendere dalla menzionata natura delle deliberazioni assembleari. Precisamente a) dalla esecuzione di una deliberazione adottata con la prescritta maggioranza nell'ambito riservato alla competenza e discrezionalità di valutazione della assemblea in relazione alle parti comuni dell'edificio, non può normalmente derivare alcuna responsabilità per fatto illecito o contrattuale a carico della maggioranza che ha approvato la deliberazione nei confronti della minoranza dissenziente (Cass. II, n. 7831/1990). Ed infatti, tendendo il voto alla formazione della volontà del condominio, le volontà dei singoli confluiscono e si fondono in quella unitaria dell'organo, diluendosi in essa (Trib. Torino, 12 novembre 1969); b) qualora la delibera assembleare di un condominio di edificio venga annullata, alla manifestazione di voto, a suo tempo espressa dai singoli condomini che concorsero alla sua approvazione, non può attribuirsi l'efficacia di un'assunzione di obblighi a titolo personale nei confronti dei terzi. Infatti, le manifestazioni di voto espresso dai singoli condomini, essendo diretta a formare la volontà dell'assemblea con effetto vincolante per tutti i condomini, anche dissenzienti o assenti, vincolano i soggetti che lo hanno espresso soltanto a condizione che si formi una valida deliberazione assembleare, peraltro, in base al principio dell'apparenza accolto dall'art. 2377, comma 2, c.c. per le società ed applicabile, per identità di ratio, anche in tema di condominio, restano salvi, e sono, pertanto, azionabili nei confronti del condominio e dei singoli condomini i diritti acquistati da terzi in buona fede, in esecuzione della deliberazione impugnata, anteriormente al suo annullamento (Cass. II, n. 1561/1976; Trib. Firenze, 14 marzo 1963); c) rientra nei poteri attribuiti dall'art 1135 c.c. all'assemblea condominiale l'adozione di una deliberazione intesa all'adesione del condominio ad un'associazione (nella specie, associazione della proprietà edilizia) la quale – per i servizi prestati e per l'opera di coordinamento realizzata a vantaggio della categoria – consenta ai singoli condomini un miglior godimento delle parti comuni dello edificio; tuttavia, poiché tale adesione riguarda il condominio – inteso come organizzazione di gruppo normativamente tipizzata – e solo in via indiretta e mediata riflette effetti sui vari condomini, quali facenti parte del gruppo, la deliberazione assembleare suddetta non incide sulla sfera di libertà dei condomini uti singuli, garantita dall'art. 18 Cost. (Cass. II, n. 227/1977); d) la deliberazione condominiale può avere rilevanza di atto di natura negoziale e, in particolare, di atto di ricognizione di debito da parte del condominio nei confronti di un terzo (Cass. II, n. 5759/1980). In particolare, la deliberazione dell'assemblea di condominio che procede all'approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall'amministratore ha valore di riconoscimento di debito solo in relazione alle poste passive specificamente indicate (cfr., in tal senso, ad es., Trib. Vicenza, 17 gennaio 2019, relativamente ai lavori straordinari condominiali approvati col consuntivo, limitatamente, per l'appunto, alle poste passive in quest'ultimo specificamente indicate); sicché ove il rendiconto evidenzi un disavanzo tra le entrate e le uscite, l'approvazione dello stesso non consente di ritenere dimostrato, in via di prova deduttiva, che la differenza sia stata versata dall'amministratore con denaro proprio, poiché la ricognizione di debito richiede un atto di volizione, da parte dell'assemblea, su un oggetto specifico posto all'esame dell'organo collegiale (Cass. II, n. 10153/2011). Simmetricamente, Cass. II, n. 1588/1972 riconosce che alla deliberazione può accedere, senza perdere la propria autonomia, una dichiarazione di scienza (confessione) o di volontà (negozio unilaterale recettizio) o mista (ricognitiva e confessoria insieme) di un condomino, relativa ad un saldo debitorio di precedenti gestioni o della gestione alla quale si riferisce la deliberazione, con efficacia di diritto sostanziale (accertativa, ricognitiva, ecc) od anche meramente processuale (promissoria) nei confronti del condominio, quale diretto destinatario ed indipendentemente dall'accettazione di quest'ultimo; e) del pari, si è chiarito che i poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini (Cass. II, n. 26468/2007). In applicazione di tale principio si è allora affermato che, posto che il regolamento predisposto dall'originario unico proprietario, ovvero dai condomini con consenso totalitario può non avere natura necessariamente contrattuale – e tanto se le sue clausole si limitano a disciplinare l'uso dei beni comuni, pure se immobili – mentre è necessaria l'unanimità dei consensi di tutti i condomini per modificare il regolamento convenzionale, avendo questo la medesima efficacia vincolante del contratto, è invece sufficiente una deliberazione a maggioranza dell'assemblea per apportare variazioni al regolamento che non abbia tale natura; simmetricamente, poiché solo alcune clausole di un regolamento possono avere carattere contrattuale, l'unanimità dei consensi è richiesta esclusivamente per la modifica di dette clausole e non per le altre clausole per la cui variazione è sufficiente la delibera assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. II, n. 17694/2007). Ciò non implica, peraltro, che una delibera assunta all'unanimità sia per ciò stesso assimilabile ad un negozio, stante la diversa efficacia tra l'uno e l'altra: cionondimeno, pacificamente essa può esprimere, indipendentemente dall'indicazione all'ordine del giorno ed ove assunta all'unanimità, la volontà negoziale dei partecipanti (Cass. II, n. 982/1998): in particolare ciò accade laddove la deliberazione costituisca l'occasione per un incontro di volontà provenienti da soggetti diversi (i condomini), titolari di contrapposti interessi, che attraverso l'unanime consenso possano ritenersi avere raggiunto un accordo di tipo contrattuale (Trib. Roma, 25 gennaio 1967); f) portando a conseguenze estreme il ragionamento, si è finanche sostenuto che la delibera assembleare assunta all'unanimità, ancorché invalida perché esorbitante dalle attribuzioni dell'assemblea, può comunque assumere rilevanza nei rapporti tra i condomini, impegnandoli validamente ad osservare il proprio contenuto, ove non difetti dei requisiti di sostanza e forma richiesti per il negozio che essa è destinata ad integrare (Cass. II, n. 1830/1976): il principio trova corrispondenza in quello, precedente, affermato da Cass. II, n. 2916/1969, per cui i provvedimenti adottati all'unanimità dai condomini, al di fuori dell'assemblea (ad es., mediante separata raccolta delle sottoscrizioni di tutti), derivano la loro efficacia vincolante dal valore contrattuale dell'atto, ed applicazione in quello, successivo, posto da Cass. II, n. 2297/1996, per cui il verbale di assemblea condominiale può essere impiegato per consacrare particolari accordi fra il condominio ed uno dei condomini, purché il documento sia sottoscritto da tutti i contraenti, così acquisendo effetto probante e la funzione propria della scrittura privata, facendo fede della manifestazione di volontà contrattuale di tutti gli intervenuti e valendo la sottoscrizione a conferire alla convenzione la forma scritta che sia richiesta ad substantiam ovvero ad probationem (cfr. anche Cass. II, n. 8079/1995). Ancor più esplicita Cass. II, n. 4480/1981, la quale chiarisce che un verbale di assemblea condominiale ben può essere utilizzato allo scopo di manifestare una volontà negoziale degli intervenuti o di alcuni di essi ma, se per il negozio è richiesta la forma scritta ad substantiam, in tanto è soddisfatto il requisito formale, in quanto le parti del negozio abbiano proceduto alla sottoscrizione di detto verbale, poiché, ove lo scritto sia prescritto ad substantiam, la sottoscrizione è essenziale ai fini dell'operatività ed efficacia della manifestazione della volontà negoziale: conseguentemente, la sottoscrizione del verbale di assemblea solo da parte del presidente e del segretario non è idonea ad integrare il suindicato requisito di forma, relativamente a negozi di cui siano parti altri soggetti; g) ove esprimano una volontà negoziale, le delibere assembleari devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 ss. c.c., privilegiando, innanzitutto, l'elemento letterale, e quindi, nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti (Cass. II, n. 28763/2017); h) la delibera assembleare può essere anche l'occasione per denunziare i vizi della cosa venduta: seppure, infatti, la denuncia dei vizi della cosa acquistata debba essere comunicata al venditore da parte dell'acquirente o da un suo incaricato, essa non deve tuttavia rivestire forma o contenuto particolari, con la conseguenza che realizza tale finalità l'assemblea condominiale, alla quale abbiano partecipato tanto il compratore che il venditore di un appartamento, nella quale si sia discusso dei vizi dell'immobile ed ove si sia deliberata l'esecuzione dei lavori necessari per la loro eliminazione, avvenendo, nel processo formativo della volontà condominiale, uno scambio di dichiarazioni reciprocamente espresse e ricevute da acquirente ed alienante (Cass. III, n. 3907/1981).

Le deliberazioni dell'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini, inclusi quelli dissenzienti, cui spetta unicamente la facoltà di impugnazione.

Stante la natura composita delle deliberazioni assumibili dalla assemblea e, più in particolare, la distinzione ontologica esistente tra le diverse questioni e materie passibili di discussione, Cass. VI, n. 16675/2018 ha evidenziato come sono astrattamente configurabili altrettanto diverse ragioni di invalidità attinenti all'una o all'altra decisione, non necessariamente comuni a tutte; ogni decisione segue una “sorte” sua propria, delimitata dal perimetro dell'originaria opposizione: “nel senso che, (a) non solo la natura impugnatoria del giudizio ex art. 1137 c.c. individua (sia pure con le doverose precisazioni che verranno svolte infra, a proposito della nullità della delibera impugnata) il vizio la cui ricorrenza, in concreto, il giudice è chiamato ad indagare (ed infatti, ogni domanda di declaratoria di invalidità di una determinata delibera dell'assemblea dei condomini si connota per la specifica esposizione dei fatti e delle collegate ragioni di diritti, ovvero per una propria causa petendi, che rende diversa, agli effetti degli artt. 183 e 345 c.p.c., la richiesta di annullamento di una delibera dell'assemblea per un motivo diverso da quello inizialmente dedotto in giudizio), ma (b) la domanda concernente la declaratoria di invalidità di una delibera dell'assemblea dei condomini per un determinato motivo e con riferimento ad un determinato capo all'ordine del giorno neppure consente al giudice, nel rispetto del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), di procedere all'annullamento delle altre delibere adottate nella stessa adunanza, sia pure per la medesima ragione esplicitata dall'attore con riferimento alla deliberazione specificamente impugnata”(Chiesi, 2018).

Sennonché, il dissenso del condominio nei confronti delle delibere adottate in sede assembleare assume particolare rilievo nel caso di deliberazioni volte ad impegnare il condominio in controversie giudiziarie: “per l'art. 1132 c.c., qualora l'assemblea dei condomini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere ad una domanda, il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa, dal che si deduce che permane la solidarietà passiva esterna del separatista. Peraltro, se l'esito della lite è stato favorevole al condominio il dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente. Qualora la controversia, poi, sia insorta tra il condominio ed un condominio il primo può pretendere che questi se, soccombente, partecipi pro quota alle spese sopportate in lite e non ripetibili. Non si ritiene, del resto, necessaria per la separazione di responsabilità da parte del condominio contraddittore una apposita notifica all'amministratore, essendo tale volontà già allo stesso resa nota in forma privilegiata con la notifica dell'atto introduttivo del giudizio” (Girino-Baroli 1988).

I poteri gestori dell'assemblea

Nei casi in cui la nomina di un amministratore è facoltativa (i proprietari esclusivi dei piani o porzioni di piano, dunque, sono in numero uguale ovvero inferiore a otto: cfr. l'art. 1129, comma 1, c.c.) ovvero sia obbligatoria ma non si sia comunque provveduto alla stessa, sull'assemblea grava l'intero onere dell'amministrazione del condominio; se, invece, l'amministratore sia stato nominato, tali oneri sono ripartiti tra i due organi, nel senso che grava sull'amministratore il disbrigo delle attività contemplate nell'art. 1130 c.c., ovvero di quelle ulteriori previste dal regolamento, ex art. 1131, comma 1, c.c., mentre spetta all'assemblea (art. 1135 c.c.) l'assunzione di tutte le altre scelte inerenti la gestione della cosa comune. Come anticipato in apertura, si tratta, quindi, della stessa nomina dell'amministratore, dell'approvazione del preventivo di spesa e del rendiconto annuale, degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione nonché di quelli di ordinaria amministrazione, ma rimessi al vaglio dell'assemblea medesima da parte dell'amministratore. L'assemblea del condominio ha, ancora, il potere di decidere le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nonché di modificare quelle in atto, anche revocando una o precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti e stabilendone liberamente gli effetti, sulla base di una rivalutazione - il cui sindacato è precluso al giudice di merito, se non nei limiti dell'eccesso di potere - dei dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, non producendosi alcun autonomo diritto acquisito in capo ai condomini, ovvero ai terzi, soltanto per effetto ed in sede di esecuzione della precedente delibera (Cass. II, n. 2636/2021).  Alla luce della novella introdotta dalla l. n. 220/2012, spetta altresì all'assemblea autorizzare l'amministratore a collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato; ulteriori competenze sono individuate nel codice civile, nelle disposizioni di attuazione e nelle leggi speciali. È stato comunque chiarito che l'assemblea condominiale – atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall'art. 1135 c.c.può assumere, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche se non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, purché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale.

Discende da quanto precede, quale inevitabile conseguenza, che le deliberazioni dell'assemblea dei condomini non sono impugnabili per difetto di competenza, ma restano soggette all'impugnazione a norma dell'art. 1137 c.c. soltanto per contrarietà alla legge o al regolamento di condominio, nella quale contrarietà confluisce ogni possibile deviazione del potere decisionale verso la realizzazione di fini estranei alla comunità condominiale (Cass. II, n. 5130/2007; Cass. II, n. 4437/1985).

L'argine estremo posto all'operato dell'assemblea è, quindi, costantemente segnato dalla sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni che a quelle esclusive, a meno che non si tratti di sconfinamenti specificamente accettati dagli stessi condomini negli atti di acquisto, oppure mediante approvazione del regolamento di condominio che li contempli (Scarpa 2013, 687).

Così, ad esempio, è stato recentemente affermato (Cass. II, n. 8014/2018) che la delibera di un condominio che disciplini il godimento di un'area esterna alle mura perimetrali dell'edificio, assegnando direttamente i posti macchina sulla stessa insistenti ai condomini, è nulla, qualora la detta area sia rimasta di proprietà del costruttore del fabbricato e gli acquirenti degli immobili, sia pur illegittimamente privati del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio, non abbiano tuttavia preliminarmente agito per accertare giudizialmente la nullità dei negozi da loro stipulati, nella parte in cui era stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione ope legis.

Del pari, Cass. II, n. 14300/2020 ha precisato che nell'ambito dei lavori straordinari, il condominio non può imporre i lavori in tutte le unità immobiliari anche se servono ad ammodernare l'impianto elettrico, non potendo l'assemblea invadere la sfera di proprietà dei singoli partecipanti, a meno di un'accettazione esplicita degli interessati.

Una gravosa limitazione ai poteri dell’assemblea deriva, poi, dall’eventuale sottoposizione delle unità di proprietà esclusiva e delle parti comuni dell’edificio condominiale a sequestro preventivo penale: assumendo quale tertium comparationis la giurisprudenza civile e penale formatasi (già prima dell’applicabilità del testo dell’art. 3352, ultimo comma, c.c., introdotto dal d. Igs. 17 gennaio 2003, n. 6) in relazione al sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di quote o azioni di società – “secondo la quale la misura cautelare reale, in quanto volta ad evitare che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati, priva i soci dei diritti relativi alle quote, sicché la partecipazione alle assemblee ed il diritto di voto spettano al custode designato in sede penale, rilevando a tal fine non la titolarità del patrimonio sociale ma la sua gestione (Cass. civ. Sez. 1, 11/11/2005, n. 21858; Cass. civ. Sez. 1, 18/06/2005, n. 13169; Cass. pen. Sez. 5, 22/01/2010, n. 16583, dep. 29/04/2010; Cass. pen. Sez. 5, 13/04/2004, n. 21810, dep. 07/05/2004; Cass. pen. Sez. 5, 11/11/1997, n. 5002, dep. 28/01/1998; Cass. pen. Sez. 6, 07/07/1995, n. 2853, dep. 07/09/1995)” - Cass. II, n.  23255/2021 ha evidenziato che, poiché “la funzione cui è preordinato il vincolo di indisponibilità correlato al sequestro penale preventivo non è tanto quella d'impedire la cessione a terzi del bene sequestrato e di conservarlo perciò nel patrimonio del suo titolare, o di consentirne comunque la successiva apprensione ad opera dell'avente diritto, quanto, piuttosto, quella di evitare che quel bene possa essere adoperato dal proprietario per esplicare a proprio vantaggio le utilità in esso insite. La "libera disponibilità", di cui all'art. 321 c.p.p., è, dunque, sinonimo di libera utilizzabilità del bene, ed è questa che il vincolo intende impedire”, ne ha tratto la conclusione per cui “quando il sequestro preventivo penale abbia ad oggetto un edificio condominiale, e quindi tanto le unità immobiliari di proprietà esclusiva quanto le parti comuni di esso, il vincolo di indisponibilità (id est, inutilizzabilità) colpisce sia i diritti e le facoltà individuali inerenti al diritto di condominio (ivi compresi il diritto d'intervento e di voto in assemblea), sia i poteri rappresentativi dell'amministratore di cui agli artt. 1130 e 1131 c. c. (che consistono principalmente nella gestione delle cose comuni, nella conservazione e manutenzione di esse e nella disciplina del loro uso), sia i poteri conferiti specificamente all'assemblea dall'art. 1135 c.c.”. In particolare, l'affidamento delle parti comuni dell'edificio in condominio ad un custode ha, in siffatta evenienza, la sua ragion d'essere nell'esigenza - giustificata, appunto, dalle evidenziate ragioni di preventiva cautela penale che determinano il sequestro - di sottrarre ai condomini ed agli organi del condominio la possibilità di continuare a gestire detti beni, esercitando i diritti e le attribuzioni ad essi correlati, con concentrazione delle attività gestorie nelle mani dell'ausiliare del giudice; stratta, evidentemente, di un vincolo avente carattere di provvisorietà, come si ricava dall'art. 323 c.p.p., ma, finché esso perdura, “l'assemblea rimane priva delle proprie competenze di gestione, con conseguente nullità delle deliberazioni adottate nel periodo di efficacia del provvedimento di sequestro preventivo del condominio. La derivante limitazione dell'esercizio dei diritti dominicali dei condomini, in vigenza del sequestro preventivo penale, rimane così giustificata sia dal carattere temporaneo della indisponibilità sia dalle esigenze di natura pubblicistica sottese all'art. 321 c.p.p., potendo gli stessi esperire la tutela prevista dall'art. 322 c.p.p. Rimane ovviamente salva la possibilità che il giudice penale limiti in concreto i poteri attribuiti al custode dell'edificio condominiale in sequestro, rendendoli compatibili con una permanente residuale disponibilità gestoria da parte dell'amministratore o dell'assemblea, ciò costituendo oggetto di accertamento di fatto che deve compiersi nel processo di merito ove sorga questione al riguardo”.

Quello dei limiti al potere assembleare è, ad ogni buon conto,  il campo in cui si è sviluppata la nozione di eccesso di potere (per il primo risalente intervento in materia cfr. Cass. II, n. 3177/1978), con tale espressione intendendosi le deliberazioni volte a perseguire interessi diversi da quelli collettivi dell'«ente» condominio. L'istituto è geneticamente e funzionalmente collegato al diritto amministrativo, al cui interno ci si è sbizzarriti nella individuazione e definizione delle relative «figure sintomatiche»: dottrina e giurisprudenza, tuttavia, hanno ritenuto la stessa estensibile anche all'ipotesi in commento, in quanto la situazione cui fare sostanzialmente riferimento è esattamente la medesima, sebbene l'esercizio «distorto» del potere non provenga dalla pubblica amministrazione, bensì da privati. Tale sostanziale differenza ha, tuttavia, dei risvolti pratici di non poco rilievo, giacché mentre nel diritto amministrativo la figura dell'eccesso di potere fornisce uno strumento impugnatorio diretto a superare la posizione di tendenziale sperequazione tra parte pubblica e quella privata, nel diritto privato essa invece ha la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità di espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (società o condomini) che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito predominio della maggioranza nei confronti del singolo: in questi casi però il controllo va coniugato con la sussistenza di un interesse dell'ente collettivo che contemporaneamente ne verrebbe leso (Cass., II, n. 4216/2014). La sua configurabilità in ambito condominiale non si ricava dalle specifiche disposizioni in materia (non ve n'è menzione, infatti, né negli artt. 1135-1136 c.c., né nell'art. 1137 c.c., precipuamente dedicato alla regolazione della fase di impugnazione delle delibere), ma dall'art. 1109, comma 1, c.c. – dettato in materia di comunione ed applicabile in ambito condominiale in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c. (Cass. II, n. 25128/2008) – alla cui stregua ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all'autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza, se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune. In breve, può accadere che, pur nel rispetto e nella presenza della prescritte maggioranze, la deliberazione non solo non risulti conveniente – dato, questo, che da solo non consentirebbe comunque l'impugnazione della delibera, irrilevanti essendo i motivi a quest'ultima sottesi e, simmetricamente, le finalità perseguite dai comunisti – ma addirittura comporti un nocumento grave alla res comune (in particolare, recando alla stessa un danno effettivo, non essendo sufficiente la prospettazione di un mero pericolo): in tale eventualità, dunque, il Giudice verifica «la causa del provvedimento adottato, in quanto essa sia o non falsamente deviata dal suo normale modo di essere e quindi se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'assemblea» (Cass. II, n. 10611/1990).

Estremamente chiara, circa i limiti di intervento dell'Autorità giudiziaria in materia, è Cass. II, n. 5889/2001, la quale evidenzia come il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l'assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, si rivolge anche all'eccesso di potere, ravvisabile quando la causa della deliberazione sia falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso il giudice non controlla l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve solo stabilire se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'assemblea: in particolare, il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere assembleari – si legge in Cass. n. 5061/2020 - è limitato ad un riscontro di legittimità della decisione, avuto riguardo all'osservanza delle norme di legge o del regolamento condominiale ovvero all'eccesso di potere, inteso quale controllo del legittimo esercizio del potere di cui l'assemblea medesima dispone, non potendosi invece estendere al merito ed al controllo della discrezionalità di cui tale organo sovrano è investito; ne consegue che ragioni attinenti alla opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio possono essere valutate soltanto in caso di delibera che arrechi grave pregiudizio alla cosa comune, ai sensi dell'art. 1109, comma 1, c.c. (nello stesso senso cfr. anche, Cass. II, n. 4430/2017 e Cass. II, n. 1890/1995 nonché, in maniera ancor più puntuale, Cass. VI-II, n. 20135/2017, per cui il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere assembleari non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità di cui dispone l'assemblea, quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi ad un riscontro di legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l'eccesso di potere, purché la causa della deliberazione risulti – sulla base di un apprezzamento di fatto del relativo contenuto, che spetta al giudice di merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all'art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l'opportunità o convenienza della soluzione adottata dall'impugnata delibera, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell'assemblea. Ne consegue che esulano dall'ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la vantaggiosità della scelta operata dall'assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose e ai servizi comuni - quali, nella specie, l'erogazione del compenso all'amministratore, la stipulazione di un contratto di assicurazione, la predisposizione di un fondo cassa per le spese legali). Conforme anche la giurisprudenza di merito: cfr., ex plurimis, Trib. Trani, 13 giugno 2019; Trib. Benevento, 26 aprile 2019; Trib. Roma, 17 aprile 2019; Trib. Siena, 27 novembre 2018; Trib. Milano, 16 gennaio 2017; Trib. Lecco, 13 giugno 2014; Trib. Perugia, 29 marzo 2014; Trib. Milano, 25 marzo 2014; Trib. Roma, 2 maggio 2012; Trib. Salerno, 30 gennaio 2010; Trib. Busto Arsizio, 16 ottobre 2000; Trib. Genova, 13 febbraio 2000; Trib. Milano, 30 novembre 1995. Ad ogni buon conto, tra le decisioni di maggiore interesse in proposito, riscontrabili nella casistica giurisprudenziale, va segnalata anzitutto Cass. II, n. 731/1988 che ha confermato la decisione dei giudici di merito, di annullamento per eccesso di potere di una deliberazione dell'assemblea condominiale, per essersi con essa approvato un rendiconto non veridico con riguardo ai debiti verso l'I.N.P.S., e per essersi in tal modo superati, ad opera dell'assemblea, i limiti della sua discrezionalità: «né può dubitarsi – si legge in motivazione – dell'esistenza del detto vizio, in quanto la Corte d'Appello, premesso che nel rendiconto era riportato il pagamento all'I.N.P.S. di una somma di denaro (L. 335.604) maggiore della differenza tra il debito risultante all'inizio dell'anno contabile (L. 25.944.556) e quello alla sua scadenza (L. 19.641.556), ha escluso che tale divergenza consista in un mero vizio formale o in un errore di calcolo, osservando, con incensurabile apprezzamento di fatto, che anche la difesa dell'appellante aveva ammesso il pagamento all'I.N.P.S., dopo la scadenza dell'anno contabile, di somme di denaro che nel rendiconto risultavano essere state già versate, e che la precisazione della stessa difesa secondo cui questo pagamento era avvenuto prima della riunione dell'assemblea, svoltasi il 26 settembre 1980, non poteva avere concluso né l'illegittimità del rendiconto, derivante dalla riscontrata divergenza contabile, né della deliberazione che lo aveva approvato». Quindi, più recentemente, Cass. II, n. 3938/1994, la quale ha affrontato il caso di un ricorso con cui si addebitava alla delibera impugnata la eccessiva gravosità della spesa approvata dall'assemblea rispetto a riparazioni straordinarie che avrebbero potuto esser eseguite con minore aggravio. Nella specie, la Corte ha escluso che si potesse discorrere di eccesso di potere, rilevando come l'assunto dei ricorrenti prospettasse, in realtà, un sindacato di merito dei criteri che hanno determinato la soluzione adottata dall'assemblea condominiale in quanto, senza dedurre alcun contrasto fra il contenuto della delibera e le norme della legge o del regolamento, si censurava l'apprezzamento di fatto da parte della maggioranza nella scelta di un preventivo di spesa, rispetto ad altro asseritamente più vantaggioso: «ora è evidente – afferma la Corte – che il sindacato dell'autorità giudiziaria richiesto dai ricorrenti nel caso in esame non è ammissibile in quanto non viene contestata la validità della delibera sotto il profilo della legittimità, ma soltanto la opportunità della scelta operata dalla assemblea e perciò al di fuori dei casi in cui è ammesso l'intervento del giudice.

I soggetti legittimati ad intervenire all'assemblea

Sarebbe inesatto sostenere – come pure viene sovente impropriamente affermato, in dottrina come in giurisprudenza – che all'assemblea partecipano i condomini: essere «organo» decisionale del condominio non vuol dire, infatti, che la sua composizione debba essere limitata ai soli proprietari esclusivi, potendo le deliberazioni concernere argomenti che, in realtà, riguardano (anche) altri soggetti. Non a caso, dunque, i novellati artt. 1136, comma 6, c.c. e 66, comma 3, disp. att. c.c. fanno riferimento, relativamente ai soggetti invitati a partecipare alla riunione assembleare, agli «aventi diritto», con tale formula omnicomprensiva facendosi riferimento, dunque, anche ai titolari di diritti reali o personali di godimento su unità in proprietà esclusiva. La categoria degli “aventi diritti” sembra potersi collocare, cioè, a metà strada tra i partecipanti in senso stretto/condomini ed i partecipanti in senso lato (cfr. il commento all'art. 1118 c.c.), giacché essa non ricomprende i soli proprietari, ma neppure si estende al punto di ricomprendere, per ogni deliberazione, tutti coloro che vantano sulle unità immobiliari in condominio diritti personali o reali di godimento: così, ad esempio, solo laddove si tratti di assemblea in cui si discuta delle spese e della modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e condizionamento dell'aria, ai sensi degli artt. 9 e 10 della l. n. 392 del 1972, avente diritto è il conduttore (cfr. Cass., 18 agosto 1993, n. 8755) mentre, per tutte le altre deliberazioni, avente diritto è il proprietario (arg. da Cass., 18 agosto 1993, n. 8755) potendo il conduttore, al più, in caso di approvazione di una delibera che arrechi pregiudizio, ovvero molestia, all'esercizio del suo diritto di godimento dell'immobile, avvalersi delle tutele di cui agli artt. 1585 e 1586 c.c. (Cass., 30 maggio 2023, n. 15222); del pari, nel caso di assemblea in cui si discuta di spese non eccedenti l'ordinaria amministrazione ovvero di semplice godimento dei beni e servizi, ex art. 67, comma 6, disp. att. c.c., avente diritto è l'usufrutturario e non il nudo proprietario (cfr. anche Cass., 4 luglio 2013, n. 16774).

In tal senso, peraltro, al fine di limitare il più possibile il fenomeno dell'apparenza del diritto all'interno del condominio e, in ogni caso, situazioni di incertezza in ordine alla titolarità di posizioni giuridiche soggettive rilevanti sulle unità immobiliari ubicate nel condomini, la novella ha introdotto tra i compiti dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 6), c.c. quello di curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza; la novella prevede, altresì, l'obbligo di comunicare ogni variazione dei dati, in forma scritta, entro sessanta giorni, prevedendo la facoltà per amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, di richiedere con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe decorsi trenta giorni dal ricevimento della quale, in caso di omessa o incompleta risposta, l'amministratore è abilitato a ricercare le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili.

In linea generale, assumendo come impostazione di massima quella del parallelismo tra soggetto tenuto al pagamento degli oneri condominiali conseguenti alle delibere assembleari e soggetto legittimato a votare in queste ultime, l'art. 67 disp. att. c.c. prevede che all'assemblea possano intervenire il condomino (comma 1), l'usufruttuario o il nudo proprietario, a seconda dell'oggetto della deliberazione (commi 6 e 7), nonché un solo rappresentante della comunione, ove l'unità immobiliare versi in stato di comproprietà  (anche laddove questa derivi dal regime di comunione legale. Arg. da Cass. II, n. 27772/2023) tra più soggetti (comma 2); ugualmente, l'art. 10, della l. n. 392/1978 riconosce al conduttore il diritto di (partecipazione e di) voto, nelle deliberazioni relative alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria. La medesima disciplina prevista per l'usufruttuario si ritiene inoltre applicabile, sia pure per via interpretativa, all'habitator, all'ipotesi, cioè, di unità immobiliare gravata da diritto di abitazione: chiarisce, infatti, Cass. II, n. 9920/2017 che, qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di diritto reale di abitazione, il titolare di quest'ultimo è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria applicandosi, in forza dell'art. 1026 c.c., le disposizioni dettate in tema di usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 c.c. – che si riflettono anche, come confermato dall'art. 67 disp. att. c.c., sul pagamento degli oneri condominiali, costituenti un'obbligazione propter rem. Se, dunque, il rinvio codicistico è alle disposizioni in tema di usufrutto e si considera, altresì, che la presenza di un diritto di abitazione su di un immobile in condominio deve essere segnalato all'amministratore, per l'aggiornamento del registro di anagrafe condominiale, ex art. 1130, n. 6), c.c. (contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali), non può che trarsene la inevitabile conclusione dell'estensibilità dei commi 6-8 dell'art. 67 disp. att. c.c. all'habitator, con conseguente suo diritto – intangibile dal regolamento, al pari di quanto accade per l'usufruttuario – ad essere convocato all'assemblea quale «avente diritto» e ad esprimervi il voto nelle materie di spettanza. Non sempre, però, il parallelismo di cui si è detto viene rispettato: ad esempio, con riferimento al conduttore, l'art. 10 cit. non contempla la sua partecipazione all'assemblea nelle altre materie in cui, ai sensi dell'art. 9 della medesima l. n. 392, grava su costui l'obbligo di sostenere gli oneri condominiali (sul punto si rinvia ai commenti agli artt. 1136 c.c., nonché 66 e 72 disp. att. c.c.).

Chiarisce, inoltre, Cass. II, n. 19131/2015 che le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell'intero edificio, sia ai fini del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio, i quali possono (e non debbono) astenersi dall'esercitare il diritto di voto, ferma la possibilità per ciascun partecipante di ricorrere all'autorità giudiziaria in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio: sicché, anche se è ravvisabile un potenziale conflitto d'interessi tra condomini, nel calcolo della maggioranza richiesta per approvare la delibera si deve comunque tener conto del voto dei condomini e dei loro millesimi anche se in conflitto d'interessi (conforme, Cass. II, n. 1202/2002).

Tale conflitto di interessi tra condomino e condominio, peraltro, manifestandosi al momento dell'esercizio del potere deliberativo e vertendo sul contrasto tra l'interesse proprio del partecipante al voto collegiale e quello comune della collettività, è sussumibile nella fattispecie disciplinata dall'art. 2373 c.c. e non in quella prevista dall'art. 1394 c.c., in cui, al contrario, il conflitto si palesa al momento di esercizio del potere rappresentativo e fonda sul contrasto tra l'interesse personale del rappresentato e quello, pure personale, del rappresentante (Cass. II, n. 1853/2018).

Contesta, tuttavia, tale conclusione parte della dottrina (Voi 2017, 16) la quale muove dal rilievo per cui, nell'affermare l'anzidetto principio, “la Cassazione non sembra approfondire la riforma dell'istituto del 2012 e nemmeno prendere in considerazione la sentenza delle S.U., 18 settembre 2014, n. 19663che ha introdotto il concetto di una “attenuata personalità giuridica e comunque sicuramente in atto di una soggettività giuridica autonoma” del condominio. Stiamo infatti assistendo ad una soggettivizzazione dell'interesse del condominio, cioè per le sezioni unite il condominio è un soggetto di diritto poiché come affermato in sentenza: “è da sottolineare l'obbligo dell'amministratore, posto dall'art. 1129, comma 12, n. 4, nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dalla citata l. n. 220/2012, art. 9 di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio e il patrimonio personale suo o di altri condomini, così come la costituzione di un fondo speciale, prevista dall'art. 1135, n. 4), c.c., come sostituito dall'art. 13 della citata legge, e, soprattutto, la previsione, di cui all'art. 2659 c.c., comma 1 come riformulato dall'art. 17 della cit. stessa, in tema di note di trascrizione, secondo la quale, per i condomini è necessario indicare l'eventuale denominazione, l'ubicazione e il codice fiscale”. Importante è ancora evidenziare come la legge di riforma all'art. 1117-ter c.c. ha introdotto il concetto di “interesse condominiale” per quanto riguarda le possibili modificazioni delle parti comuni”. A ciò aggiungasi anche che senza voler considerare la soggettività del condominio, il singolo condomino ha, per un interesse proprio – di tipo “egoistico” – all'uso ed al godimento delle parti comuni: un interesse spesso divergente ed in potenziale conflitto con gli altri condomini: “[sicché] l'interesse egoistico del singolo deve confrontarsi e non compenetrarsi o sommarsi con gli interessi degli altri condomini. Si deve allora ritenere che il condomino che fa causa al condominio (rectius agli altri condomini) è in conflitto d'interessi e non può concorrere con il suo voto per la decisione sul suo interesse egoistico. I due interessi in gioco si confrontano ma è l'assemblea che deve valutare se l'interesse comune sull'uso e godimento o gestione dei beni e servizi comuni è compromesso dall'interesse egoistico del singolo che a questo punto è terzo rispetto al gruppo”. Ne consegue – secondo l'Autore – che «non appare corrispondere ad un generale principio di giustizia e solidarietà “il quale richiede un costante equilibrio fra esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione” che “l'interesse egoistico” del condomino si “compenetri” e non si “confronti” con “l'interesse del condominio” portato dalla maggioranza dei condomini. E sempre non appare corrispondere ad un generale principio di giustizia che siano gli altri condomini portatori dell'interesse generale condominiale e che rappresentano comunque una maggioranza del “condominio” rispetto al singolo a dover ricorrere al giudice per verificare se l'interesse comune sia stato leso come al contrario pare enunciare la Cass. 28 settembre 2015, n. 19131».

Con precipuo riferimento, poi, alla posizione del condomino, quale titolare esclusivo, cioè, di unità immobiliare sita nello stabile, ove sia intervenuta l'alienazione del diritto di proprietà, la detta condomino sorge ipso iure in capo al nuovo acquirente in forza del contratto d'acquisto e, dunque, solo nel momento in cui si realizza l'effetto traslativo, non rilevando il possesso, né l'eventuale obbligo a contrarre (come ad esempio nel caso di sottoscrizione di preliminare di vendita) né l'avvenuta o meno trascrizione dell'atto nei registri immobiliari. Concordi, sul punto, sono la giurisprudenza (Cass. II, n. 66/1965; Cass. II, n. 274/1963) e la dottrina (Triola, 455).

Diversa, invece, è la questione concernente le modalità con cui tale mutamento del soggetto titolare esclusivo di proprietà individuale all'interno del condominio debba essere esplicitata. Nel passato la giurisprudenza chiariva che era onere dell'acquirente dell'unità assumere iniziative, magari anche con l'alienante, far conoscere all'amministratore di esser il nuovo proprietario, non avendo questi l'obbligo di verificare i registri immobiliari (Cass. II, n. 985/1999; Trib. Genova, 25 gennaio 1999; Trib. Roma, 11 aprile 1995); conforme Cass. II, n. 2658/1987, per cui, nell'ipotesi di alienazione di una porzione di edificio condominiale ad un nuovo soggetto, affinché questi si legittimi di fronte al condominio quale nuovo titolare interessato a partecipare alle assemblee, occorre almeno, pur nel silenzio della legge al riguardo, una qualche iniziativa, esclusiva dell'acquirente o concorrente con quella dell'alienante, che, in forma adeguata, renda noto al condominio detto mutamento di titolarità, senza di che, e fin quando ciò non avvenga, resta legittimato a partecipare alle delibere assembleari l'alienante.

La questione, tuttavia, appare suscettibile di rimeditazione alla luce dell'introduzione dell'obbligo di tenuta del registro di anagrafe condominiale, di cui si è detto (si rinvia, in ogni caso, sul punto al commento all'art. 1130 c.c.), e del contestuale obbligo di attivazione, gravante sull'amministratore, per il suo aggiornamento. Sicché potrebbe ipotizzarsi che, in realtà, ove sia comprovato che l'amministratore fosse a conoscenza, sia pure per non averlo appreso dai diretti interessati, dell'avvenuta compravendita di uno degli immobili in titolarità esclusiva, gravi su di esso l'obbligo di aggiornamento del menzionato registro e, conseguentemente, di convocazione del nuovo condomino.

Di contrario avviso, però, parte della dottrina che ritiene che l'art. 1130, n. 6), c.c. lascerebbe pensare, al contrario, che in caso di inadempimento, da parte dei condomini, dell'obbligo di comunicazione all'amministratore delle variazioni dei diritti reali sugli immobili in condominio, l'eventuale convocazione fatta al vecchio proprietario (alienante) piuttosto che al nuovo, oppure al proprietario piuttosto che al titolare di altro diritto di godimento legittimato a partecipare all'assemblea, non possa essere considerata irregolare (Visintini, 291).

La recente Cass. II, n. 10824/2023 offre una soluzione pressoché definitiva alla questione, chiarendo che il mancato aggiornamento del registro di anagrafe non rileva in senso contrario allaconclusione per cui all'assemblea condominiale deve essere in ogni caso convocato l'effettivo titolare del diritto di proprietà dell'unità immobiliare, indipendentemente dalla avvenuta comunicazione all'amministratore della eventuale vicenda traslativa ad essa relativa: ed infatti, la disciplina in ordine alla tenuta del registro di anagrafe condominiale, di cui all'art. 1136, comma 6 c.c., ed all'obbligo solidale per il pagamento dei contributi in caso di cessione dei diritti, di cui all'art. 63, comma 5, disp. att. c.c., sull'acquisizione dello "status" di condomino e sulle conseguenti legittimazioni, giacché l'amministratore di condominio, al fine di assicurare una regolare convocazione dell'assemblea, è comunque tenuto a svolgere le indagini suggerite dalla diligenza dovuta per la natura dell'attività esercitata, onde poter comunicare a tutti l'avviso della riunione, prevalendo su ogni apparenza di titolarità il principio della pubblicità immobiliare e quello dell'effettività (in senso contrario, però, Cass. VI-2, n. 4026/2021, Cass. II, n. 31826/2022, per cui, in caso di alienazione di unità immobiliare compresa nell'edificio, lo status di condomino si avrebbe per trasferito in capo all'acquirente non immediatamente, al prodursi della vicenda traslativa, ma unicamente quale conseguenza della pubblicità avuta da tale vicenda agli occhi della gestione condominiale).

Particolare, poi, è l'ipotesi riconducibile al condominio parziale, fenomeno ormai pacificamente riconosciuto in giurisprudenza (Cass. II, n. 7885/1994; Cass. II, n. 1255/1995; Cass. II, n. 8136/2004; Cass. II, n. 23851/2010; Cass. II, n. 2363/2012; Cass. II, n. 17875/2013; Cass. II, n. 1680/2015; Cass. II, n. 4127/2016; Cass. II, n. 12641/2016), ancora privo di dignità normativa, cui si è accennato nel commento all'art. 1117 c.c. e che più approfonditamente è stato trattato nel commento all'art. 1123 c.c.: sinteticamente può ribadirsi che nell'ambito della più vasta contitolarità ex art. 1117 c.c. si ammette una condominialità limitata ad un gruppo più ristretto di proprietari esclusivi sulla base del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, ovvero della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari. Come ampiamente evidenziato sub art. 1117 c.c., infatti, i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero sono destinati all'uso o al servizio non di tutto l'edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso: in tal caso, del diritto (soggettivo) di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti, effettivamente uniti alle unità abitative dal collegamento strumentale e, cioè, le sole parti di uso comune, che siano necessarie per l'esistenza, ovvero siano destinate all'uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano. Ravvisato il fondamento dell'istituto negli artt. 1123, comma 3, e 1117 c.c. da un lato, nonché nella presenza di una clausola del regolamento condominiale, di natura contrattuale che, in deroga al menzionato art. 1117 c.c., attribuisca la titolarità esclusiva di un bene ovvero un impianto solo ad un gruppo di condomini, è stato chiarito che il quorum, costitutivo come deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, vada calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate (Cass. II, n. 4127/2016; Cass. II, n. 1188/1970): donde la conclusione che i partecipanti al più ampio gruppo condominiale, che però non abbiano la proprietà di quel determinato bene o impianto oggetto di intervento non hanno il diritto di essere convocati per partecipare all'assembleacon conseguente modifica della composizione del collegio e delle maggioranze (Cass. II, n. 791/2020).

Non è da escludere, infine, la partecipazione all'assemblea di condominio di un soggetto estraneo agli aventi diritto (ad esempio, l'usufruttuario che intervenga in luogo del nudo proprietario o viceversa) ovvero privo di legittimazione (perché privo di qualunque «collegamento» con il condominio come, ad esempio, l'ex condominio): ciò non si riflette, tuttavia, sulla validità della costituzione dell'assemblea medesima e delle decisioni assunte, qualora risulti che quella partecipazione non ha influito sulla maggioranza richiesta e sul quorum prescritto, né sullo svolgimento della discussione e sull'esito della votazione (Cass. II, n. 11943/2003).

La legittimazione alla partecipazione all'assemblea si riverbera, infine, sulla legittimazione all'impugnazione, nel senso, che benché l'art. 1137, comma 2, c.c. espressamente conferisca il potere di adire l'autorità giudiziaria, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ad «ogni condomino assente, dissenziente o astenuto», cionondimeno la norma va coordinata con l'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. che, in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, assegna la facoltà di adire l'Autorità giudiziaria onde ottenere l'annullamento della deliberazione, ad istanza di quelli tra costoro che siano dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati: il che (salvi i doverosi approfondimenti che, in proposito, verranno svolti nel commento all'art. 1137 c.c., cui integralmente si rinvia) necessariamente implica l'espansione del novero dei soggetti legittimati a proporre l'impugnazione ex art. 1137 c.c.

Osserva, ad esempio, Trib. Modena, 13 luglio 2016, che il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, oltre che al titolare di diritti reali sulle singole unità immobiliari (pure se locate), anche al conduttore, ma solo nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, mentre ogni altra controversia deve trovare soluzione nel rapporto con il locatore, al di fuori del dibattito assembleare e delle relative impugnazioni. In senso analogo Trib. Monza, 8 febbraio 2001 (che costruisce la legittimazione del conduttore all'impugnazione sulla base del contatto sociale che si instaurerebbe con il condominio e, che, perciò, assegna allo stesso una legittimazione esorbitante dagli angusti limiti di cui al cit. art. 10) e, più approfonditamente, Cass. II, n. 8755/1993 per cui l'art. 10 della l. 27 luglio 1978, n. 392, il quale attribuisce al conduttore il diritto di votare in luogo del proprietario nelle assemblee condominiali aventi ad oggetto l'approvazione delle spese e delle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento di condizionamento d'aria e di intervenire senza diritto di voto sulle delibere relative alla modificazione di servizi comuni, riconosce implicitamente con il rinvio alle disposizioni del codice civile concernenti l'assemblea dei condomini, il diritto dell'inquilino di impugnare le deliberazioni viziate, sempreché abbiano ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria (precisa ulteriormente la Corte, però, che, al di fuori di tali situazioni, l'art. 10 cit. non attribuisce all'inquilino il potere generale di sostituirvi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali sicché deve escludersi la sua legittimazione ad impugnare la deliberazione dell'assemblea condominiale di nomina dell'amministratore e di approvazione del regolamento di condominio e del bilancio preventivo). Ancor più recentemente Cass. II, n. 15222/2023, ha osservato come il conduttore possa, al più, in caso di approvazione di una delibera che arrechi pregiudizio, ovvero molestia, all'esercizio del suo diritto di godimento dell'immobile, avvalersi delle tutele di cui agli artt. 1585 e 1586 c.c. È stata esclusa, al contrario, la legittimazione ad impugnare del mero possessore (Cass. II, n. 3420/1957).

Le specifiche competenze: nomina e compenso dell'amministratore

L'art. 1135, comma 1, n. 1), c.c. demanda all'assemblea (composta, in questo caso, dai «condomini») anzitutto il compito di procedere alla conferma dell'amministratore ed alla determinazione del suo compenso: la previsione va, tuttavia, integrata con quelle contenute nell'art. 1129, comma 1, c.c. per cui, quando i condomini sono più di otto (quattro, nella formulazione anteriore alla Riforma) l'assemblea deve provvedere alla nomina dell'amministratore (potendo, in mancanza, ciascun condomino ricorrere all'autorità giudiziaria), comma 10, alla cui stregua l'assemblea convocata per la revoca o le dimissioni dell'amministratore procede alla nomina del nuovo e comma 11 c.c., che conferisce all'assemblea, per l'appunto, il potere di revocare in ogni momento l'amministratore.

Tali competenze dell'assemblea sono inderogabili dal regolamento, rientrando tali previsioni tra quelle contenute nell'elencazione di cui all'art. 1138, comma 4, c.c.: sicché devono certamente ritenersi prive di effetti clausole con le quali, ad esempio, il costruttore del fabbricato deroghi ai presupposti numerici di nomina obbligatoria dell'amministratore, ovvero ai doveri informativi e di predeterminazione del compenso, incombenti sullo stesso amministratore contestualmente alla sua nomina o al suo rinnovo, ovvero ai poteri dell'assemblea di esigere la prestazione di una polizza per la responsabilità civile ovvero, ancora, alla durata dell'incarico (Scarpa 2018, 11). Conforme anche la giurisprudenza la quale, sulla scorta della considerazione per cui si è in presenza di un potere istituzionalmente rimesso all'assemblea dei condomini, ha dichiarato nulla la clausola del regolamento condominiale – quand'anche approvata all'unanimità – che riserva ad uno o più soggetti, per un tempo indeterminato, la nomina dell'amministratore (Cass. II, n. 13011/2013). Del pari, ove una clausola regolamentare preveda la non obbligatorietà della nomina dell'amministratore, essa deve considerarsi inefficace ab initio, se i condomini siano originariamente almeno nove e, simmetricamente, essa diviene inefficace nel momento in cui i condomini raggiungano tale numero (Cass. II, n. 2155/1966).

Alle predette disposizioni si aggiunge, poi, l'art. 71-bis disp. att. c.c., che, innovando sensibilmente rispetto al passato (allorquando non erano previste preclusioni o limitazioni in ordine al soggetto suscettibile di nomina quale amministratore di condominio), ha fissato specifici requisiti – di carattere oggettivo e soggettivo – che devono essere posseduti dal nominando amministratore, a pena di nullità della nomina stessa (Celeste-Scarpa, 2013, 174). A tale riguardo, la scelta legislativa ha segnato un vero e proprio «punto di rottura» con il passato giacché, con riferimento al regime vigente anteriormente alla Riforma del 2012, solo in dottrina (ed in difetto di una specifica previsione normativa) si era ipotizzato che l'amministratore dovesse essere «scolarizzato» nelle materie condominiali ovvero si era osservato che particolari requisiti potessero essere imposti dal regolamento di condominio (Triola, 571).

Tale ultima conclusione ha trovato, peraltro, valida sponda in giurisprudenza, laddove, nel rigettare l'impugnativa proposta avverso una specifica clausola del regolamento condominiale, Cass. II, n. 24432/2016 ha chiarito che non sussiste alcuna violazione di legge nella previsione del regolamento condominiale che stabilisca le caratteristiche, i requisiti e i titoli che deve avere l'amministratore del condominio, in quanto l'art. 1138, comma 4, c.c., pur dichiarando espressamente non derogabile dal regolamento (tra le altre) la disposizione dell'art. 1129 c.c. (che attribuisce all'assemblea la nomina dell'amministratore e stabilisce la durata dell'incarico), non preclude che il regolamento condominiale possa stabilire che la scelta dell'assemblea debba cadere su soggetti che presentino determinate caratteristiche, requisiti o titoli professionali (nella specie, il regolamento di condominio prevedeva che l'amministratore dovesse essere un libero professionista iscritto al rispettivo albo e/o associazione, ordine o collegio di appartenenza).

Oggi, invece, de iure condito, l'art. 71-bis disp. att. c.c. elenca, come detto, una serie di requisiti la cui mancanza comporta l'impossibilità per il soggetto (persona fisica o giuridica che sia: cfr. infra) di esercitare l'attività di amministratore di condominio, sia quali condizioni per l'assunzione dell'incarico che in corso di rapporto: nel senso che il comma 4 della medesima disposizione chiarisce che la perdita dei requisiti di cui al comma 1, lett. a), b), c), d) ed e) comporta la cessazione dall'incarico, facoltizzando in tal caso ciascun condomino alla convocazione, senza formalità, dell'assemblea, per la nomina del nuovo amministratore. Tali requisiti attengono alle qualità di onorabilità della persona nominata e concernono il godimento dei diritti civili (lett. a), la mancanza di condanne per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni (lett. b), la mancata sottoposizione a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione (lett. c), la piena capacità di agire, per non essere l'amministratore interdetto né inabilitato (lett. d) (tale precisazione, peraltro, non è di poco conto, se si considera che a tale conclusione nel passato si giungeva solamente in via interpretativa giacché, nel silenzio del codice e versandosi in ipotesi di rappresentanza volontaria, dovrebbe essere sufficiente, ai sensi dell'art. 1389 c.c., la semplice capacità di intendere e di volere. Sennonché, già nel regime previgente la Riforma si osservava che la richiamata disposizione faceva comunque salvo il riferimento alla natura ed al contenuto del contratto, donde l'illogicità della nomina di soggetto che, nell'espletamento dei propri compiti istituzionali, non avesse avuto la capacità di contrarre in nome e per conto del condominio), nonché la mancata annotazione nell'elenco dei protesti cambiari (lett. e). Gli ultimi due requisiti, previsti dalle lett. f) e g), invece, attengono alla formazione scolastica (diploma di scuola secondaria di secondo grado) e la qualificazione professionale dell'amministratore – nominando o in carica – il quale deve avere frequentato un corso di formazione iniziale, nonché svolto attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale (cfr. anche il d.m. 13 agosto 2014, n. 140): tali ultimi requisiti, tuttavia, non sono necessari (a) ove la funzione di amministratore sia svolta da un condomino dello stabile (come previsto dal comma 2 dell'art. 71-bis disp. att. c.c.) né (b) per coloro che abbiano svolto attività di amministrazione di condominio per almeno un anno, nell'arco dei tre anni precedenti alla data di entrata in vigore della Riforma (coincidente con il 18 giugno 2013).

Si è osservato in dottrina (Tortorici 2013, 623) che l'art. 71-bis , se rapportato alla l. 14 gennaio 2013, n. 4 (recante «disposizioni in materia di professioni non organizzate») ed al d.lgs. 16 gennaio 2013, n. 13 (recante «definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, a norma dell'art. 4, commi 58 e 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92»), deve considerarsi dettato dal legislatore a tutela della utenza, vale a dire dei condomini, che sono da considerarsi, salvo eccezioni, consumatori, ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206: ne discende che la normativa ha natura di disciplina di ordine pubblico ed è inderogabile, pure non essendo stata espressamente dichiarata tale, mediante una sua riconduzione all'art. 72 disp. att. c.c. non oggetto di novellazione ad opera della legge di riforma. Osserva il medesimo autore che, ad ogni buon conto, il regolamento di condominio potrebbe comunque dettare requisiti più restrittivi di quelli previsti dall'art. 71-bis , come già chiarito, d'altronde, dalla giurisprudenza formatasi in relazione alla normativa esistente anteriormente alla Riforma.

A prescindere dall'eventuale contenuto integrativo del regolamento di condominio, quanto agli ulteriori requisiti naturaliter richiesti in capo all'amministratore – nominando o nominato – si è altresì ritenuto che questi non debba versare in conflitto di interessi con il condominio (trovando applicazione il combinato disposto degli artt. 1394 e 2391 c.c., nonché art. 79 c.p.c) e che osterebbe alla nomina, quale amministratore di condominio, l'esser in lite (Dogliotti-Figone, 380) ovvero dipendente dello stesso (Cass. II, n. 147/1940), difettando in simile ipotesi la terzietà della posizione dell'amministratore.

Discussa era invece, in passato, la possibilità che l'assemblea nominasse una persona giuridica: a fronte di un orientamento contrario a tale soluzione, fondato sulla duplice considerazione per cui il rapporto di mandato – cui è comunemente ricondotto il contratto di amministrazione condominiale – è essenzialmente caratterizzato dalla fiducia (e, dunque, sarebbe per ciò stesso incompatibile con l'assunzione dell'incarico da parte di una persona giuridica) e, in ogni caso, le disposizioni dettate dal codice civile in tema di amministrazione del condominio presuppongono che l'amministratore sia una persona fisica (Cass. II, n. 5608/1994. Conformi, nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 11 luglio 1988; Trib. Monza 22 dicembre 1988; Trib. Cagliari, 14 febbraio 2007), se ne era formato uno di senso diametralmente opposto, basato sulla argomentazione per cui il contratto di mandato, pur imperniato sulla fiducia, non deve necessariamente intendersi basato sull'intuitus personae (Luminoso, 181), nonché tenuto che la persona giuridica non soffre di limitazioni di capacità, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge, e che essa è in grado di offrire, quanto all'adempimento della relativa obbligazione ed all'imputazione della conseguente responsabilità, un grado di affidabilità pari a quello della persona fisica: sicché nulla avrebbe potuto frapporsi a che anche una persona giuridica e, in particolare, una società di capitali ovvero una società di fatto, potesse essere nominata amministratore di condominio (Cass. II, n. 1406/2007; Cass. II, n. 22840/2006; Cass. II, n. 11155/1994). Nella giurisprudenza di merito hanno ritenuto ammissibile la nomina di una società ad amministratore di condominio: Trib. Roma, 31 maggio 1989; Trib. Piacenza, 24 gennaio 1991; Trib. Padova, 6 settembre 2000; App. Milano, 11 dicembre 2002) - ed in tale quadro è il legale rappresentante della società nominata amministratore dall’assemblea legittimato a conferire mandato al difensore per la rappresentanza in giudizio del condominio (Cass. II, n. 11155/1994). Attualmente, la possibilità che una società possa svolgere la funzione di amministratore è stata normativamente disciplinata (ed ammessa) all'art. 1129, comma 2, c.c. ed all'art. 71-bis, comma disp. att. c.c.

Discussa, ancora, è la questione circa la possibilità di affidare l'amministrazione a più persone contemporaneamente. Escludono tale opzione la giurisprudenza di merito (Trib. Genova 15 ottobre 1992; Trib. Napoli 30 ottobre 1990; Trib. Milano, 8 marzo 1990; App. Napoli, 16 gennaio 1962) e la dottrina maggioritaria (Peretti Griva, 372; Visco, 212), facendo perno su argomenti di carattere lessicale e sistematico: l'art. 1129 c.c., già nella sua originaria formulazione, conferisce all'assemblea il potere-dovere di nominare «un» amministratore, mentre in alcuna delle disposizioni che si riferisce all'amministratore e alle sue funzioni ed attribuzioni si fa ricorso a parole o verbi al plurale, ovvero di significato collettivo e compatibile con l'ipotesi che l'amministrazione del condominio sia conferita ad una pluralità di soggetti (Terzago 1998, 391 ss.). A ciò aggiungasi che l'art. 1131 c.c., nell'attribuire all'amministratore la rappresentanza processuale dei partecipanti, non ha però regolato le modalità secondo cui si sarebbe dovuto procedere all'indicazione di quello tra i plurimi amministratori che avrebbe dovuto rappresentato i partecipanti nei rapporti con i terzi: sicché dovrebbe trarsene la conclusione per cui il legislatore ha previsto solamente l'ipotesi di unico amministratore. Qualche spiraglio sembra trarsi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 11155/1994) che ipotizza la eventualità che, in caso di contrasto tra i coamministratori, potrebbe sempre farsi ricorso all'assemblea, quale organo decisionale sovrano. Non può comunque sottacersi che in tema di comunione (le cui disposizioni, come noto, si applicano in via residuale al condominio, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c.) ben può accadere che l'amministrazione venga affidata anche a più comunisti contemporaneamente, come chiarito dall'art. 1106, il quale prevede che all'amministrazione possano provvedere uno o più partecipanti. In ogni caso, ammettendo la possibilità di nominare più soggetti quali amministratori, le conseguenze che giuridicamente ne discendono possono essere così sinteticamente sono illustrate: 1) tutti sono solidalmente obbligati nei confronti del condominio (artt. 1716, ultimo comma, e 1294 c.c.); 2) non è necessario l'intervento collettivo in ogni atto di tutti i soggetti che rivestono la detta qualifica (art. 1716, comma 2, c.c.); 3) le decisioni vengono prese a maggioranza (Chiesi-Crispino-Costabile-Landolfi-Sinisi-Troncone, 245. Nel medesimo senso anche Lazzaro-Stincardini, 35; Salis 1959, 279; Calzaro, 35).

La disciplina in tema di nomina e revoca (nonché conferma) dettata dall'art. 1129 c.c si applica, ai sensi del comma 16, anche per gli edifici di alloggi di edilizia popolare ed economica, realizzati o recuperati da enti pubblici a totale partecipazione pubblica o con il concorso dello Stato, delle regioni, delle province o dei comuni, nonché a quelli realizzati da enti pubblici non economici o società private senza scopo di lucro con finalità sociali proprie dell'edilizia residenziale pubblica.

Tale previsione è stata criticata in dottrina (Rota, 687 ss.), essendosene sostenuta l'inutilità giacché, pur in sua assenza il regime giuridico dell'art. 1129 c.c. e, più in generale, della normativa condominiale, troverebbe comunque nelle ipotesi ivi contemplate «atteso che: 1) se lo stabile condominiale è interamente di proprietà dello Stato o di uno degli enti pubblici indicati nell'ultimo comma dell'art. 1129 c.c., oppure di società cooperative edilizie con scopo mutualistico che locano le singole unità immobiliari a terzi, non si ha il fenomeno giuridico del condominio e pertanto non vi è neanche bisogno della nomina di un amministratore di condominio: la normativa dell'art. 1129 c.c. in tal caso è fuori gioco; 2) se, al contrario, nello stabile condominiale figurano unità immobiliari in proprietà di terzi il cui numero, incluso l'ente pubblico che ha realizzato, recuperato od eretto lo stabile, non supera le otto unità, sia pur in presenza di un vero e proprio condominio degli edifici del pari non sussisterà l'obbligo della nomina di un amministratore di condominio e l'art. 1129 c.c. non troverà applicazione; 3) se infine i condomini presenti nello stabile condominiale di edilizia residenziale pubblica sono più di otto, è ovvio che l'art. 1129 c.c. si applicherà nella sua interezza a prescindere da una disposizione normativa che lo abbia richiamato espressamente».

Segue. Il procedimento di nomina

Ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c., l'assemblea deve nominare l'amministratore allorché i condomini siano più di otto (anteriormente alla legge di Riforma, il numero di condomini richiesto per transitare dalla nomina facoltativa a quella obbligatoria era di più di quattro): l'obbligo diviene attuale non appena venga raggiunto il requisito numerico, e, dunque, allorché i condomini, quali proprietari esclusivi di una parte dell'edificio raggiungano tale numero (in ipotesi di comproprietà sulla stessa unità immobiliare, la pluralità di comunisti vale, agli effetti che in questa sede interessa, come uno). In tale evenienza, di fronte all'inerzia dell'assemblea, la quale non provveda per totale disinteresse o per mancanza di quorum (prescritto dal successivo art. 1136, commi 2 e 4, c.c.), ciascuno dei condomini (dunque, non anche il conduttore, nonostante lo stesso abbia diritto, ai sensi dell'art. 10, della l. n. 392 del 1978, a partecipare all'assemblea dei condomini, in quanto, diversamente opinando, si configurerebbe una negotiorum gestio di carattere processuale non consentita. Così Cass. II, n. 6843/1991) può adire, con ricorso, il presidente del Tribunale del luogo dove si trova l'immobile, affinché questi provveda alla nomina dell'amministratore (cfr. l'art. 59 disp. att. c.p.c.), con decreto reclamabile innanzi al Presidente della corte di appello a seguito di procedimento di volontaria giurisdizione (Cass., VI-2, n. 1799/2022;  Cass. II, n. 15548/2017; Cass. II, n. 4616/2012) in camera di consiglio. L'intervento dell'autorità giudiziaria ha, tuttavia, carattere sussidiario e residuale, potendosi ricorrere ad essa solo dopo la convocazione dell'assemblea e la constatazione della impossibile o comunque mancata deliberazione della stessa al riguardo (Trib. Udine 25 ottobre 1995).

L'amministratore nominato dal tribunale non riveste per ciò stesso, però, la qualità di ausiliario del giudice né muta la propria posizione rispetto ai condomini, con i quali instaura, benché designato dall'autorità giudiziaria, un rapporto di mandato (sul punto, tuttavia, qualche ulteriore specificazione sembra opportuna. Cfr. infra): in conseguenza, lo stesso deve rendere conto del proprio operato soltanto all'assemblea e la determinazione del suo compenso rimane regolata dall'art. 1709 c.c. (Cass. II, n. 21966/2017). In ogni caso, chiarisce Cass. III, n. 11717/2021,l'amministratore di nomina giudiziale non può essere equiparato tout court a quello designato dall'assemblea, in quanto la sua nomina non trova fondamento in un atto fiduciario dei condomini ma nell'esigenza di ovviare all'inerzia del condominio ed è finalizzata al mero compimento degli atti o dell'attività non compiuta: ne consegue che, il termine di un anno di durata dell'incarico previsto dall'art.1129 c.c. non costituisce il limite minimo di durata del suo incarico ma piuttosto il limite massimo di durata dell'ufficio, il quale può cessare anche prima se vengono meno le ragioni presiedenti la nomina (nella specie, per l'avvenuta nomina dell'amministratore fiduciario).

La norma non esclude, peraltro, la possibilità di nomina di un amministratore quando i condomini siano otto o meno di otto: si discorre, in tal caso, di nomina facoltativa che, però, ove non concretizzata, non consente – proprio per la sua non obbligatorietà – il ricorso all'autorità giudiziaria ex art. 1129, comma 1, c.c. (contra, però, Cass. II, n. 1604/1975). È stato altresì affermato che, in tal caso, la nomina, oltre ad essere facoltativa, dovrebbe essere anche derogabile, nel senso che dovrebbe ritenersi valida la clausola regolamentare che in mancanza del raggiungimento del numero minimo di condomini contemplato dall'art. 1129, comma 1, c.c., la escludesse (Dogliotti-Figone, 384): come osservato in precedenza, tuttavia, una simile clausola cesserebbe di essere efficace, in virtù del combinato disposto degli artt. 1138, comma 4 e 1129, comma 1, c.c., ove il numero dei condomini raggiunga quello di nove.

La possibilità di nomina di un amministratore anche al di sotto del numero di nove condomini implica, quale conseguenza, che tale figura possa essere presente anche in caso di condominio minimo, composto, cioè, da due soli partecipanti (fattispecie che, si badi, ricomprende anche il caso in cui i partecipanti siano, uno, proprietario esclusivo di un'unità immobiliare ed altri comproprietari pro indiviso delle restanti unità immobiliari comprese nell'edificio. Cfr. Cass., VI-2, n. 15705/2020). Rispetto a tale fenomeno (indagato, quanto a disciplina applicabile, da Cass. S.U., n. 2046/2006) chiarisce infatti Cass. VI-II, n. 20071/2017 (sia pure relativamente ad una fattispecie regolata, ratione temporis, dalla disciplina anteriore a quella introdotta dalla l. n. 220/2012) che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali e riscontrandosi la medesima situazione nel condominio cd. «minimo», ne discende che anche rispetto a quest'ultimo trova applicazione, sia per l'organizzazione interna dell'assemblea che per le situazioni soggettive dei partecipanti, la disciplina di cui agli artt. 1117 ss. c.c., potendo pertanto in tal caso i condomini nominare un amministratore ed approvare un regolamento. Affronta specificamente la tematica Cass. VI-2, n. 16337/2020, la quale evidenzia che, nell'ipotesi di condominio costituito da due soli condomini, seppur titolari di quote diseguali, ove si debba procedere all'approvazione di deliberazioni che - come quella di nomina dell'amministratore - richiedano comunque sotto il profilo dell'elemento personale, l'approvazione con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti, ex art. 1136, comma 2, c.c., la valida espressione della volontà assembleare suppone la partecipazione di entrambi i condomini e la decisione "unanime", non potendosi ricorrere al criterio maggioritario.

È stata poi esaminata, in dottrina, una situazione che apparentemente sembra sfuggire alla regolamentazione espressa contenuta nell'art. 1129 c.c. ma che ad essa è, comunque, riconducibile e che si sostanzia nel caso di un condominio in cui, pur dovendo la nomina essere obbligatoria, perché composto da più di otto condomini (quindi da nove a seguire), ad essa non si addivenga giacché gli stessi condomini concordano sulla superfluità di nominare l'amministratore: si è in proposito sostenuto che i rapporti con i soggetti esterni al condominio dovrebbero in tal caso ascriversi alla «persona che svolge funzioni analoghe a quelle dell'amministratore» e, dunque, al cd. amministratore di fatto, contemplato dall'attuale art. 1129, comma 6, c.c. (Colonna, 333).

Il novellato art. 1129 c.c. ha letteralmente «procedimentalizzato» l'attività assembleare in sede di nomina dell'amministratore, avendo previsto che alla deliberazione segua un atto di accettazione espressa da parte dell'amministratore contenente, a pena di nullità della nomina stessa, l'analitica specificazione dell'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta (art. 1129, comma 14, c.c.), nonché le indicazioni relative ai propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale, o, se si tratta di società, anche la sede legale e la denominazione, il locale ove si trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'art. 1130, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata Rinviando per l'approfondimento del tema al commento all'art. 1129 c.c., anche alla luce della nuova disciplina contenuta nella norma da ultimo richiamataCass. II, n. 7874/2021 , letteralmente innovando rispetto alla consolidata posizione della giurisprudenza di legittimità (che individuava in esso un mandato con rappresentanza),ha chiarito che il contratto tipico di amministrazione di condominio non costituisce prestazione d'opera intellettuale né è, perciò, subordinato all'iscrizione in albi o elenchi, ai sensi dell'art. 2229 c.c., quanto, piuttosto, al possesso dei requisiti di professionalità ed onorabilità di cui all'art. 71-bis disp. att. c.c., rientrando l'attività nell'ambito delle professioni non organizzate in ordini o collegi, ex lege n. 4 del 2013, ed essendo il relativo esercizio disciplinato dagli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c. nonché, in via solo residuale, dalle norme in tema di contratto di mandato, in forza del rinvio espresso a queste ultime, contenuto nel penultimo comma dell'art. 1129 cit.

Affinché la nomina dell'amministratore si perfezioni e divenga efficace (anche rispetto ai terzi esterni al condominio) attualmente occorrono, dunque, (a) la formale delibera di nomina, ex art. 1129, comma 1, c.c. e (b) la conforme accettazione espressa da parte dell'amministratore, ex art. 1129, comma 2, c.c. Nulla, evidentemente, vieta alle parti di scambiare le posizioni contrattuali, con l'amministratore che assume la veste di proponente e l'assemblea di oblato: l'importante è, tuttavia, che proposta ed accettazione, secondo quanto prescritto dall'art. 1326 c.c., siano tra loro conformi.

Tale previsione consente di risolvere una questione particolarmente problematica – che nel passato pure aveva attardato dottrina e giurisprudenza – relativa all'individuazione del momento in cui la nomina assembleare si debba ritenere efficace nei confronti dell'amministratore. Secondo alcuni, infatti, la semplice decisione, presa dall'assemblea, di affidare l'amministrazione della cosa comune ad uno o più soggetti sarebbe stata idonea e sufficiente ad instaurare il rapporto gestorio tra i compartecipi ed il nominato, il quale da un lato avrebbe assunto i poteri previsti dall'art. 1131 c.c. ope legis (Trib. Genova, 25 gennaio 1999) e, dall'altro, avrebbe potuto rinunciare all'incarico solamente previa convocazione di una nuova specifica assemblea (Trib. Sassari, 25 febbraio 1985). D'altra parte, osservava Cass. II, n. 14930/2013, lo specifico rapporto di mandato in questione non dipendeva da una fonte contrattuale, trovando la propria regolamentazione iniziale nell'investitura dell'assemblea. Secondo altri, invece, l'accettazione dell'incarico sarebbe stata sempre e comunque necessaria in quanto, sia applicando direttamente le norme sul mandato, sia accedendo alla tesi della loro applicazione meramente analogica, ai sensi dell'art. 1703 c.c. il mandato è il contratto con il quale «una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell'altra»: conseguentemente, sembra impensabile, nonché giuridicamente poco percorribile, la strada che porta a ritenere che un soggetto potesse essere investito di obblighi nei confronti di un altro soggetto, in seguito ad una unilaterale manifestazione di volontà da parte del beneficiario (Salis 1986, 545; Amagliani, 168). Attualmente, l'espressa previsione contenuta nell'art. 1129 c.c. rende obbligatoria una conclusione quale quella prospettata e per cui «il contratto si perfeziona, dunque, solo con l'accettazione dell'altro contraente, l'amministratore, portata a conoscenza dell'assemblea» (Colonna, 335). Concorda con tale conclusione anche altra dottrina (Scarpa 2018, 11) per cui la necessità dell'accettazione della nomina da parte dell'amministratore dall'assemblea si desume proprio dall'art. 1129, commi 2 e 14 c.c.: la fattispecie normativa della nomina assembleare dell'amministratore – si afferma – assume inequivoci contorni di proposta contrattuale, proveniente dai condomini ed indirizzata all'amministratore designato, perfezionandosi l'accordo unicamente a seguito dell'accettazione di quest'ultimo. Ed infatti, le sopra richiamate disposizioni del codice civile, «rendono incompatibile con la nomina dell'amministratore del condominio la disposizione dell'art. 1392 c.c., secondo cui, salvo che siano prescritte forme particolari e solenni per il contratto che il rappresentante deve concludere, la procura che conferisce il potere di rappresentanza può essere verbale o anche tacita. Sembra non più sostenibile, in sostanza, che la nomina dell'amministratore possa risultare, indipendentemente da una formale investitura da parte dell'assemblea e dall'annotazione nello speciale registro, pure dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi abitualmente a lui in detta veste, senza metterne in discussione i poteri di gestione e di rappresentanza del condominio. Si perviene così ad un'interpretazione ormai omogenea rispetto a quella che si segue per gli amministratori delle società di capitali, con riguardo ai quali si sostiene pacificamente che, ai fini della costituzione del rapporto di amministrazione, non è sufficiente la nomina, essendo indispensabile l'accettazione del nominato, cui fa espresso riferimento l'art. 2385 c.c.» (cfr. anche Cass. I, n. 22280/2006). Contra, però, altra dottrina (Carrato 2015, 202), la quale, facendo proprio l'insegnamento di Cass. II, n. 14599/2012 (maturato, tuttavia, con riferimento alla disciplina precedente la Riforma del 2012) sostiene, in senso diametralmente opposto, che la nomina del nuovo amministratore acquista efficacia nei confronti dei terzi dal momento in cui sia adottata la deliberazione dell'assemblea (e non – prosegue lo stesso autore – dal passaggio di consegne tra vecchio e nuovo amministratore)

Se, dunque, la deliberazione assembleare di nomina assume la veste di «proposta contrattuale» rivolta al nominando amministratore, va da sé che il suo contenuto debba essere rispondente a quanto previsto dall'art. 1326 c.c. e tale, cioè, che il contratto si perfezioni attraverso la tempestiva e semplicemente conforme accettazione da parte dell'oblato (nella specie, l'amministratore). Occorre, però, che il contenuto della delibera sia altresì conforme alle previsioni legali e, pertanto: 1) la nomina deve avvenire per un periodo di un anno, con facoltà di revoca in ogni tempo e conferimento delle ordinarie attribuzioni previste dall'art. 1130 c.c. ovvero di quelle maggiori previste dal regolamento di condominio. Ritorna attuale, dunque, il problema relativo alla nomina di un amministratori c.d. turnari, nel caso, cioè, di amministratori (normalmente condomini) nominati, a turno, per periodi inferiori all'anno o l'uno di seguito all'altro, consecutivamente, alla scadenza dell'anno precedente: salvo una isolata opinione dottrinaria (Lazzaro-Stincardini, 38) tale pratica deve ritenersi illegittima, configurandosi una indiretta deroga all'art. 1129, comma 1, c.c., in violazione di quanto disposto dall'art. 1138, comma 4, c.c.; 2) a tale riguardo, l'amministratore può essere certamente esonerato da alcune delle competenze sue proprie, come delineate dal richiamato art. 1130 c.c. (norma non dichiarata inderogabile dal successivo art. 1138, comma 4, c.c.), ma non può essere totalmente svuotato di ogni attribuzione giacché, diversamente opinando, si arriverebbe a privarlo di ogni competenza gestoria ed in tal modo ad eludere l'art. 1129, comma 1, c.c. In sostanza, le attribuzioni dell'amministratore ex art. 1130 c.c. non privano comunque l'assemblea – in precedenza indicata quale «organo sovrano» del condominio – della competenza a deliberare circa l'amministrazione delle cose comuni e di farlo anche sostituendosi allo stesso amministratore, essendo il potere di amministrare contenuto del diritto di condominio: sicché, nella generalizzata competenza dell'assemblea si include la facoltà di modificare o di ridurre le attribuzioni sostanziali dell'amministratore, fino al punto di sostituirsi a quest'ultimo nelle decisioni di gestione, pur sempre, però, limitatamente ad alcuni affari o per un tempo definito, sì da non privare il condominio dell'indispensabile rappresentante previsto dal codice. La tematica si intreccia, inoltre, con quella del co-amministratore allorché l'assemblea, cioè, invece di assumere su di sé attribuzioni o funzioni proprie dell'amministratore, designi un altro soggetto per la cura e la gestione di alcuni degli affari che istituzionalmente rientrerebbero tra i compiti dell'amministratore (l'origine storica della figura è da ascrivere nel cd. curatore per il riscaldamento, ipotesi peculiare di amministratore avente il compito di gestire il servizio di riscaldamento. Si rinvia a De Rentis, 25); 3) la delibera di nomina, ancora, non potrebbe limitare la rappresentanza processuale e sostanziale dell'amministratore, stante l'inderogabilità dell'art. 1131 c.c. da parte del regolamento di condominio, come fissato dall'art. 1138, comma 4, c.c. (Amagliani, 155). Non sfugge certamente che, stante la connessione esistente tra mandato e rappresentanza processuale, una volta che si proceda, in sede di nomina, alla riduzione delle attribuzioni sostanziali dell'amministratore, ne discenderebbe un'inevitabile limitazione alla sua rappresentanza processuale: sennonché, come osservato in dottrina (Scarpa 2018, 11) tale limitazione sarebbe comunque «concepibile per la sola legittimazione ad agire, e non per la legittimazione ad essere convenuto in giudizio: giacché la legittimazione attiva attiene essenzialmente alla relazione tra condomini ed amministratore e ammette, quindi, di essere ampliata e circoscritta secondo volontà ed interesse dell'assemblea, laddove non può rimettersi alla disponibilità della medesima assemblea la legittimazione passiva dell'amministratore in ordine alle liti concernenti le parti comuni, prevista dall'art. 1131, comma 2, c.c., sopperendo in questi casi la rappresentanza processuale attribuitagli all'esigenza di rendere più agevole ai terzi la chiamata in giudizio del condominio, senza necessità di promuovere il litisconsorzio passivo nei confronti di tutti i condomini»; 4) la delibera, ancora, proprio in quanto proposta contrattuale rivolta al nominando amministratore, non potrebbe tacere sul compenso che si intende riconoscere a quest'ultimo.

Per effetto del coordinamento tra l'art. 1129, comma 14, c.c. ed il successivo art. 1135, comma 1, n. c.c., ove è precisato che la “retribuzione” dell'amministratore è “eventuale”, e tenuto conto che i rapporti fra amministratore e condominio sono regolati, per quanto non specificamente previsto, dalle disposizioni sul mandato (cfr. l'art. 1129, ultimo comma c.c.) - e dunque, per quanto riguarda specificamente il compenso, dall'art. 1709 c.c. (per cui il mandato si presume oneroso) – proprio l'art. 1135, comma 1, n. 1, c.c. cit. consente di concludere nel senso che l'assemblea potrebbe determinarsi espressamente per la gratuità dell'incarico, tale statuizione espressa integrando la prova contraria rispetto alla presunzione iuris tantum posta dall'art. 1709 c.c. (così Cass. II, n. 3774/1987). In altri termini, la delibera di nomina può prevedere un compenso o, al contrario, precisare che lo svolgimento dell'incarico debba avvenire a titolo gratuito, mentre non potrebbe mai rimanere silente sul punto, poiché in tal caso scatta - inevitabilmente - la sanzione della nullità (testuale) della delibera di nomina (e, correlativamente, del contratto di amministrazione di condominio) configurata dall'art. 1129, comma 14, c.c. (così anche la recente Cass. II, n. 14424/2025. Nel merito, Trib. Palermo, 2 settembre 2024 e Trib. Roma, 15 giugno 2016, per cui la delibera assembleare di nomina dell'amministratore condominiale, non accompagnata dall'indicazione analitica del compenso spettantegli è illegittima e va sospesa, sussistendo tanto il requisito del fumus borri iuris (stante la chiara dizione del riformato art. 1129 c.c.) che quello del periculum in mora (atteso che la gestione dei beni comuni non può essere affidata ad un soggetto che non sia validamente officiato dall'assemblea).). Evidentemente, se di nullità si tratta, la stessa non può neppure essere sanata (recte, convalidata), ex post, dalla delibera con cui l'assemblea approva il rendiconto consuntivo che tale compenso eventualmente includa: sia perché “L'approvazione del consuntivo da parte dell'assemblea [che ha la precipua funzione di rendere il credito dell'amministratore liquido ed esigibile. Così Cass. II, n. 17713/2023] preclude ai condomini la facoltà di contestare le voci di entrata e di uscita sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto quello della validità e dell'efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano” (così si legge in motivazione di Cass. II, n. 14424/2025 cit.), sia perchél'art. 1129 c.c. è norma dichiarata espressamente inderogabile dal successivo art. 1138, comma 4, c.c. e, dunque, non superabile, nelle proprie prescrizioni, neppure da una deliberazione all'assunta all'unanimità della caratura millesimale.   Il tema è stato affrontato anche da Cass. VI, n. 12927/2022, la quale ha chiarito che al fine della costituzione di un valido rapporto di amministrazione condominiale, ai sensi dell'art. 1129 c.c., il requisito formale della nomina sussiste in presenza di un documento, approvato dall'assemblea, che rechi, anche mediante richiamo ad un preventivo espressamente indicato come parte integrante del contenuto di esso, l'elemento essenziale della analitica specificazione dell'importo dovuto a titolo di compenso, specificazione che non può invece ritenersi implicita nella delibera assembleare di approvazione del rendiconto. Sul punto si tornerà, in ogni caso, infra, dovendosi altresì chiarire che tutto il meccanismo appena descritto non opera per l'amministratore di nomina giudiziaria, in quanto la designazione di questi non trova fondamento in un atto fiduciario dei condomini quanto, piuttosto, nell'esigenza di ovviare all'inerzia del condominio ed è finalizzata al mero compimento degli atti o dell'attività non compiuta: sicché, la determinazione del relativo compenso non avviene all'atto della investitura da parte dell'A.G., bensì sulla base di quanto previsto dall'art. 1709 c.c. (Cass. II, n. 11717/2021 e Cass. II, n. 21966/2017); 5)relativamente all'importoriconosciuto al nominando amministratore Cass. II, n. 14428/2025 (richiamandosi, sia pur non espressamente, a Cass. II, n. 5014/2018), evidenzia che: (5.1) l'obligo di “specificare analiticamente l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta [da svolgersi]”, di cui all'art. 1129, comma 14, c.c., non impedisce alle parti del contratto di amministrazione condominiale di determinare la remunerazione non prestazione per prestazione, ma secondo un sistema globale (a forfait), e cioè per tutte le attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. e in relazione alla durata annuale ex lege o all'eguale durata del rinnovo dell'incarico (art. 1129, comma 10, c.c.; (5.2) rientra nelle competenze dell'assemblea riconoscere all'amministratore, con una specifica delibera ed anche in sede di approvazione del rendiconto, un compenso aggiuntivo al fine di remunerare un'attività straordinaria, estranea agli adempimenti dovuti in forza del rapporto di amministrazione, ex art. 1130 c.c. (e che, proprio perché “straordinaria”, non determina l'operatività del meccanismo della nullità descritto in precedenza) - cfr. anche Trib. Catania, 14 ottobre 2024 e Trib. Ferrara, 20.9.2024; (5.3) quando questa attività straordinaria riguarda la conclusione di un appalto, prevedendo, anche un compenso aggiuntivo, determinato in percentuale sull'importo dei lavori, al fine evidentemente di remunerare tale attività straordinaria, i poteri di rappresentanza dello stesso amministratore e le sue conseguenti responsabilità, ex artt. 1129,1130 e 1131 c.c., riguardano l'assunzione della difesa dei comuni interessi dei condomini, e quindi l'esercizio di tutte le facoltà e l'adempimento di tutti gli obblighi finalizzati a che la tutela degli interessi condominiali nei rapporti con l'appaltatore risulti effettiva e completa: “L'amministratore incaricato dell'attività straordinaria inerente al conferimento di un appalto per la manutenzione del fabbricato non deve, pertanto, svolgere il suo compito fidandosi dell'impresa appaltatrice e del direttore dei lavori fino al punto da ritenersi esonerato dall'obbligo di esercitare una qualsiasi sorveglianza. Spetta, al contrario, all'amministratore, quale rappresentante del committente condominio (in aggiunta all'eventuale direttore dei lavori, che assume la rappresentanza del committente limitatamente alla materia tecnica), e tenuto conto in ogni caso degli specifici poteri conferitigli dall'assemblea, il compito di controllare lo svolgimento dei lavori, di verificarne lo stato, di accertare che l'esecuzione dell'opera proceda nei termini e secondo le condizioni stabiliti dal contratto e a regola d'arte, di effettuare o negare i pagamenti in funzione della corrispondenza della partita compiuta alle previsioni quantitative o qualitative delle clausole contrattuali, di rendere note tempestivamente ai condomini le eventuali difficoltà sopravvenute nell'esecuzione dell'appalto obiettivamente idonee ad incidere sul rapporto gestorio” (Cass. II, n. 16920/2025); (5.4) estraneo all'ambito di operatività dell'art. 1129, comma 14, c.c., è, invece, il credito dell'amministratore di condominio per il recupero delle somme anticipate, ai sensi dell'art. 1720 c.c., che è cosa distinta dal compenso che gli spetta per l'attività svolta; 6) l'assemblea, infine, può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione ai condomini di una polizza individuale di assicurazione per la responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato – come disposto dal novellato art. 1129, comma 3, c.c. – ed in tal caso l'amministratore, ove nel periodo in cui ricopra il proprio incarico l'assemblea deliberi lavori straordinari – è tenuto, contestualmente all'inizio dei lavori, ad adeguare i massimali della polizza in misura non inferiore all'importo di spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente all'inizio dei lavori. Il medesimo effetto, in caso di amministratore coperto da una polizza di assicurazione per la responsabilità civile professionale generale per l'intera attività da lui svolta, può raggiungersi integrando tale polizza con una dichiarazione dell'impresa di assicurazione che garantisca le medesime condizioni di cui si è detto. Circa le conseguenze derivanti dall'omessa presentazione della polizza per la responsabilità civile, si è chiarito che tale comportamento non costituisce motivo di nullità della nomina dell'amministratore né integra una delle cause che ne legittima la revoca: piuttosto, si è sostenuto che, tale prestazione contrattuale aggiuntiva rappresenta una condizione sospensiva della nomina dell'amministratore, i cui effetti non potrebbero pertanto prodursi fino a quando l'evento dedotto (e, cioè, la presentazione della polizza) non si realizzi (Carrato, 202) In tale ottica prospettica, dunque, la polizza richiesta dall'assemblea non è un semplice contratto (concluso fra amministratore e società assicuratrice) a favore del terzo (condominio), ma assurge a pieno titolo tra gli elementi essenziali della struttura della deliberazione di nomina.; 7) la nomina, infine, non può escludere alcuno dei requisiti prescritti dall'art. 71-bis disp. att. c.c., siccome previsti a pena di nullità della nomina stessa ovvero di decadenza ipso iure dall'incarico. 

A tale proposito, anzi, Cass. II, n. 28196/2024ha precisato che la deliberazione dell'assemblea condominiale che nomini amministratore un soggetto privo dei requisiti di professionalità ed onorabilità prescritti dall'art. 71-bis disp. att. c.c. è nulla per contrarietà a norma imperativa, trattandosi di requisiti dettati a tutela degli interessi generali della collettività ed influenti, perciò, sulla capacità del contraente, traendone altresì la conseguenza della nullità, a valle, del contratto di amministrazione condominiale con il soggetto privo dei requisiti normativi di capacità, il quale non ha, pertanto, azione per il pagamento del compenso corrispondente all'attività illegalmente prestata (cfr. il § 3.6 della motivazione). L'affermazione di tali principi coronano un percorso ricostruttivo che mette in evidenza come: - la formulazione dell'art. 71-bis cit. e i lavori preparatori della l. n. 220 del 2012 rendono chiara l'intenzione del legislatore di assoggettare il contratto di amministrazione di condominio al possesso di requisiti di professionalità ed onorabilità in capo al soggetto nominato, disposti nell'interesse superiore della collettività ed influenti perciò sulla capacità del contraente, così potendosi ritenere che l'art. 71-bis delimita, in sostanza, per ragioni di ordine pubblico, il novero delle persone che, giacché munite di tali requisiti, sono idonee al compimento delle attività inerenti alla complessa prestazione dell'amministratore di condominio, rivelandosi perciò norma imperativa ed inderogabile; - la circostanza che l'art. 71-bis disp. att. c.c. regoli espressamente, al quarto comma, la fattispecie della “perdita dei requisiti” (di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del primo comma), indicandola come causa di “cessazione dall'incarico” (della quale l'assemblea, convocata “senza formalità”, si limita a prendere atto), non significa affatto che identica soluzione debba prescegliersi per l'ipotesi del difetto originario dei requisiti stessi, essendo, anzi manifestamente irragionevole una disposizione che parificasse nel trattamento normativo la perdita sopravvenuta dei requisiti di professionalità ed onorabilità necessari per lo svolgimento di un incarico (la quale logicamente riveste un effetto ex nunc), alla ipotesi dell'accertamento dell'insussistenza ab initio dei requisiti legittimanti (vicenda che non può che produrre i suoi effetti ex tunc); - non assume rilievo l'argomento che l'art. 71-bis disp. att. c.c. non prevede espressamente la nullità della delibera di nomina di un soggetto sprovvisto dei requisiti in esame, posto che l'art. 1418, comma 1, c.c., applicabile anche in materia, prevede la nullità dell'atto di autonomia privata “contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente” (cd. nullità per illegalità): sicché, l'essere l'art. 71-bis cit. una norma proibitiva “imperfetta”, che, cioè, non abbina al divieto di svolgimento dell'incarico di amministratore di condominio senza i requisiti una esplicita sanzione civilistica, non vale a smentire la nullità della delibera di nomina; - la soluzione ermeneutica che depone per la nullità della delibera di nomina di un amministratore di condominio sprovvisto dei requisiti ex art. 71-bis disp. att. c.c. è in linea anche con la diffusa interpretazione che si dà dell'art. 2387 c.c. in tema di società per azioni, ritenendosi, appunto, radicalmente nulla, in forza del rinvio all'art. 2382 c.c., la nomina dell'amministratore che sia ab origine non in possesso degli speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, cui lo statuto subordini l'assunzione della carica (comportando invece la decadenza il venir meno di detti requisiti in corso del mandato).

Simmetricamente, secondo lo schema delineato dall'art. 1326 c.c., l'accettazione dell'amministratore (che secondo taluna dottrina potrebbe intervenire anche in forma verbale. Cfr. Nasini, 771) deve essere conforme alla proposta

Questione diversa, ma connessa, è quella concernente la determinazione dell'entità del compenso: ove alcuni condomini, infatti, contestino come eccessiva, sproporzionata ed irragionevole la determinazione del compenso dell'amministratore da parte dell'assemblea, il giudice non può limitarsi a ricondurre la determinazione adottata nell'ambito della discrezionalità di merito spettate all'organo deliberativo, ma deve valutare, sulla base degli elementi di prova o indicazioni offerti dalle parti, in ordine (ad esempio, ai parametri di mercato in vigore per condominii di analoghe dimensioni) se, nel determinare la misura del compenso, la delibera abbia effettivamente perseguito l'interesse dei partecipanti del condominio ovvero sia stata ispirata dall'intento di recare vantaggi all'amministratore in carica (Cass. II, n. 7615/2023).

Proprio perché la proposta deve essere completa di tutti gli elementi essenziali del contratto e tale, dunque, che l'oblato, con una sola manifestazione di volontà conforme, produca la conclusione del contratto, non sembra, invece, che l'assemblea possa esimersi dall'assumere una esplicita statuizione sul punto, rimettendo la determinazione sulla retribuzione al proposto amministratore, con successivo recepimento in altro deliberato assembleare: sicché, in assenza di specificazione del compenso la nomina è nulla, estendendosi l'invalidità all'intero contratto e non soltanto al sistema di determinazione del corrispettivo, risultando in tal modo precluso il ricorso, ai fini della determinazione dello stesso, ai criteri suppletivi delle tariffe o degli usi, ex artt. 1709 e 1419, comma 2, c.c.

Rinviandosi sul punto, funditus, al commento all'art. 1129 c.c., vale comunque la pena evidenziare che, per quanto l'attività dell'amministratore, connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali e non esorbitante dal mandato con rappresentanza debba ritenersi compresa, quanto al suo compenso, nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell'incarico per tutta l'attività amministrativa, rientra comunque nelle competenze dell'assemblea quella di riconoscergli, con una specifica delibera, un compenso aggiuntivo al fine di remunerare un'attività straordinaria, non ravvisando sufficiente il compenso omnicomprensivo in precedenza accordato (arg. da Cass. II, n. 5014/2018).

In ogni caso – osserva Cass. Sez. II, n. 36430/2021- le controversie sulla determinazione del compenso dell'amministratore di condominio rientrano nella competenza del giudice ordinario e non in quella del giudice del lavoro, giacché il rapporto tra quello ed il condominio non solo è qualificabile in termini di mandato (le cui disposizioni sono applicabili ex art. 1129, comma 15, c.c., per quanto non disciplinato in modo specifico da detta norma), ma è, altresì, privo del requisito della coordinazione ed ingerenza caratterizzante la parasubordinazione ex art. 409, comma 1, n. 3., c.p.c., stante la particolare natura del condominio (soggetto sostanzialmente privo di organizzazione ed avente come unico fine la gestione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva), la quale esclude sia qualsiasi inserimento dell'amministratore in una qualche organizzazione esterna, che un potere continuo e diffuso di intervento ed intromissione del preponente, tanto più considerato che la l. n. 220 del 2012 ha ulteriormente delineato l'attività dell'amministratore in termini di professionalità e autonomia.

Quanto, poi, alle comunicazioni che l'amministratore è tenuto ad eseguire nei confronti del condominio all'atto dell'accettazione (cfr. l'art. 1129, comma 2, c.c., ma anche il successivo comma 5 che prevede che sul luogo di accesso al condominio o di maggior uso comune, accessibile anche ai terzi, è affissa l'indicazione delle generalità, del domicilio e dei recapiti, anche telefonici, dell'amministratore), chiarisce l'art. 1129, comma 12, n. 8), c.c., che l'omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati indicati costituisce «grave irregolarità», sanzionata con la revoca: poiché è lo stesso legislatore che impone che tale comunicazione avvenga «contestualmente» all'accettazione della nomina (e ad ogni rinnovo dell'incarico), se ne trae la conclusione per cui si tratta di informazioni non richieste ai fini di una corretta formazione della volontà negoziale e, dunque, incidenti non già sulla fase genetica del rapporto (che deve ritenersi perfezionata con il semplice raggiungimento dell'in idem placitum sulle condizioni di svolgimento dell'incarico), ma su quella esecutiva. «Il dovere informativo in esame non è, in sostanza, relativo a circostanze di cui mettere a corrente i condomini prima della deliberazione di designazione. L'obbligo di informazione è esigibile, piuttosto, contestualmente all'accettazione della nomina o del rinnovo, e quindi già in fase esecutiva del mandato. Il difetto di una comunicazione completa e veritiera dei dati anagrafici e dei recapiti dell'amministratore, non relazionandosi ad un obbligo precontrattuale di informazione incombente sul mandatario, non è dunque sanzionato con l'annullamento della nomina, ma identificato come «grave irregolarità», motivo di possibile revoca. L'omissione informativa, elevata a causa di rimozione dell'amministratore, viene, cioè, presuntivamente intesa come condotta che possa pregiudicare o porre in pericolo gli interessi comuni» (Scarpa 2018, 11).

In ogni caso, per quanto concerne i rapporti con i terzi, la nomina di un nuovo amministratore che sostituisca il dimissionario, per spiegare efficacia, deve avvenire con una formale deliberazione di nomina del suo successore, a norma dell'art. 1129 comma 1 c.c., l'unica che possa agevolmente e con certezza essere conosciuta dagli estranei, quando devono negoziare con il condominio o agire in giudizio nei suoi confronti: in applicazione del principio generale di tutela dell'affidamento nei rapporti intersoggettivi, non si può prescindere dall'emanazione dell'atto formale previsto dalla legge per il conferimento, la estinzione e la modificazione dei poteri rappresentativi, affinché la sua efficacia possa essere opponibile ai terzi (Cass. II, n. 14599/2012).

Segue. La conferma

Sancisce l'art. 1129, comma 10 c.c., che l'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata. La norma è decisamente innovativa rispetto all'originaria formulazione dell'art. 1129, comma 2, c.c., che fissava semplicemente in un anno la durata dell'incarico dell'amministratore, senza altro prevedere: sicché, collegando tale previsione a quella dell'art. 1722, comma 1, c.c. in tema di mandato (per cui il mandato si estingue, tra le altre cause, proprio per la scadenza del termine), ne sarebbe derivata l'automatica decadenza dell'amministratore allo spirare del termine annuale dalla nomina. Di contrario avviso, però, la giurisprudenza, per cui la previsione dell'originario comma 2 non sanciva una decadenza ope legis né escludeva la tacita riconferma di anno in anno, quale effetto della mancata nomina di altro amministratore (Cass. II, n. 3727/1968) o, più correttamente, la proroga dei poteri di rappresentanza dell'amministratore fino alla sua sostituzione con altro amministratore da parte dell'assemblea dei condomini o del giudice (Cass. II, n. 705/1994; Cass. II, n. 7256/1986; Cass. II, n. 572/1976; Cass. II, n. 2293/1961).

Sennonché, la previsione di un automatico (tacito) rinnovo alla scadenza crea difficoltà di coordinamento con il successivo art. 1135, comma 1, n. 1), prima parte, c.c., il quale prevede che l'assemblea delibera sulla conferma dell'amministratore: si è posto, in particolare, il problema della sovrapponibilità tra rinnovo (tacito) e conferma (espressa) o, alternativamente, della individuazione di un diverso ambito di operatività. Le tesi oscillano tra chi afferma la superfluità della convocazione di un'assemblea per la mera conferma dell'amministratore (Celeste-Scarpa, 122; Nasini, 772), mentre essa sarebbe necessaria per il caso di conferma conseguente a richiesta di sua revoca o di dimissioni dello stesso (sottospecificazione di tale orientamento è quella tesi dottrinaria per cui la «conferma» si avrebbe allorché, alla scadenza del secondo anno, l'assemblea ribadisca – formalmente ed espressamente – la scelta di quello stesso amministratore, con un atto che si sostanzia in una nuova nomina, alle medesime condizioni del precedente contratto – che, quindi non vengono riesaminate – e per lo stesso periodo – coincidente con quello indicato dall'art. 1129, comma 10, c.c. e, cioè, un anno con rinnovo automatico in difetto di disdetta. Così lazzaro-di marzio-petrolati, 527) e chi, analogamente sostiene che per conferma in senso proprio dovrebbe intendersi solo una nuova nomina del medesimo soggetto cessato dall'incarico alla scadenza del biennio, deponendo in tal senso alcune considerazioni: 1) nei contratti di durata è generalmente previsto il rinnovo tacito del contratto stesso, salvo disdetta da inviarsi da una delle parti contraenti entro un certo periodo, mentre alcunché è stato previsto dal legislatore nella fattispecie; 2) il contratto che si rinnova mantiene le stesse condizioni, anche economiche, originarie e sarebbe dunque impensabile che l'amministratore non modifichi il suo compenso per un numero imprecisato di mandati (Tortorici 2013, 623).

Tale ultima osservazione desta, tuttavia, qualche perplessità: ed infatti, in caso di rinnovo tacito (che, dunque, non implicherebbe il ricorso all'assemblea), la questione della validità della nomina in relazione all'onere di determinazione del compenso, sembra restare aperta e non risolvibile nei termini esposti in precedenza, giacché l'art. 1129, comma 14, c.c. prevede che anche all'atto del rinnovo l'amministratore debba specificare analiticamente, a pena di nullità, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta: se, dunque, il rinnovo automatico nell'incarico avviene senza passaggio assembleare, è davvero problematico ipotizzare in quale modo avvenga lo scambio (pur sempre richiesto dal legislatore) tra proposta e accettazione su tale elemento essenziale, non potendosi, peraltro, neppure ipotizzare una valida predeterminazione del compenso per il periodo di rinnovo al momento della prima nomina, richiedendosi espressamente che essa avvenga «all'atto» del rinnovo.

La questione non trova, ad ogni buon conto, unità di vedute neppure in giurisprudenza. Secondo Trib. Brescia, 15 aprile 2016, il riformato art. 1129 c.c. va interpretato nel senso che dopo il primo incarico annuale segue ex lege – in assenza di revoca o dimissioni – un solo rinnovo tacito di un anno con pienezza di poteri e, per il periodo successivo, stante a cessazione ex lege dell'incarico, la necessità della convocazione di una specifica assemblea per la conferma o la nomina di un nuovo amministratore: fino all'adozione di tale delibera, peraltro, l'amministratore tacitamente rinnovato – ma successivamente cessato dall'incarico – risentirebbe della limitazione dei proprio poteri al compimento, in regime di prorogatio, delle sole attività urgenti, al fine di evitare pregiudizi alle cose comuni, come fissato dall'art. 1129, comma 8, c.c. (tale tesi è stata sostenuta anche in dottrina da Carrato 2015, 202) Secondo una diversa impostazione, al contrario, la norma va interpretata nel senso che l'incarico di amministratore condominiale ha durata annuale e che, allo scadere del primo anno, si rinnova automaticamente, di anno in anno, per eguale durata, senza alcuna necessità di convocare l'assemblea per decidere se rinnovare o meno il mandato, salva però sempre la facoltà di deliberare la revoca (Trib. Cassino, 21 gennaio 2016).

  La questione sembra avere trovato una soluzione definitiva alla luce di Cass. II, n. 14039/2025(chiamata a pronunziarsi sulla revocabilità, in sede giudiziaria, dell'amministratore dopo la scadenza del secondo anno)la quale ha optato per la prima delle soluzioni proposte: “In base all'art. 1129 comma 10 c.c., - si legge in motivazione - decorso il secondo anno dall'assunzione dell'incarico, l'amministratore cessa dalla carica in maniera automatica, senza che sia necessaria a tal fine una decisione assembleare, e vengono meno i suoi poteri gestori. In tale evenienza, l'art. 1129 comma 8 c.c. prescrive che l'amministratore cessato dalla carica debba consegnare tutta la documentazione in suo possesso, relativa al condominio e ai condomini, ed eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni, senza diritto ad ulteriori compensi” e da ciò ha tratto la conclusione per cui “La drastica compressione dei poteri gestori dell'amministratore, pressoché annullati al maturare del biennio dalla nomina, induce ad escludere, per i condomini, la necessità, la possibilità e, in chiave processuale, l'interesse a chiedere la revoca dell'amministratore con il procedimento di volontaria giurisdizione delineato dall'art. 1129 comma 11 c.c. Piuttosto, quando i condomini sono più di otto – come dispone il primo comma dello stesso articolo - se l'assemblea non vi provvede, la nomina del nuovo dell'amministratore può essere chiesta al giudice. Nulla vieta, infine, che si inizi un giudizio a cognizione piena al fine di accertare le inadempienze dell'amministratore non più in carica”.  

Rinviando all'approfondimento che, sul punto, sarà svolto nel commento all'art. 1129 c.c., preme in questa sede evidenziare che la conferma dell'amministratore è parificata dalla giurisprudenza, quanto alla maggioranza richiesta per l'adozione della relativa delibera, alla nomina e, dunque, soggiace alla prescrizione contenuta all'art. 1136, comma 4, c.c. (Trib. Avellino, 17 novembre 2017). Tale orientamento, conforme ai costanti arresti della Suprema Corte (Cass. II, n. 4269/1994; v. Cass. II, n. 3797/1978; Cass. II, n. 71/1980), fonda sulla considerazione per cui i medesimi presupposti di validità (e dunque gli stessi quorum) che richiesti per la nomina dell'amministratore devono valere anche per la sua conferma nella carica, avendo le due deliberazioni contenuto ed effetti giuridici eguali e differendo soltanto per la circostanza della continuità del rapporto fiduciario, assente in caso di prima nomina. Tale soluzione pare tra l'altro del tutto conforme alle prescrizioni contenute nell'art. 71-bis disp. att. c.c. (che richiede la permanenza dei presupposti ivi prescritti durante tutta la vigenza del rapporto) e nell'art. 1129, comma 14, c.c. che parifica, quoad effectum, la mancata indicazione, da parte dell'amministratore, del compenso in ipotesi di nomina, come di successiva conferma.

Segue. La revoca

L'amministratore – per concludere sul punto – può essere «in ogni tempo» revocato da parte dell'assemblea dei condomini e dall'autorità giudiziaria (art. 1129, comma 11, c.c.): ciò a conferma (nell'attuale come nel previgente regime: cfr. art. 1129, comma 3, c.c.) della piena legittimità di una revoca ad nutum anche prima della scadenza del termine annuale di permanenza nell'incarico. In altri termini, la revoca dell'amministratore (che, tra l'altro – come si vedrà tra breve – può inferirsi implicitamente dalla sopravvenuta legittima nomina di un altro amministratore) può avvenire in qualsiasi momento e, quindi, anche prima della scadenza fisiologica del mandato legittimamente conferito, senza che sia richiesta la menzione o la sussistenza di una giusta causa, poiché il rapporto tra amministratore ed assemblea riposa esclusivamente sulla fiducia che i partecipanti al condominio nutrono nei suoi confronti (Celeste-Scarpa, 1269). La maggioranza assembleare richiesta per la validità della delibera di revoca è, come previsto dall'art. 1129, comma 11, c.c., la stessa richiesta per la nomina dell'amministratore: in base al combinato disposto dei commi 4 e 2 dell'art. 1136 c.c. è, dunque, richiesto per la sua approvazione, un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Né deve trarre in inganno quella parte del comma 11, ove è precisato che l'amministratore può essere revocato «con le modalità previste dal regolamento di condominio»: ed infatti, stante la natura inderogabile tanto dell'art. 1136 c.c. (contenente le disposizioni in tema di quorum deliberativi e costitutivi anche relativamente alla revoca, come visto) quanto dello stesso art. 1129 c.c., in dipendenza della loro inclusione nell'elencazione di cui all'art. 1138, comma 4, c.c., tale espressione pare potersi riferire ad eventuali disposizioni di natura regolamentare afferenti alla disciplina della discussione che l'assemblea deve tenere in occasione della votazione sulla revoca dell'amministratore, alle modalità di voto ovvero, ancora, alla necessità di sentire l'amministratore da sfiduciare nel contraddittorio con i condomini e previa contestazione scritta degli addebiti (Rota, 687). In sede di deliberazione avente ad oggetto la revoca dell'amministratore, l'assemblea dei condomini deve altresì provvedere, alla luce di quanto previsto dall'art. 1129, comma 10, c.c., alla nomina del nuovo amministratore, e ciò dichiarato fine non solo di evitare vacanze nella gestione ordinaria dei beni comuni, ma anche che l'amministratore revocato possa comunque provvedere agli atti urgenti, secondo quanto previsto dal comma 8 dell'art. 1129 c.c. per ogni ipotesi di cessazione dall'incarico.

Concorde con tale assunto è la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l'amministratore di condominio non ha alcun diritto alla permanenza nell'incarico, pur precisando che, in ipotesi di anticipata risoluzione del rapporto senza giusta causa, egli, se non può pretendere alcuna tutela reale, ha comunque diritto ad una tutela di carattere risarcitorio (Cass. S.U., n. 20957/2004): chiara in tal senso Cass. II, n. 7874/2021, la quale, a margine di una più ampia ricostruzione del contratto di amministrazione di condominio, precisa che l'amministratore di condominio, in ipotesi di revoca deliberata dall'assemblea prima della scadenza del termine previsto nell'atto di nomina, ha diritto, oltre al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, anche al risarcimento dei danni, in applicazione dell'art. 1725, comma 1, c.c., salvo che sussista una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico.Il giudizio sulla esistenza o meno, in concreto, di una giusta causa rientra nelle attribuzioni del giudice di merito, alla stregua di una valutazione insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Cass. II, n. 8837/1999). Così, ad esempio, si è ritenuto che non rappresentasse una giusta causa di revoca l'omessa comunicazione, da parte dell'amministratore, dell'avvenuta impugnazione di una delibera condominiale, non essendo tale condotta obiettivamente in grado di inficiare il rapporto fiduciario con il condominio (Cass. II, n. 8837/1999); ugualmente, partendo dal presupposto per cui il fondato sospetto di gravi irregolarità di cui all'art. 1129 c.c. ricorre esclusivamente in presenza di comportamenti gravemente significativi del venir meno del necessario rapporto di fiducia tra amministratore e condomini, tale situazione è stata esclusa nel caso di lamentele attinenti a una gestione avallata dalla maggioranza assembleare con delibere non impugnate dai condomini ricorrenti (Trib. Modena 18 gennaio 2017 e 16 maggio 2007). Allo stesso modo, il mero modesto ritardo nell'assunzione di un'incombenza (nella specie, era stato contestato all'amministratore di non essersi attivato con solerzia nell'attività di risarcimento dei danni subiti da un condomino, ritardo considerato fisiologico dei rallentamenti decisionali ed operativi connessi alle decisioni assembleari), qualora non si traduca in una forma di colpevole inerzia, non è sufficiente ad integrare una grave violazione dei doveri dell'amministratore suscettibile di portare alla revoca dello stesso ex art. 1129 c.c. (Trib. Milano, 3 marzo 2017). È suscettibile di revoca per gravi irregolarità l'amministratore condominiale che, in sostanziale assenza di vantaggi per l'assemblea ma anzi con aggravio di spese, ingeneri confusione tra il proprio patrimonio e quello del condominio, anche attraverso lo schermo di una società di cui abbia maggioranza e controllo (Trib. Modena 18 gennaio 2017). Del pari, la modificazione di parti comuni dell'edificio condominiale (mediante l'apertura di un foro al di sopra di una porta tagliafuoco), autonomamente operata dall'amministratore con modalità che abbiano poi determinato la decadenza del certificato di prevenzione incendi, come pure la superficialità nella tenuta dei registri di cui al novellato art. 1130 c.c. e nella comunicazione dei dati previsti dal riformato art. 1129, comma 2, c.c., integrano comportamento inescusabile, atto a determinarne la revoca (App. Trento, 7 novembre 2014). Non costituisce grave irregolarità, suscettibile di giustificarne la revoca, la mancata installazione della targhetta identificativa dei dati dell'amministratore di condominio (Trib. Firenze, 15 dicembre 2014).

Ad ogni modo, l'art. 1129, commi 11 e 12, c.c., come novellato dalla l. n. 220/2012, ha tipizzato, sia pure in via esemplificativa e non tassativa, le ipotesi di revoca dell'amministratore di condominio, ampliando il novero di casi, normativamente definitivi, di giusta causa di risoluzione anticipata del rapporto: va da sé che, pur trattandosi di previsione volta ad orientare l'Autorità giudiziaria adita a seguito di ricorso di un condomino (procedimento di volontaria giurisdizione nel quale, si badi, non è ammessa la partecipazione del condominio o di altri condomini, interessato e legittimato a contraddire essendo soltanto l'amministratore. Così Cass. VI-2, n. 4696/2020),  si tratta certamente di casi in cui è possibile scorgere quella giusta causa che, a seguito dell'adozione della delibera di revoca, priva l'amministratore di qualsivoglia diritto a compenso o ristoro di sorta per la anticipata interruzione del rapporto: una conferma indiretta a tale ipotesi ricostruttiva si evince, d'altronde, dall'esame della prima parte del comma 11, ove è previsto che nei casi in cui siano emerse gravi irregolarità fiscali o di mancata apertura ed uso del conto corrente condominiale (dunque, due ipotesi tipizzate di revocabilità dell'amministratore per via giudiziaria), i condomini, anche singolarmente, possono, prima di ricorrere all'Autorità giudiziaria, chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione e revocare il mandato all'amministratore. Ad ogni buon conto, tra i casi espressamente previsti dal legislatore, oltre alla mancata comunicazione della notifica di atti introduttivi di giudizi intentati nei confronti del condominio (fattispecie già disciplinata dall'originario comma 3 dell'art. 1129 c.c. e che si spiega con la limitata legittimazione passiva dell'amministratore di condominio, quale conseguenza di Cass. S.U., n. 18332/2010 e Cass. S.U., n. 471/2015, con l'evidente rischio, che ne discende, di esporre il condominio ad una dichiarazione di contumacia), alla mancata presentazione del rendiconto annuale (previsione da collegare ai successivi artt. 1130, n. 10), e 1130-bis c.c. In proposito, il vecchio testo riteneva significativo la mancata presentazione del «bilancio» condominiale per almeno due anni) ed alle gravi irregolarità fiscali, risultano elencati l'omessa convocazione dell'assemblea per l'approvazione del rendiconto condominiale, il ripetuto rifiuto di convocare l'assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore, la mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell'assemblea, la mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale, la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini, l'aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio, l'aver omesso di curare diligentemente l'azione volta al recupero di crediti condominiali e la conseguente fase esecutiva, l'inottemperanza agli obblighi di tenuta dei nuovi registri condominiali contemplati dall'art. 1130, nn. 6), 7) e 9), c.c. nonché l'omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei propri dati al momento dell'accettazione dell'incarico, ex art. 1129, comma 2, c.c.

La revoca assembleare, peraltro, oltre che espressa può essere anche tacita, a seguito della nomina di un nuovo amministratore senza che questa sia preceduta dalla previa revoca di quello uscente, trovando applicazione la norma sulla revoca tacita del mandato ex art. 1724 c.c. In tal senso è chiara la recente Cass. II, n. 9082/2014, la quale afferma che «naturalmente, le norme sul mandato trovano applicazione nei limiti in cui siano compatibili con le specifiche disposizioni dettate in materia di condominio degli edifici, tenuto conto della sua natura di ente di gestione delle parti e dei servizi comuni: la volontà dei condomini si forma attraverso le deliberazioni assunte, ex art. 1136 c.c., dall'assemblea alle quali viene data esecuzione dall'amministratore. Peraltro, la peculiarità della disciplina del condominio non esclude l'applicazione della norma di cui all'art. 1724 c.c. dettata in tema di revoca tacita del mandato. Al riguardo, deve sottolinearsi che, ai sensi dell'art. 1129 c.c., l'amministratore può essere revocato in ogni tempo dall'assemblea e, quindi, anche prima della scadenza annuale senza alcuna motivazione ovvero indipendentemente da una giusta causa. La norma ha la finalità di assicurare che la gestione dei beni e dei servizi – che deve soddisfare gli interessi comuni – riscuota la costante fiducia dei condomini: pertanto, l'assemblea – nell'esercizio delle sue prerogative – ben può procedere alla nomina del nuovo amministratore senza avere preventivamente revocato l'amministratore uscente». Negli stessi termini, anche Cass. II, n. 5608/1994.

Rinviando al commento all'art. 1129 c.c. per quanto riguarda le specifiche differenze tra revoca assembleare e revoca giudiziale ed in aggiunta a quanto innanzi accennato circa l'utilizzabilità delle cause tipizzate dal legislatore per il procedimento di revoca giudiziaria, preme in questa sede evidenziare come la vera grande differenza tra le due ipotesi debba essere ravvisata nella previsione, contenuta al comma 13, per cui, in caso di revoca da parte dell'autorità giudiziaria (e solo in tale ipotesi), l'assemblea non può nominare nuovamente l'amministratore revocato. In ogni caso si segnala, quanto alla revoca giudiziaria, la recente Cass. II, n. 14039/2025 (cfr. supra), la quale, a proposito della posizione dell'amministratore successiva alla scadenza del biennio dalla nomina, ha escluso la percorribilità del ricorso all'A.G. con il procedimento di volontaria giurisdizione delineato dall'art. 1129 comma 11 c.c., per effetto della drastica compressione dei poteri gestori dell'amministratore medesimo, pressoché annullati al maturare del biennio stesso.

La dottrina (Rota, 687) ha salutato con favore l'introduzione di tale divieto, contrastante con la prassi assembleare di nominare nuovamente l'amministratore revocato. La norma non precisa, peraltro, se detto divieto sia perpetuo (e, dunque, l'assemblea non possa più nominare, in futuro, l'amministratore revocato giudizialmente) ovvero se tale impedimento si applichi unicamente per il successivo esercizio di gestione: si propone una lettura restrittiva della norma, ritenendosi che il divieto di rinomina dell'amministratore revocato ed il relativo impedimento operi unicamente con riguardo all'esercizio di gestione successivo a quello in cui è avvenuta la revoca ad opera dell'autorità giudiziaria.

Alla revoca consegue, come detto, la cessazione dell'amministratore dall'incarico e l'automatica operatività dell'art. 1129, comma 8, c.c., per cui lo stesso non solo è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini, ma anche – in attesa dell'accettazione della nomina da parte del nuovo amministratore – ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi.

Con particolare riferimento alla documentazione da consegnare, si segnala quanto esplicitato da Trib. Palermo, 28 gennaio 2014 che ha tentato di individuare analiticamente di quale documentazione si tratti: «in particolare, e pur facendosi salvo il richiamo ai documenti indicati dal combinato disposto di cui agli artt. 1130 e 1130-bis c.c., è stato fatto obbligo all'amministratore uscente – si legge nella motivazione dell'ordinanza del giudice siciliano – di consegnare al Condominio ricorrente i seguenti atti e documenti: 1) Ultimo bilancio approvato, con reso conto successivo sino al passaggio delle consegne; Elenco dei condomini e relativi indirizzi (registro anagrafe condominiale); Tabelle millesimali e Regolamento condominiale; Chiavi e timbri del condominio; Registri dei verbali di assemblea; Contratti con le ditte fornitrici e relative fatture solutorie (Enel, Acqua, Manutenzione ascensore, Pulizia scala, autoclave, ecc.); Libretti di esercizio e documentazione relativa agli impianti comuni; Codice fiscale del condominio; Passaggio del conto corrente e/o dei conti correnti condominiali e chiavi di accesso on line; Polizza di assicurazione del fabbricato; Certificato di prevenzione incendi; Contratto di appalto lavori risanamento facciata, stato di avanzamento lavori, certificato di collaudo e di esecuzione a regola d'arte dell'opera; Disciplinare d'incarico con il direttore dei lavori; Provvedimento del Comune di Palermo, settore Centro Storico di concessione del contributo pubblico e le distinte bancarie dei versamenti ricevuti, oltre a tutta la documentazione afferente; Atti giudiziari per i contenziosi che hanno medio tempore coinvolto il Condominio; Certificazione del modello 770, nonché la comunicazione all'anagrafe tributaria dell'ammontare dei beni e servizi, anche per l'amministratore cessato dalla carica per il suo subentro; Documentazione di chiusura cassa; Ogni altra documentazione condominiale di carattere contabile o amministrativo necessaria o utile alla prosecuzione della gestione corrente».

Su tale precipuo aspetto merita di essere menzionata anche Cass. VI-2, n. 18185/2021 , che indugia sull'individuazione del soggetto legittimato a richiedere all'amministratore uscente la restituzione della documentazione condominiale. Se, infatti, tale adempimento è normalmente posto in essere dall'amministratore subentrante (il quale è legittimato ad agire nei confronti del precedente per la restituzione dei documenti occorrenti all'esercizio della gestione condominiale senza necessità di autorizzazione assembleare, perché la legittimazione attiva processuale, conferita dall'art. 1130 c.c. per lo svolgimento delle attribuzioni ivi previste comprende quella, prioritaria ed indispensabile per l'espletamento dei singoli momenti gestori, tra cui il recupero della documentazione relativa alla gestione precedente. Così Cass. II, n. 13504/1990), “spiegando la delibera di nomina efficacia nei confronti anche dei terzi ai fini della rappresentanza sostanziale del condominio” (così, in motivazione, alla p. 4, l'ordinanza in esame), può nondimeno porsi il caso in cui alla cessazione dell'incarico non segua la nomina di un nuovo amministratore, con conseguente persistente efficacia – sia pure ai limitati fini di cui all'art. 1129, comma 8, c.c., concernenti le attività indispensabili ed urgenti per evitare nocumento al condominio – dell'incarico conferito al precedente amministratore. Spiega la Suprema Corte che, in tal caso, la presunzione di pari poteri gestori in capo ai singoli condomini (arg. da Cass. III, n. 549/2012), unitamente all'estinzione del “mandato” collettivo di cui l'amministratore è investito rendono, ad un tempo, esigibile l'obbligo restitutorio ed attuale la legittimazione alla formulazione della relativa richiesta da parte di ciascuno dei comproprietari: sicché - osserva la decisione in commento - “la mancata nomina…non legittima…uno ius retinendi con riguardo alla documentazione né un esonero dal rendiconto dell'amministratore uscente, intercorrendo il rapporto di amministrazione pur sempre con i singoli condomini mandanti del mandato collettivo, e non con il condominio inteso quale soggetto distinto ed unitariamente considerato. Trovando applicazione nel contratto che intercorre tra l'amministratore e i condomini le norme sugli obblighi e sulle attribuzioni del primo di cui agli artt. 1129 e 1130 c.c., e, per quanto non disciplinato, le disposizioni in tema di mandato (art. 1129 c.c., penultimo comma), alla scadenza l'amministratore è comunque tenuto a consegnare la documentazione in suo possesso ed a rendere il conto anche su richiesta del singolo condomino, stante la già avvenuta estinzione del mandato collettivo e potendosi presumere che tale richiesta interessi egualmente tutti i vari condomini, in quanto affare ad essi comune”.

Supercondominio, condominio parziale e condominio minimo

In tema di nomina (conferma) e revoca dell'amministratore, vi sono, poi, alcune ipotesi peculiari che meritano di essere trattate, pur non essendo direttamente coinvolte dagli artt. 1129 e 1135, comma 1, n. 1), c.c.

Come più volte ripetuto, una delle maggiori novità introdotte dalla riforma consiste nell'avvenuto riconoscimento del fenomeno del «supercondominio», come confermato dalla previsione, di carattere generale, contenuta all'art. 1117-bis c.c. (per cui «le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'articolo 1117») e dalla disciplina di dettaglio contenuta nell'art. 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c. (ai cui commenti rispettivamente si rinvia). Il c.d. supercondominio, in particolare, viene ad esistenza ipso iure et facto – se il titolo non dispone altrimenti – senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni né, tanto meno, di approvazioni assembleari, essendo all'uopo sufficiente che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, pro quota, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati (Cass. II, n. 32237/2019; Cass. II, n. 1344/2018; Cass. II, n. 27094/2017; Cass. II, n. 19939/2012; Cass. II, n. 7826/1996). In sostanza, più edifici, relativamente autonomi, quanto alla struttura materiale, e costituiti in altrettanti condomini, di fatto (o per titolo) sono riuniti in un condominio più ampio, beneficiando in comune di alcune cose, impianti e servizi (solitamente il viale di ingresso, l'impianto centrale per il riscaldamento o per l'acqua calda, il parcheggio e, per l'appunto, il locale per la portineria o per l'alloggio per il portiere). Anteriormente alla novella del 2012 si era chiarito (Cass. II, n. 7286/1996) che ciascun condomino, proprietario di alcuna delle unità immobiliari ubicate nei diversi edifici che lo compongono, era legittimato ad agire per la tutela delle parti comuni degli stessi ed a partecipare alla relativa assemblea: con la conseguenza che le disposizioni dell'art. 1136 c.c., in tema di formazione e calcolo delle maggioranze, erano state ritenute applicabili considerando gli elementi reale e personale del medesimo supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le porzioni comprese nel complesso e da tutti i rispettivi titolari (Cass. II, n. 4340/2013).

Allo stato, se tale regime residua per qualsivoglia tipologia di deliberazione, ove il supercondominio sia composto da partecipanti in numero di sessanta o inferiore ovvero, se superiori a sessanta, si tratti di delibere involgenti la straordinaria amministrazione, al contrario, laddove il numero dei partecipanti sia superiore a sessanta e si verta al cospetto di deliberazioni concernenti la nomina dell'amministratore (ovvero l'ordinaria amministrazione), l'art. 67 disp. att. c.c. disegna una fattispecie del tutto nuova e con caratteristi peculiari, ricostruibile in termini di delega collettiva obbligatoria: in tal caso, infatti, ciascuno dei più condominii facenti parte del più ampio complesso immobiliare è obbligato a designare, con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 5, c.c., un proprio rappresentante all'assemblea (non necessariamente coincidente con l'amministratore del condominio, emergendo tale alterità soggettiva dall'art. 67, comma 4, disp. att. c.c.); se l'assemblea non vi provvede, ciascun partecipante può chiedere che sia l'autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio mentre, qualora alcuni dei condominii coinvolti vi abbiamo provveduto, mentre altri non abbiano nominato il proprio rappresentante, alla nomina provvede, previa diffida, il tribunale, su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati. Nel silenzio della norma si ritiene (Scarpa, 691) che la designazione del rappresentante d'edificio debba valere a tempo indeterminato e non vada, perciò, effettuata di volta in volta per la singola assemblea di supercondominio da tenersi.

Dunque, la nomina (come la conferma) dell'amministratore del supercondominio è rimessa ai rappresentati dei condominii che ne fanno parte – a propria volta eletti dalle rispettive assemblee condominiali con le maggioranze ex art. 1136, comma 5, c.c. (e, dunque, una maggioranza diversa da quella prevista dal combinato disposto dei commi 2 e 4 del medesimo art. 1136 c.c. per la nomina dell'amministratore) – e non già ai singoli proprietari esclusivi delle unità immobiliari ivi ubicate: cionondimeno, il calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi, secondo le maggioranze ex artt. 1129, comma 11, e 1136, commi 2 e 4, c.c. (norme ormai da ritenersi pacificamente applicabili al supercondominio, in virtù del generale richiamo contenuto all'art. 1117-bis c.c.) avverrà avuto riguardo agli elementi reale e personale configurati da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i proprietari rappresentati (e non, quindi, in base al numero dei rappresentanti intervenuti). Il che significa, detto in altri termini, che, sia pure per il meccanismo di rappresentanza legale obbligatoria di cui si è detto, alla regolare costituzione del collegio del supercondominio ed all'approvazione delle rispettive decisioni concorrono tutti i condomini, con i rispettivi valori millesimali.

L'art. 67 disp. att. c.c. alcunché dice, invece, con riferimento alla revoca.

Trib. Milano, 30 agosto 2016, con un'interpretazione particolarmente restrittiva e letterale del comma 3 dell'art. 67 disp. att. c.c., ha escluso che l'assemblea dei rappresentanti possa deliberare sulla revoca dell'amministratore del supercondominio, sostenendo che il riformato art. 67, così chiaro nel prevedere i precisi compiti attribuiti ai rappresentanti, non lascerebbe spazio, proprio perché disposizione «eccezionale», ad applicazioni analogiche ovvero a letture estensive: pertanto, trattandosi di deroghe che, comprimendo le facoltà ed i poteri inerenti alla partecipazione dei singoli all'organo collegiale, rappresentano un «vistoso vulnus al principio di democrazia partecipata in seno al condominio che vede, quali protagonisti, unicamente i condomini e non i soggetti delegati», le stesse non possono che essere considerate quali norme di diritto singolare, e perciò oggetto soltanto di stretta interpretazione. Da qui la conseguenza – che se ne dovrebbe trarre – per cui, laddove la Riforma chiama i rappresentanti ad intervenire sulla sola gestione ordinaria del supercondominio e li investe della nomina dell'amministratore, implicitamente colloca la revoca di tale nomina, in quanto non menzionata, tra gli atti di «straordinaria amministrazione».

Ha confermato tale ricostruzione App. Milano, 9 maggio 2018, interessata del gravame proposto proprio avverso la decisione appena illustrata del tribunale meneghino, chiarendo che la deliberazione con cui l'assemblea dei rappresentanti dei singoli condominii componenti un complesso supercondominiale decida la revoca dell'amministratore deve ritenersi nulla poiché intervenuta su materia estranea alle sue istituzionali attribuzioni che l'art. 67, comma 3, disp. att. c.c., di carattere eccezionale e di conseguente insuscettibile di applicazione analogica, espressamente limitata alla sola gestione ordinaria delle parti comuni e alla nomina dell'amministratore.

Sennonché, tale soluzione è stata criticata in dottrina (Celeste), la quale ha osservato che, se l'assemblea dei rappresentanti del supercondominio ha, ex lege, il potere di nominare l'amministratore di quest'ultimo, essa non può non avere anche il (simmetrico) potere di revocarlo, non solo in quanto contrarius actus, ma anche considerando che la nomina di un nuovo amministratore determinerebbe, come illustrato in precedenza, la revoca implica di quello precedente (Cass. II, n. 9082/2014; Cass. II, n. 5608/1994): con il che, diversamente ragionando, si giungerebbe alla paradossale conclusione per cui la revoca rientrerebbe tra le competenze dell'assemblea dei rappresentanti, ove fosse implicitamente conseguente alla nomina di un nuovo amministratore, mentre essa spetterebbe all'assemblea dei partecipanti, ove fosse espressamente posta tra gli argomenti all'ordine del giorno. Inaccettabile risultando, da un punto di vista logico, prima che giuridico, una simile conclusione, si ritiene, pertanto, che l'assemblea del supercondominio, formata dai rappresentanti dei condominii singoli, possa essere convocata tanto per la revoca dell'amministratore in carica, quanto per la nomina del nuovo amministratore. Sotto altro profilo, poi, neppure appare decisiva la natura eccezionale dell'art. 67, comma 3, disp. att. c.c. Si è a tale riguardo anzitutto osservato (Scarpa, 2018) che, anteriormente alla Riforma del 2012, era principio pacifico quello per cui le previsioni dettate dall'art. 1136 c.c. in tema di convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze dovessero identicamente applicarsi pure con riguardo agli elementi reale e personale del supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le unità abitative comprese nel complesso e da tutti i proprietari: sicché essendo le norme concernenti la composizione ed il funzionamento dell'assemblea inderogabili pure dall'autonomia privata (in base al combinato disposto degli artt. 1136 e 1138, comma 4, c.c.), era altrettanto pacifico che neppure un regolamento cd. “contrattuale” avrebbe potuto validamente stabilire che l'assemblea di un “supercondominio” fosse costituita dagli amministratori dei singoli condomini, anziché da tutti i comproprietari degli edifici che lo compongono, non potendosi stabilire limiti alle norme poste a tutela delle minoranze negli organi collegiali, né potendosi fare in modo che la volontà maggioritaria, in tal modo espressa, non corrispondesse a quella dei condomini. Tale essendo, dunque, il principio di partenza da cui muovere, il novellato art. 67 disp. att. c.c. ha individuato due deroghe alle regole sulla composizione e sul funzionamento dell'assemblea dei partecipanti ad un supercondominio (ammettendo che, se questi sono complessivamente più di sessanta, siano ora i rappresentanti obbligatoriamente designati da ciascun condominio a prendere le decisioni sulla gestione ordinaria delle parti comuni e sulla nomina dell'amministratore), che comprimono le facoltà ed i poteri inerenti alla partecipazione dei singoli all'organo collegiale e, per ciò stesso, non possono che essere oggettivamente considerate quali norme di diritto singolare e, dunque, certamente insuscettibile di interpretazione analogica. Sennonché, “ammettere [...] la revoca dell'amministratore da parte dell'assemblea dei rappresentanti all'assemblea designati dai condominii, nei casi di cui all'art. 1117-bis c.c., costituisce nient'altro che il frutto di una interpretazione estensiva della disposizione “eccezionale” o “derogatoria” dell'art. 67, comma 3, disp. att. c.c., in quanto circoscritta ad un'ipotesi in cui il plus di significato, che si intende attribuire alla norma interpretata, non riduce la portata della regola con l'introduzione di una nuova eccezione, bensì si limita ad individuare nel contenuto implicito di una eccezione già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata [...] atteso che l'assemblea dei rappresentanti dei condomìni del supercondominio ha, ex lege, il potere di nominare l'amministratore di quest'ultimo, essa non può non avere anche il potere di revocarlo. Se si fa divieto all'assemblea dei rappresentanti del supercondominio di revocare l'amministratore in carica, si espropria la stessa dell'attribuzione, ad essa legislativamente ormai spettante, di nomina del nuovo amministratore. Sicché appare coerente, oltre che imposto dal carattere fiduciario del rapporto che si instaura tra assemblea nominante ed amministratore nominato, riservare all'organo collegiale tanto la competenza alla designazione, quanto, in forza del principio del contrarius actus, ovvero del principio di normale simmetria tra potere di nomina e potere di revoca, la competenza alla revoca del mandatario dapprima incaricato. Invero, se la nomina dell'amministratore da parte della maggioranza dei rappresentanti è espressione della volontà collegiale di costituire un vincolo contrattuale, l'estinzione di siffatto vincolo appare la più icastica rappresentazione di quel contrarius actus in cui si sostanzia, anche nel diritto privato, il concetto di revoca. L'assemblea del supercondominio deve, pertanto, potersi convocare per la revoca dell'amministratore in carica e per deliberare in ordine alla nomina del nuovo amministratore. Ove le si impedisca di procedere alla revoca, non le si può però impedire di procedere alla nuova investitura, ed appare formalistico, oltre che illogico, definire nulla la deliberazione assembleare che esplicitamente revochi il precedente amministratore ed invece valida quella che, limitandosi accortamente a nominare il suo successore, comporti soltanto per implicito il medesimo effetto estintivo del vecchio mandato”.

In senso favorevole si è invece osservato che “se [...] l'attribuzione di singole specifiche incombenze all'assise dei rappresentanti e il conseguente possibile vulnus alle prerogative gestorie individuali si giustifica in ragione delle esigenze di semplificazione e celerità che fanno da pendant alla relativa previsione di legge, il recupero alla competenza dell'assemblea dei condomini di ogni altra determinazione relativa alle parti comuni del condominio complesso interviene anche quale rimedio correttivo ad eventuali condotte di abuso o, comunque, a scelte non conformi alle indicazioni dei condominii deleganti” (Tedeschi, 2018). La medesima dottrina si sofferma, poi, sul “possibile inconveniente” determinato dalla circostanza che, laddove la revoca volontaria dell'amministratore venisse espunta dalle competenze dell'assemblea dei rappresentanti, si avrebbe la discrasia per cui all'esercizio di jus poenitendi posto in essere dall'assemblea allargata dovrebbe seguire la nomina del nuovo amministratore da parte dell'assise ristretta. “Poiché emanazione derivata di ciascun condominio, non è revocabile in dubbio che l'assemblea dei rappresentanti non possa privare il consesso nel quale confluiscono tutti i condomini di ciascun plesso componente il supercondominio delle proprie fisiologiche facoltà relative alla gestione dei beni e dei servizi in comproprietà. Il richiamo, quanto alla posizione del rappresentante, alle regole del contratto tipico di mandato al quale, comunque, in una prospettiva di qualificazione giuridica deve ricondursi la relazione che lo lega al relativo condominio designante conduce a ritenere che residui, in capo al delegante, il potere di compiere l'atto rimesso al mandatario e la cui adozione, peraltro, secondo quanto previsto dall'art. 1724 c.c., importa la revoca tacita della delega conferita. Pertanto, l'assemblea allargata del supercondominio va reputata titolata, nel rispetto dei quorum stabiliti dall'art. 1136 c.c., all'adozione di ogni atto gestorio, e ciò principalmente di quelli esulanti dalla gestione ordinaria e dalla designazione dell'amministratore – e, quindi, ben può delibare la revoca dell'amministratore designato dall'assemblea ristretta – ma nulla esclude che possa comunque assumere determinazioni anche nelle materie per le quali sussisterebbe la concorrente “competenza” dell'assemblea dei delegati, laddove ne emerga la concreta necessità. Può, quindi, affermarsi che l'assemblea composta dai condomini di ciascun condominio componente il complesso supercondominiale, nel rispetto della previsione dell'art. 1129, comma 10, c.c., decisa la revoca del precedente, possa designare il nuovo amministratore, garantendo, così, la continuità gestoria e senza rimettere ai propri rappresentanti la relativa decisione”. Va da sé che resta, però, inesplorato il campo della revoca implicita conseguente a nuova nomina (questa – certamente – di competenza dell'assemblea “ristretta”).

Diversamente, problemi di nomina non si pongono avuto riguardo al condominio parziale, siccome privo di una propria autonoma rilevanza esterna rispetto al più ampio condominio in cui si colloca. Esso infatti, come noto, rappresenta quel particolare fenomeno in virtù del quale la contitolarità dei beni e servizi comuni sia fin dall'origine limitata ad alcuni soltanto dei proprietari esclusivi delle unità immobiliari site nell'edificio condominiale: in sostanza, esistono alcuni beni e servizi destinati, per oggettive caratteristiche materiali e funzionali, al godimento solo di una parte dell'edificio ovvero di un gruppo di condomini rispetto ai quali – solo – si pone un problema di contitolarità nei termini di cui all'art. 1117 c.c. giacché la destinazione particolare vince la «presunzione» legale di comunione necessaria in favore di tutti i condomini, alla stessa maniera di un titolo contrario (si rinvia, per un approfondimento dell'argomento al commento agli artt. 1117 e 1123 c.c. nonché artt. 61 e 62 disp. att. c.c.). Orbene, dai numerosi interventi pretori si coglie la conclusione per cui il condominio parziale non assume alcuna rilevanza esterna – autonoma ovvero sostitutiva del «condominio unitario» – nei rapporti con i terzi, stante l'ininfluenza, nei confronti di costoro, dei criteri di ripartizione delle spese necessarie alla manutenzione delle parti comuni (Cass. II, n. 12641/2016; Cass. II, n. n. 2363/2012; Cass. II, n. 651/2000).

Con riferimento, infine, al condominio minimo, se non si pongono problemi teorici in ordine alla possibilità di nominare un amministratore, trattandosi sostanzialmente di una forma particolare – siccome ridotta a due soli compartecipi – di condominio composto da meno di nove condomini (in termini cfr. Cass. VI-II, n. 20071/2017), la vera questione concerne le maggioranze sulla cui base calcolare i quorum costitutivo e deliberativo: risolutiva in tal senso appare la recente Cass. II, n. 5329/2017 la quale chiarisce, nel condominio minimo, le regole codicistiche sul funzionamento dell'assemblea si applicano allorché quest'ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione «unanime», tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari; ove, invece, non si raggiunga l'unanimità o perché l'assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l'altro resti assente, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario. Dunque, in mancanza di unanimità, l'unica possibilità di procedere alla nomina di un amministratore è quella del ricorso all'autorità giudiziaria (sempre che essa sia prevista come obbligatoria dal regolamento ovvero, in mancanza di una clausola di tal fatta, si condivida la tesi che concede a qualunque condomino la possibilità di rivolgersi ad essa per la nomina dell'amministratore anche quando questa sia, come nella specie, facoltativa. Cfr. supra, par. «Il procedimento di nomina»).

La nomina del consiglio di condominio: rinvio

Il novellato art. 1130-bis, comma 2, c.c. prevede la possibilità che l'assemblea dei condomini nomini, altresì, oltre all'amministratore, un consiglio di condominio, composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari, con funzioni consultive e di controllo.

Si tratta del recepimento a livello normativo, sia pure con alcune sostanziali differenze, della prassi – di verificazione assai frequente – consistente nella nomina di una commissione di condomini, con il compito di esaminare preventivi, rendere pareri tecnici ed adiuvare l'amministratore nella gestione condominiale. Già il r.d. n. 56/1934 contemplava, all'art. 16, comma 3, un istituto simile, stabilendo che «nei condomini numerosi, l'amministratore può essere coadiuvato da un consiglio composto di non meno di due membri scelti tra i partecipanti al condominio. Detto consiglio è l'organo consultivo dell'amministratore, ne controlla l'operato riferendone all'assemblea ed ha la precipua funzione di conciliare le vertenze tra condomini. I regolamenti speciali possono affidare al consiglio altre attribuzioni tra quelle riservate dal presente decreto all'amministratore» ma, nel silenzio, anteriormente alla Riforma del 2012, del codice civile del 1942 era toccato alla giurisprudenza pronunziarsi sull'ammissibilità di tale figura, chiarendo che l'assemblea condominiale ben avrebbe potuto deliberare la nomina di una commissione di condomini con l'incarico di esaminare i preventivi di spesa per l'esecuzione di lavori, con la precisazione, però, che le decisioni di tale «organo» avrebbero vincolato tutti i condomini – anche quelli dissenzienti – solamente in quanto rimesse all'approvazione, con le maggioranze prescritte, dell'assemblea, le cui funzioni non sono delegabili ad un gruppo di condomini (Cass. II, n. 5130/2007. Conforme, Trib. Roma, 19 maggio 1980).

Il principio è stato ribadito da Cass. II, n. 14300/2020, la quale ha evidenziato come l'assemblea ben può deliberare la nomina di una commissione di condomini deputata ad assumere determinazioni di competenza assembleare, a condizione, tuttavia, che le determinazioni di tale commissione, per vincolare anche i dissenzienti, ex art. 1137, comma 1, c.c., siano poi approvate, con le maggioranze prescritte, dall'assemblea, non essendo le funzioni di quest'ultima suscettibili di delega. Nel medesimo senso, ancora, Cass. II, n. 33057/2018, per cui le decisioni sulla scelta del contraente per l'esecuzione di lavori da conferire in appalto e sul riparto del relativo corrispettivo, assunte da una commissione di condòmini nominata con delibera assembleare con l'incarico di esaminare i preventivi di spesa, sono vincolanti per tutti i condòmini - anche dissenzienti - solamente in quanto rimesse all'approvazione, con le maggioranze prescritte, dell'assemblea, le cui funzioni non sono delegabili a un gruppo di condòmini. In sostanza, è considerazione pacifica quella per cui il consiglio di condominio, pur nella vigenza dell'art. 1130-bis c.c., non possa esautorare l'assemblea dalle sue competenze inderogabili, giacché la maggioranza espressa dal più ristretto collegio è comunque cosa diversa dalla maggioranza effettiva dei partecipanti, su cui poggiano gli artt. 1135, 1136 e 1137 c.c. ai fini della costituzione dell'assemblea, nonché della validità e delle impugnazioni delle sue deliberazioni (così Cass. VI, n. 7484/2019).  . Nella giurisprudenza di merito Trib. Genova, 12 febbraio 2025, che ha ribadito come il consiglio di condominio non è legittimato a modificare le prerogative inderogabili dell'assemblea, atteso che le deliberazioni da esso assunte non hanno il valore giuridico delle maggioranze richieste dal codice civile ai fini della valida costituzione dell'assemblea).  

Le conseguenze della violazione di tale principio sono chiaramente esposte da Trib. Napoli, 14 luglio 1987, per cui, spettando ogni decisione sulle opere di manutenzione straordinaria dell'immobile condominiale, in via esclusiva, ai sensi dell'art. 1135, n. 4), c.c., alla competenza dell'assemblea condominiale, è annullabile la delibera con la quale l'assemblea abbia conferito ad una commissione di alcuni condomini, oltre l'amministratore, la delega a disporre sopra una serie di provvedimenti e di scelte tecnico-economiche inerenti lavori urgenti e di straordinaria amministrazione interessanti lo stabile condominiale, comportando ciò un esautoramento del condominio nella gestione della cosa comune e nell'organo stabile di rappresentanza. Ha recentemente ribadito il medesimo principio App. Torino, 25 luglio 2017, per cui la deliberazione del consiglio di condominio che non abbia contenuto consultivo (come previsto dall'art. 1130-bis, ultimo comma, c.c.) ma esprima una vera e propria decisione (nella specie, relativamente, all'“assegnazione lavori di rifacimento terrazzo/lastrico solare”, con evidente eccesso di potere in relazione alle sue legittime prerogative) e che sia stata assunta in difetto di convocazione per conto dell'amministratore di condominio è invalida, avendo il consiglio di condominio esclusivamente funzioni consultive e di controllo amministrativo, tecnico e contabile sull'operato dell'amministratore.

Tali principi sono stati ribaditi, con riferimento al regime successivo all'entrata in vigore della legge di Riforma, da App. Torino, 25 luglio 2017 per cui, allorché consista in una delibera assembleare che non abbia contenuto consultivo (come previsto dall'art. 1130-bis, ultimo comma, c.c.) ma esprima una vera e propria decisione e sia stata assunta in difetto di convocazione per conto dell'amministratore di condominio, la determinazione del consiglio di condominio è invalida, giacché tale organo, come disciplinato dalla Riforma del 2013, ha esclusivamente funzioni consultive e di controllo amministrativo, tecnico e contabile sull'operato dell'amministratore (nella specie l'assemblea del consiglio di condominio aveva deliberato sull'“assegnazione lavori di rifacimento terrazzo/lastrico solare”, con evidente eccesso di potere in relazione alle sue legittime prerogative).

Tale essendo, dunque, la genesi dell'istituto (e rimandando le specifiche questioni sul punto al commento all'art. 1130-bis c.c.), può allora convenirsi, in linea generale, con la conclusione per cui il consiglio di condominio ha la funzione di coadiuvare l'amministratore nell'espletamento del suo mandato e, al contempo, ha lo scopo di verificarne la condotta, affinché la stessa sia in linea con le attribuzioni conferitegli dalla legge e dal regolamento, senza con ciò tuttavia privare l'assemblea dei poteri di controllo e di indirizzo che le sono propri. In tal senso, allora, ai fini che in questa sede interessano, ben potrebbe ipotizzarsi che, all'atto della delibera di nomina, l'assemblea includa l'obbligo, per l'amministratore, tra le varie condizioni apposte allo svolgimento dell'incarico, di un previo confronto con il consiglio su ben determinate e specifiche materie.

Approvazione del preventivo delle spese e del rendiconto consuntivo

La gestione del condominio è ripartita, come detto, tra amministratore ed assemblea, spettando sempre a quest'ultima, tuttavia, quale organo «sovrano», l'ultima parola: tipica espressione di tale potere di controllo dell'assemblea sull'operato dell'amministratore è ravvisabile nella competenza, assegnatale ex art. 1135, comma 1, nn. 2) e 3), c.c., di procedere all'approvazione dei «bilanci» (anche se l'espressione, utile per semplificare la trattazione, è decisamente impropria) preventivo e consuntivo, redatti dall'amministratore (anche quello di nomina giudiziaria, ex art. 1129, comma 1, c.c. Cfr. Cass. II, n. 21966/2017) all'inizio ed alla fine di ogni anno di gestione.

Il «bilancio» preventivo, in particolare, riflette il presumibile ammontare delle spese condominiali, ordinarie come straordinarie, dell'esercizio che si deve affrontare (Cass. II, n. 4831/1994); con il rendiconto consuntivo, al contrario, l'assemblea valuta la congruità dell'importo delle spese preventivate rispetto a quelle effettivamente sostenute, ratifica eventuali spese impreviste, provvede al riparto concreto degli oneri condominiali in conformità dei criteri legali o convenzionali: da esso si evince se la gestione si è chiusa con un avanzo ovvero un disavanzo: nel primo caso l'assemblea è altresì chiamata a stabilire come impiegare gli eventuali attivi di gestione (si rinvia, in dottrina a Branca, 541, che chiarisce che tale surplus economico non appartiene ai condomini ma al condominio, sicché l'assemblea può disporne a maggioranza e Peretti Griva, 447, che ritiene che i versamenti in eccesso non potrebbero essere distolti dalle finalità condominiali per cui furono effettuati), essendosi tuttavia chiarito che l'eventuale omissione sul punto non è causa di invalidità delle delibera di approvazione del consuntivo, essendo sufficiente che questi possano, anche solo implicitamente, desumersi dal rendiconto, ai fini della loro rilevabilità nei conti individuali dei singoli condomini e della conseguente riduzione, per compensazione, delle quote di anticipazione dovute dagli stessi condomini per l'anno successivo (Cass. II, n. 3936/1975).

La differenza sostanziale tra i due documenti è, dunque, non solo di carattere cronologico, ma contenutistico: ed infatti, l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e di quelle relative ai servizi comuni essenziali non richiede la preventiva approvazione dell'assemblea, trattandosi di esborsi cui l'amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle delibere dell'assemblea; la loro approvazione è, invece, richiesta in sede di consuntivo, giacché solo con questo si accertano le spese e si approva lo stato di ripartizione definitivo, che legittima l'amministratore ad agire contro i condomini morosi per il recupero delle quote poste a loro carico (Cass. II, n. 454/2017).

Nello sviluppo di questa competenza, peraltro, l'assemblea ha ampi margini di operatività essendosi osservato che nessuna norma codicistica detta, in materia, il principio dell'osservanza di una rigorosa sequenza temporale nell'esame dei vari rendiconti presentati dall'amministratore e relativi ai singoli periodi di esercizio in essi considerati: con la conseguenza che va ritenuta legittima la delibera assembleare che (in assenza di un esplicito divieto pattiziamente convenuto al momento della formazione del regolamento contrattuale) approvi il bilancio consuntivo senza prendere in esame la situazione finanziaria relativa al periodo precedente, atteso che i criteri di semplicità e snellezza che presiedono alle vicende dell'amministrazione condominiale consentono, senza concreti pregiudizi per la collettività dei comproprietari, finanche la possibilità di regolarizzazione successiva delle eventuali omissioni nell'approvazione dei rendiconti (Cass. II, n. 8521/2017).

Il rapporto dialettico, in tale ambito, tra amministratore ed assemblea è ampiamente sviscerato dalla giurisprudenza, la quale evidenzia come spetti all'assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, come confrontarlo con il preventivo, ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate di iniziativa dell'amministratore (Cass. II, n. 8498/2012), avendosi cura di precisare, altresì, che, non potendo il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali estendersi sulla valutazione del merito e al controllo del potere discrezionale che l'assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma dovendo esso limitarsi al riscontro di legittimità della decisione, ne consegue che non è suscettibile di controllo da parte del giudice – attraverso l'impugnativa di cui all'art. 1137 c.c. – l'operato dell'assemblea condominiale in relazione alla questione inerente all'approvazione in sede di rendiconto di spese che si assumano superflue (Cass. II, n. 454/2017, cit.). Nel medesimo senso Cass. II, n. 5254/2011  e Cass.VI-2, n. 20006/2020 , per cui la deliberazione dell'assemblea condominiale che approva il rendiconto annuale dell'amministratore può essere impugnata dai condomini assenti e dissenzienti, nel termine stabilito dall'art. 1137, comma 3, c.c., non per ragioni di merito, ma solo per ragioni di legittimità e, non essendo consentito al singolo condomino rimettere in discussione, al momento del bilancio consuntivo, i provvedimenti della maggioranza che, tradottisi in delibere, avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnati nella giurisprudenza di merito, Trib. Bari, 26 febbraio 2016,il quale precisa che, una volta che l'amministratore abbia presentato i bilanci consuntivi ed il rendiconto dei lavori di manutenzione straordinaria e l'assemblea dei partecipanti li abbia approvati, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali afferenti alla gestione delle parti comuni, al condomino dissenziente non resta che impugnare la delibera per ragioni di mera legittimità (conforme Trib. Salerno, 3 gennaio 2010 e 11 novembre 2009).

Se sostanzialmente nulla è mutato per quanto concerne il preventivo delle spese (la formulazione attuale dell'art. 1135, comma 1, n. 2), c.c. è rimasta identica a quella ante riforma: d'altra parte, ai fini del preventivo non rileva neppure l'esattezza dei conteggi in relazione ai versamenti eseguiti dai condomini che è connaturale, invece, all'approvazione di un rendiconto finale. Così Tortorici, 2015, 375), non altrettanto può dirsi in relazione all'approvazione del rendiconto annuale (c.d. consuntivo), posto che l'art. 1135, comma 1, n. 3), c.c. va integrato con le previsioni contenute in una serie di disposizioni interessate dalla novella legislativa: il nuovo testo dell'art. 1130, n. 10), c.c., infatti, assegna all'amministratore, sanzionando con la possibilità di sua revoca l'eventuale inottemperanza (cfr. art. 1129, commi 11 e 12, n. 1), c.c.), il compito di redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e di convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni; esso contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve, che devono essere espressi in modo da consentire l'immediata verifica e si compone di un registro di contabilità (,dove vanno annotati in ordine cronologico, entro trenta giorni da quello dell'effettuazione, i singoli movimenti in entrata e in uscita, ex art. 1130, n. 7), c.c.), di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti (cfr. art. 1130-bis c.c.).

Si tratta, invero, di previsioni decisamente innovative rispetto all'originaria formulazione del codice civile laddove, in mancanza di un'espressa disciplina della materia, la giurisprudenza aveva ritenuto che il rendiconto, la cui redazione annuale pure rientrava tra gli obblighi dell'amministratore ex art. 1130, n. 2) c.c., quale applicazione specifica, in ambito condominiale, dell'art. 1713 c.c. (tant'è che la mancata presentazione per un biennio costituiva causa di revoca dall'incarico, secondo quanto previsto dal vecchio testo dell'art. 1129, comma 3, c.c.), dovesse semplicemente presentare una forma tale da rendere comprensibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con l'indicazione delle rispettive quote di ripartizione e restando escluso che alla sua redazione dovesse procedersi con forme analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, stante l'inapplicabilità delle norme dettate a proposito di queste ultime alla materia condominiale. In particolare, si riteneva che il rendiconto dovesse essere generale – dovendo da esso risultare la posizione creditoria o debitoria di tutti i condomini – non potendosi pensare ad un bilancio consuntivo «individuale» – limitato, cioè, alla posizione di ogni singolo condomino – soprattutto per consentirne la corretta valutazione dell'assemblea: suo scopo precipuo era, insomma, quello di fornire a ciascun condomino i dati sufficienti a formarsi una precisa idea della gestione, sì da consentirgli di prepararsi adeguatamente sulla sua approvazione.

Granitico, in proposito, l'orientamento della giurisprudenza formatasi anteriormente alla Riforma del 2012, essendosi costantemente affermato che, per la validità della delibera di approvazione del «bilancio» preventivo, non è necessario che la relativa contabilità sia tenuta dall'amministratore con rigorose forme analoghe a quelle previste per i bilanci delle società, essendo invece sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione; né si richiede che queste voci siano trascritte nel verbale assembleare, ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri dell'organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all'approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall'amministratore alla stregua della documentazione giustificativa. Sono, pertanto, valide le deliberazioni assembleari con le quali si stabilisce che il bilancio preventivo per il nuovo esercizio sia conforme al preventivo o al consuntivo dell'esercizio precedente, in tal modo risultando determinate, per riferimento alle spese dell'anno precedente, sia la somma complessivamente stanziata, sia quella destinata alle singole voci, mentre la ripartizione fra i singoli condomini deriva automaticamente dall'applicazione delle tabelle millesimali (Cass. II, n. 1405/2007). Analogamente, la validità dell'approvazione, da parte dell'assemblea dei condomini, del rendiconto di un determinato esercizio non postula che la relativa contabilità sia tenuta dall'amministratore con rigorose forme analoghe a quelle previste per il bilancio delle società, essendo invece sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le quote di ripartizione; chiarisce ulteriormente Cass. II, n. 9099/2000, che non occorre che la contabilità presentata dall'amministratore del condominio sia redatta con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, essendo sufficiente che la stessa sia idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, e cioè tale da fornire la prova, attraverso i corrispondenti documenti giustificativi, non solo della qualità e quantità dei frutti percetti e delle somme incassate, nonché dell'entità e causale degli esborsi fatti, ma anche di tutti gli elementi di fatto che consentono di individuare e vagliare le modalità con cui l'incarico è stato eseguito e di stabilire se l'operato di chi rende il conto sia adeguato a criteri di buona amministrazione (cfr. anche Cass. II, n. 2625/1981; Cass. II, n. 3309/1977. Nel merito, Trib. Messina, 2147/2012). Così, giusto per proporre alcuni esempi concreti, è stato affermato che la delibera con cui il condominio approva il preventivo o il rendiconto per le spese, ordinarie e straordinarie, deve, a pena di invalidità per contrarietà alle norme che disciplinano i diritti e gli obblighi dei partecipanti al condominio, distinguere analiticamente quelle occorrenti per l'uso da quelle occorrenti per la conservazione delle parti comuni, giacché in tal modo è possibile, se tra i partecipanti vi sono usufruttuari, ripartire tra questi ed i nudi proprietari dette spese in base alla natura delle stesse, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1004 e 1005 c.c., con una mera operazione esecutiva (Cass. II, n. 15010/2000). Del pari, è stato affermato che deve escludersi che la mancata, analitica indicazione dei nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e degli importi da ciascuno di essi dovuti incida sulla validità della delibera di approvazione del consuntivo, non comportando siffatta omissione neppure una irregolarità formale di detta delibera, sempre che le poste attive e passive risultino correttamente iscritte nel loro importo (Cass. II, n. 1544/2004).

La differenza, dunque, tra l'attuale previsione contenuta nell'art. 1130-bis c.c. – che, pur nella semplicità del documento in questione, detta alcuni principi che devono presiedere alla sua redazione – ed il sistema ricostruito per via pretoria anteriormente alla Riforma del 2012 è abbastanza evidente:  sempre occorrendo, ai fini della validità della delibera di approvazione del rendiconto consuntivo, che essa sia idonea a rendere intellegibile ai condomini le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione (Cass. VI-2, n. 1370/2023), infatti, il rendiconto si compone ora di alcuni documenti specificamente previsti ex lege (bilancio consuntivo e relativa ripartizione, ex art. 1135, comma 1, n. 2), c.c.; registro di contabilità, riepilogo finanziario, nota sintetica esplicativa, ex art. 1130-bis c.c.), che indubbiamente richiamano i documenti giustificativi sottesi all'azione di rendiconto ex art. 263 c.p.c. ed il cui difetto è in grado di minare la validità della stessa delibera di approvazione.

È stato recentemente affermato, infatti, che in tema di approvazione del rendiconto rileva anche l'osservanza ai precetti del novellato art. 1130-bis c.c. in tema di tenuta e redazione della contabilità, sicché, risultando elementi imprescindibili del rendiconto il registro di contabilità, il riepilogo finanziario ed una nota di accompagnamento sintetica, esplicativa della gestione annuale, in difetto di quest'ultima la delibera approvativa del rendiconto deve considerarsi viziata (Trib. Torino, 4 luglio 2017). 

Non dissimilmente, Cass. II, n. 28257/2023 chiarisce, al riguardo, che il rendiconto condominiale, a norma dell'art. 1130-bis c.c., deve specificare nel registro di contabilità le voci di entrata e di uscita, documentando gli incassi e i pagamenti eseguiti, in rapporto ai movimenti di numerario ed alle relative manifestazioni finanziarie, nonché, nel riepilogo finanziario e nella nota sintetica esplicativa della gestione, ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, con indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti, avendo riguardo al risultato economico delle operazioni riferibili all'esercizio annuale, che è determinato dalla differenza tra ricavi e costi maturati, ulteriormente precisando che, affinché la deliberazione di approvazione del rendiconto, ovvero dei distinti documenti che lo compongono, possa dirsi contraria alla legge, agli effetti dell'art. 1137, comma 2, c.c., occorre accertare, alla stregua di valutazione di fatto che spetta al giudice di merito, che dalla violazione dei diversi criteri di redazione dettati dall'art. 1130-bis c.c. discenda una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio, o la rappresentazione della situazione patrimoniale del condominio e quelli di cui il bilancio invece dà conto, ovvero che comunque dal registro di contabilità, dal riepilogo finanziario e dalla nota esplicativa della gestione non sia possibile realizzare l'interesse di ciascun condomino alla conoscenza concreta dei reali elementi contabili, nel senso che la rilevazione e la presentazione delle voci non siano state effettuate tenendo conto della sostanza dell'operazione.

Tale soluzione sembra trovare sponda anche in dottrina, laddove si è osservato che, ferma la non equiparabilità del rendiconto condominiale al bilancio societario, nondimeno, «la previsione analitica dei documenti di cui il rendiconto deve essere composto agisce nella direzione di limitare la discrezionalità di colui che lo redige. Da un lato, si riduce la libertà nella scelta della modalità di redazione, poiché non vi sono molti modi di compilare un riepilogo finanziario o uno stato patrimoniale, né di nominare le singole voci di cui questi documenti si compongono. Dall'altro lato, con la richiesta di includere nel rendiconto «ogni dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve», si impone di valorizzare in modo più complesso ed interconnesso i dati grezzi delle entrate e delle uscite, dei crediti e dei debiti» (Marostica, 698). Con la conseguenza per cui, la redazione del rendiconto appare presieduta non più dal solo principio di intelligibilità, ma anche da quello della formalità attenuata.

Quanto al contenuto di ciascuno di tali documenti, il bilancio consuntivo consiste nell'elenco delle spese della gestione, raggruppate per gruppi e conti omogenei: la relativa ripartizione distribuisce i gruppi di spesa tra i condomini, sulla base dei criteri di ripartizione delle spese che devono essere applicati; il registro di contabilità rappresenta, invece, un libro cassa, nel quale l'amministratore – come già evidenziato – annota in ordine cronologico tutti i movimenti in entrata ed in uscita; il riepilogo finanziario è un riepilogo dei movimenti contenuti nel registro di contabilità ed organizzati in gruppi omogenei; la nota sintetica esplicativa contiene, infine, le informazioni utili alla migliore comprensione dei documenti appena descritti, «con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti». A questo va aggiunto lo stato patrimoniale che, diversamente dai precedenti, è un documento non espressamente contemplato dall'articolo in commento: sennonché l'art. 1130-bis c.c. chiarisce che il rendiconto contiene, oltre alle voci di entrata e di uscita, «ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve che devono essere espressi in modo da consentire l'immediata verifica» ed il documento che meglio può esprimere questi dati, nelle modalità richieste dal legislatore, è proprio lo stato patrimoniale, «ovvero un'istantanea delle attività e delle passività del condominio in un dato momento» (Marostica, 698).

Viene in tal modo chiarito che è più sufficiente la predisposizione di un documento contabile, occorrendo, piuttosto, un'attività complessa che analizzi le singole poste contabili, confrontandole poi con i rispettivi documenti giustificativi in relazione alla nota esplicativa, in modo da far risultare chiaramente le somme incassate e la giustificazione degli esborsi fatti con tutti gli elementi utili che consentono d'individuare e di vagliare le modalità con cui l'incarico è stato eseguito (Cass. II, n. 9099/2000) (Voi, 2018).

Non risulta invece affrontata dal legislatore la questione relativa alle modalità concrete di redazione del rendiconto se, cioè, esso debba essere approntato secondo il criterio di cassa (riportando esclusivamente le spese sostenute e gli incassi pervenuti nell'annualità della gestione) ovvero di competenza (facendo riferimento, cioè, a singole poste di «bilancio», indipendentemente dal fatto che le relative spese siano state pagate, o meno, nell'ano di gestione).

Ed infatti, l'art. 1130-bis c.c., da un lato, dispone che il rendiconto si compone di una pluralità di documenti (e, in specie, di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario e di una nota sintetica esplicativa della gestione con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti) mentre, dall'altro, precisa unicamente che il “bilancio” debba specificare le voci di entrata e di uscita, la situazione patrimoniale del condominio, i fondi disponibili nonché le eventuali riserve, “in modo da consentire l'immediata verifica”. È solo certo che registro di contabilità, riepilogo finanziario e nota esplicativa costituiscono – complessivamente considerati – l'unico documento denominato “rendiconto” il quale, pertanto, in mancanza anche di una sola delle parti predette, non si presenta completo: sennonché, "mentre (a) nel registro di contabilità l'amministratore deve annotare, in ordine cronologico entro trenta giorni da quello dell'effettuazione, i singoli movimenti in entrata ed in uscita, seguendo, dunque, il cd. principio di cassa, al contrario (b) il riepilogo finanziario contiene l'indicazione di attività e passività, oltre alla presenza di eventuali fondi/riserve e, per tale suo contenuto (che lo rende una sorta di stato patrimoniale del condominio), non sembra potersi fondare altro che sul principio di competenza" (Chiesi, 2021).

Rinviando, sul punto, allo specifico commento all'art. 1130-bis c.c. nella dialettica ingeneratasi in giurisprudenza, tra chi ritiene doversi seguire l'uno o l'altro criterio di redazione del consuntivo e chi opta per una sorta di regime misto (cfr., da ultimo, Trib. Roma, 31 novembre 2019), appare comunque opportuno evidenziare che un autorevole sforzo ricostruttivo è stato compiuto dalla recente Cass. II, n. 20006/2020, la quale, contribuendo ad ulteriormente precisare i contorni del consolidato orientamento di legittimità (cfr., a tale riguardo, Cass. II, n. 15401/2014 - che, sia pure avuto riguardo al regime previgente, prospetta il ricorso al principio di cassa come un'opzione - e Cass. II, n. 10153/2011 - che, in motivazione, perentoriamente afferma che il consuntivo gestione condominiale, “soggiace al criterio di cassa”), ha propeso per il "principio di cassa", in base al quale i crediti vantati dal condominio verso un singolo condomino vanno inseriti nel consuntivo relativo all'esercizio in pendenza del quale sia avvenuto il loro accertamento; sicché, inserite nel rendiconto di un determinato esercizio, eventuali persistenti morosità devono essere riportate altresì nei successivi anni di gestione, costituendo esse non solo un saldo contabile dello stato patrimoniale attivo, ma anche una permanente posta di debito di quei partecipanti nei confronti del condominio: “Il rendiconto condominiale, in forza di un principio di continuità, deve, cioè, partire dai dati di chiusura del consuntivo dell'anno precedente, a meno che l'esattezza e la legittimità di questi ultimi non siano state negate con sentenza passata in giudicato, ciò soltanto imponendo all'amministratore di apporre al rendiconto impugnato le variazioni imposte dal giudice, e, quindi, di modificare di conseguenza i dati di partenza del bilancio successivo”.

 Non inficia, invece, la validità della deliberazione assembleare di approvazione del rendiconto presentato dall'amministratore la circostanza che, in essa, si provveda all'impiego degli attivi di gestione, costituiti dai proventi che il condominio trae dalla locazione a terzi di parti comuni, al fine di ridurre, per parziale compensazione, l'importo totale delle spese da ripartire tra i singoli condomini, con conseguente proporzionale incidenza sui conti individuali di questi ultimi e sulle quote dovute dagli stessi, giacché tale decisione, espressione del potere discrezionale dell'assemblea, non pregiudica l'interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all'accredito della proporzionale somma, perché compensata dal corrispondente minore addebito degli oneri di contribuzione alle spese (Cass. II, n. 3043/2021). Peraltro, l'art. 1130-bis, comma 1, c.c. consente all'assemblea condominiale, in qualsiasi momento o per più annualità specificamente identificate, di procedere alla nomina di un revisore che verifichi la contabilità del condominio: la deliberazione è assunta con la maggioranza prevista per la nomina dell'amministratore (dunque, quella fissata dall'art. 1136, commi 4 e 2, c.c.) e la relativa spesa è ripartita fra tutti i condomini sulla base dei millesimi di proprietà.

Se ai fini della validità della delibera di approvazione del consuntivo non occorre che la documentazione giustificativa delle singole voci di spesa sia allegata alla relativa convocazione, cionondimeno, ove il condomino si avvalga del diritto di chiedere copia di essa e questa non venga fornita dall'amministratore, la delibera di approvazione del consuntivo risulterà viziata. Tale diritto, d'altra parte, è oggi specificamente riconosciuto dall'art. 1130-bis, comma 1, c.c., ove si chiarisce che i condomini ed i titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa (che vanno conservati per dieci anni dalla data della relativa registrazione sul registro di contabilità) in ogni tempo ed estrarne copia a proprie spese (Trib. Genova, 22 gennaio 2016).

D'altronde, già anteriormente alla Riforma del 2012 era stato chiarito che ciascun comproprietario ha la facoltà (di richiedere e) di ottenere dall'amministratore del condominio l'esibizione dei documenti contabili in qualsiasi tempo (non soltanto, dunque, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea) e senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta (finalizzata a prendere visione o estrarre copia dai documenti), purché l'esercizio di tale facoltà non risulti di ostacolo all'attività di amministrazione, non sia contraria ai principi di correttezza e non si risolva in un onere economico per il condominio (dovendo i costi relativi alle operazioni compiute gravare esclusivamente sui condomini richiedenti); con la conseguenza che la deliberazione dell'assemblea condominiale di approvazione del rendiconto di gestione ben poteva essere impugnata dal condominio che, prima della riunione, avesse chiesto, infruttuosamente, all'amministratore di prendere visione (ed eventualmente estrarre copia) della documentazione su cui si fonda la rendicontazione del mandatario (Cass. II, n. 19210/2011. Conforme, Trib. Monza, 3 dicembre 2003).

Mediante la sua approvazione, il rendiconto diventa, infine, atto dell'assemblea, la quale lo fa proprio assorbendo quello precedente dell'amministratore, che si risolve nella mera predisposizione del documento (Cass. II, n. 8498/2012; Cass. II, n. 1405/2007; Cass. II, n. 9099/2000). Ciò determina la sua incontestabilità da parte dei condomini (inclusi assenti e dissenzienti), se non nelle forme dell'impugnazione per vizi di nullità o annullabilità della delibera che lo approva. Come anticipato supra, tuttavia, il sindacato dell'A.G. non potrà mai spingersi al sindacato sulla convenienza o sull'opportunità di talune voci di spesa (rimesse alla valutazione sovrana dell'organo assembleare, con il limite, sempre presente, della devianza della spesa autorizzata o approvata rispetto alla finalità collettiva), ma dovrà limitarsi ad un mero controllo di legittimità. A tal fine occorrono le maggioranze previste dall'art. 1136, commi 1 e 2, c.c. e, cioè, in prima convocazione, la maggioranza dei condomini presenti, che rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio; in seconda convocazione, la maggioranza degli intervenuti, che rappresentino almeno un terzo del valore dell'edificio. Non è chiarito, inoltre, se il «bilancio» debba essere approvato per singole voci ovvero, sinteticamente, nella sua completezza: nel silenzio del legislatore non può che registrarsi come, nella prassi, l'approvazione avvenga in maniera sintetica, con eventuali interventi correttivi su singole voci.

Interessante osservare, ancora, come, nel passato, proprio a proposito della delibera di approvazione del rendiconto consuntivo si sia posto il problema di una eventuale incompatibilità dell'amministratore a ricevere deleghe da singoli condomini per la partecipazione all'assemblea in cui era in discussione l'approvazione dei «bilanci» (tematica oggi non più attuale, alla luce della novella formulazione dell'art. 67 disp. att. c.c., che ha vietato tout court ed in radice la possibilità di conferire deleghe all'amministratore). Invero, la costante giurisprudenza (Cass. II, n. 10754/2011; Cass. II, n. 10683/2002; Cass. II, n. 1201/2002; Cass. II, n. 6853/01) ritiene pacificamente applicabile al condominio – quanto al computo delle maggioranze assembleari – la norma dettata in materia di società e relativa alle ipotesi di conflitto di interessi (art. 2373 c.c.), con conseguente esclusione dal diritto di voto di tutti quei condomini che, rispetto ad una deliberazione assembleare, si pongano come portatori di interessi propri, in potenziale conflitto con quello del condominio: ne discende un obbligo di astensione del condomino, il quale si trova in posizione di conflitto (art. 2373, comma 1, c.c.), ed il correlativo diritto degli altri condomini di impugnare la delibera se, senza il voto di chi avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza (art. 2373, comma 2, c.c.). Peraltro, l'esistenza del conflitto non esclude che le maggioranze debbano essere comunque calcolate tenendo conto di tutti i partecipanti al condominio e del valore dell'intero edificio, senza possibilità di detrarre la quota (personale e reale) rappresentata dai singoli condomini in conflitto di interessi con riferimento alla proposta messa ai voti (Cass. II, n. 1201/2002, cit.): tale conclusione appare viepiù confermata dalla considerazione che, diversamente opinando, si finirebbe per eludere, sia pure in via indiretta, il divieto posto dall'art. 1138, comma 4, c.c., che definisce inderogabile l'art. 1136 c.c. ed i criteri di computo delle maggioranze ivi dettati. Sicché, in ultima analisi, la delibera sarebbe soggetta ad annullamento, salvo che, mediante la c.d. «prova di resistenza» non risulti che il voto del condomino in conflitto di interessi è ininfluente ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo. Va da sé che, essendo in discussione, nei casi disciplinati dai nn. 2) e 3) del comma 1 dell'art. 1135 c.c. i principali atti identificativi dell'operato dell'amministratore (ciò che potrebbero definirsi, cioè, il suo programma di gestione), il conflitto di interessi dell'amministratore che, munito di una o più deleghe, partecipi alla riunione assembleare ed approvi il preventivo ovvero il rendiconto, sia più che un'ipotesi astratta o meramente potenziale.

Sennonché sulla questione è intervenuta la Suprema Corte, la quale ha chiarito che, qualora gli argomenti sottoposti all'esame e alla decisione dell'assemblea dei condomini implichino un giudizio sulla persona e sull'operato dell'amministratore in materie inerenti alla gestione economica della cosa comune (quale, per l'appunto, l'approvazione del bilancio consuntivo), sussiste una situazione di conflitto di interessi tra amministratore e condominio, che può essere fatta valere da qualsiasi partecipante alla collettività condominiale; essa, tuttavia, non comporta di per sé la non computabilità del voto espresso dall'amministratore per delega di taluno dei condomini in relazione ai predetti argomenti, ma soltanto qualora venga dedotto e provato che il condomino delegante non era a conoscenza o non era in grado di rendersi conto, con la normale diligenza, della situazione di conflitto (Cass. II, n. 10683/2002. Nei medesimi termini Trib. Prato, 24 novembre 2010).

Le conseguenze derivanti dall'approvazione del preventivo

Il preventivo approvato dall'assemblea consente, dunque, di conoscere gli importi da ascrivere ai condomini per la gestione ordinaria del condominio nonché per le spese straordinarie che siano già preventivabili all'inizio dell'esercizio di gestione: tali importi vengono normalmente corrisposti dai soggetti all'uopo tenuti (non necessariamente i condomini) in rate con cadenze fissate dall'assemblea, di regola mensili. La sua redazione avviene, normalmente, sulla base del consuntivo dell'anno precedente, dovendo l'amministratore valutare le possibili variazioni di spesa che potranno intervenire in aumento o in diminuzione nell'arco della gestione annuale.

Tale prassi ha trovato conferma, invero, anche in sede giurisdizionale, laddove si è ritenuta valida la delibera assembleare di approvazione del preventivo mediante relatio a quello dell'anno precedente, con la quale, cioè, si stabilisce che il preventivo per il nuovo esercizio sia conforme al preventivo ovvero al consuntivo della precedente gestione, eventualmente aumentata di una certa aliquota percentuale, risultando determinante, per il riferimento alle spese dell'anno precedente, sia la somma complessivamente stanziata che quella imputata alle singole voci di spesa e derivando la ripartizione di esse tra i condomini dall'applicazione matematica delle vigenti tabelle (Cass. II, n. 5150/1982).

Quanto alla funzione della delibera di approvazione del preventivo, la dottrina (Branca, 540) chiarisce che essa ha la funzione di verificare la conformità del progetto di ripartizione degli oneri condominiali secondo i criteri legali dettati dagli artt. 1123 ss. c.c. ovvero i diversi criteri convenzionali vigenti nel condominio; ne consegue, peraltro, la sua natura meramente dichiarativa e non costitutiva, giacché l'obbligo di concorrere al pagamento delle spese non discende dall'approvazione del preventivo di gestione, ma dallo status rivestito all'interno del condominio (Cass. II, n. 1251/1964).

In virtù di un principio basilare ed ineliminabile per la corretta gestione del condominio, l'approvazione del preventivo abilita l'amministratore ad agire in giudizio, sulla base del riparto ivi contenuto, per il recupero delle morosità dei condomini e tanto, invero, fino all'approvazione del consuntivo di gestione, che il preventivo è destinato a sostituire (Cass. II, n. 24299/2008). Si ritiene, peraltro, che il recupero posa avvenire anche facendo ricorso alla speciale procedura monitoria dettata dall'art. 63, comma 1, c.c. (si rinvia, per alcuni brevi spunti di riflessione sull'istituto, al paragrafo successivo nonché, per un esame più completo, al corrispondente commento) (Cass. II, n. 3435/2001), purché, tuttavia, la procedura sia attivata entro il termine dell'esercizio cui le spese si riferiscono, dovendo altrimenti l'amministratore agire in base al consuntivo della gestione annuale (Cass. II, n. 1789/1993).

Le conseguenze derivanti dall'approvazione del rendiconto consuntivo

Le conseguenze che discendono dall'approvazione del rendiconto consuntivo sono di particolare impatto sulla vita del condominio, sia avuto riguardo ai rapporti interni tra condominio e condomini, sia nello sviluppo delle relazioni negoziali tra condominio e terzi (incluso tra questi l'amministratore, in carica o cessato che sia).

Procedendo con ordine e partendo, dunque, dai rapporti interni alla compagine, il momento in cui l'assemblea approva il rendiconto segna, anzitutto, il dies a quo del decorso del termine di prescrizione dei crediti del condominio nei confronti dei condomini: avendo gli oneri condominiali natura periodica, infatti, il relativo credito è soggetto a prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 4), c.c. la quale decorre, per l'appunto, dalla delibera di approvazione del bilancio consuntivo e dello stato di riparto, costituente il titolo nei confronti del singolo condomino (Cass. II, n. 4489/2014; Cass. II, n. 12596/2002). Chiara è anche Cass. VI-2,n. 20006/2020, ove si evidenzia che, qualora la ripartizione delle spese condominiali sia avvenuta soltanto con l'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1135, n. 3, c.c., l'obbligazione dei condomini di contribuire al pagamento delle stesse sorge soltanto dal momento della approvazione della delibera assembleare di ripartizionePrecisa, peraltro, Cass. VI-2, n. 3847/2021, che il rendiconto consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti rimaste insolute (le quali costituiscono non solo un saldo contabile dello stato patrimoniale attivo, ma anche una posta di debito permanente di quel partecipante), una volta approvato dall'assemblea può essere impugnato ai sensi dell'art. 1337 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non dando luogo ad un nuovo fatto costitutivo del credito stesso.

Si osserva che, in realtà, le spese condominiali sono esaminate ed approvate dall'assemblea già in sede di preventivo: d'altra parte, si riconosce pacificamente che la richiesta dell'amministratore di pronuncia del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per le spese condominiali, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c., possa concernere ogni ipotesi di «riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea», senza distinzione, dunque, tra le spese dovute in base al preventivo e quella dovute in base al consuntivo. Piuttosto, soltanto l'approvazione del consuntivo fissa definitivamente la spesa cui il condomino è tenuto a contribuire e, pertanto, è esclusivamente da tale momento (e non dall'approvazione del preventivo, che contiene solo la previsione di una spesa che non è ancora stata sostenuta dal condominio) che inizia a decorrere il termine di prescrizione del diritto del condominio al pagamento, da parte dei condomini, del contributo dovuto per tale spesa (Scalettaris, 2015, 313).

La delibera assembleare di approvazione del consuntivo, inoltre, può anche avere l'effetto di ratificare (con conseguente imputazione al condominio) spese sostenute dall'amministratore e non rientranti tra quelle riconducibili alla gestione ordinaria ovvero tra quelle previamente autorizzate in sede di preventivo ovvero di pregresse deliberazioni condominiali. L'assemblea, infatti, ben può riconoscere, a posteriori e con effetto di ratifica di quanto l'amministratore abbia potuto porre in essere al di là dei poteri conferitigli dalla legge, lavori opportunamente e vantaggiosamente realizzati, ancorché non previamente deliberati, ovvero, a suo tempo, non deliberati validamente, ed approvarne la relativa spesa, restando in tal caso, la preventiva formale deliberazione dell'opera surrogata dall'approvazione del consuntivo della spesa e della conseguente ripartizione del relativo importo fra i condomini (Trib. Bologna, 8 febbraio 2018. In senso contrario, però, Trib. Napoli, 1 giugno 1994). Ugualmente, per Cass. II, n. 3226/1966, l'assemblea del condominio di un edificio ben può, in sede di approvazione del consuntivo di lavori eseguiti a parti comuni dell'immobile e di ripartizione della spesa, riconoscere vantaggiosa un'opera, ancorché non preventivamente deliberata, ed approvarne la relativa spesa restando la preventiva formale deliberazione di esecuzione dell'opera utilmente surrogata dall'approvazione del consuntivo della stessa o dalla conseguente ripartizione del relativo importo tra i condomini. Chiarisce, infatti, Cass. II, n. 4430/2017, che, ove sia mancata la preventiva approvazione assembleare della spesa relativa al progetto originario di opere di manutenzione straordinaria o a sue varianti, non vi è ragione per cui alla ratifica di tale spesa e all'approvazione del relativo riparto, con la necessaria maggioranza, non si possa procedere in sede di rendiconto consuntivo, pur essendo questo la sede in cui – di regola – l'assemblea provvede ad approvare l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e quelle relative ai servizi comuni essenziali (nella specie, peraltro, la Corte ha ritenuto valido l'ordine del giorno dell'assemblea, ben potendosi intendere che l'argomento «approvazione del rendiconto economico» includesse, come prevedibile sviluppo della discussione sulla gestione contabile dell'esercizio annuale, la ratifica di lavori straordinari di manutenzione dell'impianto fognario, non dovendo l'ordine del giorno indicare analiticamente e separatamente tutte le poste di entrata e di spesa in esso comprese). Resta, però, comunque da osservare il limite del rispetto della finalità condominiale: nel senso che la ratifica (ma lo stesso varrebbe per l'autorizzazione ex ante a sostenere la spesa) deve riguardare una spesa inerente alla gestione condominiale (Cass. II, n. 18192/2009).

In sede di consuntivo, ancora, l’assemblea può provvedere all'impiego degli attivi di gestione, costituiti dai proventi che il condominio trae dalla locazione a terzi di parti comuni, al fine di ridurre, per parziale compensazione, l'importo totale delle spese da ripartire tra i singoli condomini, con conseguente proporzionale incidenza sui conti individuali di questi ultimi e sulle quote dovute dagli stessi, non pregiudicando tale decisione – quale espressione del potere discrezionale dell'assemblea medesima - l'interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all'accredito della proporzionale somma, perché compensata dal corrispondente minore addebito degli oneri di contribuzione alle spese (Cass. II, n. 3043/2021).

L'approvazione del rendiconto consente, inoltre, all'amministratore di agire nei confronti dei singoli condomini inadempienti per il recupero del credito (attività comunque istituzionalmente gravante sullo stesso ex art. 1130, n. 3, c.c.), mediante i pratici strumenti messi a sua disposizione dall'art. 63 disp. att. c.c.

Quanto, anzitutto, all'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., rimandando anche in tal caso al relativo commento per i doverosi approfondimenti sul punto, alcune precisazioni appaiono doverose anche in questa sede: sulla base del consuntivo approvato l'amministratore può infatti ottenere, per la riscossione dei contributi afferenti sia a spese ordinarie che straordinarie (Cass. II, n. 27292/2005), un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, nonostante la proposizione di eventuale opposizione da parte del condomino ingiunto (Cass. II, n. 8676/2000). In tal caso, peraltro, l'amministratore non è neppure tenuto a sottoporre all'esame dei singoli condomini i documenti giustificativi, dovendo gli stessi essere controllati prima dell'approvazione del bilancio, senza che sia ammissibile la possibilità di attribuire ad alcuni condomini la facoltà postuma di contestare i conti, rimettendo così in discussione i provvedimenti adottati dalla maggioranza (Cass. II, n. 3402/1981).  A seguito della Riforma del 2012, peraltro, il novellato art. 1129, comma 9, c.c. prevede che, salvo che sia stato espressamente dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell'art. 63, comma 1, cit.

Nel passatosi era sostenuto che, in sede di eventuale opposizione, il debitore ingiunto potesse contestare la sussistenza del debito, la documentazione posta a fondamento dell'ingiunzione, ovvero il verbale della delibera assembleare, ma non anche invocare l'invalidità della delibera sottesa all'emissione del decreto ed avente ad oggetto l'approvazione delle spese condominiali, trattandosi di vizi che avrebbero dovuto essere fatti valere in via separata, mediante l'impugnazione di cui all'art. 1137 c.c. (Cass., II, n. 1502/2018; Cass. II, n. 2387/2003; Cass. II, n. 10427/2000): il principio, tuttavia, era stato parzialmente «emendato» in considerazione di recente arresto della Suprema Corte, che aveva chiarito come tale limite alle difese del condomino ingiunto non doveva considerarsi operante ove si fosse trattato di fare valere la nullità della delibera sottesa alla richiesta monitoria (Cass. II, n. 305/2016). Per altro verso, laddove i due giudizi (quello sulla validità della delibera e quello di opposizione ex art. 645 c.p.c.) fossero proceduti separatamente e parallelamente, Cass. S.U., n. 4421/2007, a composizione di un contrasto tra sezioni semplici, aveva ulteriormente chiarito che il giudice dell'opposizione non poteva sospendere il giudizio in attesa della definizione del diverso giudizio d'impugnazione, promosso ai sensi dell'art. 1137 c.c., della deliberazione posta a base del provvedimento monitorio opposto, attesa la disciplina speciale e derogatoria del principio generale d'inesecutività del titolo ove impugnato con allegazione della sua originaria invalidità assoluta, dettata per il condominio e considerata la possibilità che le conseguenze dell'eventuale contrasto di giudicati ben avrebbero potuto essere superate, sia in sede esecutiva ove i tempi lo consentano, facendo valere la sopravvenuta perdita d'efficacia del provvedimento monitorio come conseguenza della dichiarata invalidità della delibera, sia in sede ordinaria mediante azione di ripetizione dell'indebito (nello stesso senso Cass. II, n. 4675/2017; Cass. II, n. 4672/2017; Cass. II, n. 19519/2005; Cass. II, n. 4951/2005; Cass. II, n. 20484/2004. In senso contrario, però, Cass. II, n. 2759/2005; Cass. II, n. 2387/2003; Cass. II, n. 7261/2002; Cass. II, n. 11515/1999; Cass. II, n. 7073/1999). D'altronde - si osservava - la previsione di un mezzo di riscossione coattivo rapido ed incisivo per le spese comuni dei condominii rappresenta, come chiarito dal Giudice delle Leggi (Corte cost., n. 40/1988; Corte cost., n. 111/1992), una risposta razionale rispetto alle peculiari esigenze dell'amministrazione condominiale, nella quale è necessario che l'amministratore possa tempestivamente disporre dei fondi destinati alle spese comuni (ripartite con delibera dell'assemblea condominiale): sicché, in ultima analisi, il giudizio avente ad oggetto l'impugnazione delle delibera avrà una sua influenza riflessa sul giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c. solo allorché quella abbia perduto la sua efficacia, per esserne stata sospesa l'esecuzione dal giudice dell'impugnazione ovvero per essere stata da questi annullata con sentenza anche non passata in giudicato (Cass. VI-2, n. 7741/2017). Sennonché l'intera questione va oggi rimeditata alla luce del principio di diritto affermato da Cass. SU, n. 9839/2021, per cui nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare tanto la nullità, dedotta dalla parte o rilevata d'ufficio, della deliberazione assembleare sottesa all'ingiunzione, quanto la relativa annullabilità, a condizione, però, che quest'ultima sia dedotta in via di azione - mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell'atto di citazione in opposizione - ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di semplice eccezione che, ove proposta, senza la contestale richiesta di annullamento della deliberazione, va dichiarata inammissibile dal giudice, anche d’ufficio. Quale logico corollario del principio che precede, infine, si dovrebbe assistere al superamento anche dell'ulteriore principio – propugnato da Cass. SU, n. 4421/2007, cit. - che nega l'operatività, nel caso di contestuale (ma separata) pendenza dei giudizi di opposizione e di impugnazione della delibera condominiale, della previsione di cui all'art. 295 c.p.c. se è vero, come chiarito dalla Corte nell'ultimo arresto del 2021 (cfr. p. 13 della motivazione), che “la validità della deliberazione posta a fondamento della ingiunzione costituisce il presupposto necessario per la conferma del decreto ingiuntivo”.

Il secondo strumento offerto dall'art. 63 disp. att. c.c. è, invece, quello disciplinato dal comma 3, ove è previsto che in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l'amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. La norma è stata sensibilmente modificata dalla Riforma del 2012 giacché, anteriormente ad essa, occorreva una espressa previsione del regolamento di condominio che consentisse tale sospensione: eliminata tale condizione, invece, si deve ritenere che, allo stato, l'amministratore possa adottare le iniziative inibitorie senza autorizzazione assembleare e/o giudiziale, rientrando tale legittimazione nel generale obbligo di riscossione delle quote. Anche in questo caso rinviando allo specifico commento dedicato agli artt. 63, 72 disp. att. c.c., può in questa sede evidenziarsi come la vera questione concerna i servizi che possono essere effettivamente sospesi dall'amministratore, se essi includano o meno, cioè, anche quegli impianti (es: riscaldamento, areazione, acqua) idonei ad incidere su diritti insopprimibili della persona (quale quello alla salute).

Nei rapporti esterni, invece, la deliberazione dell'assemblea di condominio che procede all'approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall'amministratore ha valore di riconoscimento di debito,ex art. 1988 c.c., solo in relazione alle poste passive specificamente indicate; pertanto, ove il rendiconto evidenzi un disavanzo tra le entrate e le uscite, l'approvazione dello stesso non consente di ritenere dimostrato, in via di prova deduttiva, che la differenza sia stata versata dall'amministratore con denaro proprio, poiché la ricognizione di debito richiede un atto di volizione, da parte dell'assemblea, su un oggetto specifico posto all'esame dell'organo collegiale (Cass. II, n. 10153/2011).

La questione è di particolare interesse e riguarda il credito dell'amministratore nei confronti del condominio per le eventuali anticipazioni effettuate dal primo in favore del secondo: tale credito fonda, ai sensi dell'art. 1720 c.c., sul contratto di mandato con rappresentanza che intercorre tra l'amministratore ed i condomini e, in una corretta distribuzione dell'onere della prova ex art. 2697 c.c., si è chiarito che grava sul primo la dimostrazione degli esborsi effettuati (nonché, secondo Cass. II, n. 13878/2010, delle modalità di esecuzione del mandato, per consentire all'assemblea dei condomini una valutazione in ordine al rispetto, ad opera dell'attività svolta, dei canoni della buona amministrazione), mentre spetta ai secondi (e quindi al condominio) – tenuti, quali mandanti, a rimborsargli le anticipazioni da lui effettuate, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, nonché a pagargli il compenso oltre al risarcimento dell'eventuale danno – dimostrare di avere adempiuto all'obbligo di tenere indenne l'amministratore di ogni diminuzione patrimoniale in proposito subita (Cass. II, n. 20137/2017; Cass. VI-2, n. 5062/2020). In proposito, la giurisprudenza di legittimità è stata chiara nel precisare che tale credito non può ritenersi provato in mancanza di una regolare contabilità che, sebbene non debba redigersi con forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, deve, però, essere idonea a rendere intellegibili ai condomini le voci di entrata e di uscita, con le relative quote di ripartizione, così da rendere possibile l'approvazione da parte dell'assemblea condominiale del rendiconto consuntivo (Cass. II, n. 3892/2017): così, non sarebbero all'uopo sufficienti i prospetti sintetici consegnati al nuovo amministratore da quello precedente cessato dall'incarico, dal primo accettati e contenenti l'indicazione di eventuali disavanzi di cassa in favore del secondo, non potendo il nuovo amministratore, se non specificamente autorizzato dai partecipanti alla comunione, approvare incassi e spese condominiali risultanti da tali prospetti risultanti e spettando, invece, all'assemblea approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate d'iniziativa dell'amministratore cessato dall'incarico (Cass. II, n. 8498/2012). D'altra parte, Cass. II, n. 17713/2023, rilevato che il contratto tipico di amministrazione di condominio è “comunque riconducibile ad un rapporto di mandato presumibilmente oneroso (v. Cass. S.U. 29/10/2004, n. 20957) e il diritto del mandatario al compenso e al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale (Sez. 2, Sentenza n. 1429 del 08/03/1979; Sez. 3, Sentenza n. 3596 del 28/04/1990)”, osserva altresì che “proprio le specifiche norme dettate in materia di condominio, poi, prevedono che l'assemblea sia esclusivamente competente alla previsione e ratifica delle spese condominiali, sicché in mancanza di un rendiconto approvato il credito dell'amministratore non può ritenersi né liquido né esigibile (Sez. 2, Sentenza n. 14197 del 2011; Sez. 2 -, Ordinanza n. 7874 del 19/03/2021)”. Né, ancora, va dimenticato, da un lato, che il verbale di passaggio di consegne dal vecchio al nuovo amministratore (attività oggi normata e confluita nel novellato art. 1129, comma 8, c.c.) non rappresenta altro che una mera ricevuta dell'avvenuta consegna, per l'appunto, della documentazione condominiale (così, Cass. II, n. 5449/1999; Trib. Nocera Inferiore, 10 dicembre 1999) , come, d’altra parte, non costituisce prova idonea del debito nei confronti di quest'ultimo da parte dei condomini, il pagamento parziale in favore dello stesso, , di un importo a titolo di acconto di una maggiore somma, spettando pur sempre all'assemblea di approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate d'iniziativa dell'amministratore (Cass. VI-2, n. 5062/2020 e Cass. VI-2, n. 15702/2020) e, dall'altro, che l'amministratore di condominio non ha – salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135, comma 2, c.c. in tema di lavori urgenti – un generale potere di spesa, al contrario spettando istituzionalmente all'assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l'opportunità delle spese sostenute dall'amministratore: sicché, in assenza di una specifica deliberazione dell'assemblea, l'amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perché, pur essendo il rapporto tra l'amministratore ed i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell'art. 1720 c.c. – secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario – deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell'amministratore non può considerarsi liquido né esigibile senza un preventivo controllo da parte dell'assemblea (Cass. II, n. 14197/2011).

Sulla questione si innesta quella – connessa – della prescrizione del diritto dell'amministratore al rimborso per le anticipazioni effettuate per conto del condominio: non risulta superato, al momento, il dictum di Cass. II, n. 19348/2005 che, prendendo le mosse dalla considerazione che il credito per le somme anticipate nell'interesse del condominio dall'amministratore trae origine dal rapporto di mandato che intercorre con i condomini, esclude l'applicazione della prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4), c.c. (non trattandosi, per l'appunto, di obbligazione periodica) e ritiene applicabile, non diversamente dal credito per il compenso da riconoscere in suo favore, la prescrizione ordinaria decennale. Sennonché la questione merita di essere rivisitata alla luce della professionalizzazione sempre più marcata della figura dell'amministratore di condominio, sovente ricondotto ad una professione c.d. «non albizzata», rientrante sotto l'ambito di operatività del d.lgs. n. 4/2013. Se tale, dunque, è da considerare ormai, la natura dell'attività svolta dall'amministratore di condominio (in termini, da ultimo, cfr. anche Cass. II, n. 7874/2021) , sembra potersi ipotizzare l'applicazione dell'art. 2956, n. 2), c.c. e, con esso, un - decisamente diverso – termine di prescrizione triennale del credito tanto per il compenso, quanto per le anticipazioni.

L'approvazione del rendiconto non preclude, inoltre, la contestazione in sede di proposizione di azione risarcitoria da parte del condominio contro l'ex amministratore, sia per il carattere dichiarativo e confessorio dell'atto di approvazione del conto, revocabile o modificabile in caso di dolo o colpa grave del mandatario (ex art. 1713 c.c.), sia perché l'assemblea può approvare e autorizzare pagamenti soltanto qualora si riferiscano a spese effettivamente erogate per la manutenzione delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni, onde tale presupposto manca quando l'amministratore richieda il rimborso di somme esposte come erogate nell'interesse della collettività condominiale e, al contrario, trattenute con indebita appropriazione (Trib. Milano, 27 giugno 2005).

Non va confusa con quella in esame, infine, l'ipotesi dell'amministratore che abbia effettuato delle anticipazioni per l'esecuzione di lavori di manutenzione o di opere sulla proprietà dei singoli condomini e non, quindi, sulle parti comuni: in tal caso il condominio (e, con esso, l'assemblea) è del tutto estraneo al rapporto di credito/debito, giacché l'amministratore va considerato come mandatario del singolo condomino nei confronti esclusivamente di questi dovrà agire per il recupero del credito in questione.

La deliberazione di opere di manutenzione straordinaria e di innovazioni

Nel rapporto tra l'art. 1135, comma 1, n. 4), e comma 2, c.c. e l'art. 1130, nn. 2), 3) e 4), c.c. è condensata la sostanza del rapporto tra i due organi gestori: la diarchia tra di essi è strutturata dal legislatore nel senso che, pur permanendo una posizione di sovraordinazione dell'assemblea rispetto all'amministratore, l'una e l'altro dividono i rispettivi ambiti di applicazione tra amministrazione straordinaria ed amministrazione ordinaria. Lo stesso criterio discretivo si riverbera sui limiti alla rappresentanza sostanziale e processuale dell'amministratore; ad esso è informato, per l'appunto, il riparto di competenze in tema di opere di manutenzione e riparazione delle parti comuni.

Del tutto preliminare alla trattazione delle deliberazioni relative alle opere di manutenzione straordinaria appare, dunque, la definizione di cosa si intenda con altra tipologia di atti gestori e su cosa fondi la differenza rispetto alla manutenzione ordinaria. Afferma a tale proposito Cass. II, n. 10865/2016, che il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all'iniziativa dell'amministratore nell'esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 c.c., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., riposa sulla «normalità» dell'atto di gestione rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della delibera dell'assemblea condominiale (in termini analoghi, per una risalente pronunzia di legittimità, si pronunzia anche Cass. II, n. 2752/1971).

Diversamente, in dottrina si fa perno sul diverso concetto di imprevedibilità della spesa, peraltro pur sempre di particolare consistenza, dovuta a caso fortuito o forza maggiore (Visco, 367); una specificazione di tale orientamento (Dogliotti-Figone, 319) evidenzia come l'importanza dell'esborso dovrebbe essere considerata sempre in termini «relativi», tenendo cioè presenti le caratteristiche peculiari dell'edificio cui essa inerisce (ad esempio, facendo riferimento al numero dei partecipanti, ai particolari materiali costruttivi necessari, la destinazione delle unità immobiliari, etc.), sì da poter la spesa variare (e, dunque, essere intesa quale atto di ordinaria ovvero di straordinaria amministrazione) da edificio ad edificio.

V'è, ancora, chi (Ginesi, 353), focalizzando l'attenzione sulla necessarietà della spesa, identifica la natura straordinaria in funzione delle caratteristiche peculiari dell'intervento. Sicché le spese ordinare e quelle straordinarie rientrano nel campo di quelle necessarie, mentre la manutenzione straordinaria tende alla conservazione del bene comune, ma esorbita o per valore o per importanza speciale (tecnica e architettonica) da quelle opere che naturalmente o periodicamente si compiono per premunire e reintegrare l'edificio o il bene comune dal lento e quotidiano logorio naturale.

Stante la persistente genericità della definizione, va da sé che, in concreto, l'attrazione di un'opera nell'una piuttosto che nell'altra categoria di opere manutentive è circostanza dipendente dalla sensibilità del momento e, soprattutto, dalla valutazione dell'autorità giudiziaria che, ove congruamente motivata, non è suscettibile di essere censurata in sede di legittimità (Cass. II, n. 810/1999): un valido parametro di riferimento può essere comunque costituito dalla lettera dell'art. 1136, comma 4, c.c., ove, a proposito delle maggioranze assembleari necessarie per l'approvazione di opere lavorazioni straordinarie, si fa espresso riferimento all'elemento quantitativo della «notevole entità».

Nel procedere a tale valutazione, dati di immediato riscontro sono comunemente rinvenibili (a) nell'ammontare oggettivo della somma occorrente, (b) nel rapporto tra la stessa ed il costo delle riparazioni straordinarie, (c) nell'importanza economica dell'immobile; quale criterio residuale e suppletivo, invece, si è ritenuto – così raccogliendo le intuizioni della dottrina di cui si è già dato conto in precedenza – potersi fare riferimento alla proporzionalità tra spesa e valore dell'edificio (Cass. II, n. 15/1982; Cass. II, n. 26733/2008).

La differenza tra l'una e l'altra tipologia di opera non rimane, peraltro, confinata ad una distinzione di carattere meramente terminologico, ovvero destinata ad avere una qualche rilevanza esclusivamente in ambito condominiale (ad esempio, ipotizzando una responsabilità dell'amministratore nei confronti dei condomini per l'aver disposto opere di manutenzione straordinaria in assenza dei presupposti che, nel caso eccezionale previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., pure lo autorizzano a provvedere in tal senso). Ed infatti, è stato recentemente chiarito che l'iniziativa contrattuale dell'amministratore che, senza previa approvazione o successiva ratifica dell'assemblea, disponga l'esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell'edificio condominiale, si riverbera anche all'esterno, in quanto tale attività negoziale non determina l'insorgenza di alcun obbligo di contribuzione dei condomini rispetto a detta spesa, non trovando applicazione il principio secondo cui l'atto compiuto, benché irregolarmente, dall'organo di una società resta valido nei confronti dei terzi che abbiano ragionevolmente fatto affidamento sull'operato e sui poteri dello stesso, giacché i poteri dell'amministratore del condominio e dell'assemblea sono delineati con precisione dagli artt. 1130 e 1335 c.c., che limitano le attribuzioni del primo all'ordinaria amministrazione, mentre riservano alla seconda le decisioni in materia di amministrazione straordinaria (in tal senso cfr. anche, più recentemente, Cass. II, n. 27235/2017), né il terzo potrebbe invocare l'eventuale carattere urgente della prestazione commissionatagli dall'amministratore, valendo tale presupposto a fondare, nei rapporti interni tra amministratore e condomino, ex art. 1135, comma, 2 c.c. (già comma 4, nella formulazione della norma anteriore alla Riforma del 2012), il diritto del primo al rimborso delle spese anticipate in favore del secondo, nell'ambito tutto esclusivamente interno al rapporto di mandato (Cass. VI, n. 20136/2017). Chiara in tal senso anche App. Roma, n. 4526/2012, per cui, essendo i poteri dell'amministratore, così come quelli dell'assemblea, regolamentati in modo specifico dalle disposizioni di cui agli artt. 1130 e 1135 c.c., che limitano le attribuzioni dell'amministratore all'ordinaria manutenzione e riservano all'assemblea le decisioni circa le opere di manutenzione straordinaria, non trova applicazione il principio dell'affidamento dei terzi con riguardo ai lavori di manutenzione straordinaria eseguiti da terzi su disposizione dell'amministratore senza previa delibera dell'assemblea, stante il divieto esplicito per l'amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria. Si deve tuttavia registrare a tale proposito, un contrasto tra tale ultimo principio e quello, diametralmente opposto, affermato da Cass. II, n. 2807/2017, per cui nel caso in cui l'amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all'art. 1135, comma 2, c.c. abbia assunto l'iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzate dall'urgenza, ove questa effettivamente ricorra ed egli abbia speso, nei confronti dei terzi, il nome del condominio, quest'ultimo deve ritenersi validamente rappresentato e l'obbligazione è direttamente riferibile al condominio; laddove, invece, i lavori eseguiti da terzi su disposizione dell'amministratore non posseggano il requisito dell'urgenza, il relativo rapporto obbligatorio non è riferibile al condominio, trattandosi di atto posto in essere dall'amministratore al di fuori delle sue attribuzioni, attesa la rilevanza esterna delle disposizioni di cui agli art. 1130 e 1135, comma 2, c.c. (cfr. infra, per una più approfondita trattazione relativamente al potere assegnato all'amministratore ex art. 1135, comma 2, c.c.).

Variegate sono le ipotesi in cui la giurisprudenza ha ravvisato una deliberazione concernente opere di straordinaria manutenzione.

Occorre, ad esempio, l'autorizzazione dell'assemblea (o, comunque, l'approvazione, mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c. e con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 4, c.c., per l'approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell'edificio condominiale: la delibera deve peraltro determinare l'oggetto del contratto di appalto da stipulare con l'impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi e il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell'opera ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa; sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi e, in ogni caso l'autorizzazione assembleare di un'opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (Cass. II, n. 4430/2017). Analogamente, rientra nel concetto di deliberazione relativa ad opere di straordinaria amministrazione quella con cui si proceda alla sostituzione dell'appaltatore in precedenza prescelto dalla compagine condominiale per la realizzazione di opere di notevole entità (Cass. II, n. 517/1982).

Ancora, non rientra tra le facoltà dell'amministratore il potere di conferire ad un professionista legale l'incarico di assistenza nella redazione del contratto di appalto per la manutenzione straordinaria dell'edificio, dovendosi intendere tale facoltà riservata all'assemblea dei condomini, organo cui è demandato dall'art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, il potere generale di disporre le spese necessarie ad assumere obbligazioni in materia (Cass. VI, n. 20136/2017).

Osserva a tale riguardo la dottrina (Ginesi, 353) che, durante l'esecuzione delle opere, frequentemente si manifestano circostanze che consigliano o comportano la necessità di eseguire opere maggiori e diverse per una perfetta riuscita dell'intervento. Il problema, in tal caso, si pone non tanto in relazione alle ipotesi di variazioni necessarie o concordate dell'appalto (disciplinate – per quel che attiene ai rapporti fra committente ed appaltatore – dagli artt. 1659,1660 e 1661 c.c.), quanto per le opere che l'amministratore abbia concordato direttamente con l'appaltare in corso d'opera e che esulino dai confini della delibera con cui l'assemblea, a norma dell'art. 1135 c.c., aveva deliberato l'esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione. Proprio richiamando la già citata Cass. II, n. 4430/2017 si evidenzia anzitutto esser pacifica la necessità di autorizzazione dell'assemblea o, comunque, l'approvazione mediante sua successiva ratifica, ai sensi dell'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., e con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 4, c.c., per l'approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell'edificio condominiale: la delibera assembleare in ordine alle spese straordinarie, pur costituendo presupposto indefettibile per la riferibilità al condominio della relativa obbligazione contrattuale nei confronti dell'appaltatore, può intervenire tanto in sede preventiva quanto a posteriori, mediante ratifica della attività già posta in essere dall'amministratore. Ma si osserva, altresì, che “i poteri dell'assemblea non vanno comunque intesi in senso rigidamente formalistico, ma vanno plasticamente conformati alla finalità delle opere da compiere, sicché il deliberato iniziale dovrà ritenersi comprensivo di tutto quanto si rivela necessario per l'esecuzione dell'opera a regola d'arte, anche se successivamente emerso, pur dovendo l'organo collettivo del condominio individuare con sufficiente chiarezza i confini dell'intervento”. “La delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l'oggetto del contratto di appalto da stipulare con l'impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi ed il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell'opera, ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa. Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso, l'autorizzazione assembleare di un'opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato (arg. da Cass. II, n. 5889/2001)”. Ove siano rispettati, pertanto, questi parametri, l'assemblea ha pieno ed assoluto potere di scelta nel merito – essendo escluso che il Giudice possa sindacare il contenuto delle scelte o imporre al condominio soluzioni improntate a maggior economicità – incluso quello di approvare varianti in corso d'opera, che abbiano comportato maggiori costi: “i poteri dell'assemblea ben potranno esplicarsi con le modalità fin qui viste, ovvero mediante delibera con le maggioranze previste per le opere straordinarie, da adottarsi in itinere o – con identica legittimità – anche a posteriori, essendo sempre consentito al mandante di ratificare l'operato del mandatario”. “Quanto detto in ordine all'approvazione delle modalità costruttive ed al prezzo vale, ovviamente, anche per le varianti dell'opera di manutenzione straordinaria appaltata dal condominio, dovendo parimenti le variazioni alle originarie modalità convenute essere autorizzate dall'assemblea del condominio, sempre ex artt. 1135, comma 1, n. 4), e 1136, comma 4 c.c.”. Con particolare riguardo alla ratifica, la Corte sottolinea che “È tuttavia certamente consentito all'assemblea di approvare successivamente le varianti delle opere di manutenzione straordinaria appaltate, comportanti un aumento delle spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall'art. 1135 c.c. (Cass. II, n. 6896/1992; Cass II, n. 10865/2016, in motivazione). L'assemblea può, infatti ratificare le spese straordinarie erogate dall'amministratore senza preventiva autorizzazione, anche se prive dei connotati di indifferibilità ed urgenza, e, di conseguenza, approvarle, surrogando in tal modo la mancanza di una preventiva di delibera di esecuzione (Cass. II, n. 18192/2009; Cass. II, n. 2864/2008)”. La sede in cui interviene la ratifica è poi indifferente, ben potendo collocarsi in qualunque contesto assembleare e quindi anche laddove ordinariamente viene approvato il rendiconto annuale, purché la delibera attinente le variazioni alle opere straordinarie venga assunta con le maggioranze previste dall'art. 1136, comma 4, c.c.

Qualora, poi, l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, spetta comunque all'assemblea dei condomini provvedere alle relative opere di manutenzione straordinaria ex art. 1135, comma 1, n. 4), c.c. (arg. da Cass.  S.U., n. 9449/2016). Del pari, la installazione dei motori elettrici ai cancelli di un passo carraio condominiale non comporta «innovazione», anche se rispetto all'esistente cancellata sono stabilite delle variazioni, giacché le variazioni di altezza del cordolo e dell'inferriata non sono elementi tali da comportare una diversità dell'opera, che resta sempre una recinzione in ferro con cancelli: l'apposizione di motori elettrici deve pertanto ritenersi non già un'innovazione ma, in relazione alle condizioni della tecnica, dell'immobile e alla sua collocazione in area cittadina, un adeguamento agli standards abitativi normali, essendo finalizzata non solo alla maggior comodità di chi entra con la macchina, ma anche di chi deve usufruire del cortile con biciclette e dello stabile in generale, che resta più sicuro per la certezza della chiusura dei portoni nelle ore notturne: per l'adozione della relativa delibera è da ritenersi dunque sufficiente il quorum deliberativo previsto per la manutenzione straordinaria (Trib. Milano, 20 ottobre 2006). Rientra nel concetto di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione la pavimentazione di un cortile originariamente in terra battuta (Trib. Milano, 8 maggio 1989).

Rientrano inoltre, nel concetto di manutenzione straordinaria, per espressa previsione normativa, i lavori necessari alla realizzazione di infrastrutture interne ed esterne all'edificio predisposte per le reti di comunicazione elettronica a banda ultralarga, volte a portare la rete sino alla sede dell'abbonato, così come disposto dall'art. 8-bis, comma 4-bis d.l. n. 135/2018 (cd. Decreto Semplificazioni), convertito dalla l. n. 12/2019, in vigore dal 13 febbraio 2019. Invero, già a far data dal 10 marzo 2016 è in vigore il d.lgs. n. 33/2016, di recepimento della direttiva europea 61/2014 (contenente norme volte a facilitare l'installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità), che ha rappresentato una novità importante per il settore delle comunicazioni, soprattutto in vista della partita sulla banda larga e ultralarga; a questo aveva fatto, poi, seguito la l. n. 164/2014, di conversione del decreto cd. Sblocca Italia (d.l. n. 133/2014), che aveva stabilito che tutte le nuove costruzioni e le opere di ristrutturazione edilizia, ex art.10, comma 1, lett. c) d.P.R. n. 380/2001, con domande di autorizzazione edilizia presentate dopo il 1° luglio 2015, dovessero essere equipaggiate di un'infrastruttura fisica multiservizio passiva interna all'edificio, costituita da adeguati spazi installativi e da impianti di comunicazione ad alta velocità in fibra ottica fino ai punti terminali di rete. Con il nuovo decreto di cui si è dato conto in precedenza, infine, il legislatore sembra avere facilitato le procedure in tema di fibra ottica prevedendo che le lavorazioni di cui si è detto "sono equiparat[e] ai lavori di manutenzione straordinaria urgente di cui all'articolo 1135 del codice civile. Tale disposizione non si applica agli immobili tutelati ai sensi della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42".

La maggioranza richiesta per l'adozione di delibere concernenti opere di manutenzione straordinaria è quella fissata dal' art. 1136, comma 4, c.c. e, dunque, quella che, sia in prima che in seconda convocazione, raccolga un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. L'assemblea non potrebbe, poi, essere sostituita, nella propria attività deliberativa con le maggioranze di cui si è detto, da una commissione ristretta di condomini (cfr., attualmente, l'art. 1130-bis c.c.), la cui funzione è meramente consultiva. Chiaro in proposito Trib. Napoli, 14 luglio 1987, per cui, spettando ogni decisione sulle opere di manutenzione straordinaria dell'immobile condominiale, in via esclusiva, ai sensi dell' art. 1135, n. 4), c.c. , alla competenza dell'assemblea condominiale, è annullabile la delibera con la quale l'assemblea abbia conferito ad una commissione di alcuni condomini, oltre l'amministratore, la delega a disporre sopra una serie di provvedimenti e di scelte tecnico-economiche inerenti lavori urgenti e di straordinaria amministrazione interessanti lo stabile condominiale, comportando ciò un esautoramento del condominio nella gestione della cosa comune e nell'organo stabile di rappresentanza. Lo stesso tribunale partenopeo, con successiva pronunzia (Trib. Napoli, 30 ottobre 1990, richiamata anche da Dogliotti-Figone, 320) ha però parzialmente rivisto tale posizione, affermando che la delega assembleare alla commissione sarebbe configurabile relativamente alla decisione di questioni tecniche minute e marginali , comunque conseguenti a scelte operate, sia pure in linea di massima, dall'assemblea, con l'indicazione della relativa copertura finanziaria e delle regole di condotta della commissione.

Tale maggioranza non è stata, però, ritenuta necessaria allorché si tratti semplicemente di ripartire le spese relative a riparazioni straordinarie già ritualmente approvate dall'assemblea (Trib. Napoli, 8 gennaio 1955): ed infatti, trattasi di una mera attribuzione di oneri condominiali secondo i criteri legali o, alternativamente, convenzionali vigenti all'interno del condominio.

All'assemblea chiamata a deliberare su argomenti implicanti spese eccedenti l'ordinaria amministrazione deve essere certamente invitato a partecipare, con potere deliberativo, il nudo proprietario, su costui gravando il relativo onere economico, ex art. 67 disp. att. c.c.; a seguito della novella da cui la norma è stata interessata, tuttavia, residuano dubbi ed incertezze circa la necessità di procedere comunque alla convocazione anche dell'usufruttuario (ovvero dell'habitator). Anteriormente alla Riforma del 2012, infatti, sulla scorta di quanto previsto dal comma 3 dell'art. 67 disp. att. c.c. ed in mancanza di criteri speciali, derogatori della disciplina generale dettata dagli artt. 1004 e 1005 c.c., si riteneva che, ove un piano o porzione di piano facente parte di un condominio fosse stato oggetto di usufrutto ed il relativo atto costitutivo fosse stato debitamente trascritto (Cass. II, n. 23291/2006), tale diritto reale di godimento dovesse ritenersi opponibile erga omnes e quindi anche al condominio: con la conseguenza che (a) anche nel regime di attribuzione delle spese condominiali, dovesse trovare applicazione la disciplina dettata dai richiamati artt. 1004 e 1005 c.c. (dipendendo la qualità di debitore degli oneri condominiali dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa) la quale (b) determinava anche la distribuzione tra nudo proprietario ed usufruttuario circa la partecipazione alle riunioni assembleari (testualmente l'art. 67, comma 3, cit. prevedeva che l'usufruttuario di un piano o porzione di piano dell'edificio esercitava il diritto di voto negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni). Sennonché, attualmente, i novellati commi 6 e 7 dell'art. 67 disp. att. c.c. assegnano il diritto di voto all'usufruttuario, negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni ed al nudo proprietario in tutti gli altri casi: se, dunque, in applicazione dei medesimi principi elaborati anteriormente alla Riforma, l'avviso di convocazione spetterebbe all'uno ovvero all'altro a seconda del tipo di delibazione posta all'ordine del giorno non può tuttavia fare a meno di evidenziarsi che il nuovo comma 7 contempla altresì la possibilità che l'usufruttuario intenda avvalersi del diritto di cui all'art. 1006 c.c. (anticipando, dunque, spese che graverebbero sul nudo proprietario il quale, tuttavia, si rifiuti di eseguirle ovvero ne ritardi l'esecuzione senza giusto motivo), ovvero si tratti di lavori od opere che si risolvano in miglioramenti o addizioni (ex artt. 985 e 986 c.c.): in tutti questi casi, dunque, sembra che l'avviso di convocazione debba essere comunicato sia all'usufruttuario sia al nudo proprietario (come si avrà modo di chiarire infra, al successivo paragrafo «La delibera di innovazioni», tale problema di partecipazione dell'usufruttuario all'assemblea non si pone, invece, in relazione alle delibere che riguardino le innovazioni).

Contestualmente all'assunzione della delibera relativa alle opere di manutenzione straordinaria, la seconda parte del n. 4) del comma 1 dell'art. 1135 c.c. – come novellato dalla l. n. 220/2012 – prevede che l'assemblea debba costituire obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; tale fondo, peraltro, se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti. Su tale aspetto si tornerà funditus nel successivo paragrafo «La delibera di innovazioni».

Il potere di attivazione dell’amministratore rispetto ad atti di manutenzione straordinaria

Residua un potere dell'amministratore, rispetto alle opere di manutenzione straordinaria, negli stringenti limiti di cui all'art. 1135, comma 2, c.c. e, cioè, allorché si tratti di lavori urgenti: in tal caso, come già anticipato in precedenza, l'amministratore, senza previa delibera assembleare, può affidare ad una ditta l'esecuzione di opere di manutenzione straordinaria esclusivamente se aventi carattere urgente e, ove a tanto provveda, deve riferirne ai condomini nella prima assemblea. Nella ricorrenza del presupposto dell'urgenza, secondo un primo orientamento spetta all'intero condominio retribuire la ditta, senza potersi questa rivalere sull'amministratore «unico» committente (Cass. II, n. 2807/2017), dovendosi il rapporto negoziale ritenersi sorto ex tunc tra condominio (quale committente, sia pure rappresentato dall'amministratore) e terzo appaltatore. Tale soluzione risponde al principio – pacifico e desumibile non solo dall'art. 1131 c.c., che fa riferimento alle attribuzioni elencate nel precedente art. 1130 c.c., ma anche dall'art. 1133 c.c., che prevede l'obbligatorietà, per tutti i condomini, dei provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri – per cui l'amministratore, allorché agisce nei limiti dei poteri attribuitigli dalla legge o di quelli, eventualmente maggiori, conferitigli dall'assemblea o dal regolamento, rappresenta il condominio, e pertanto, ove ne abbia legittimamente speso il relativo nome, in realtà contrae per conto dello stesso, con conseguente riferibilità diretta dei relativi rapporti all'anzidetto ente di gestione. Si spiega così, dunque la conclusione, avallata dalla giurisprudenza costante, per cui ove l'amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all'art. 1135, comma 2, c.c., abbia assunto l'iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzate dall'urgenza e questa effettivamente ricorra, il condominio deve ritenersi validamente rappresentato ed impegnato, con conseguente diretta esigibilità da parte dei terzi contraenti dell'adempimento delle relative obbligazioni (cfr. anche, in termini, Cass. II, n. 6557/2010; Cass. II, n. 4232/1987). Non rileva, invece, in senso ostativo al riconoscimento all'insorgere del rapporto direttamente tra condominio e terzo, la mancata comunicazione, ad opera dell'amministratore, della spesa: ed infatti, l'obbligo di avviso all'assemblea rientra nel dovere generale che incombe all'amministratore di rendere conto della sua gestione ai condomini e non va, invece, confuso con la necessità di ratifica di un atto (nella specie, per quanto detto, mancante) esorbitante dal mandato (Cass. II, n. 10144/1996; Trib. Salerno, 10 settembre 2010).

Per una diversa impostazione (Cass. II, n. 20136/2017), al contrario, deve escludersi che “il terzo, che abbia operato su incarico dell'amministratore” possa, di sua iniziativa, “dedurre che la prestazione da lui adempiuta rivestisse carattere di urgenza, valendo tale presupposto a fondare, in base all'art. 1135, ultimo comma, c.c., il diritto dell'amministratore a conseguire dai condomini il rimborso delle spese nell'ambito interno al rapporto di mandato”: sicché, in conclusione, la riferibilità al condominio delle opere commissionate dall'amministratore sulla base dell'urgenza, in ogni caso richiederebbe un passaggio assembleare di "approvazione".

Peraltro, indipendentemente dalla tesi cui si intenda aderire, trattandosi di un potere di intervento e non già di un dovere, l'amministratore non può essere chiamato a rispondere, verso i condomini, del suo mancato esercizio, pur dovendo – secondo il generale obbligo di rendiconto della propria attività e, ancor più specificamente, in virtù dell'obbligo di adottare gli atti inerenti alla conservazione delle cose comuni – dare avviso ai condomini dell'urgenza dell'opera a deliberarsi. 

La questione, se pacifica in ambito civilistico, lo è meno in ambito penalistico, laddove la giurisprudenza è al contrario decisamente cristallizzata nel sostenere che l'amministratore di condominio rivesta una specifica posizione di garanzia, ex art. 40, comma 2, c.p.c., in virtù del quale “su costui ricade l'obbligo di rimuovere ogni situazione di pericolo che discende dalla rovina di parti comuni attraverso atti di manutenzione ordinaria e straordinaria, predisponendo nei tempi necessari alla loro concreta realizzazione le cautele più idonee a prevenire la specifica situazione di pericolo. In base all'articolo 1130 n. 4 codice civile l'amministratore di condominio deve compiere atti conservativi delle parti comuni dell'edificio” (Cass. pen. IV, n. 13475/2020).

[*DOTT*] Invero, muovendo dalla considerazione per cui i reati omissivi impropri sono integrati dal mancato impedimento di un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire in forza di una fonte legale, per essere il relativo soggetto attivo titolare, cioè, di una “posizione di garanzia” nei confronti del bene giuridico leso risultante dalla combinazione della clausola generale contemplata dall'articolo 40 cpv. c.p. con la norma di parte speciale configurante un reato commissivo di evento a forma libera, si è osservato, in dottrina (GIORDANO, CHIESI, 2020),  come sia essenziale individuare quali obblighi giuridici possano fondare una responsabilità ex art. 40 c.p.: in tale prospettiva, si è detto, appaiono fondamentali (a) in base al principio di legalità-riserva di legge, la giuridicità dell'obbligo di impedimento, imposto da una legge extrapenale, nonché (b) in virtù del principio di legalità-tassatività, la specificità dell'obbligo di garanzia, con conseguente esclusione degli obblighi a contenuto indeterminato; occorre, infine, (c) in base al principio di personalità della responsabilità penale, che il garante sia titolare di preesistenti poteri giuridici impeditivi dell'evento. “Grazie a tali caratteristiche è possibile distinguere l'obbligo di garanzia da altri obblighi giuridici, inidonei a fondare l'equivalenza normativa ex articolo 40 c.p. e penalmente illeciti solo in presenza di apposita norma incriminatrice: si tratta, in particolare, degli obblighi di sorveglianza che ricorrono allorché soggetti, privi di poteri giuridici impeditivi, abbiano però il compito di vigilare sull'altrui attività ed informare taluno di eventuali irregolarità e dei meri obblighi di attivarsi, talvolta imposti a soggetti privi di poteri giuridici al verificarsi di particolari presupposto di fatto. Alla luce della teorica appena illustrata appare allora discutibile la configurazione di una posizione di garanzia in capo all'amministratore di condominio, almeno nel caso dei lavori di straordinaria manutenzione…ove il codice sembra escludere alcun obbligo giuridico dell'amministratore, configurandosi, al più, una facoltà di attivazione che, come visto, non è in grado di fungere da presupposto per la responsabilità penale omissiva impropria”.

[*GIURI*] Su tali premesse metodologiche, allora, sembra preferibile l'impostazione seguita, in tema responsabilità derivante dall'omissione dei lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare e di omesso stanziamento di fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, da Cass. pen. I, n. 50366/2019, che, rispetto ad un'imputazione per il reato di cui all'art. 677 c.p. ha ritenuto sussistente la sola responsabilità dei proprietari delle unità abitative, escludendo quella dell'amministratore, ricadendo in siffatta situazione su ogni singolo proprietario l'obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa, indipendentemente dalla attribuibilità al medesimo dell'origine della stessa.   

[*DOTT*]  Si è discusso, infine, circa i rapporti tra amministratore e condominio in ipotesi di difetto del requisito dell'urgenza e si è sostenuto che, non trovando applicazione i principi di cui all'art. 1134 c.c. (norma volta a regolare solamente i rapporti tra condominio e condomini e che esclude in radice il diritto al rimborso in ipotesi di mancanza di urgenza) l'amministratore potrebbe sempre agire nei confronti del condominio ex art. 2041 c.c., per l'utilità che la propria attività ha comune arrecato al condominio (Branca, 630). Parte della dottrina (Visco, 369), in particolare ritiene che nella quantificazione di tale arricchimento deve farsi riferimento al costo effettivo ovvero all'effettivo valore delle opere. 

[*GIURI*]  Resta comunque integro il potere dell'assemblea di ratificare la spesa straordinaria disposta dall'amministratore anche in difetto del presupposto dell'urgenza: l'assemblea, cioè, ben può riconoscere, a posteriori e con effetto di ratifica di quanto l'amministratore abbia posto in essere al di là dei poteri conferitigli dalla legge, l'utilità di lavori opportunamente e vantaggiosamente realizzati, ancorché non previamente deliberati, ovvero, a suo tempo, non deliberati validamente, ed approvarne la relativa spesa, restando in tal caso, la preventiva formale deliberazione dell'opera surrogata dall'approvazione del consuntivo della spesa e della conseguente ripartizione del relativo importo fra i condomini (Trib. Bologna, 8 febbraio 2018. In senso contrario, però, Trib. Napoli, 1 giugno 1994). Chiarisce, infatti, Cass. II, n. 4430/2017, che, ove sia mancata la preventiva approvazione assembleare della spesa relativa al progetto originario di opere di manutenzione straordinaria o a sue varianti, non vi è ragione per cui alla ratifica di tale spesa e all'approvazione del relativo riparto, con la necessaria maggioranza, non si possa procedere in sede di rendiconto consuntivo, pur essendo questo la sede in cui – di regola – l'assemblea provvede ad approvare l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e quelle relative ai servizi comuni essenziali. Si rinvia, sul punto, per una più approfondita disamina dell'argomento, a quanto già esposto nel precedente paragrafo «Approvazione del preventivo delle spese e del rendiconto consuntivo» a proposito delle delibere di approvazione del rendiconto consuntivo, nonché, per un raffronto con l'ipotesi analoga del condominio che abbia anticipato esborsi per la gestione della cosa comune, al commento all'art. 1134 c.c.

Segue. La delibera di innovazioni

Rientra ancora, tra le attività rimesse all'assemblea, l'assunzione di deliberazioni concernenti le innovazioni da realizzare nello stabile condominiale.

L'art. 1108, comma 1, c.c. sancisce, in tema di comunione, che, con la maggioranza prevista per le deliberazioni concernenti gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, i comunisti possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa; in senso analogo, il successivo art. 1120, comma 1, c.c., specificamente dettato in tema di condominio, dispone che, con la maggioranza prevista dal comma 5 dell'art. 1136 c.c., i condomini possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni o a renderne più comodo o redditizio il godimento, salvo (cfr. l'attuale art. 1120, comma 4, c.c. a seguito della riforma) che si tratti di interventi che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico ovvero, ancora che pregiudichino il godimento anche solo di un condomino o importino una spesa eccessivamente gravosa o si tratti di interventi di carattere voluttuario. La novella contenuta nella l. n. 220/2012 ha, poi, introdotto un nuovo comma 2 all'art. 1120 c.c., indicando maggioranze diverse per specifiche categorie di innovazioni ed ha contestualmente modificato l'art. 2, della l. n. 13/1989, disponendo che le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'art. 27, comma 1, l. 30 marzo 1971, n. 118, ed all'art. 1, comma 1, del d.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal comma 2 dell'art. 1120 c.c.

Rinviando per una più approfondita trattazione dell'argomento al commento agli artt. 1120 e 1121 c.c. preme in questa sede soffermarsi su alcuni aspetti disciplinari essenziali: anzitutto, da chiarire, infatti, è la nozione di partenza, cosa si debba intendere, cioè, con il termine «innovazione». Tale nozione può ricavarsi agevolmente dalla lettura combinata dei richiamati artt. 1108, comma 1, e 1120 c.c., nonché dell'art. 1102 c.c., disposizione che disciplina la diversa ipotesi delle modificazioni (applicabile in materia condominiale in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c.). In particolare, le innovazioni consistono in quelle opere che producono un mutamento materiale della forma, della struttura ovvero, ancora, del valore della cosa comune, al fine di assicurarne un uso migliore o, comunque, un godimento più comodo ovvero più redditizio, laddove le «semplici» modificazioni, invece, sono sempre soggette al rispetto dell'originaria destinazione della cosa comune. Tale linea di demarcazione tra i due istituti è estremamente chiara in ambito condominiale, essendosi chiarito che la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all'entità e qualità dell'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto (Cass. II, n. 12654/2006; Cass. II, n. 15640/2002; Cass. II, n. 11936/1999; Cass. II, n. 1554/1997). Chiarissima, nel tracciare la distinzione tra i due fenomeni che possono interessare la parti comuni, è la recente Cass. II, n. 20712/2017, la quale evidenzia che le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall'art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione (sembra deporre senso suddetto, peraltro, la relazione al Re, che interpreta l'art. 1108, comma 1, c.c., nel senso che esso «consente alla maggioranza speciale di modificare la destinazione del bene»), mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l'aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell'assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte. In sostanza, le innovazioni concernono, almeno teoricamente, tutti i compartecipi mentre non altrettanto è da dirsi con riferimento alle modificazioni: difatti l'art. 1108, comma 1, ultima parte, c.c. così come il successivo art. 1120, comma 2, ultima parte, c.c. consentono ai compartecipi la realizzazione di innovazioni a condizione, nel primo caso, che «esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti» e, nel secondo caso, che non «rendano talune parti dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino» (il concetto di inservibilità deve essere interpretato quale sensibile menomazione dell'utilità che il condomino ritraeva secondo l'originaria destinazione del bene: con la conseguenza per cui devono ritenersi comunque consentite quelle innovazioni che, recando utilità a tutti i condomini tranne uno, comportino per quest'ultimo un pregiudizio limitato e che non sia tale da superare i limiti della tollerabilità. Cfr. Cass. II, n. 10445/1998); l'art. 1102, comma 1, c.c., al contrario, consente a ciascuno, alla sola condizione che venga rispettato il pari diritto degli altri compartecipi, di servirsi della cosa comune per il proprio migliore godimento.

In difetto di una compiuta elencazione di cosa si debba intendere per innovazione ai sensi dell'art. 1120 c.c., lo stabilire se un'opera integri o meno gli estremi di essa costituisce un'indagine di fatto rimessa al giudice di merito, insindacabile in Cassazione se sostenuta da corretta e congrua motivazione (Cass. II, n. 10602/1990).

Le innovazioni vanno, poi, tenute distinte dalle opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, le quali si caratterizzano per la indispensabilità della loro realizzazione. In altre parole, mentre le innovazioni dipendono, sostanzialmente, dall'arbitrio dell'assemblea – la quale può decidere di deliberarle oppure no, senza che ciò incida assolutamente sulla conservazione della cosa comune – le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sono necessarie per assicurare ai compartecipi proprio la conservazione, l'uso ed il godimento della cosa comune che, senza la realizzazione dell'opera in oggetto, sarebbero irrimediabilmente compromessi.

Chiara Cass. II, n. 16639/2007 la quale, chiamata a pronunziarsi sulla ristrutturazione di un impianto fognario vecchio di oltre cinquant'anni e bisognoso di interventi strutturali, ha escluso che il relativo intervento manutentivo potesse essere inquadrato quale innovazione, trattandosi, piuttosto, di una spesa (straordinaria) necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune. Nello stesso senso Cass. II, n. 51501/1986, la quale anch'essa chiarisce che, stabilire se un'opera integri o meno gli estremi dell'innovazione prevista dall'art. 1120 c.c. costituisce un'indagine di fatto, insindacabile in Cassazione se sostenuta da corretta e congrua motivazione (nella specie è stato escluso che dessero luogo ad «innovazione» i lavori di adeguamento alla normativa vigente dell'impianto termico dello edificio condominiale, consistenti, fra l'altro, nella sostituzione della caldaia e nella trasformazione a gasolio del bruciatore esistente nonché nell'interramento del serbatoio del combustibile al di fuori dell'edificio).

Tra i vari elementi di distinzione tra innovazioni e modificazioni, il discrimen che in questa sede rileva è dato dalla necessità di una delibera per la realizzazione di innovazioni (siccome incidenti sulla destinazione del bene), la quale invece non è richiesta nel caso di condomino che (tale destinazione non alterando) semplicemente si avvalga delle facoltà riconosciutegli ex art. 1102 c.c. (cfr. anche Cass. II, n. 2752/1971): ne discende – inevitabilmente – che il consenso alla realizzazione di innovazioni sulla cosa comune deve essere espresso con un atto avente la forma scritta « ad substantiam » (Cass. II, n. 21049/2017).

Quanto alle maggioranze richieste per l'approvazione delle innovazioni, esse sono decisamente variabili e, dalla lettura dell'art. 1120 c.c., è possibile enucleare uno schema così sinteticamente riassumibile nei termini che seguono (cfr. anche Chiesi-Crispino-Costabile-Landolfi-Sinisi-Troncone, 270 ss.).

1) Innovazioni vietate: si tratta di quelle trasformazioni della cosa comune che non possono essere realizzate, se non con il voto unanime (Trib. Padova 3 marzo 2006) di tutti i compartecipi, siccome in grado di pregiudicare il godimento di alcuno dei partecipanti (tale lesione va intesa non solo in senso materiale, ma anche quale elisione o riduzione in modo apprezzabile delle utilità ricavabili dalle cose comuni, anche se di ordine edonistico o estetico (Cass. II, n. 7625/2006; Cass. II, n. 20639/2005), o che rendono talune parti dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (la condizione di inservibilità del bene comune all'uso o al godimento anche di un solo condomino è riscontrabile anche nel caso in cui l'innovazione produca una sensibile menomazione dell'utilità specifica che il condomino precedentemente ricavava dal bene comune secondo l'originaria costituzione della comunione. Così Cass. II, n. 20639/05; 10445/98; Trib. Bari, 14 febbraio 2014), o che non rendono più comodo o redditizio il godimento della cosa comune, ovvero pregiudichino la stabilità e la sicurezza dell'edificio (allorquando si fa riferimento al pregiudizio alla stabilità dell'edificio, occorre guardare al pericolo di crollo del fabbricato mentre la nozione di pregiudizio alla sicurezza fa riferimento alla diversa ipotesi in cui la vita ed il godimento nell'interno dello stabile non siano più sicuri da «attacchi» esterni, umani ovvero naturali. Così Jannuzzi-Iannuzzi, 232) ovvero, ancora, il decoro architettonico dello stesso (per tale dovendosi intendere l'estetica conferita allo stabile dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante, atta ad imprimere alle varie parti dell'edificio, nonché all'edificio stesso nel suo insieme, una sua determinata armonica fisionomia e specifica identità, visibile ed apprezzabile dall'esterno. Cfr. Cass. II, n. 8830/2008; Cass. II, n. 851/2007 e si rinvia, per un approfondimento, al commento all'art. 1117 c.c.) (cfr. gli artt. 1120, comma 4, e 1121 c.c.). Prima dell'entrata in vigore dell'art. 26 della l. 9 gennaio 1991, n. 10, ad esempio, veniva fatta rientrare in tale categoria la delibera di trasformazione dell'impianto centralizzato di riscaldamento in impianti autonomi, giacché l'abbandono dell'impianto centralizzato, la rinuncia alle precedenti modalità di riscaldamento, la destinazione a nuovo impianto di locale idoneo e la necessità di nuove opere e relativi oneri di spesa non potevano essere imposte al condomino dissenziente ai sensi dell'art. 1120, comma 2 (attualmente comma 4), c.c. (Cass. II, n. 4219/2007; Cass. II, n. 6565/1991). Alla stessa conclusione è poi pervenuta Cass. II, n. 5117/1999, con riferimento alla delibera di trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti unifamiliari, senza alcun riferimento al rispetto delle prescrizioni – pur vigenti – della cit. legge n. 10/1991, per la riduzione dei consumi energetici. Analogamente è stata richiesta l'unanimità per la soppressione dell'impianto centralizzato dell'acqua calda (Cass. II, n. 3186/1991) ovvero per la costruzione di autorimesse nel sottosuolo del cortile comune, comporta tale opera di sbancamento il mutamento di destinazione del sottosuolo da sostegno delle aree transitabili e delle aree verdi a spazio utilizzato per il ricovero di automezzi (con conseguente modifica di destinazione anche della area scoperta soprastante a copertura di locali sotterranei) e determinando una situazione di permanente esclusione di ogni altro condomino dall'uso e dal godimento di ciascuna autorimessa sotterranea, assegnata ai singoli condomini, ancorché rimasta di proprietà comune (Cass. II, n. 6817/1988). È, ancora, richiesta l'unanimità per le delibere con cui l'assemblea costituisce diritti reali parziari sulle cose comuni (Cass. II, n. 3865/1993), trovando applicazione diretta, in virtù del richiamo alle disposizioni sulla comunione posto dall'art. 1139 c.c., l'art. 1108, comma 3, c.c. Sono state fatte rientrare, inoltre, tra le innovazioni vietate, per le quali è richiesta una deliberazione all'unanimità del valore millesimale dell'edificio: 1.a) la realizzazione di tettoie che – pur realizzate nella proprietà esclusiva del condomino – comportino un danno estetico alla facciata dell'edificio condominiale (Cass. II, n. 2743/2005); 1.b) la realizzazione di opere implicanti il peggioramento del decoro architettonico del fabbricato (Cass. II, n. 10350/2011; Cass. II, n. 1076/2005), come, ad esempio, nel caso di installazione di una canna fumaria che con tale estetica contrasti (Trib. Roma 28 luglio 2002); 1.c) l'assegnazione nominativa da parte del condominio a favore di singoli condomini di posti fissi nel cortile comune per il parcheggio della seconda autovettura, in quanto tale delibera, da un lato, sottrae l'utilizzazione del bene comune a coloro che non posseggono la seconda autovettura e, dall'altro, crea i presupposti per l'acquisto da parte del condomino, che usi la cosa comune con animo domini, della relativa proprietà a titolo di usucapione (Cass. II, n. 1004/2004). In senso contrario, però, Cass. II, n. 5997/2008, la quale ha ritenuto che la delibera condominiale con la quale si decide di adibire il cortile comune – di ampiezza insufficiente a garantire il parcheggio delle autovetture condominiali – a parcheggio dei motoveicoli, con individuazione degli spazi, delimitazione ed assegnazione degli stessi ai singoli condomini, non dà luogo ad una innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale assegnazione una trasformazione della originaria destinazione del bene comune, o l'inservibilità di talune parti dell'edificio all'uso o al godimento anche di un singolo condomino quanto, piuttosto, un più ordinato e razionale uso paritario; 1.d) la trasformazione di un'area o bene comune in un'area edificabile destinata alla realizzazione, con stabili opere edilizie, di autorimesse a beneficio di alcuni condomini soltanto, posto che in tal modo viene meno la originaria funzione dell'area o bene comune e vi è un'utilizzazione esclusivamente di alcuni condomini con la sottrazione all'uso ed al godimento degli altri o anche di un solo condomino (Cass. II, n. 6817/1988; Cass. II, n. 6673/1988); 1.e) l'abbattimento di alberi, comportando la distruzione di un bene comune, deve considerarsi un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1121 c.c. e, in quanto tale, richiede l'unanime consenso di tutti i partecipanti al condominio; né può ritenersi che la delibera di approvazione, a maggioranza, della spesa relativa all'abbattimento, possa costituire valida ratifica dell'opera fatta eseguire di propria iniziativa dall'amministratore (App. Roma, 6 febbraio 2008);

2) Innovazioni consentite: opere, cioè, che implicano una trasformazione della cosa comune, volta al miglioramento di quest'ultima, ovvero a renderne più comodo o redditizio il godimento, e che possono essere deliberate con le maggioranze qualificate all'uopo prescritte dalla legge. Nel consentire all'assemblea condominiale, sia pure con particolari maggioranze, di disporre innovazioni, l'art. 1120 c.c. non postula affatto che queste rivestano carattere di necessità, essendo sufficiente che esse siano dirette «al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni», con l'unico divieto – innanzi esaminato – per quelle innovazioni che possono recare pregiudizio alla statica o al decoro architettonico del fabbricato ovvero rendano talune parti comuni inservibili all'uso o al godimento anche di uno solo dei condomini ovvero, ancora importino esborsi gravosi o voluttuari; sicché, al di fuori di tale divieto, ogni innovazione utile deve ritenersi permessa, anche se non strettamente necessaria (Cass. II, n. 5028/1996). Le innovazioni che ricadono in tale ambito e che sono adottate con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 5, c.c. (dunque, un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio) anche in virtù del richiamo espresso contenuto all'art. 1120, comma 1, c.c. sono vincolanti per tutti i condomini i quali, pertanto, sono obbligati a contribuire alle relative spese di realizzazione e manutenzione. Rientrano in tale categoria, peraltro, anche le innovazioni c.d. tecnologiche, oggi disciplinate dall'art. 1120, comma 2, c.c., come novellato dalla l. n. 220/2012, per le quali non solo è prevista la diversa maggioranza del comma 2 dell'art. 1136 c.c. (un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio), ma anche un particolare meccanismo di convocazione dell'assemblea (il comma 3 del medesimo art. 1120 c.c. prevede, infatti, che l'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino interessato all'adozione delle relative deliberazioni; la richiesta deve contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi proposti e, in mancanza, l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni). Procedendo anche in questo caso ad una rapida esemplificazione delle innovazioni ricondotte dalla giurisprudenza a tale categoria, si osserva che sono state ritenute innovazioni consentita, con deliberazione assunta con la maggioranza qualificata predetta: 2.a) la trasformazione in garage di locali condominiali già destinati a portineria e a centrale termica, i cui servizi siano stati soppressi con precedenti delibere, non incidendo tale decisione sul diritto di proprietà dei locali che restano in comunione, ma soltanto sulla loro concreta destinazione ed utilizzazione (Cass. II, n. 15640/2002); 2.b) l'installazione (utile a tutti i condomini tranne uno) di un'autoclave nel cortile condominiale, con minima occupazione di una parte di detto cortile, posto che l'eventuale pregiudizio che ne deriva al che non ne usufruisce è limitato e non è tale da superare i limiti della tollerabilità (Cass. II, n. 10445/1998; Trib. Cagliari 27 dicembre 1993); 2.c) l'istituzione ovvero la soppressione del servizio di portierato (Cass. II, n. 5083/1993); 2.d) la coloritura delle persiane dello stabile, al fine di armonizzare l'edificio condominiale con quelli circostanti (Cass. II, n. 4755/1977).

3) Innovazioni consentite, con esonero di alcuni dei compartecipi dalle spese: sono quelle opere fruibili in maniera separata da ciascuno dei contitolari (ovvero che hanno natura voluttuaria ovvero, ancora, risultano molto gravose), legittimamente realizzate a proprie spese solo da taluno dei condomini e, cionondimeno, suscettibili di ricadere in contitolarità tra tutti, a condizione che gli altri condomini, originariamente non partecipi della realizzazione dell'opera, successivamente si accollino la propria parte di tali spese, calcolata in misura proporzionale al valore della rispettiva quota. Se, infatti, la differenza – come più sopra tracciata – tra innovazioni e spese di manutenzione risiede nella circostanza che l'art. 1120 c.c. non richiede che le prime rivestano il carattere di assoluta necessità, essendo piuttosto dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, al di fuori dei divieti posti dal comma 4 (originariamente comma 2) e di cui si è dato conto, ogni innovazione utile deve ritenersi permessa, anche se non strettamente necessaria, con l'unico del rispetto delle condizioni poste dal successivo art. 1121 c.c., nel senso che laddove l'innovazione presenti le caratteristiche del carattere voluttuario o di particolare gravosità della spesa in rapporto alle condizioni e all'importanza dell'edificio, essa è consentita soltanto ove consista in opere, impianti o manufatti suscettibili di utilizzazione separata e sia possibile, quindi, esonerare da ogni contribuzione alla spesa i condomini che non intendano trarne vantaggio, oppure, in assenza di tale condizione, se la maggioranza dei condomini che l'ha deliberata o accettata intenda sopportarne integralmente la spesa (Cass. II, n. 5028/1996). L'innovazione, per essere definita gravosa o voluttuaria, richiede principalmente la ricorrenza di due condizioni: anzitutto, deve essere molto onerosa in senso oggettivo (non è rilevante, in proposito, il riferimento alle condizioni economiche dei singoli condomini ma deve aversi riguardo all'esborso in sé e per sé considerato. Cfr. Cass. II, n. 428/1984. In senso contrario, però, in dottrina Dogliotti-Figone, 204, che ritiene debba invece farsi riferimento alla quota di spese che graverebbe sui proprietari esclusivi) e, in secondo luogo, deve trattarsi di impianto suscettibile di utilizzazione separata (App. Lecce, 27 aprile agosto 2004). Esemplificativo è il caso dell'impianto di ascensore: la installazione ex novo di un ascensore in un edificio condominiale costituisce, infatti, certamente un'innovazione (in virtù della modificazione materiale della cosa comune, conseguente alla realizzazione dell'impianto, sia che si tratti della parziale inclusione del vano scale, che della stabile occupazione di una porzione del cortile comune), deliberabile assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall'art. 1136, comma 5, c.c., ovvero con le maggioranze speciali di cui all'art. 2 della l. n. 13/1989 (rientrando fra le opere di cui all'art. 27, comma 1, della l. n. 118/1971 ed all'art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 384/1978), oppure direttamente realizzabile con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l'impianto di proprietà comune; trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, allorché l'innovazione non sia stata approvata in assemblea, nondimeno essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all'art. 1102. Cfr. anche Trib. Pavia, 12 marzo 2020), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi della innovazione, contribuente nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell'opera, ex art. 1121, comma 3, c.c. (conforme Cass. II, n. 20713/2017). Sicché, la presunzione di condominialità dell'impianto ascensore, da ricomprendersi tra i beni qualificabili come comuni ai sensi dell'art. 1117, n. 3), c.c. opera anche nel caso in cui l'ascensore sia stato installato successivamente alla costruzione dell'edificio, sempre che ciò sia avvenuto a seguito di consenso di tutti i condomini (Cass. II, n. 3264/2005; Cass. II, n. 16469/2005); laddove, al contrario, l'innovazione sia stata realizzata solamente da uno ovvero taluni dei condomini, in applicazione del disposto dell'art. 1121 c.c., l'ascensore è in (com)proprietà esclusiva di costui/costoro (Cass. II, n. 3314/1971), salvo il diritto potestativo, riconosciuto in favore degli altri condomini, ai sensi del menzionato 1121, comma 3, c.c., di partecipare in ogni tempo ai vantaggi dell'installazione divenendone comproprietari, contribuendo alle spese di costruzione e manutenzione dell'opera (Cass. II, n. 8746/1993).

Sicché, in ultima analisi e riepilogando quanto precede, deve concludersi nel senso che l'ascensore installato ex novo, per iniziativa ed a spese di alcuni condomini, successivamente alla costruzione dell'edificio, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene a quelli, tra costoro, che l'hanno impiantato, dando luogo ad una particolare comunione parziale, distinta dal condominio stesso; tale è il regime proprietario finché tutti i condomini non decidano, successivamente, di partecipare alla realizzazione dell'opera, con l'obbligo di pagarne "pro quota" le spese all'uopo impiegate, aggiornate al valore attuale, secondo quanto previsto dall'art. 1121, comma 3, c.c., non assumendo rilievo giuridicamente rilevante, ai fini della natura condominiale dell'innovazione, la circostanza che questa sia stata, di fatto, utilizzata anche a servizio delle unità immobiliari di proprietà di coloro che non avevano inizialmente inteso trarne vantaggio (Cass. VI-2, n. 10850/2020. Cfr. anche, Trib. Roma, 15 aprile 2020).

L'esercizio di tale diritto implica, quale ulteriore conseguenza, che il condomino accetta tutte le deliberazioni nel frattempo intervenute e relative alla innovazione di cui trattasi (Cass. II, n. 4138/1976). È evidente, infine, come, in tal caso, un problema di calcolo delle maggioranze non si ponga in termini analoghi a quelli esplicitati per le precedenti categoria di innovazioni, nel senso che, pur richiedendosi per la loro approvazione la maggioranza ex art. 1136, comma 5, c.c., i condomini che non intendo trarre vantaggio dall'innovazione non sono tenuti a sopportare le relative spese: il dissenso a partecipare alla spesa per opere dispendiose deliberate dall'assemblea va, però, manifestato nella riunione o, comunque, nei modi e nei termini previsti dall'art. 1137 c.c. (Cass. II, n. 1215/1969). Si osserva, in dottrina (Branca, 444), peraltro, che la previsione di cui all'art. 1121 c.c., pur se non contenuta nell'elencazione del comma 4 dell'art. 1138 c.c., è inderogabile, non potendo sopprimere il diritto al dissenso ivi contemplato neppure un regolamento di natura contrattuale: la norma esprimerebbe, infatti, un principio di tutela della minoranza dissenziente rispetto ad una decisione priva di sostanziale utilità per la collettività, operando in maniera del tutto analoga rispetto a quanto avviene nel caso dell'art. 1132 c.c., per l'ipotesi di dissenso dei condomini alle liti (Dogliotti-Figone, 204). In assenza di un criterio normativo, poi, è affidata alla valutazione discrezionale del giudice di merito stabilire se i lavori deliberati dall'assemblea condominiale siano o meno da ritenere innovazione gravosa o voluttuaria ex art. 1121 c.c. e, come tali, necessitanti per la relativa validità del consenso della totalità dei condomini (Cass. II, n. 428/1984; Trib. Bari, 4 settembre 2012): è certamente da escludere, però, che rientrino tra le innovazioni del tipo in esame le opere necessarie alla conservazione dei beni comuni, benché particolarmente onerose (Trib. Milano, 14 marzo 1968), nonché quelle comunque onerose, ma necessarie stante l'antieconomicità delle riparazioni ordinarie (Cass. II, n. 62/1968)  (si rinvia, per un ulteriore approfondimento sulla realizzazione dell'impianto ascensore, al commento all'art. 1117 c.c.).

Quanto alla partecipazione all'assemblea chiamata a deliberare sulle innovazioni, non si pone in tal caso un problema di coinvolgimento dell'usufruttuario (o dell'habitator) analogo a quello esaminato nel precedente paragrafo «La deliberazione di opere di manutenzione straordinaria e di innovazioni» per le assemblee ove si discuta di opere eccedenti la ordinaria manutenzione: ed infatti, il concetto di «rinnovamento delle entità abbisognevoli di riparazione», cui si riferisce l'art. 1005 c.c. in tema di ripartizione delle spese relative alla cosa oggetto di usufrutto, è ben diverso dal concetto di innovazione cui si riferiscono, in tema di condominio negli edifici, gli artt. 1120 e 1121 c.c., il primo dovendo essere posto in relazione ad opere che comportano la sostituzione di entità preesistenti, ma ormai inefficienti con altre pienamente efficienti, il secondo concernente, invece, opere che importano un mutamento della cosa nella forma e nella sostanza, con aggiunta di entità non preesistenti o trasformazione di alcuna di quelle preesistenti (Cass. II, n. 12085/1998). Contestualmente all'assunzione della delibera relativa alle innovazioni, la seconda parte del n. 4) del comma 1 dell'art. 1135 c.c. – come novellato dalla l. n. 220/2012 – prevede che l'assemblea debba costituire obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; tale fondo, peraltro, se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti (si rinvia, sul punto, al paragrafo immediatamente seguente).

Per quanto concerne, infine, le innovazioni da realizzarsi all'interno di un condominio minimo, va da sé che anche in tal caso valgono le medesime considerazioni già svolte nel precedente paragrafo «La nomina e la revoca dell'amministratore del supercondominio, del condominio parziale e del condominio minimo» a proposito della nomina dell'amministratore e, cioè, che le regole codicistiche sul funzionamento dell'assemblea si applicano allorché quest'ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione «unanime», tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari; ove, invece, non si raggiunga l'unanimità o perché l'assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l'altro resti assente, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass. II, n. 5329/2017. Cfr. anche Cass. VI-2, n. 16337/2020 e Cass. VI-2, n. 15705/2020).

La costituzione del fondo speciale

Come anticipato, contestualmente all'assunzione della delibera relativa alle opere di manutenzione straordinaria o alle innovazioni, la seconda parte del n. 4) del comma 1 dell'art. 1135 c.c. – come novellato dalla legge n. 220/2012 – prevede che l'assemblea debba costituire obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; tale fondo, peraltro, se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti

Invero, già anteriormente alla Riforma del 2012 era prassi consolidata quella di costituire un fondo-cassa, anche svincolato dall'esatto criterio di riparto che per la determinata spesa dovrebbe poi adottarsi a consuntivo, per raccogliere anticipatamente le quote condominiali relative alle lavorazioni di importo ragguardevole: precisamente, tale metodologia comportamentale dell'assemblea fondava sulla riconosciuta legittimità della deliberazione assembleare, assunta a semplice maggioranza, istitutiva di un fondo cassa svincolato dal rispetto dei parametri posti dagli artt. 1123-1126 c.c., sia relativamente alle spese di ordinaria manutenzione e conservazione dei beni comuni (Cass. II, n. 8167/1997; Trib. Milano, 29 settembre 2005), sia per fare eventualmente fronte all'effettiva ed improrogabile urgenza di reperire liquidità, come nel caso di aggressione in executivis da parte di creditore del condominio, in danno di parti comuni dell'edificio (Cass. II, n. 13631/2001). 

D’altra parte – si osserva - la costituzione di un fondo cassa da parte dell'assemblea condominiale, ancorché non venga disposto in merito all'impiego dei residui attivi di gestione nell'esercizio di riferimento, non viola la necessaria dimensione annuale della gestione condominiale, essendo sufficiente che questi possano, anche solo implicitamente, desumersi dal rendiconto, ai fini della loro rilevabilità nei conti individuali dei singoli condòmini e della conseguente riduzione, per compensazione, delle quote di anticipazione dovute dagli stessi condòmini per l'anno successivo (Cass. II, n. 25900/2022).

D’altra parte – si osserva - la costituzione di un fondo cassa da parte dell'assemblea condominiale, ancorché non venga disposto in merito all'impiego dei residui attivi di gestione nell'esercizio di riferimento, non viola la necessaria dimensione annuale della gestione condominiale, essendo sufficiente che questi possano, anche solo implicitamente, desumersi dal rendiconto, ai fini della loro rilevabilità nei conti individuali dei singoli condòmini e della conseguente riduzione, per compensazione, delle quote di anticipazione dovute dagli stessi condòmini per l'anno successivo (Cass. II, n. 25900/2022).

Il principio, invero, si trova costantemente affermato in giurisprudenza. Ad esempio, Cass. II, n. 17035/2016 ha ritenuto legittima l'istituzione di un fondo cassa rivolto, in una situazione di grave degrado dell'immobile, ad assicurare la provvista per procedere ad opere necessarie di manutenzione ordinaria e straordinaria, laddove gli interventi da eseguire siano individuati e/o individuabili (nella specie, all'impianto fognario, alla copertura dell'edificio, al lucernaio della scala ed all'adeguamento dell'impianto elettrico tute opere descritte nell'ordine del giorno di precedente riunione e puntualmente richiamate in quella istitutiva del fondo cassa), anche se non ancora deliberati.

Ed infatti, “considerato che la gestione dei beni e dei servizi comuni è affidata all'assemblea ed attuata dall'amministratore, nessuna norma impedisce di deliberare la istituzione di un fondo destinato ad affrontare le spese di ordinaria manutenzione e conservazione dei beni comuni, obbligazione che incombe su tutti i partecipanti al condominio. La scelta di operare in tal senso è certamente discrezionale, ma non eccede i poteri dell'organo deliberativo posto che non lede alcun diritto dei condomini che sono tenuti a contribuire – ex art. 1118 c.c. – alle spese per la conservazione delle parti comuni [...] Nel regime condominiale la maggioranza dei condomini è dunque libera di adottare decisioni che individuino modalità peculiari di gestione senza che ciò costituisca un abuso di potere. È evidente che, soprattutto nei momenti di crisi finanziaria, sia più prudente costituire un fondo cassa prima di sottoscrivere il contratto di appalto per l'esecuzione di pere, condizione che consente, per altro, di negoziare il corrispettivo in modo vantaggioso per il condominio giacché l'appaltatore, garantito dall'esistenza del fondo, vedrebbe assicurato il pagamento e sarebbe sollecitato nel portare a termine i lavori diligentemente e puntualmente.” (Monegat, 590).

Collega, invece, l'istituzione del fondo cassa all'eventuale attivo di gestione Trib. Milano, 5 febbraio 2013, preceduto da una pronunzia del medesimo tribunale meneghino (Trib. Milano, 29 settembre 2005), la quale chiarisce che appartiene al potere discrezionale dell'assemblea e non pregiudica l'interesse dei condomini alla corretta gestione del condominio, né il loro diritto patrimoniale all'accredito della proporzionale somma – perché compensata dal corrispondente minor addebito, in anticipo o a conguaglio – l'istituzione di un fondo-cassa per le spese di ordinaria manutenzione e conservazione dei beni comuni, essendo la relativa delibera formalmente regolare, anche se tale istituzione non è indicata tra gli argomenti da trattare, se è desumibile dal rendiconto donde emerga l'accantonamento di un'entrata condominiale (nella specie canone dell'appartamento dell'ex portiere) destinato a coprire le spese di ordinaria manutenzione. È stata invece ritenuta inammissibile l'istituzione di un fondo cassa per far fronte a spese straordinarie non determinate né determinabili, sulla scorta della considerazione per cui la competenza dell'assemblea è limitata, ai sensi dell'art. 1135 n. 2 c.c., all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno (Trib. Lucera, 20 dicembre 1996).

Circa la portata della novella legislativa, molto si è discusso circa le modalità di costituzione del fondo speciale di cui si è detto e la sua influenza sulla stessa delibera approvativa della spesa straordinaria o della innovazione: salva l'ipotesi – su cui si tornerà tra breve – di lavorazioni da eseguire sulla base di stati di avanzamento lavori (cd. S.A.L.), con pagamenti graduali in funzione del loro progressivo avanzamento, ove è stata legislativamente prevista la facoltà di sua (ri)costituizione in relazione ai singoli pagamenti dovuti (cfr. l'art. 1135, comma 1, n, 4, come ulteriormente novellato dall'art. 1, comma 9, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9 c.d. «Destinazione Italia»), ampiamente discussa è, al contrario, l'ipotesi-base contemplata dalla norma, relativa, cioè, a lavorazioni da retribuire uno acto. Precisamente, (a) a fronte di chi ritiene che sia necessario versare l'intero importo previsto per la realizzazione dell'opera prima di procedere alla sottoscrizione del contratto di appalto (sicché l'amministratore non potrebbe impegnare il condominio se non dopo aver raccolto da tutti i condomini le rispettive quote, a copertura totale dell'importo dei lavori oggetto di appalto), con conseguente sospensione dell'efficacia della delibera in attesa e fino alla completa costituzione del fondo, si colloca (b) chi, al contrario, ritiene che la ratio della norma vada piuttosto rinvenuta nella volontà di imporre alla compagine condominiale una sorta di contabilità separata per la realizzazione di opere straordinarie ed innovazioni, disponendo che il condominio costituisca all'uopo un apposito fondo speciale (tale sarebbe, dunque, il contenuto necessario della delibera di approvazione delle spese di cui si è detto), specificamente destinato al «transito» delle quote dei condomini finalizzate ad affrontare la spesa e la cui previa raccolta non condizionerebbe, pertanto, l'efficacia della delibera. Sennonché, emerge immediatamente che, interpretata in tal guisa la norma, il fondo finisce per confondersi con una «mera scrittura contabile dove accantonare le risorse finanziarie deliberate per l'opera di carattere straordinario o innovativo» (Cirla-Monegat, 252) che ne non impedirebbe la confusione con le altre giacenze esistenti sul conto corrente condominiale: ed infatti, l'importo necessario per le opere è destinato ad versato dai condomini sul conto corrente del condominio (aperto dall'amministratore e sul quale devono obbligatoriamente transitare tutte le somme di pertinenza condominiale), confondendosi con l'ulteriore provvista ivi esistente e senza alcuna garanzia, per l'appaltatore, che l'importo così raccolto venga effettivamente destinato al soddisfacimento di quello specifico capitolo di spesa per cui il fondo è stato istituito, potendo ciascuno creditore del condominio, rimasta insoddisfatta la propria pretesa, cercare tutela attraverso il pignoramento dei fondi indistintamente presenti sul conto corrente condominiale.

Sostiene, in particolare, attenta dottrina (Scarpa 2013, 623), che l'integrale costituzione del fondo speciale è condizione di rispondenza al paradigma normativo della stessa determinazione assembleare di approvazione dell'intervento manutentivo o innovativo, la cui (in)sussistenza è suscettibile di sindacato giudiziale in sede di impugnazione ex art. 1137 c.c. «La Riforma suppone che la costituzione del fondo speciale coincida necessariamente con l'interesse dei condomini al corretto funzionamento dell'ente condominiale, poiché unicamente la concreta anticipata disponibilità, da parte dell'amministratore, dell'importo occorrente per il pagamento delle opere straordinarie gli consente di affrontare poi con maggiore prontezza e tranquillità l'ordinaria gestione del condominio. Si consideri, inoltre, come non trova applicazione in ambito condominiale, proprio per la chiara divisione dei poteri riservati all'amministratore e all'assemblea, il principio – invece accettato per le società – che si preoccupa di lasciar valido l'atto irregolarmente compiuto dall'amministratore nei confronti dei terzi che abbiano ragionevolmente fatto affidamento sull'operato e sui poteri del rappresentante dell'ente. Di tal che, l'appaltatore che abbia eseguito lavori di manutenzione straordinaria su disposizione dell'amministratore senza previa deliberazione dell'assemblea dei condomini, contestualmente istitutiva del fondo speciale, non potrà pretendere dai singoli condomini di partecipare alle spese derivanti dall'esecuzione di quell'appalto». La tesi fonda sulle seguenti considerazioni: 1) il conto corrente intestato al condominio (cfr. l'art. 1129, comma 7, c.c.), su cui deve confluire anche il fondo speciale per le opere straordinarie (appare, infatti, superflua, se non addirittura inopportuna, l'apertura di un autonomo conto corrente su cui far confluire i contributi afferenti al fondo speciale giacché l'art. 1129, comma 7, cit. fa riferimento ad «uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio», sul quale devono transitare «le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini», nonché «quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio») non è sottoposto ad alcuna misura di conservazione, che garantisca il credito dell'appaltatore in relazione a quella determinata provvista ivi confluita: «il che rende possibile in ogni momento la distrazione delle somme raccolte e la loro restituzione ai singoli». Sicché, non essendo sottratto alla commistione con gli altri beni che rientrano nel patrimonio del condominio, il fondo speciale in questione non appare inquadrabile fra i patrimoni separati; 2) l'effetto della separazione patrimoniale del fondo speciale ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. neppure potrebbe discendere – si dice – dal ricorso allo strumento del trust interno (tesi, questa sviluppata da Cirla-Monegat, 252, per cui, per porre rimedio all'inconveniente determinato dalla confluenza sul conto corrente condominiale della provvista raccolta, «si deve imprimere al fondo una particolare caratteristica che assicuri la finalità voluta, separando le risorse così accumulate dal restante patrimonio del condominio e, soprattutto, dalla restante liquidità esistente sul conto corrente condominiale. Per far sì che le risorse accumulate nel fondo siano effettivamente destinate al pagamento delle opere deliberate dall'assemblea è necessario che tale destinazione prevalga sulla titolarità delle stesse. In altri termini, occorre che tale particolare destinazione sia opponibile ai terzi, mantenendola separata dal restante patrimonio del condominio») «per intuibile carenza della meritevolezza degli interessi perseguiti: tale meritevolezza rileva, invero, essenzialmente ai fini dell'opponibilità del vincolo ai terzi, di tal che l'interesse tutelabile non potrebbe essere quello egoistico del condominio disponente, ma andrebbe valutato in base al suo rilievo costituzionale, traendo conseguenze dall'esistenza di ulteriori e distinte fattispecie di vincoli destinatori e di separazione di patrimoni, in maniera da ricavare una scala normativa di valori cui attingere, quale causa (già) sufficiente a produrre l'effetto segregativo, nel senso, appunto dell'opponibilità ai terzi del vincolo stesso e della distinzione patrimoniale. Il generale principio dell'assoggettamento dell'intero patrimonio del singolo alle azioni esecutive dei creditori, ha, invero, indotto a contenere le ipotesi di inespropriabilità relativa di uno o più beni del soggetto, concepite dal legislatore soltanto quando si tratti di accordare protezione ad interessi ritenuti prevalenti, sotto un punto di vista ordinamentale, rispetto all'interesse del credito: ed hanno essenzialmente assunto tale dignità gli interessi del nucleo familiare, come testimoniano gli istituti del patrimonio familiare prima, e del fondo patrimoniale poi». Dalle considerazioni che precedono tale dottrina trae dunque la conclusione per cui il fondo speciale non può dirsi «costituito» – e, conseguentemente, non può dirsi adempiuto il correlato obbligo a carico dell'assemblea, quale condizione di legittimità della delibera di approvazione dell'opera di manutenzione straordinaria o dell'innovazione – finché non siano stati versati dai condomini contributi di importo pari all'ammontare dei lavori. Tale impostazione, peraltro, rifacendosi a Cass. II, n. 10235/2013, chiarisce anche che, quanto alle modalità con cui procedere all'accantonamento, non occorre che esso esista (recte, preesista) alla delibera che approva l'intervento di manutenzione straordinaria o l'innovazione, giacché la delibera assembleare avente valore costitutivo dell'obbligo di spesa discendente dalle opere manutentive straordinarie è solo quella finale, che affida l'appalto e ripartisce tra i condomini i corrispondenti oneri. La medesima dottrina individua un'ulteriore ragione a sostegno dell'obbligo della preventiva intera costituzione del fondo nel coordinamento tra l'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c. e l'art. 63, commi 1 e 2, disp. att. c.c.: ed infatti, la preventiva costituzione del fondo speciale soddisfa anche l'interesse del singolo condomino a veder escluso il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento delle quote rimaste inevase da condomini morosi, scongiurando «a monte, per effetto del doveroso preventivo versamento dei rispettivi contributi, il verificarsi di situazioni di morosità individuale, e quindi anche l'attivazione della garanzia sussidiaria imposta ai condomini in regola ai sensi del comma 2 dell'art. 63 disp. att. c.c.». Ne consegue, ulteriormente, che l'assemblea non potrebbe deliberare, a maggioranza, di soprassedere dall'allestimento del fondo stesso, finanche ove abbia ricevuto il consenso dell'appaltatore giacché, diversamente, si verserebbe in presenza di «una delibera di approvazione di opere di manutenzione straordinaria o di innovazioni diretta in modo esplicito a modificare il criterio legale posto dall'art. 1135, n. 4), c.c., ovvero non unicamente a variare le modalità di pagamento delle rispettive spese condominiali, quanto ad ampliare l'esposizione sussidiaria di coloro che si pongano in regola coi pagamenti: deliberazione potenzialmente pregiudizievole per ciascuno dei partecipanti, oltre che per le esigenze di gestione condominiale, e perciò nulla». Sicché, in sostanza, lo scopo effettivo perseguito dal Legislatore sarebbe di tutelare contestualmente due «soggetti»: da un lato, i condomini che, una volta versato il fondo a stato avanzamento lavori, avranno la certezza che tutti vi abbiano contribuito secondo le relative quote e, dall'altro, il terzo il quale, ricevuti i pagamenti secondo la tempistica concordata, potrà procedere nell'esecuzione delle opere senza essere costretto – come molte volte accade – al blocco del cantiere (Nicoletti 2017).

Mostra di condividere tale impostazione Trib. Roma, 19 giugno 2017, che precisa che l'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., con la previa obbligatoria costituzione del fondo speciale per i lavori di manutenzione straordinaria, tutela anche l'interesse del singolo condomino a veder escluso il rischio individuale di dover garantire (anche se solo al protrarsi della morosità dei partecipanti non diligenti) al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi secondo il meccanismo previsto dall'art. 63, commi 1 e 2, disp. att. c.c.: sicché l'assemblea non può legittimamente deliberare, a maggioranza, di non allestire il fondo prima della stipula del contratto di appalto dei lavori venendo altrimenti a modificare il criterio legale previsto dal citato art. 1135, comma 1, n. 4), c.c. nel senso di ampliare l'esposizione sussidiaria di coloro che sono in regola con i pagamenti (e non possono trovare tutela nel fondo). Giacché, infatti, l'effetto di una delibera di tal fatta sarebbe, sia pure indirettamente, quello di incidere sui criteri legali di riparto delle spese (ampliando, per quanto detto, l'esposizione solidale sussidiaria dei condomini in regola con i pagamenti a categorie di spese – quelle, per l'appunto, di amministrazione straordinaria o per innovazioni – che la legge intende escludere dalla garanzia ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c.), va da sé che la «diversa convenzione» (cfr. l'art. 1123 c.c.) necessaria a tal fine non può che essere approvata all'unanimità. Sostanzialmente del medesimo avviso – sia pure sotto diverso angolo prospettico - Trib. Modena, 16 maggio 2019, per cui l'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. sia per il suo tenore letterale, che per la funzione di tutela del singolo condomino, è da considerarsi norma imperativa non derogabile dalla volontà dei privati, la cui violazione comporta, secondo le regole ordinarie, la nullità della delibera adottataIn senso contrario, però, il medesimo Trib. Roma, 20 aprile 2016, che ha al contrario argomentato circa la derogabilità dell'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., in quanto la previsione in commento non è inserita tra quelle richiamate dall'art. 1138, comma 4, c.c. o dall'art. 72 disp. att. c.c., con la conseguente validità di una delibera assembleare approvativa, a maggioranza, di lavori di straordinaria manutenzione senza la contestuale costituzione del fondo speciale. È intervenuta, da ultimo, sul punto Cass. VI, n. 16953/2022 la quale ha osservato che l'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., imponendo l'allestimento anticipato del fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori, configura una ulteriore condizione di validità della delibera di approvazione delle opere di manutenzione straordinaria dell'edificio, con la conseguenza che ne discende per cui è dal testo di tale deliberazione assembleare che deve necessariamente emergere il prezzo dei lavori, al cui importo occorre che equivalga quello del fondo speciale nella prima ipotesi di cui all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., non potendo, viceversa, trarsi implicitamente dall'importo del fondo in concreto costituito quale sia l'ammontare delle spese necessarie.

Le difficoltà (non solo di carattere interpretativo, ma) pratiche oggettivamente derivanti dall'applicazione pratica della norma hanno dunque indotto il legislatore ad inserire nell'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., un ultimo inciso, concedendo ai condomini (recte, all'assemblea) la possibilità – evidentemente alternativa rispetto al pagamento in un'unica soluzione – di stabilire che lo stipulando contratto avente ad oggetto opere di manutenzione straordinaria o innovazioni debba prevedere un pagamento collegato agli stati di avanzamento: nel qual caso il fondo speciale può essere costituito proprio in relazione ai pagamenti dovuti di volta in volta. In sostanza, pur nella obbligatorietà della costituzione del fondo speciale, l'assemblea ha di fronte a se una duplice possibilità: a) deliberare l'opera sic et simpliciter e, con essa, la costituzione del fondo, che dovrà essere completato, quanto a raccolta della relativa provvista, in maniera anticipata rispetto all'esecuzione dei lavori; d) deliberare l'opera e prevedere che i pagamenti avvengano in base agli stati di avanzamento dei lavori, nel qual caso il fondo non potrà che essere strutturalmente successivo e conseguente alla realizzazione delle opere (con conseguente immediata esigibilità del credito, ad opera dell'appaltatore, per la parte di prezzo corrispondente allo specifico stato di avanzamento nel frattempo maturato). Così integrato, dunque, il n. 4) del comma 1 dell'art. 1135 c.c. rappresenta la chiara applicazione, in ambito condominiale, della facoltà riconosciuta dall'art. 1665 c.c. alla libera determinazione di committente ed appaltatore, di stabilire se il pagamento del corrispettivo dell'appalto debba avvenire a rate, a scadenze determinate o in relazione allo stato di avanzamento dei lavori, ovvero che sia corrisposto in unica soluzione nel momento concordato, anteriore o posteriore all'accettazione delle opere. La peculiarità della fattispecie è, però, dettata dal rilievo per cui – come innanzi evidenziato – l'opzione per il pagamento in base agli stati di avanzamento lavori, idonea ad esonerare l'assemblea dalla obbligatoria costituzione del fondo per l'interezza degli importi altrimenti oggetto di corrispettivo, deve precedere la stipulazione del contratto di appalto ed intervenire, dunque, già al momento della delibera di approvazione dell'opera. È, dunque, la delibera che, a pena di sua invalidità, deve indicare le modalità di pagamento per stati di avanzamento all'interno, quale modalità di adempimento dell'obbligazione del committente da inserire nello stipulando contratto di appalto giacché solo è questo specifico contenuto del deliberato assembleare che è in grado si esonerare i condomini dal versare, preventivamente all'inizio di esecuzione dei lavori, l'obbligatorio intero fondo. Appare perfino superfluo precisare, peraltro, che tale concreta modalità di adempimento dell'obbligazione del condominio committente sarà opponibile all'appaltatore solo a seguito di suo formale recepimento all'interno dello stipulando contratto. Non dissimilmente da quanto già osservato in precedenza a proposito del fondo cd. «preventivo», anche quello «graduale» si compone di versamenti dei condomini obbligatoriamente confluenti sul conto corrente condominiale (cfr. art. 1129, comma 7, c.c.); allo stesso modo rispetto a quanto in precedenza osservato, neppure tale fondo (recte, i versamenti che lo alimentano) può ritenersi vincolato al soddisfacimento del credito dell'appaltatore, difettando una previsione normativa espressa che imprima ad esso un vincolo di destinazione in tal senso. Sicché, tirando le somme del discorso che precede, una statuizione assembleare che approvi l'opera in assenza di coeva deliberazione relativa all'opzione per una delle due forme alternative di costituzione del fondo sarà dunque nulla (per la sua attitudine ad incidere sul riparto delle spese, come innanzi esposto); specularmente, l'amministratore che commetta l'appalto senza la preventiva costituzione obbligatoria del fondo o senza l'approvazione assembleare volta alla conclusione di un contratto che stabilisca il pagamento progressivo (e, perciò, autorizzi il fondo graduale), risponde nei confronti dell'appaltatore per il vincolo negoziale inefficacemente assunto (quale rappresentante del condominio) con quest'ultimo, non dissimilmente da quanto avviene in caso di commissione di opere eccedenti l'ordinaria manutenzione in mancanza del requisito dell'urgenza fissato dall'art. 1135, comma 2, c.c.

La deliberazione concernente la modificazione della destinazione d'uso di beni comuni

Sebbene non ricompresa espressamente tra le competenze indicate all'art. 1135 c.c., merita comunque menzione – per sostanziale condivisione di natura rispetto alle innovazioni – la possibilità, riconosciuta in capo all'assemblea di potere deliberare la modificazione della destinazione d'uso di parti comuni. La novella di cui alla l. n. 220/2012 ha infatti introdotto l'art. 1117-ter c.c. il quale prevede contempla l'evenienza che, per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, disponga la modifica della destinazione d'uso delle parti comuni. La novella, in realtà, non si limita a fornire una nuova – ed ulteriore maggioranza – per un'attività in realtà già rientrante nei poteri dell'assemblea, sia pure con deliberazione da adottarsi all'unanimità (cfr. art. 1120, ult. comma, c.c.), ma disegna con precisione procedimento deliberativo e perimetro applicativo della fattispecie, chiarendo che la convocazione dell'assemblea debba seguire regole peculiari (l'avviso di convocazione spedito almeno 20 giorni prima della seduta e va altresì affisso, per non meno di trenta giorni consecutivi, nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione e deve indicare, a pena di nullità, le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso), e vietando le sole modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico, ma non anche (come invece previsto dall'art. 1120, comma 4, c.c.) quelle che rendano il bene inservibile all'uso anche solo di un condomino.

La disposizione prevede, dunque, (1) un doppio quorum – costitutivo e deliberativo – particolarmente elevato (i 4/5 dei partecipanti al condominio, che rappresentino i 4/5 del valore dell'edificio –e, quindi, 800/1000 a fronte dei 666,6/1000 richiesti per le innovazioni c.d. ordinarie), (2) un particolare meccanismo di convocazione dell'assemblea (doppia convocazione con raccomandata comunicata almeno 20 giorni prima della seduta –e non già 5, come previsto dall'art. 66 disp. att. c.c.- e affissione di avviso nei locali di maggior uso comune per non meno di 30 giorni) e (3) un particolare contenuto della convocazione (essa, infatti, a pena di nullità della delibera deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso.

Resta tuttavia insoluto, a livello normativo, quale sia l'effettivo ambito applicativo della disposizione, cosa debba intendersi, cioè, per «modifica della destinazione d'uso». Ed infatti, anteriormente alla Riforma del 2012 si è costantemente affermato, in giurisprudenza, che per innovazioni delle cose comuni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque opus novum), ma solamente quelle modifiche che, determinando l'alterazione dell'entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all'attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti; peraltro le innovazioni, seppure possono derivare da modifiche apportate senza l'esecuzione di opere materiali, consistono sempre nell'atto o nell'effetto di un «facere», necessario per il mutamento o la trasformazione della cosa (Cass. II, n. 12654/2006). Principio recepito, a riforma già promulgata (sebbene non ancora in vigore), da Cass. II, n. 945/2013 la quale, affrontando il caso di autorizzazione all'uso di una canna pattumiera, ha precisato che in tema di condominio negli edifici, non costituisce un'innovazione, ai sensi dell'art. 1120 c.c., e soggetta perciò al requisito della maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 5, c.c., la deliberazione con la quale l'assemblea autorizzi chi lo richieda all'uso del vano contenente la canna pattumiera (peraltro, nella specie, già sigillata in esecuzione di precedente delibera) allo scopo di alloggiarvi il contatore e la caldaia di produzione dell'acqua calda, non prevedendo essa la realizzazione di opere da parte del condominio incidenti sull'essenza della cosa comune, in quanto idonee ad alterarne l'originaria funzione e destinazione ed a consentirne una diversa utilizzazione in favore di tutti i condomini. Il che significa – detto in altri termini – che, se la modifica della originaria destinazione d'uso di beni comuni già qualifica un'attività in termini di innovazione ex art. 1120 c.c. (con conseguente applicazione dell'art. 1135, comma 1, n. 4), c.c. nonché delle variabili maggioranze di cui si è già dato conto in precedenza), è oggettivamente arduo ricavare uno spazio di operatività per la disposizione in questione.

La singolarità della questione ed il rischio di sostanziale sovrapposizione tra i due istituti è evidenziato anche in dottrina (Scarpa 2013) ove si evidenzia che il concetto di innovazione consentita, ex art. 1120 c.c., è stato tradizionalmente distinto da quello della mera modificazione ex art. 1102 c.c. perché la prima sarebbe costituita da opere di trasformazione in grado di incidere sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre la seconda rimane contenuta nelle facoltà del condomino in ordine alla migliore, più comoda e razionale, utilizzazione della cosa: sicché tra le innovazioni che la maggioranza prevista dal combinato disposto degli artt. 1120, comma 1 e 1136, comma 5, c.c. poteva, già prima della Riforma, lecitamente autorizzare era inclusa, sotto il profilo oggettivo, anche ogni opus novum in grado di incidere sulle finalità di utilizzazione delle cose comuni, mentre la novità – concetto insito in quello di «innovazione» – ben poteva rinvenirsi proprio nella destinazione funzionale delle cose, degli impianti e dei servizi comuni, la cui trasformazione poteva avversarsi indipendentemente dall'esecuzione di nuove opere materiali.

Per risolvere, dunque, il «cortocircuito» determinato dal combinato disposto degli artt. 1120 e 1117-ter c.c. la dottrina ha dunque proposto una soluzione che fonda la distinzione tra le (attività contemplate dalle) due menzionate disposizioni sul tipo di opere necessarie per la realizzazione dell'opus novum: sicché, la fattispecie oggi disciplinata dall'art. 1117-ter c.c. appare inquadrabile alla stregua di una particolare categoria di innovazioni, limitate a mutamenti di destinazione funzionale del bene comune senza alcuna immutazione dell'entità materiale e corporea del bene comune. «[...] avuto riguardo al significato letterale, il mutamento della destinazione d'uso esclude l'esecuzione di opere edili: il mutamento della destinazione d'uso non ha carattere strutturale ma meramente funzionale, consistente nella modifica della utilizzazione e del godimento attuati dagli interessati [...] la modificazione della destinazione d'uso si esaurisce nel mutamento funzionale, nel mutamento del tipo di utilizzazione o di godimento della cosa, la quale di per sé permette differenti forme di sfruttamento [...]» (Corona, 15).

Sicché, ricapitolando il quadro che precede, per quanto concerne le competenze e le maggioranze assembleari emerge che: (1) la modificazione della destinazione d'uso concerne il mutamento di destinazione funzionale, mentre l'innovazione in senso proprio implica alterazioni di carattere materiale; (2) le innovazioni c.d. «ordinarie» sono approvate con la maggioranza dell'art. 1136, comma 5, c.c. (la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio); le innovazioni c.d. «tecnologiche» sono approvate con la maggioranza dell'art. 1136, comma 2, c.c. (la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio); le innovazioni c.d. «vietate» devono essere approvate all'unanimità; le modificazioni delle destinazioni d'uso sono approvate con la maggioranza dell'art. 1117-ter, comma 1, c.c. (i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio); (3) sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (art. 1120, ultimo comma, c.c.); sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico (art. 1117-ter, ultimo comma, c.c.). Dunque, le modifiche ex art. 1117-ter c.c. possono rendere il bene inservibile al godimento ed all'uso anche di un solo condomino (la possibile ratio di una simile possibilità va rinvenuta nella considerazione per cui le modifiche così disposte, non intaccando la struttura del bene o servizio, non sono irreversibili e, dunque, non solo resta intatta la comproprietà, ma la privazione potrebbe essere anche solo temporanea).

I più interessanti problemi applicativi – lasciato peraltro irrisolto dalla norma, nonché dalla stessa legge n. 220/2012, la quale non detta alcuna disciplina transitoria – concernono, ad ogni buon conto, la possibilità che, con la maggioranza speciale prevista dal comma 1, l'assemblea possa mutare la destinazione d'uso di un bene comune, ad essa impressa dal regolamento contrattuale (perché predisposto dell'originario costruttore di condominio ovvero adottato all'unanimità) di condomini, ad esempio imprimendo una destinazione a parcheggio di autovetture di un'area convenzionalmente destinata a giardino, ed il riconoscimento, in favore del o dei condomini eventualmente esclusi dalla nuova destinazione, di ottenere un'indennità per la (sebbene legittima) privazione del godimento del bene comune, sulla falsariga di quanto previsto, ad esempio, dall'art. 1053, comma 1, c.c. in tema di costituzione coattiva di servitù di passaggio.

La collaborazione a iniziative territoriali delle istituzioni locali

Il novellato art. 1135, comma 4, c.c., prevede, infine, che l'assemblea possa autorizzare l'amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato. Alcunché essendo stato espressamente disposto in merito, le decisioni su tale argomento vanno essere assunte con le maggioranze «ordinarie» previste dal comma 2 dell'art. 1136 c.c.

Si tratta di una previsione volta a valorizzare il ruolo dei condomini nello svolgimento di attività di interesse pubblico e sociale, soprattutto in funzione di una migliore vivibilità del territorio (Cusano, 226).

Talune delle ulteriori attribuzioni dell'assemblea previste dal codice civile

L'elencazione delle attribuzioni contenuta nell'art. 1135 c.c. non è tassativa, potendo l'assemblea condominiale deliberare, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, sempreché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale (Cass. II, n. 5130/2007, cit.); in ogni caso, ulteriori compiti del massimo organo di gestione sono espressamente indicati in altre norme sparse all'interno del codice civile e delle leggi speciali quali, ad esempio, gli artt. 1117-ter e 1117-quater c.c., in tema di modifiche alle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'art. 1128 c.c., in tema di ricostruzione dell'edificio parzialmente crollato, gli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c., a proposito della nomina e revoca dell'amministratore, nonché determinazione delle sue funzioni o l'art. 2 della l. n. 13 del 1989 (ora art. 78, del d.P.R. n. 380/2001), in tema di eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici condominiali, l'art. 26 l. n. 10/1991, relativamente alla trasformazione degli impianti di riscaldamento centralizzati in impianti autonomi e per l'installazione di sistemi di termoregolazione.

Per completezza di trattazione, pur rimandando ai rispettivi commenti l'esame approfondito di ciascuna delle tematiche, appare opportuno qualche accenno ad alcune delle ulteriori funzioni dell'organo assembleare

Tralasciando il riferimento all'art. 1117-ter c.c. (di cui si è già dato conto al precedente paragrafo), l'art. 1117-quater c.c. assegna anzitutto all'assemblea il compito di tutelare le destinazioni d'uso dei beni comuni, in caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale su di esse. Si tratta, in sostanza, della «assemblearizzazione» della violazione, ad opera di singoli condomini, delle facoltà concesse a ciascuno rispetto all'uso dei beni comuni, ex art. 1102 c.c. ovvero come diversamente disciplinate da singole previsioni del regolamento di condominio: ogni condomino e lo stesso amministratore possono diffidare l'esecutore della violazione al rispetto della prevista destinazione d'uso; ove la diffida provenga dal condomino, questi può chiedere all'amministratore, nel persistere della violazione, la convocazione dell'assemblea (o l'amministratore provvedevi motu proprio), per ivi assumere i provvedimento del caso, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c.

Si è osservato, in dottrina, che la previsione appare ultronea rispetto allo scopo perseguito, se non di dubbia utilità, giacché, da un lato, già rientra tra le attribuzioni dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, nn. 1) e 2), c.c. curare l'osservanza del regolamento condominiale e disciplinare l'uso delle parti comuni, che deve provvedere all'uopo senza necessità del preventivo consenso dell'assemblea e, dall'altro, in caso di sua inerzia, già prima della Riforma del 2012 era altrettanto pacificamente ammessa la possibilità, per il singolo condomino, di sostituirsi a lui nell'esercizio di tali incombenti (Cirla).

A conferma di tale considerazione, ad esempio, Cass. II, n. 13689/2011 aveva già escluso che il provvedimento con il quale l'amministratore del condominio di edificio, nell'esercizio dei suoi poteri di curare l'osservanza del regolamento di condominio, ai sensi dell'art. 1130, comma 1, n. 1), c.c., e di adottare provvedimenti obbligatori per i condomini, ai sensi dell'art. 1133 c.c., inviti un condomino (nella specie, mediante lettera raccomandata con determinazione di un termine per l'adempimento) al rispetto del divieto regolamentare di collocazione di targhe, senza autorizzazione, sulla facciata dell'edificio, costituisse atto illecito, escludendo che esso potesse essere posto a fondamento di una responsabilità risarcitoria personale dell'amministratore stesso. In senso conforme Cass. II, n. 10347/2011, la quale ha evidenziato che, poiché l'amministratore è tenuto a garantire il rispetto del regolamento di condominio allo scopo di tutelare la pacifica convivenza, qualora egli inviti uno dei condomini al rispetto delle leggi o del regolamento vigenti, non è configurabile, a suo carico, alcun atto di turbativa del diritto altrui (nella specie, molestia del possesso) nel caso in cui egli abbia agito, secondo ragionevole interpretazione, nell'ambito dei suoi poteri-doveri di cui agli artt. 1130 e 1133 c.c. Peraltro, Cass. II, n. 3024/1975 aveva ulteriormente definito il campo di applicazione dell'art. 1133 c.c., chiarendo che, come i singoli condomini possono ricorrere all'assemblea condominiale contro i provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri, analogamente anche l'amministratore può rivolgersi all'assemblea condominiale per provocarne una deliberazione che sancisca la disciplina da lui adottata per l'uso delle cose comuni, al fine di vincere l'asserita resistenza di uno dei condomini. Sotto il profilo processuale, poi, Cass. II, n. 21841/2010 (ma cfr. anche Cass. II, n. 14626/2010 e Cass. II, n. 14735/2006) ben evidenzia che curare l'osservanza del regolamento di condominio è compito precipuo affidato dall'art. 1130 c.c. all'amministratore, il quale è, dunque, abilitato ad agire e a resistere nei relativi giudizi, senza che occorra un'apposita autorizzazione. Quanto, invece, alla possibilità, per il singolo condomino, di sostituirsi all'amministratore in caso di inerzia di costui, è principio anch'esso consolidato quello per cui il condomino conserva il potere di agire a difesa non solo dei suoi diritti di proprietario esclusivo, ma anche dei suoi diritti di comproprietario «pro quota» delle parti comuni, con la possibilità di ricorrere all'autorità giudiziaria nel caso di inerzia dell'amministrazione del condominio, a norma dell'art. 1105 c.c., dettato in materia di comunione, ma applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio posto dall'art. 1139 c.c. (Cass. II, n. 8479/1999).

La norma va coordinata, peraltro, con non solo con il successivo art. 1133 c.c. (per cui contro i provvedimenti dell'amministratore nell'ambito dei suoi poteri è ammesso ricorso all'assemblea, senza pregiudizio del ricorso all'autorità giudiziaria nei casi e nel termine previsti dall'art. 1137 c.c.) ma anche con l'art. 70- bis  disp. att. c.c. che, come novellato nel 2012 (ed ulteriormente integrato dall'art. 1, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, cd. decreto «Destinazione Italia») contempla la possibilità di irrogare, nei confronti del condomino che violi il regolamento di condominio, una sanzione pecuniaria (fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800), con deliberazione assunta dall'assemblea con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. Dalla lettura coordinata delle tre disposizioni si può ricostruire, in particolare, un «sistema» che, in caso di attività dei singoli condomini che incidono negativamente ed in maniera sostanziale sulle destinazioni d'uso dei beni comuni, contempla le seguenti possibilità: a) un altro condomino richiama il contravventore al rispetto della destinazione d'uso dei beni comuni: in caso di inottemperanza, può chiedere all'amministratore la convocazione dell'assemblea che, con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., decide il da farsi, non escluso il ricorso all'autorità giudiziaria (art. 1117-quater c.c.). Tale ultima precisazione giustifica, peraltro, anche la maggioranza «rinforzata» di cui si è detto che la stessa richiesta per le delibere concernenti liti attive o passive; b) l'amministratore, nell'esercizio dei suoi poteri, richiama il condomino al rispetto della destinazione d'uso del bene comune (artt. 1117-quater e 1133 c.c.). In caso di persistente inottemperanza: b.1) l'amministratore adotta i provvedimenti del caso ed avverso gli stessi il condomino può ricorrere all'assemblea (art. 1133 c.c. Cfr. infra); b.2) l'amministratore convoca l'assemblea che, con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., decide il da farsi, non escluso il ricorso all'autorità giudiziaria (art. 1117-quater c.c.). Tanto nel caso sub a) che in quello sub b.2) l'assemblea, ove la violazione della destinazione d'uso coincida con la violazione di una specifica previsione regolamentare, può deliberare (anche in tal caso la maggioranza richiesta all'uopo è la medesima prevista dall'art. 1117-quater c.c.) l'inflizione al contravventore la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 70 disp. att. c.c.

Da segnalare, infine, che, quanto alle modalità di richiesta di convocazione dell'assemblea, la richiesta può provenire, in deroga rispetto all'art. 66 disp. att. c.c., (che, in ipotesi di convocazione su richiesta dei condomini, prevede che essa provenire da almeno due di essi, che rappresentino un sesto del valore dell'edificio), anche da un solo condomino.

Spetta all'assemblea la deliberazione circa la realizzazione di impianti non centralizzati di ricezione di flussi informativi ovvero per la produzione di energia da fonti rinnovabili a servizio di singole unità immobiliari, come disposto dall'attuale art. 1122-bis, comma 3, c.c. Ove, infatti, per la realizzazione di tali opere si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, è previsto che l'interessato ne dia comunicazione all'amministratore, indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi; l'assemblea, con la maggioranza prevista per le innovazioni (e dunque, quella di cui all'art. 1136, comma 5, c.c.) può prescrivere adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio e, con precipuo riferimento all'installazione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, deve provvedere, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto e può subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.

Si tratta, ancora, una volta, di una forma di «assemblearizzazione» delle facoltà consentite al singolo condomino dall'art. 1102 c.c. ovvero dal regolamento di condominio: concordi sul punto dottrina (Celeste-Scarpa, 46) e la prima giurisprudenza pronunziatasi al riguardo (Trib. Milano, 7 ottobre 2014) che, a proposito dell'intervento realizzato da un condomino sul tetto dell'edificio, consistito nell'installazione di otto pannelli fotovoltaici, ha chiarito come esso rientrasse «pienamente nei limiti che l'art. 1102 c.c.di cui l'art. 1122-bis c.c. costituisce speciale ipotesi applicativa – ha previsto al fine di consentire al singolo condomino l'uso più intenso delle parti comuni»). I limiti del potere assembleare sono tuttavia chiaramente definiti all'interno del comma 3: esorbita da essi il diniego ad espletare i lavori al'uopo necessari, ponendosi una simile deliberazione «in contrasto con la legge [...] con ogni conseguenza in tema di invalidità della relativa delibera» (Trib. Milano, 7 ottobre 2014, cit.).

Tale conclusione è stata ribadita anche successivamente da Trib. Milano, 26 febbraio 2015, per cui l'art. 1122-bis c.c. non sembra accordare all'assemblea alcun potere di veto nei confronti del condomino che voglia installare impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e ciò anche nel caso in cui le opere da realizzare richiedano la necessità di modificazioni di parti comuni, prescrivendo in tal caso la norma in commento, al comma terzo, unicamente l'obbligo, in capo al condomino che intenda porre in essere le relative opere, di previa comunicazione del contenuto di esse all'amministratore ai fini della successiva convocazione dell'assemblea.

In dottrina, peraltro, si è chiarito che l'assemblea può, ma non deve necessariamente deliberare, essendo sufficiente, ai fini della legittimità dell'installazione da parte del singolo condomino, informare l'amministratore ed attendere che si svolga l'assemblea (Gallucci, 145); a tale proposito, però, appare quantomeno singolare che la disposizione non sancisca alcun obbligo, a carico dell'amministratore, di convocare l'assemblea. Si è però osservato che, pur in difetto di una previsione espressa (come, ad esempio, nel caso appena esaminato dell'art. 1117-quater c.c.), tale obbligo comunque gravi sull'amministratore che abbia ricevuto l'informativa, considerato che l'intervento del singolo interessa le parti comuni dell'edificio, le quali sono destinate a subire una modifica in ragione del progetto del condomino e tenuto altresì conto che, in deroga rispetto a quanto disposto dall'art. 1130, nn. 2) e 4) c.c., la norma affida all'assemblea il precipuo compito di tutelare le parti comuni, mediante l'indicazione di specifiche modalità di esecuzione: «è gioco forza quindi che il mandatario sia tenuto a chiamare la riunione dell'edificio» (Nicola, 357).

Quanto alle maggioranze assembleari, infine, la previsione rimanda, sia per l'adozione di modalità esecutive alternative che per la prestazione di idonea garanzia, all'art. 1136, comma 5, c.c. (dunque, la maggioranza degli intervenuti alla riunione che rappresentanti almeno i 2/3 dei partecipanti al condominio): tale previsione è stata, tuttavia, criticata non comprendendosene la ratio, sia perché non è chiaro il motivo per cui occorra una maggioranza così alta, vista la necessità di tutela dell'interesse della collettività a fronte dell'interesse individuale di un singolo proprietario esclusivo, sia perché, trattandosi di una modalità di tutela dell'edificio da eventuali danni che potrebbero derivare a causa dell'intervento del singolo, sarebbe stato maggiormente congruo prescrivere le ordinarie maggioranze assembleari ex art. 1136, comma 2, c.c. (Nicola, 357 ss.)

Rientra, ancora, tra le competenze assembleari, l'adozione dei provvedimenti circa l'installazione di impianti di videosorveglianza su parti comuni, ai sensi dell'art. 1122- ter c.c.: si tratta di una novità introdotta dalla Riforma del 2012 che, anche a fronte delle ripetute segnalazioni provenienti dall'Autorità Garante per la privacy (si fa riferimento, in particolare, alla Segnalazione al Parlamento e al Governo sulla videosorveglianza nei condomini del 13 maggio 2008) ha così sconfessato il precedente (maggioritario) orientamento giurisprudenziale, teso a negare competenza, in materia, all'organo assembleare.

Si riteneva, nel passato, che esulasse dalle attribuzioni dell'assemblea dei condomini, coinvolgendo il trattamento di dati personali di cui l'assemblea stessa non può ritenersi «soggetto titolare del trattamento» ed essendo volta a scopi estranei alle esigenze condominiali – si legge in Trib. Salerno, 14 dicembre 2010 – l'installazione di un impianto di videosorveglianza degli spazi comuni dell'edificio, al fine di tutelare la sicurezza delle persone e delle cose dei condomini. Ed infatti – arg. da Cass. II, n. 4631/1993 – si riteneva che l'assemblea di condominio non potesse validamente perseguire, con una deliberazione soggetta al suo fisionomico carattere maggioritario, quella che è la tipica finalità di sicurezza del Titolare del trattamento il quale provveda ad installare un impianto di videosorveglianza, ovvero i fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro: se ne traeva dunque la conclusione per cui l'oggetto di una siffatta deliberazione non rientrava nei compiti dell'assemblea condominiale, esulando lo scopo della tutela dell'incolumità delle persone e delle cose dei condomini, cui tende l'impianto di videosorveglianza, dalle attribuzioni dell'organo assembleare, non apparendo l'installazione della videosorveglianza, di per sé, prestazione finalizzata a servire i beni in comunione. Sostanzialmente nel medesimo senso Trib. Taranto, 8 giugno 2012, Trib. Nola, 3 febbraio 2009. Non mancava, tuttavia, qualche – sia pure isolata – voce distonica: così, ad esempio, Trib. Roma, 30 marzo 2009 che riteneva invece possibile l'adozione di una deliberazione a maggioranza, negando che potesse invocarsi una violazione della normativa sulla privacy, sì come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. V, n. 44156/2008) e Trib. Milano, 16 maggio 2012.

Al contrario, la norma prescrive, ora, che le deliberazioni concernenti l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall'assemblea con la maggioranza di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c. e, quindi, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.

Si è osservato (Bordolli, 92 ss.) che la disciplina introdotta dalla Riforma del 2012, contemplando l'ammissibilità di una delibera assembleare volta alla installazione dell'impianto di videosorveglianza conduce il condominio all'interno dell'ambito di operatività del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (recante «Codice in materia di protezione dei dati personali», c.d. Codice privacy) e, per l'effetto, al rispetto delle prescrizioni ivi contenute. In particolare, l'approvazione di un sistema di videosorveglianza condominiale è consentita nel rispetto dei principi di liceità (consistente nel rispetto della normativa di settore), finalità (quale l'esigenza di preservare la sicurezza di persone e la tutela di beni in presenza di concrete situazioni di pericolo. Le telecamere non vanno pertanto installate in luoghi non soggetti a concreti pericoli o per i quali non sussistono effettive esigenze di controllo, giacché diversamente esse sarebbero destinate unicamente ad influenzare negativamente il comportamento e i movimenti delle persone che vi transitano nelle vicinanze), necessità (per cui v'è un obbligo di attenta configurazione dei sistemi informativi e dei programmi informatici, per ridurre al minimo l'utilizzazione di dati personali) e proporzionalità (il sistema di videosorveglianza, cioè, può essere effettuato solo se è proporzionato rispetto al reale rischio presente in determinati luoghi: la valutazione di proporzionalità va effettuata in rapporto ad altre misure già adottate o che è possibile adottare quali, ad esempio, sistemi comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di porte e portoni, cancelli automatici).

Tali regole generali sono integrate, nella specifica materia condominiale, da alcuni provvedimenti del Garante del 29 aprile 2004 e dell'8 aprile 2010 (quest'ultimo di mera integrazione al primo), nonché dal cd. vademecum del Garante su «Il condominio e la privacy», del 10 ottobre 2013, attualmente vigente il quale prescrive, tra l'altro, che nel caso in cui il sistema di videosorveglianza sia installato dal condominio per controllare le aree comuni, devono essere adottate in particolare tutte le misure e le precauzioni previste dal Codice della privacy e dal provvedimento generale del Garante in tema di videosorveglianza; tra gli obblighi che valgono anche in ambito condominiale vi è quello di segnalare le telecamere con appositi cartelli, eventualmente avvalendosi del modello predisposto dal Garante; le registrazioni possono essere conservate per un periodo limitato tendenzialmente non superiore alle 24-48 ore, anche in relazione a specifiche esigenze come alla chiusura di esercizi e uffici che hanno sede nel condominio o a periodi di festività, mentre per tempi di conservazione superiori ai sette giorni è comunque necessario presentare una verifica preliminare al Garante. Le telecamere devono riprendere solo le aree comuni da controllare (accessi, garage...), possibilmente evitando la ripresa di luoghi circostanti e di particolari che non risultino rilevanti (strade, edifici, esercizi commerciali ecc.). I dati raccolti (riprese, immagini), infine, devono essere protetti con idonee e preventive misure di sicurezza che ne consentano l'accesso alle sole persone autorizzate (titolare, responsabile o incaricato del trattamento). Ne consegue che alle prescrizioni integrative dell'art. 1122-ter c.c., che devono essere osservate dal deliberato assembleare a pena di sua nullità per violazione di norme imperative, corrispondono, in fase esecutiva, numerosi obblighi a carico dell'amministratore, tra i quali la necessità di informare, con appositi cartelli, le persone che transiteranno nelle aree sorvegliate delle presenza delle telecamere (per più telecamere devono essere posizionati più cartelli) o l'individuazione del personale abilitato a visionare le immagini.

L'assemblea ha competenza anche in caso di perimento dell'edificio, ove esso non sia totale ovvero si tratti di una porzione di valore inferiore ai 3/4 del totale, ex art. 1128, comma 2, c.c.: in tale circostanza, diversamente da quanto accade nel caso di perimento totale ovvero in misura dei 3/4 (ipotesi affrontata dal comma 1 della disposizione in esame. Cfr. Cass. II, n. 12775/2008; Cass. II, n. 466/1994, nonché infra), il condominio non si scioglie (depone in tal senso la constatazione che la norma discorre espressamente di «assemblea dei condomini», sì da lasciare intendere che il condominio ed i suoi organi non vengono meno per effetto del perimento parziale.

Così, in dottrina, anche Branca, 469 e Visco, 663, e compete all'assemblea decidere in relazione alla ricostruzione o meno della parte dell'immobile andata distrutta, mentre la stessa non può deliberare alcunché circa l'eventuale vendita all'asta della residua parte ancora intatta. In assenza di previsioni diverse, l'assemblea decide con la maggioranza fissata dall'art. 1136, comma 2, c.c. (cui rinvia il comma 4 della medesima disposizione, trattandosi di opera eccedente la manutenzione ordinaria) e, ove essa non si raggiunga, non è tuttavia consentito il ricorso all'autorità giudiziaria in sede di volontaria giurisdizione (ai sensi dell'art 1105, comma 4, c.c.), trattandosi di controversia sull'esistenza e sulla estensione di diritti soggettivi – necessariamente coinvolti dal contrasto in ordine alla ricostruzione delle parti comuni – la quale deve essere decisa in sede contenziosa (Cass. II, n. 1765/1974; Cass. II, n. 1512/1966). Chiarisce, tuttavia, Cass. II, n. 5762/1980 (conforme Cass. II, n. 15482/2012) che la mancanza di una delibera che approvi la ricostruzione non impedisce comunque ai singoli condomini di ricostruire le loro unità immobiliari parzialmente danneggiate e, conseguentemente, le parti comuni necessarie al godimento di esse, non potendosi negare a chi aveva il diritto di mantenere la sua costruzione sul suolo (quale comproprietario dello stesso ex art. 1117 c.c. o, in caso di diversa previsione del titolo, quale titolare di un diritto di superficie) il potere di riedificarla ai sensi dell'art. 1102 c.c., salvi il rispetto delle caratteristiche statico-tecniche preesistenti, sì da non impedire agli altri condomini (che non abbiano ceduto i propri diritti ai sensi dell'art. 1122, comma 4, c.c.) di usare parimenti delle parti comuni secondo il proprio diritto, e il divieto di attuare innovazioni (per le quali occorre una specifica delibera assembleare, da adottarsi con la maggioranza qualificata prevista dall'art. 1136, comma 5, c.c.)

Si è osservato, in dottrina, che condizione necessaria perché l'assemblea possa assumere una decisione nei termini delineati dall'art. 1128, comma 2, c.c. è che i proprietari dei piani distrutti abbiano previamente deliberato di ricostruire le cose di loro proprietà, giacché non si vedrebbe, altrimenti, sotto quale veste i proprietari dei piani distrutti potrebbero prendere parte, e dare il loro voto, all'assemblea formata dai proprietari dei piani od appartamenti superstiti (Salis, 388). Conferma, sostanzialmente, la necessità di tale precondizione, Cass. II, n. 4777/1978, la quale chiarisce altresì che la delibera dell'assemblea, nella parte in cui determina la ricostruzione della parte perita dell'edificio, comprensiva delle parti di proprietà esclusiva, non è idonea a vincolare i condomini dissenzienti a sostenere le relative spese. Tale conclusione integra sensibilmente, pertanto, il contenuto dell'art. 1128, comma 4, c.c., a mente del quale il condomino che non intenda partecipare alla ricostruzione dell'edificio (occorrendo all'uopo che lo stesso formuli o la richiesta di vendita del suolo o frapponga una netta opposizione a ricostruire l'edificio ed a sopportare la relativa spesa, non invece essendo sufficiente un comportamento meramente inerte o una semplice divergenza in ordine alle caratteristiche del nuovo edificio. Si esprime in tali termini Cass. II, n. 23333/2006) è tenuto a cedere agli altri condomini i suoi diritti, anche sulle parti di sua esclusiva proprietà, salvo che non preferisca cedere i diritti stessi ad alcuni soltanto dei condomini. Si è, dunque, in presenza di una sorta di cessione coattiva dei suoi diritti attraverso la quale il condomino, rinunziando integralmente al suo diritto, esce definitivamente dalla situazione di contitolarità, sì come previsto in linea generale per la comunione ordinaria dall'art. 1104, comma 1, ultima parte, c.c. La fattispecie rientra nel classico schema giuridico dell'onere, che si configura quando l'esercizio di un potere (di ricostruire) attribuito ad un soggetto (i condomini ricostruenti) è condizionato all'adempimento di un obbligo (l'acquisto della quota-parte dei diritti): in buona sostanza, sussiste l'onere per gli altri condomini di ricevere i diritti sulla proprietà del rinunciante, pagandone il valore, precisandosi che tale facoltà spetta solo ai condomini dissenzienti o assenti all'assemblea che hanno deliberato la ricostruzione e non a quelli che l'hanno approvata. Si rinvia, per l'esame di tutti i profili esaminati, al commento agli artt. 1118 c.c., paragrafo «La rinuncia al diritto sulle cose comuni» e 1128 c.c.).

Quanto al contenuto della delibera, l'assemblea condominiale è libera di decidere, nella pienezza dei suoi poteri discrezionali, «circa» la ricostruzione (come testualmente si esprime l'art. 1128, comma 2, c.c.) e, cioè, sulle concrete modalità (tecniche, statiche ed estetiche), sui tempi e sulle spese della ricostruzione, senza che il giudice possa ordinare la ricostruzione delle parti comuni perite, sindacando il merito, l'opportunità e l'equità della deliberazione (Cass. II, n. 2767/1968; Trib. Termini Imerese, 13 febbraio 2007; Trib. Milano, 19 settembre 1992).

Esorbita, al contrario, dalle funzioni assembleari la decisione concernente la ricostruzione dell'edificio, in caso di suo perimento totale ovvero in misura pari o superiore ai 3/4.

Ed infatti, in simile circostanza, l'eventuale decisione di ricostruire l'immobile perito non può essere presa in base al procedimento assembleare, sia perché il condominio si è estinto, sia perché una delibera basata sul principio maggioritario non è lo strumento idoneo per pervenire all'unanimità dei consensi (cfr. Trib. Napoli, 9 luglio 1987, per cui, giacché la ricostruzione di un edificio totalmente perito, a causa di evento sismico, implica necessariamente un'ingerenza sulle cose di proprietà esclusiva dei singoli, non è applicabile l'art. 1136 c.c., non potendo essere decisa, né tanto meno imposta, dalla volontà del condominio la ricostruzione dell'appartamento del condomino, sicché la delibera eventualmente adottata è viziata da eccesso di potere o, quanto meno, vincola i soli condomini consenzienti, salva la possibilità di ricorrere al giudice per costringere i dissenzienti a cedere i loro diritti): una tale statuizione assunta a maggioranza va pertanto considerata radicalmente nulla, sebbene essa non configuri una delibera assembleare “in senso stretto” e consista, piuttosto, in un ordinario atto negoziale vincolante per i soli dichiaranti/stipulanti (onde neppure sarebbe necessaria la relativa impugnazione da parte dei condomini dissenzienti. Cfr. Cass. II, n. 4900/1987; Cass. II, n. 2988/1974).

Le conseguenze di quanto appena chiarito sono plasticamente raccolte da Cass. II, n. 21716/2020la quale osserva chese la demolizione integrale dell'edificio (nella specie, conseguente al sisma), determina l'estinzione del condominio per mancanza dell'oggetto, essendo venuto meno il rapporto di servizio tra le parti comuni, cionondimeno permane tra gli ex condomini una comunione pro indiviso dell'area di risulta, sulla quale i comunisti medesimi (come detto, ex condomini), possono procedere alla ricostruzione dell'edificio; sennonché il regime proprietario sul nuovo fabbricato è diverso a seconda della modalità realizzativa per cui si sia optato: a) in caso di ricostruzione dell'edificio in modo del tutto conforme al precedente, deve ritenersi ripristinata la condominialità; b) al contrario, in caso di ricostruzione difforme, la nuova costruzione sarà soggetta esclusivamente alla disciplina dell'accessione e la sua proprietà apparterrà ai comproprietari dell'area di risulta in proporzione delle rispettive quote, ripristinandosi il condominio solo allorché i comunisti individuino gli appartamenti di proprietà esclusiva di ciascuno di essi, con un'operazione negoziale che assume la portata di una vera e propria divisione.

D'altra parte, la conclusione è perfettamente coerente con i principi generali che regolano la materia; se di comunione si tratta, va da sé che il relativo scioglimento richiede l'unanimità dei consensi dei partecipanti ovvero, in alternativa, l'intervento giudiziale (cfr. gli art. 1111 c.c. e 791-bis c.p.c.), atti per effetto dei quali, determinandosi la frantumazione dell'unica originaria comproprietà indivisa in proprietà individuali separate, cui accedono beni e servizi comuni, (ri)sorge ipso facto et iure il condominio. Dall'estinzione del condominio, infine, la Corte fa derivare la conseguenza per cui, prima della sua ricostituzione, l'eventuale approvazione di tabelle finisce con il concernere la misurazione delle quote di proprietà relative ad una divisione di cosa futura: con la conseguenza ulteriore che ne discende per cui la predeterminazione dei (futuri) valori spettanti ad ognuno dei condomini, ove intervenuta in via negoziale, si configura alla stregua di un negozio di accertamento, che presuppone però l'approvazione unanime degli interessati, la cui assenza legittima ed impone, quindi, l'indagine affidata al perito d'ufficio, occorrendo supplire all'inerzia negoziale con la determinazione giudiziale.

Segue. Ancora sulle attribuzioni dell'assemblea previste dal codice civile

A seguito della Riforma del 2012, il novellato art. 1129, comma 9, c.c. prevede che, salvo che sia stato espressamente dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c.: a tale potere assembleare si è già accennato in precedenza. La disposizione fissa all'amministratore – integrando la previsione contenuta al successivo art. 1130, n. 3), c.c. – un termine massimo entro il quale lo stesso si deve attivare per la riscossione degli oneri condomini rimasti inevasi ed approvati in sede di consuntivo («l'amministratore è tenuto ad agire»), ingenerando in capo allo stesso, accanto a quella già ricavabile dagli artt. 1710 e 1713 c.c., una nuova forma di responsabilità verso il condominio: ed infatti, ai sensi del successivo comma 12, n. 6), c.c., intrapresa l'azione in sede contenziosa, costituisce causa di revoca l'aver omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva. Ciò senza considerare che dell'ammanco di cassa che potrebbe derivarne nonché degli ulteriori danni cagionati al condominio (ad esempio, per l'interruzione della somministrazione di energia elettrica al condominio) l'amministratore potrebbe essere chiamato a risponderne in proprio. Sennonché, come detto, l'assemblea, come detto, può limitare questa responsabilità dell'amministratore, pur nulla avendo detto il legislatore in ordine alle maggioranze all'uopo richieste: sicché, se è predicabile la tesi che individua le stesse in quelle del comma 2 dell'art. 1136 c.c. (trattandosi di delibera latamente riconducibile a quelle che abbiano oggetto le liti attive) altrettanto lo quella per cui, rientrando la riscossione degli oneri condominiali tra le attribuzioni proprie dell'amministratore, ex art. 1130, n. 3) c.c., la maggioranza necessaria a regolare tale competenza dovrebbe essere, in prima convocazione, quella fissata dall'art. 1136, comma 2, c.c. e, in seconda convocazione, quella fissata dall'ultimo periodo del comma 3 dell'art. 1136 c.c. (e, cioè, la maggioranza degli intervenuti all'assemblea e almeno un terzo dei millesimi), analogamente a quella richiesta per l'approvazione del rendiconto (da cui deriva, poi, l'obbligo di recupero in capo all'amministratore). Quanto, poi, al contenuto del deliberato assembleare, l'esonero può riguardare anche solo alcuni dei condomini morosi, potrebbe altresì riguardare i crediti inferiori ad una certa soglia (per i quali, ad esempio, il recupero giudiziale potrebbe risultare antieconomico per il condominio), ovvero subordinare la mancata azione alla prestazione di idonee garanzie da parte del condomino moroso: trattasi di materia totalmente rimessa alla discrezionalità dell'assemblea.

L'assemblea, ancora, è chiamata a pronunziarsi sul ricorso dei condomini avverso i provvedimenti adottati dall'amministratore, ai sensi dell'art. 1133 c.c.: si tratta di un ricorso non soggetto a termini di decadenza (Branca, 533; Visco, 308 e 994), alternativo e non necessariamente prodromico a quello all'autorità giudiziaria (Cass. II, n. 804/1974; Cass. II, n. 960/1977), che investe l'assemblea quale organo di gestione sovraordinato: si è anzi sostenuto, in giurisprudenza, che, argomentando per analogia, allo strumento in questione potrebbe ricorrere lo stesso amministratore, per provocare una deliberazione assembleare circa la correttezza del proprio operato in relazione alla pretesa osservanza del regolamento di condominio nei confronti del condomino riottoso (Cass. II, n. 3024/1975, cit.), pur restando evidente che non è necessario che i provvedimenti adottati dall'amministratore ricevano il crisma e l'approvazione preventiva dell'assemblea e si traducano in regolari delibere di quest'ultima (Cass. II, n. 2745/1960; tra le pronunce di merito, Trib. Ariano Irpino, 16 giugno 2011). Si è, inoltre, dell'avviso che il ricorso all'autorità giudiziaria abbia carattere «assorbente», escludendo il reclamo assembleare, poiché il condomino dissenziente, ricorrendo direttamente al magistrato, ha dimostrato la volontà di non richiedere il dibattito in sede assembleare (Cass. II, n. 2353/1950).

Circa i poteri dell'organo assemblea in sede di ricorso «gerarchico», la questione è stata affrontata in dottrina la quale, se è certa che quella possa invalidare il provvedimento dell'amministratore, ove questi abbia esorbitato dalle attribuzioni sue proprie (Peretti Griva, 430; Salis 1959, 369) è, al contrario, meno compatta sulla possibilità che essa possa sindacare l'opportunità o la convenienza del provvedimento dell'amministratore: ed infatti, il controllo dell'assemblea rimarrebbe confinato ad un mero vaglio di legittimità dell'atto adottato dall'amministratore, competendo a quest'ultimo la predisposizione di una serie di atti, che rientrano nelle sue attribuzioni, con competenza predeterminata e non comprimibile, e totale assenza di potere discrezionale, su di essi, ad opera dell'organo assembleare. In senso favorevole all'estensione del sindacato dell'assemblea si pone quella dottrina (Celeste 2017) che ritiene che occorra considerare pur sempre il rapporto che intercorre inter partes e, cioè, il mandato (come, peraltro, ribadito espressamente dall'art. 1129, comma 15, c.c.): sicché, se è vero che l'assemblea, tramite l'adozione di una delibera o l'approvazione di una disposizione regolamentare, possa conferire all'amministratore minori poteri rispetto all'oggetto del mandato (art. 1131 c.c.), è altrettanto vero che la stessa assemblea possa intervenire, confermando o revocando o modificando, il provvedimento del suo mandatario; l'oggetto del mandato, nell'ambito condominiale, è determinato dal contenuto dell'art. 1130 c.c., ma ciò non toglie che competa al mandante, nel nostro caso all'assemblea, il potere di indirizzare l'attività del mandatario con dichiarazioni determinative che possono assolvere la funzione di specificare il contenuto di tale obbligo. D'altra parte, si osserva, i poteri del mandatario possono subire modifiche ad opera del mandante, per cui, a maggior ragione, quest'ultimo può valutare di volta in volta il comportamento del primo (ad esempio, anche se ritenuto inopportuno, iniquo o poco conveniente). Tale ricostruzione, d'altra parte, appare coerente con il carattere «aperto» dell'elencazione legislativa delle attribuzioni riconosciute all'assemblea condominiale dall'art. 1135 c.c.: in quanto organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, si ripete costantemente che l'assemblea può adottare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, incontrando (a differenza dell'amministratore, i cui maggiori poteri sono regolati dall'art. 1131 c.c.) il solo limite del perseguimento di finalità extracondominiali; limite peraltro soltanto apparente, a fronte della tendenza al progressivo ampliamento degli «interessi comuni dei condomini», in nome delle esigenze di soddisfacimento dei rispettivi bisogni abitativi dei singoli. Logica conseguenza di questa affermazione è la valorizzazione del ruolo dell'assemblea quale «giudice» dei ricorsi presentati dai condomini contro gli atti di gestione. La medesima dottrina osserva, in ogni caso, che la rivendicazione della potestà di sindacato dell'assemblea sui compiti dell'amministratore non si deve ridurre all'affermazione del primato dell'organo superiore rispetto alle decisioni dell'inferiore ma si spiega, piuttosto, con la preferenza per l'assetto democratico del gruppo, regolato dal metodo collegiale e dal principio maggioritario, ed ispirato dall'idea della collaborazione tra i condomini nella gestione dei beni comuni.

La norma non indica in che modo il ricorso «gerarchico» dalla stessa previsto debba essere proposto: si ritiene che esso vada presentato, senza particolari formalità ma per iscritto, all'amministratore, il quale è tenuto a convocare un'assemblea ad hoc (ovvero ad inserire in ogni caso l'argomento all'ordine del giorno): in sostanza, si sarebbe in presenza di un'ipotesi di assemblea convocata ad istanza di un solo condomino, in maniera non dissimile da quanto previsto dal precedente art. 1117-quater c.c. (sulla possibile lettura sistematica delle due norme si rinvia al precedente paragrafo). Non appare invece possibile – come pure autorevolmente sostenuto (Celeste 2017) – inserire la discussione in un'assemblea già convocata tra le «varie ed eventuali». Ove l'amministratore non provveda, perché rimanga inerte ovvero non possa (ad esempio, in caso di revoca, vigendo le limitazioni ai suoi poteri secondo quanto previsto dall'art. 1129, comma 8, c.c.), si ritiene che alla fattispecie non sia applicabile il disposto dell'art. 66, comma 1, disp. att. c.c., mentre residui la possibilità di adire l'autorità giudiziaria, ex art. 1137 c.c. Per il caso di colpevole inerzia dell'amministratore, tuttavia, la questione di cui sopra potrebbe ora trovare una soluzione nel novellato art. 1129 c.c. che, al comma 12, n. 1), contempla, tra le cause di revoca giudiziaria dell'amministratore, la «grave irregolarità» consistita nella «omessa convocazione dell'assemblea [...] negli altri casi stabiliti dalla legge», tra i quali può certamente annoverarsi l'ipotesi prevista dall'art. 1133 c.c. Per quanto concerne, infine, il quorum deliberativo, si ritiene che sia sufficiente la maggioranza semplice, non rientrando tale materia tra quelle che necessitano di un quorum qualificato, trattandosi di materia (potenzialmente) rientrante tra le attribuzioni dell'amministratore (argomentando a contrario dall'art. 1136, comma 4, c.c.), salvo che, nel modificare il provvedimento dell'amministratore, l'assemblea non adotti contestualmente un atto di straordinaria amministrazione, di per sé richiedente la maggioranza più elevata prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c.

Il novellato art. 1134 c.c. affida, altresì, all'assemblea il compito di autorizzare il singolo condomino alla gestione delle parti comuni. La norma è stata sensibilmente modificata, laddove la precedente versione di essa faceva riferimento al sostenimento di «spese per le cose comuni senza autorizzazione»: la differenza emerge anche dalla modifica della rubrica dell'articolo in questione, laddove all'originaria dizione «spese fatte dal condomino» è stata sostituita quella, attuale, di «gestione di iniziativa individuale».

La disposizione trova il proprio precedente nell'art. 11 del r.d. n. 56/1934, che consentiva il rimborso delle spese, urgenti o meno che fossero, anticipate da uno dei condomini, a condizione che non vi fosse opposizione da parte dell'assemblea o dell'amministratore: riprodotta pressoché in maniera identica nel progetto di codice civile del 1942, nella versione finale essa è stata poi modificata nei termini in cui attualmente vige, limitativa, cioè, della possibilità di rimborso, solamente alle spese urgenti.

I primi commentatori, dopo avere osservato che l'espressione «gestione delle parti comuni» fa comprendere, più chiaramente di quanto facesse la vecchia formulazione, che rientra sotto l'ambito di operatività della norma in commento «ogni e qualsiasi attività che riguardi l'immobile: ovvero, non soltanto l'attività diretta al puro e semplice mantenimento delle parti comuni, ma anche e proprio tutti gli interventi occorrenti per il godimento e la fruizione delle parti comuni stesse» (Costabile, 485; Scalettaris 2017, 1323) hanno rilevato come l'impianto della norma non sia stato però modificato, nel senso che «come la precedente norma non vietava che il condomino potesse sostenere spese per le cose comuni ma si limitava ad escludere che di queste egli avesse diritto al rimborso (salvo che si trattasse di spese urgenti), anche la regola oggi enunciata non risulta diretta a vietare la «gestione» delle parti comuni da parte del singolo condomino se non autorizzata dall'amministratore o dall'assemblea ma si limita invece a prevedere che nel caso di «gestione» individuale non possa pretendersi il rimborso della spesa sostenuta a meno che questa non sia spesa urgente. Il che conduce a pensare che la regola enunciata dall'art. 1134 c.c. come ora modificato consenta – nella sostanza – la gestione individuale delle parti comuni e stabilisca solo che gli oneri che ne derivano debbano restare a carico esclusivo del condomino che abbia intrapreso la gestione di sua iniziativa, a meno che si tratti di spese urgenti e, cioè, tali da essere dirette ad evitare un possibile nocumento a sé, a terzi od alla cosa comune, sì da dovere essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini: alla luce di ciò dunque la «gestione di iniziativa individuale» dovrebbe vedersi, nel quadro della materia, tutt'al più come «ipotesi rara, ma non come ipotesi in sé vietata».

Rinviando al commento all'art. 1134 c.c. l'approfondimento sul concetto di urgenza richiesta dalla norma, nonché sui rapporti esistenti tra quest'ultima e l'art. 1110 c.c. in tema di comunione, in questa sede preme evidenziare come la disposizione consenta, a proposito della gestione individuale della cosa comune (cfr., in proposito, l'art. 1102 c.c.), una distinzione tra spese urgenti e non, chiarendo che queste ultime cedono interamente a carico del condomino medesimo, salva diversa determinazione dell'assemblea: non si incontrano ragioni ostative a che tale autorizzazione possa essere «postuma» – e, dunque, intervenire mediante una delibera di «ratifica» della spesa – anche rispetto ad un esborso «non urgente» sostenuto dal condomino non previamente abilitato, dall'assemblea ovvero dall'amministratore, alla gestione della cosa comune.

Rientra tra i compiti dell'assemblea, ancora, l'approvazione del regolamento di condominio, secondo quanto previsto dall'art. 1138, comma 3, c.c. Se, infatti, l'iniziativa per la formazione del regolamento, ovvero la sua revisione, può essere presa – tendenzialmente - da ciascun condomino, la sua approvazione è di competenza assembleare, all'uopo provvedendosi – salvo le precisazioni che seguiranno – con la maggioranza fissata dall'art. 1136, comma 2, c.c. (consistente in un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio). Esso va ora allegato al registro dell'anagrafe condominiale (previsto dall'art. 1130, n. 7), c.c., introdotto dall'art. 10 della l. n. 220/2012), può essere impugnato a norma dell'art. 1107 c.c. (in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c. alla disciplina sulla comunione. Precisa a tale riguardo Cass. VI-II, n. 24957/2021 che l'azione di nullità del regolamento è esperibile non già nei confronti dell'amministratore, carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda quanto, piuttosto, da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, versandosi in una situazione di litisconsorzio necessario) e le relative previsioni non possono in alcun modo – anche in tal caso salvo le precisazioni che verranno di seguito fatte- menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, né, stando a quanto previsto dall'1138, comma 4, c.c. e dall'art. 72 disp. att. c.c., possono vietare di possedere o detenere animali domestici o derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 c.c. ovvero a quelle degli artt. 63, 66, 67 e 69 disp. att. c.c. A ciò va aggiunta, inoltre, l'inderogabilità di altre prescrizioni che, pur non essendo espressamente indicate come inderogabili, costituiscono espressione di diritti insopprimibili dei condomini ovvero partecipano della medesima ratio di quelle contenute nell'elencazione sopra riportata (si fa il caso, ad esempio, dell'inderogabilità dell'art. 1117-ter, comma 2, c.c., in tema di convocazione dell'assemblea per la modificazione delle destinazioni d'uso delle parti comuni, che poggia sullo stesso fondamento dell'art. 66 disp. att. c.c.).

Tali precisazioni si colgono espressamente nella Relazione al Re, ove è chiarito che si è ritenuta «l'opportunità del regolamento, perché la legge, per quanto dettagliata, non può prevedere tutte le particolari situazioni di ogni condominio, e, d'altro canto, hanno non poca efficacia al riguardo le consuetudini locali», stabilendo che il medesimo regolamento «può derogare anche alle disposizioni del codice, salvo quelle che siano d'ordine pubblico o che dalla legge speciale siano state espressamente dichiarate inderogabili».

Si tratta, dunque, della fonte che regola, con carattere vincolante, i rapporti interni tra i condomini, «la legge interna che organizza ed articola la vita del gruppo [...] contengono diritto e formalmente si presentano come un complesso di norme aventi efficacia nell'ambito della comunione e tra i comunisti: in seno a quel rapporto hanno i caratteri di generalità, di astrattezza ecc., che sono propri dei precetti giuridici» (Branca, 660 e 220); esso contiene tutte le disposizioni rivolte a precisare i compiti e le attribuzioni dell'amministratore, i limiti che ciascun partecipante è tenuto ad osservare nel godere delle parti e servizi comuni (Salis, 417).

In relazione alla sua specifica funzione, di costituire una sorta di statuto della collettività condominiale, si configura come atto volto ad incidere con un complesso di norme giuridicamente vincolanti per tutti i componenti di detta collettività, su un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico ed a porsi come fonte di obblighi e diritti non tanto per la collettività come tale quanto, soprattutto, per i singoli condomini (Cass. II, n. 12342/1995).

In tale prospettiva, il comma 1 dell'art. 1138 c.c. disegna, in particolare, il contenuto “minimo” del regolamento; ciò non esclude, però, che esso possa comprendere anche la disciplina di rapporti non compresi nell'elencazione ivi contenuta, salvo trattarsi sempre di precetti generali ed astratti concernenti rapporti inerenti alla disciplina delle parti (o degli interessi) “comuni” dell'edificio, senza pregiudicare le posizioni soggettive dei singoli condomini (cfr. infra).

A seconda che il condominio sia composto o meno da un numero di unità immobiliari superiori a 10 l'adozione di un regolamento è obbligatoria – che, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, alla stregua di un contratto plurilaterale (Cass. VI-II, n. 24957/2020) -  o facoltativa. La distinzione tra e due ipotesi implica evidenti conseguenze dal punto di vista disciplinare: posto che il concetto di facoltatività implica una valutazione ex ante, da parte del legislatore, di non necessità di esso (con conseguente impossibilità, quindi, di ricorso all'autorità giudiziaria per la relativa formazione), diversamente, allorché non si proceda all'approvazione dei regolamenti obbligatori – vuoi perché l'assemblea rigetta la relativa istanza, ritenendo il regolamento proposto non adatto alle esigenze della compagine condominiale, vuoi perché, pur volendolo approvare, manchi il relativo quorum – nel silenzio, sul punto, dell'art. 1138 c.c. (che contempla solo l'ipotesi, patologica, di impugnazione del regolamento), si sono sviluppate due teorie tra loro contrapposte in ordine alla possibilità di un intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria. Precisamente: 1) una prima impostazione, fondando sul silenzio del legislatore, nega anche in tal caso la possibilità di ricorso all'autorità giudiziaria per ottenere, da questa, la formazione di un regolamento, ritenendo l'assemblea sovrana di optare anche per la sua non adozione; 2) secondo un diverso orientamento, invece, che fa leva sulla lettera dell'art. 1138, comma 2, c.c. (per cui ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente) e considerando che, in ogni caso, sarebbe illogico disporre l'obbligatorietà del regolamento, senza prevedere rimedi in caso di inerzia della maggioranza (si verserebbe, altrimenti, in ipotesi di norma imperfecta), l'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria sarebbe ammissibile. Condivide la soluzione da ultimo prospettata la dottrina maggioritaria, le cui posizioni oscillano tra chi ritiene che, per ottenere legittimamente l'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria occorre che un condominio prenda l'iniziativa del regolamento e che l'assemblea non l'approvi, di modo che contro la deliberazione, assunta in violazione di una specifica previsione di legge, il medesimo condomino possa ricorrere al giudice che approverà, poi, il regolamento proposto (Branca, 683); chi, al contrario, sostiene che la possibilità di ricorrere all'autorità giudiziaria sorgerebbe in qualunque ipotesi di mancata adozione del regolamento e, dunque, non solo in caso di delibera negativa, ma anche di omessa delibera (De Renzis-Redivo-Nicoletti-Ferrari, 885); e chi, infine, prescinde dalla adozione – esplicita o implicita – di una delibera, osservando che lo schema dell'impugnazione mal si attaglia all'intervento sostitutivo (e non già caducatorio) richiesto in simile frangente all'autorità giudiziaria (Crescenzi, 219).

Conforme a tale seconda opzione interpretativa è la giurisprudenza di legittimità, per la quale i regolamenti condominiali, non approvati dall'assemblea ma, adottati coattivamente, in virtù di sentenza attuativa del diritto potestativo di ciascun partecipe di condominio con più di dieci componenti di ottenere la formazione del regolamento della comunione, in necessaria correlazione con la natura del titolo giurisdizionale che ne costituisce la fonte, hanno autoritativamente, ai sensi dell'art. 2909 c.c., efficacia vincolante per tutti i componenti della collettività condominiale, indipendentemente dalla circostanza che la loro adozione sia avvenuta nel dissenso, totale o parziale, di taluno di essi, allorché la pronuncia che ne abbia sanzionato l'operatività sia divenuta non più impugnabile e, quindi, definitiva ed irretrattabile. Il dato, poi, che in tale pronuncia, in astratto, possano essere ravvisati vizi di ultrapetizione o di violazione di legge è destinato a restare assolutamente irrilevante quando detti vizi non siano stati tempestivamente e ritualmente denunciati per il tramite di mezzi di impugnazione consentiti dall'ordinamento» (Cass. II, n. 1218/1993).

Per venire a quanto in questa sede maggiormente interessa, il regolamento – come anticipato – è dotato di un contenuto minimo, espressamente indicato dall'art. 1138, comma 1, c.c. consistente nella previsione di norme che regolino circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché di norme per la tutela del decoro dell'edificio e relative all'amministrazione. Nulla vieta, però, che esso contenga anche previsioni di carattere diverso, idonee ad incidere sui diritti dei singoli proprietari esclusivi, limitandone le facoltà sulle porzioni in proprietà esclusiva come sulle parti comuni: è ciò che accade – semplificando in via di prima approssimazione e rinviando per un più preciso inquadramento del tema al commento all'art. 1138 c.c. – in presenza dei regolamenti cd. contrattuali (così chiamati per contrapporli a quelli cd. assembleari) che, proprio per le limitazioni che contengono, non possono essere approvati dall'assemblea con la maggioranza indicata dal comma 2 dell'art. 1138 c.c., ma richiedono l'unanimità. Più correttamente ciò che incide sulle maggioranze necessarie per la approvazione delle singole clausole è la natura sostanziale di esse: nel senso che può accadere che, all'interno di un regolamento, siano incluse clausole di carattere ontologicamente diverso, nel senso, cioè, che sono contemporaneamente presenti clausole oggettivamente regolamentari, tendenti semplicemente alla disciplina delle modalità d'uso delle cose comuni, e clausole di carattere oggettivamente negoziale, limitative dei diritti dei singoli proprietari esclusivi (Cass. II, n. 8216/2005; App. Milano 14 luglio 2004). In tali ipotesi, mentre per le prime è sufficiente, al fine della loro approvazione (o eventuale modificazione. Cfr. infra), la maggioranza stabilita dall'art. 1136, comma 2, c.c., per le seconde è necessario il consenso unanime di tutti i condomini (lo stesso dicasi, ovviamente, per l'approvazione ex novo di un regolamento: le maggioranze, infatti, variano a seconda della natura della clausola che si intende approvare) (Cass. II, n. 13632/2010; Cass. II, n. 17694/2007; Cass. S.U., n. 943/1999). Il tema, peraltro, come evidenziato nel commento all'art. 1118 c.c., assume una particolare rilevanza a proposito della determinazione convenzionale dei millesimi di proprietà e di gestione (giacché qualora i condomini, nell'esercizio della loro autonomia, abbiano espressamente dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e art. 68 disp. att. c.c., dando vita alla «diversa convenzione» di cui all'art. 1123, comma 1, ultima parte, c.c., la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c. Così Cass. II, n. 1848/2018). Ma non solo. Si pensi alla possibilità che con regolamento di condominio di fonte e contenuto contrattuale venga attribuita la comproprietà delle cose – incluse quelle indicate nell'art. 1117 c.c. – a coloro cui appartengono alcune determinate unità immobiliari, indipendentemente dalla sussistenza di fatto del rapporto di strumentalità che determina la costituzione ex lege del condominio edilizio (Cass. II, n. 4432/2017). I medesimi principi trovano applicazione nell'ambito del supercondominio (si rinvia, per un approfondimento, al commento agli artt. 1117-bis c.c. e 62 disp. att. c.c.), essendo stato chiarito che il relativo regolamento, predisposto dall'originario unico proprietario del complesso di edifici, accettato dagli acquirenti nei singoli atti di acquisto e trascritto nei registri immobiliari, in virtù del suo carattere convenzionale, vincola tutti i successivi acquirenti senza limiti di tempo, non solo relativamente alle clausole che disciplinano l'uso e il godimento dei servizi e delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca (Cass. II, n. 30246/2019).

È intuitivo che il regolamento di condominio non possa avere un contenuto statico e immutabile, per cui ben può essere oggetto di modifiche nel tempo, in relazione ai nuovi interessi di gestione (si pensi all'acquisto di un'area che occorre regolamentare o ad un'innovazione tecnologica che accresca il patrimonio comune); tuttavia, anche per quanto concerne la modifica del suddetto regolamento, è opportuno operare, al pari quanto avviene per la sua approvazione, una distinzione tra le possibili tipologie di clausole da modificare: ed infatti, il regolamento assembleare può essere modificato, integrato o abrogato in parte, dalla stessa assemblea, con la stessa maggioranza richiesta per la sua approvazione così come con i medesimi quorum possono essere approvate, di volta in volta, delibere in deroga, ossia disattendendo il precetto per un caso concreto, o in contrasto, ossia fissando una nuova prescrizione regolamentare, con le clausole originariamente statuite (Cass. II, n. 5626/2002). Ne consegue che anche se, per ipotesi, fosse stato approvato in assemblea dall'unanimità dei consensi, il regolamento assembleare può essere modificato a maggioranza, purché sia quella prescritta dalla legge, a meno che non contenga clausole di natura “convenzionale”, che incidano sui diritti e sugli obblighi dei condomini, che dovranno essere modificate solo con il consenso di tutti i partecipanti (Celeste, 2018). Sebbene il comma 3 dell'art. 1138 c.c. preveda solo la “approvazione” e non anche la modifica (o l'abrogazione), appare infatti ovvio (se non, addirittura, scontato) che una norma regolamentare possa essere modificata (o abrogata) da un'altra norma adottata con lo stesso quorum: del resto, vale il principio logico della necessaria corrispondenza tra i poteri necessari sia per la costituzione di un rapporto giuridico sia per la sua modifica (o estinzione), senza contare che l'art. 1136, commi 2 e 4, c.c. prescrive la maggioranza qualificata per qualsiasi delibera riguardante le materie ivi contemplate.

La casistica giurisprudenziale sulla natura – contrattuale o regolamentare – di singole clausole è decisamente ampia. Incidendo tale aspetto, come detto, sul quorum deliberativo richiesto (maggioranza rafforzata o unanimità) per la relativa approvazione, si ritiene opportuna una sintetica illustrazione della casistica giurisprudenziale. Quanto alla natura ed al contenuto delle singole clausole: a) ha natura contrattuale la clausola del regolamento di condominio che vieta l'uso dell'androne e del cortile comuni per la sosta e il parcheggio dei veicoli, essendosi con essa limitato il diritto d'uso dei condomini su beni comuni: essa, pertanto, è modificabile soltanto con il consenso unanime dei partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 5626/2002); b) nel regime anteriore alla Riforma del 2012, è stato affermato che il divieto di tenere negli appartenenti i comuni animali domestici non potesse essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva: sicché in difetto di un'approvazione unanime le disposizioni anzidette sono state ritenute inefficaci anche con riguardo a quei condomini che abbiano concorso con il loro voto favorevole alla relativa approvazione, in quanto le manifestazioni di voto in esame, non essendo confluite in un atto collettivo valido ed efficace, costituiscono atti unilaterali atipici, di per sé inidonei, ai sensi dell'art. 1987 c.c., a vincolare i loro autori, nella mancanza di una specifica disposizione legislativa che ne preveda l'obbligatorietà (Cass. II, n. 12028/1993); c) alla stregua della stessa lettera dell'art. 1123 c.c., la disciplina legale della ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio è, in linea di principio, derogabile, con la conseguenza che deve ritenersi legittima la convenzione modificatrice di tale disciplina, contenuta nel regolamento condominiale di natura contrattuale, ovvero nella deliberazione dell'assemblea, quando approvata da tutti i condomini (Cass. II, n. 641/2003); d) il diritto di sopraelevare nuovi piani o nuove fabbriche spetta al proprietario esclusivo del lastrico solare o dell'ultimo piano di un edificio condominiale ai sensi e con le limitazioni previste dall'art. 1127 c.c., senza necessità di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, mentre limiti o divieti all'esercizio di tale diritto, assimilabili ad una servitù altius non tollendi, possono esser costituiti soltanto con espressa pattuizione, che può esser contenuta anche nel regolamento condominiale, di tipo contrattuale (Cass. II, n. 15504/2002); e) la norma dell'art. 1102 c.c., concernente la facoltà del condomino di apportare modifiche a sue spese per il migliore godimento della cosa comune, è derogabile per regolamento condominiale avente efficacia contrattuale in quanto sottoscritto da tutti i condomini, ma tale deroga deve risultare in modo espresso (Cass. II, n. 10895/1992); f) una limitazione al diritto di proprietà, quale un vincolo di destinazione, può derivare, oltre che dalla legge, anche da una convenzione privata, e, quindi, nei rapporti fra condomini di edificio, da un regolamento condominiale di natura contrattuale (Cass. S.U., n. 5990/1984; Cass. II, n. 3848/1985; Cass. II, n. 7630/1990; Cass. II, n. 4632/1994; Cass. II, n. 1560/1995; Cass. II, n. 8883/2005); g) ha natura contrattuale la clausola del regolamento di condominio con cui la singola unità immobiliare venga esonerata, in tutto o in parte, del contributo nelle spese stesse (Cass. II, n. 6844/1988); h) un'area esterna comune adibita a parcheggio dei veicoli dei condomini può essere da costoro utilizzata per parcheggiarvi delle roulottes (se nel regolamento condominiale non sono in proposito previsti particolari divieti o limitazioni), trattandosi di un uso particolare dalle cosa comune che non ne altera la destinazione e non limita l'uso paritetico da parte degli altri condomini, per «pari uso» dovendosi intendere non l'uso identico in concreto (atteso che l'identità spaziale e temporale delle utilizzazioni concorrenti comporterebbe il sostanziale divieto per ogni condomino di fare qualsiasi uso particolare della cosa comune), bensì l'astratta valutazione del rapporto di equilibrio che deve essere potenzialmente mantenuto fra tutte le possibili concorrenti utilizzazioni del bene comune da parte dei partecipanti al condominio; ne consegue che deve ritenersi nulla perché lesiva del diritto di ciascun condominio all'uso della cosa comune la delibera con la quale l'assemblea, senza l'unanimità di tutti i partecipanti al condominio, vieti il suddetto uso particolare (parcheggio di roulottes) delle aree comuni (Cass. II, n. 9649/1988); i) la deliberazione assembleare che, con riguardo alla ripartizione delle spese di portierato, le estenda anche ai proprietari dei vani terranei senza ingresso dall'androne, deve ritenersi affetta da nullità, e non da mera annullabilità, con conseguente proponibilità della relativa impugnazione in ogni tempo, anche dopo il termine di decadenza fissato dall'art. 1137 c.c., qualora, adottata a maggioranza, risulti integrare un riparto di dette spese difforme da quello fissato con regolamento condominiale di natura contrattuale, quale quello predisposto dall'unico originario proprietario dell'edificio e poi di volta in volta accettato dagli acquirenti delle singole porzioni, atteso che le disposizioni di tale regolamento sono modificabili solo attraverso una nuova convenzione conclusa dalla totalità dei condomini (Cass. II, n. 5793/1983); l) qualora il regolamento condominiale non abbia natura contrattuale, l'assemblea dei condomini, anche in mancanza di unanimità, può modificare le disposizioni regolamentari in materia di uso delle cose comuni, purché sia assicurato il diritto al pari uso di tutti i condomini, e cioè il diritto di ciascun condomino di trarre dalle cose comuni il massimo godimento possibile, dovendo, peraltro, la eventuale maggiore utilizzazione consentire, sia pure a livello di previsione potenziale, un godimento di pari natura ed intensità da parte degli altri condomini (Cass. II, n. 1057/1999); m) i diritti spettanti a ciascun condomino (in base agli atti di acquisto, ovvero al regolamento condominiale in essi richiamato) sulle parti comuni dell'edificio non possono essere oggetto di delibere assembleari approvate a maggioranza che ne ledano il contenuto, essendo necessaria, a tal fine, una manifestazione unanime di volontà da parte di tutti i condomini, senza che, su tale principio, possa legittimamente incidere il disposto dell'art. 9, commi 1 e 3, l. n. 122/1989, che stabilisce le maggioranze richieste per la validità delle deliberazioni assembleari aventi ad oggetto le opere e gli interventi per la realizzazione dei parcheggi, ma non prevede alcuna deroga al principio generale che esclude il potere della maggioranza dei condomini di menomare diritti validamente acquisiti da ciascuno di essi (fattispecie in tema di delibera condominiale, adottata a maggioranza, autorizzativa del parcheggio di autoveicoli in spazi comuni dell'edificio –costruito anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 765/1967 - nonostante una espressa previsione in senso contrario contenuta nel regolamento di condominio contrattuale) (Cass. II, n. 5369/1997; Cass. II, n. 3351/1989); n) legittimamente le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini – possono derogare od integrare la disciplina legale e, in particolare, possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 c.c., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva (Cass. II, n. 11121/1999); m) la giurisprudenza ha infine affrontato il problema della compromettibilità in arbitri (prevista dal regolamento di condominio) di ogni questione concernente la validità delle delibere assembleari. In proposito si è osservato che, se è vero che l'art. 1138 c.c. dichiara inderogabile l'art. 1137 c.c., cionondimeno tale ultima disposizione è stata interpretata nel senso che il suo comma 2 (attualmente comma 3), configurando il diritto soggettivo del condomino di ricorrere all'autorità giudiziaria avverso le delibere assembleari quale facultas agendi a tutela di interessi direttamente protetti dall'ordinamento giuridico, non esclude la compromettibilità ad arbitri delle relative controversie, con la conseguenza che deve considerarsi legittima la norma del regolamento condominiale (Cass. II, n. 2797/1969; Cass. II, n. 2178/1952) che preveda una clausola compromissoria, con il correlativo obbligo di chiedere la tutela all'organo designato competente (nel medesimo senso Cass. II, n. 73/1986; Cass. II, n. 2960/1968; Trib. Monza 20 luglio 2004). D'altra parte, le controversie in materia condominiale non rientrano tra quelle escluse dal procedimento arbitrale dagli artt. 806 e 808 c.p.c. ed il potere di sospensione ex art. 1137, comma 2 (attualmente comma 3), c.c., seppure non esercitabile dagli arbitri, può essere sempre recuperato innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria ai sensi dell'art. 700 c.p.c. (Cass. II, n. 3406/1984; Cass. II, n. 4218/1983).

Appare, infine, finanche superfluo evidenziare che, finché l'assemblea (o l'autorità giudiziaria, in caso di regolamenti obbligatori) non approvi il regolamento, la vita della compagine condominiale sarà regolata sulla base del regolamento «legale» fissato dalle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali. Ad ogni modo si rinvia, per un approfondimento più completo su tutti i singoli aspetti affrontati nel corso della presente trattazione, ai commenti agli artt. 1136, 1138 e 1120 c.c., nonché all'art. 72 disp. att. c.c.

Segue. Ulteriori attribuzioni previste dalle disposizioni di attuazione

L'art. 61 disp. att. c.c. – disposizione non oggetto di modifica alcuna ad opera della l. n. 220/2012 – prevede che, qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio possa essere sciolto ed i comproprietari di ciascuna parte possano costituirsi in autonomo condominio; tale scioglimento è deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal comma 2 dell'art. 1136 c.c. (e, cioè, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio), oppure è disposto dall'autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione. La previsione è da leggere in maniera coordinata con il successivo art. 62 disp. att. c.c. – anch'esso non toccato dal Legislatore della novella – il quale prevede che la medesima facoltà di scioglimento può essere esercitata anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'art. 1117 c.c., avendo altresì la cura di precisare che, qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, la maggioranza assembleare all'uopo richiesta varia in aumento, dacché per deliberare lo scioglimento occorre la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 5, c.c. e, cioè, un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio (la stessa maggioranza richiesta, cioè, per le innovazioni ordinarie dall'art. 1120, comma 1, c.c.).

Il Legislatore “disegna”, dunque, una sorta di doppio binario: una strada di carattere assembleare (a propria volta suddivisa in due sottoprocedure) ed una di natura giudiziaria. Come anticipato, lo scioglimento può essere deliberato dall'assemblea dei condomini, in deroga rispetto al consenso unanime richiesto per i partecipanti alla comunione (cfr. artt. 1108 e 1111 c.c.), con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. (ipotesi disciplinata dall'art. 61 disp. att. c.c.) ovvero, qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose ed occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, con la maggioranza prescritta dal comma 5 dell'art. 1136 c.c (ipotesi, questa, contemplata dall'art. 62, comma 2, disp. att. c.c.). La relativa convocazione avviene secondo le regole ordinarie (non essendo previste modalità peculiari quali, ad esempio, quelle fissate dall'art. 1117-ter c.c.) e la delibera, ove effettivamente adottata, ha carattere ricognitivo (Cass. II, n. 4439/1982). Ove, al contrario, l'assemblea non raggiunga le maggioranze prescritte, i partecipanti che siano ancora interessati allo scioglimento del condominio possono proporre domanda all'Autorità Giudiziaria, dando vita ad un giudizio di natura contenziosa (App. Venezia, 25 ottobre 1960), giacché la decisione che lo conclude è destinata ad incidere in modo definitivo sui diritti soggettivi dei singoli condomini: giudizio in cui tutti i condomini vanno intesi alla stregua di litisconsorti necessari, giacché la separazione del condominio in più distinti condominii implica, quale inevitabile conseguenza, la ridefinizione dei diritti di comproprietà spettanti ad ogni singolo condomino sulle parti comuni, incidendo su situazioni giuridiche soggettive, la cui tutela appare estranea alla sfera dei poteri rappresentativi dell'amministratore.

Conforme rispetto a tale “sistemazione” del rapporto processuale tra i condomini è Cass. II, n. 1460/2008, la quale ha chiarito che la rappresentanza attribuita all'amministratore del condominio dall'art. 1131, comma 2, c.c., rispetto a qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio, non si estende all'azione di scioglimento del condominio prevista dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. la quale, avendo ad oggetto la modificazione di un diritto reale, si svolge in un giudizio al quale debbono partecipare tutti i soggetti che per le rispettive quote ne sono titolari, ossia i condomini del precedente condominio complesso. Nel medesimo senso Cass. II, n. 4655/1998, la quale evidenzia come l'art. 784 c.p.c. sia norma speciale rispetto all'art. 1131, comma 2, c.c. e pertanto, malgrado quest'ultima disposizione conferisca all'amministratore di condominio la legittimazione passiva per qualunque azione, se un condomino chiede lo scioglimento della comunione su un bene comune e la conseguente modifica dell'uso di esso, è necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, onde tutelare più intensamente le loro ragioni nella trasformazione delle rispettive facoltà di godimento. Del medesimo avviso la giurisprudenza di merito, facendo applicazione dei principi generali in tema di azioni divisorie, che non potrebbero raggiungere il loro scopo – e cioè, trasformare i diritti dei singoli comunisti su quote ideali in diritti di proprietà individuale ed esclusiva su singoli beni – se non sono promosse nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione: pertanto, riconoscere all'amministratore la legittimazione passiva anche in tale ipotesi “significherebbe attribuirgli un potere di disposizione della situazione soggettiva di un condomino di cui non è titolare neppure l'assemblea” (così Trib. Cagliari, 27 febbraio 1974, a parere del quale il disposto dell'art. 1131, comma 2, c.c. va interpretato nel senso che lo stesso è passivamente legittimato per le domande che riguardano la mera gestione delle medesime parti comuni. In termini analoghi App. Milano 2 ottobre 1987; Trib. Milano 7 novembre 1985). In merito alla qualità di litisconsorti necessari di tutti i condomini rispetto alla domanda di scioglimento del condominio, poi, essa permane in ogni grado del processo, indipendentemente dall'attività e dal comportamento di ciascuna parte, onde, se in fase di appello l'appellante non provveda alla citazione di uno o più condomini, il giudice di secondo grado è obbligato a disporre l'integrazione del contraddittorio in ottemperanza al precetto dell'art. 331 c.p.c., ancorché, già disposta in primo grado la divisione, debba soltanto pronunciare sulle spese, in quanto la causa accessoria sulle spese condivide il carattere di inscindibilità della causa principale (Cass. II, n. 8892/1987).

La possibilità di ricorrere ad uno scioglimento giudiziale del condominio va però esclusa nel caso contemplato dall'art. 62, comma 2, disp. att. c.c. Già Trib. Napoli 2 agosto 1974 aveva raggiunto tale conclusione, osservando come, anche ammettendo il ricorso all'autorità giudiziaria nell'ipotesi in cui la separazione non possa farsi se non adottando modifiche o realizzando opere, la sentenza sarebbe comunque inutiliter data, non potendo il magistrato adìto disporre dette innovazioni; peraltro – si osserva – riconoscendo il potere di disporre lo scioglimento del condominio per via giudiziaria anche in tale ipotesi, non vi sarebbe stato motivo di richiedere una maggioranza speciale per la delibera dell'assemblea, ben potendo la minoranza interessata allo scioglimento direttamente rivolgersi al giudice, il quale, quand'anche l'assemblea volesse decidere negativamente potrebbe optare per lo scioglimento o, ancora, potrebbe sostituirsi ad essa disponendo quelle modifiche e quelle opere necessarie perché l'edificio possa avere la necessaria autonomia. Ha confermato tale conclusione Cass. II, n. 27507/2011 la quale ha chiarito che, alla stregua di una corretta interpretazione degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. è ragionevole ritenere che l'autorità giudiziaria possa disporre lo scioglimento di un condominio solo quando il complesso immobiliare sia suscettibile di divisione, senza che si debba attuare una diversa ristrutturazione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale mentre, laddove la divisione non sia possibile senza previa modifica dello stato delle cose mediante ristrutturazione, lo scioglimento e la costituzione di più condominii separati possono essere approvati soltanto dall'assemblea con un numero di voti che sia espressione di due terzi del valore dell'edificio e rappresenti la maggioranza degli intervenuti alla riunione.

Si rinvia, per l'approfondimento sul punto, al commento ai relativi articoli.

Gli artt. 68 e 69 disp. att. c.c. assegnano, inoltre, all'assemblea il compito di provvedere all'approvazione, alla modifica ed alla revisione delle tabelle millesimali. Si tratta di una delle tematiche maggiormente dibattute in materia condominiale, dovendosi registrare, da un lato, la risoluzione, nel regime previgente la Riforma del 2012, di un contrasto giurisprudenziale ad opera di un intervento del supremo organo di nomofilachia nel corso del 2010 e, dall'altro, il rumoroso intervento, nella vicenda, del legislatore riformatore, mediante la novella dell'art. 69 disp. att. c.c. L'intera questione ruota, come noto, attorno alla qualificazione dell'atto di approvazione della tabella millesimale in termini di negozio di accertamento dei valori delle quote condominiali, con funzione puramente valutativa del patrimonio agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare, ovvero in termini di negozio di carattere dispositivo dei diritti dei singoli. Invero, l'orientamento più risalente – ed a lungo dominante – in giurisprudenza, ravvisava nell'approvazione o nella modifica delle tabelle un atto di natura contrattuale, per ciò stesso esorbitante dalle attribuzioni dell'assemblea e, perciò, necessitante una deliberazione unanime di tutti i partecipanti al condominio, con conseguente nullità di una deliberazione assunta a maggioranza. Tale assunto fondava sulla sua ricostruzione in termini di negozio di accertamento, con cui le parti giungono alla risoluzione di una situazione dubbia, avente specificamente ad oggetto la caratura da attribuire alle singole unità in proprietà esclusiva (Peretti Griva, 136). In tal senso sono chiare, ad esempio, Cass. II, n. 5399/1999, per cui le tabelle millesimali allegate a regolamento condominiale contrattuale non possono essere modificate se non con il consenso unanime di tutti i condomini o per atto dell'autorità giudiziaria a norma dell'art. 69 disp. att. c.c. e conservano piena efficacia e validità (quali leggi del condominio) sino a che non intervenga una rituale modifica delle stesse e Cass. II, n. 3542/1994 per cui la deliberazione dell'assemblea condominiale che modifichi a maggioranza una tabella millesimale contrattualmente approvata ovvero fissi criteri di ripartizione delle spese comuni secondo criteri diversi da quelli stabiliti per legge è inficiata da nullità. Se ne faceva discendere la conclusione per cui la domanda giudiziale di un condomino, volta all'accertamento dell'invalidità o alla revisione giudiziale delle stesse tabelle, dovesse essere necessariamente proposta nei confronti di tutti gli altri condomini, in regime di litisconsorzio necessario, giacché la legittimazione passiva dell'amministratore, limitata alle azioni relative alle parti comuni dell'edificio, non avrebbe potuto estendersi alle questioni attinenti all'accertamento dei valori millesimali – e dei correlati obblighi – delle quote di proprietà esclusiva (Cass. II, n. n. 7359/1996; Cass. II, n. 4405/1995; Cass. II, n. 3967/1984; Trib. Roma, 2 luglio 2009; Trib. Savona, 8 maggio 2012). Tale soluzione è stata, tuttavia, aspramente criticata, essendosi evidenziato come il riferimento al principio unanimistico rende altamente probabile il rischio della paralisi delle attività assembleari, quantomeno fino al passaggio in giudicato della sentenza (avente carattere costitutivo) di accertamento dei valori millesimali; a ciò aggiungasi che la natura contrattuale dell'atto determinerebbe la sistematica inefficacia della tabella nei confronti degli aventi causa a titolo particolare dai condomini originari, senza peraltro omettere di considerare che l'allegazione delle tabelle al regolamento di condominio (cfr. l'art. 68 disp. att. c.c.) dovrebbe sottintendere la soggezione delle prime alla medesima maggioranza stabilita per il secondo dall'art. 1138 c.c. Secondo l'opposto orientamento (Cass. II, n. 9232/2014; Cass. II, n. 4569/2014; Cass. II, n. 21950/2013 nonché, Trib. Monza, 18 marzo 2014; Trib. Lucca, 23 dicembre 2015) l'atto di approvazione, come di revisione, delle tabelle millesimali condominiali non ha natura negoziale, ma funzione puramente valutativa del patrimonio, agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare: trattandosi, dunque, di un mero atto (e, cioè, una dichiarazione di scienza relativa ad una situazione giuridica preesistente) esso non richiede il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. Per tale orientamento, fatto proprio anche da Cass.  S.U., n. 18477/2010, in sostanza l'art. 1118 c.c. fa riferimento, per determinare l'ammontare della quota di ciascun partecipante al condominio e sempre salvo che il titolo disponga altrimenti, al valore dell'unità immobiliare: quale approvazione del risultato di una mera operazione tecnica di calcolo, tale atto non sottende affatto un'attività negoziale volta all'eliminazione di una situazione di incertezza, ma una semplice ricognizione di una realtà empirica preesistente. Sicché le tabelle non incidono sul valore della proprietà, ma semplicemente sugli obblighi contributivi e, per ciò stesso, la loro approvazione o modifica non è atto inquadrabile nella categoria del negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni, semplicemente in quanto non finalizzato ad eliminare un'incertezza: «le tabelle, piuttosto, rappresentano una documentazione tecnico-ricognitiva di una realtà empirica, riassumendosi in un parametro dì quantificazione dei diritti ed oneri condominiali, e servono unicamente ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti. Da quanto precede discende che l'approvazione delle tabelle millesimali non ha natura negoziale, perché viene meno la caratteristica, propria del negozio giuridico, della conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti. Ulteriore conseguenza che deriva da quanto precede è che per la modifica dei valori delle tabelle millesimali (siano esse assembleari ovvero contrattuali) non è obbligatoria la (pressoché inattuabile) unanimità dei consensi degli aventi diritto; viceversa, si dovrà far ricorso alle maggioranza indicate dall'art. 1136, comma 2, c.c.: sarà quindi necessaria e sufficiente la maggioranza degli intervenuti alla singola assemblea deliberativa che rappresentino «almeno la metà del valore dell'edificio». Residua, cionondimeno, un limitato spazio di operatività per il principio unanimistico, allorché i condomini, cioè, con l'approvazione delle tabelle abbiano inteso derogare ai principi legali di ripartizione delle spese ovvero assegnare valori diversi da quelli effettivamente attribuibili alle unità abitative sulla base di meri calcoli ricognitivi (dunque, in ultima analisi, ove si sia inteso approvare la «diversa convenzione» richiamata dall'art. 1123, comma 1, c.c.): qualora essi, cioè, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente accettato che la caratura della loro partecipazione al condominio venga determinata in maniera difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., tale comportamento ha valore negoziale, richiede il consenso unanime di tutti i partecipi al condominio e, soprattutto, risolvendosi nell'impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ex art. 69 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 8300/2010). Tale impostazione mantiene la propria efficacia pur dopo la novella cui è stato sottoposto nel 2012 l'art. 69 disp. att. c.c.

Estremamente chiara è, in proposito la argomentata motivazione resa da Cass. II, n. 19651/2017  in tema di ripartizione delle spese di riscaldamento centralizzato: poiché l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ciò non implica che la stessa maggioranza possa bastare ad approvare una tabella millesimale che ripartisca fra i condomini le spese di gestione del riscaldamento centralizzato non in proporzione all'uso che ne faccia ognuno, ex art. 1123, comma 2, c.c., ma in parti uguali per tutti.

Quella in esame è una competenza specificamente assembleare: sicché, le modifiche apportate alle tabelle millesimali dal costruttore venditore in forza di un mandato irrevocabile conferito dai condòmini allo scopo, genericamente enunciato, di correggere "eventuali errori" o di soddisfare l'esigenza di un "miglior uso delle cose comuni", sono inefficaci se non approvate dall'assemblea, secondo le prescrizioni dell'art. 69 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 791/2022).

L'assemblea provvede, altresì, ad infliggere, ai sensi dell'art. 70 disp. att. c.c., le sanzioni per le infrazioni al regolamento di condominio: la norma novellata dall'art. dall'art. 24, della l. n. 220 del 2012 è stata ulteriormente integrata dall'art. 1, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145 (c.d. decreto «Destinazione Italia»), conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, contempla la possibilità di irrogare, nei confronti del condomino che violi il regolamento di condominio, una sanzione pecuniaria (fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800), con deliberazione assunta dall'assemblea con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.: le somme così raccolte sono devolute al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie. Si è in presenza di una pena privata, contemplata da una disposizione che ha carattere inderogabile (con conseguente nullità di eventuali delibere assembleari che dovessero contemplare sanzioni di importo maggiore. Cfr. Cass. II, n. 820/2014; Cass. II, n. 10329/2008; Cass. II, n. 948/1995), destinata a sanzionare, in presenza di specifica previsione del regolamento (Cass. II, n. 14735/2006) i condomini (dunque, i proprietari esclusivi e non anche i conduttori. In termini, cfr. Cass. II, n. 10837/1995) la cui competenza rientra ora tra i compiti dell'assemblea mentre, per il passato, si era ritenuto che si trattasse di una attività rientrante tra le attività ordinarie dell'amministratore – ai sensi dell'art. 1130, n. 1), c.c. – che poteva esercitarle senza la necessità di alcuna delibera autorizzativa (così Cass. II, n. 14735/2006). La previsione, nella sua originaria versione quanto agli importi ivi contemplati a titolo di sanzione, aveva inoltre positivamente superato anche il vaglio di legittimità della Corte costituzionale, avendo quest'ultima chiarito che, per quanto «effettivamente la misura della sanzione pecuniaria in esame [pari ad un importo «fino a lire cento»], di cui il remittente lamenta l'irrisorietà, non ha subito modifiche nel tempo, non essendo mai stata interessata da adeguamenti o rivalutazione [...] tuttavia [...] appartiene alla discrezionalità del legislatore ogni determinazione relativa all'entità delle sanzioni, la cui modifica è quindi al medesimo riservata» (Corte Cost., n. 388/1997).

La novella legislativa ha lasciato tuttavia irrisolti alcuni problemi applicativi, non essendo stato chiarito chi, ed in quali termini, debba provvedere alla contestazione dell'infrazione né, tampoco, con quali modalità la «multa» possa essere censurata dal destinatario. Si è allora proposta, in precedenza, una ricostruzione della norma che, mediante una lettura in combinato disposto con l'art. 1117-quater c.c., preveda il coinvolgimento dell'assemblea a seguito di segnalazione (da intendersi, quindi, alla stregua di una vera e propria contestazione) dell'amministratore; per identità di ratio, poi, la medesima forma di procedimentalizzazione assembleare dovrebbe essere seguita anche laddove le violazioni al regolamento noi coinvolgano la destinazione d'uso di parti comuni (si pensi, ad esempio, al divieto di destinazione di proprietà esclusiva a determinati usi o attività).

La maggioranza indicata dal comma 2 dell'art. 1136 c.c. è prevista, ancora, per quanto concerne l'attivazione di un sito  internet  del condominio (ai sensi dell'art. 71-ter c.c.), ovvero l'autorizzazione dell'amministratore a partecipare al procedimento di mediazione (ai sensi dell'art. 71-quater, comma 3, c.c.), nonché per l'approvazione della proposta di mediazione (ai sensi dell'art. 71-quater, comma 5, c.c.).

Per quanto concerne la prima ipotesi, l'amministratore, ove l'assembla lo richieda, è tenuto ad attivare un sito internet del condominio che consenta agli aventi diritto di consultare ed estrarre copia in formato digitale dei documenti previsti dalla delibera assembleare; specifica la norma, poi, che le spese per l'attivazione e la gestione del sito sono poste a carico dei condomini, con un chiarimento probabilmente superfluo, non essendovi dubbio che la spesa (al pari di quanto avviene per il conto corrente condominiale, pur non essendo in quel caso prevista una disposizione analoga) gravi sul condominio e non certo sull'amministratore: si tratta, dunque, di una nuova competenza dell'assemblea, cui spetta altresì il compito di circoscrivere i documenti in formato digitale che possono essere visionati e scaricati.

Tali spese – ovviamente da porsi a carico di tutti condomini, anche quelli che non utilizzano il web, trattandosi di un servizio, pur suscettibile di utilizzazione separata, né particolarmente oneroso, né tantomeno voluttuario, ai sensi dell'art. 1121 c.c. – devono tenere conto, da un lato, del costo della progettazione e della creazione del sito, che varia in relazione a vari fattori (numero dei condomini, complessità della grafica, servizi offerti, funzioni aggiuntive, ecc.), e, dall'altro, del canone per la gestione annuale (Celeste, 2017).

Se, da un lato, il sito consente all'amministratore di pubblicare i dati condominiali, rendendoli immediatamente disponibili online e consultabili in tempo reale, dall'altro la sua gestione implica evidenti problemi di tutela della riservatezza dei dati sensibili dei condomini. Come ha suggerito attenta dottrina (Celeste 2017), infatti, molteplici e svariati potrebbero essere i «dati condominiali» da inserire, sulla base della scelta compiuta dall'assemblea: ad esempio un'apposita sezione può essere dedicata al c.d. storico (comprendendo, ad esempio, il regolamento di condominio, le tabelle millesimali, la polizza globale del fabbricato, l'imbocco in fogna, il certificato di abitabilità dello stabile, e quant'altro); un'altra sezione può contenere i vari bilanci – preventivi e consuntivi, ordinari e straordinari – suddivisi per le diverse annualità; una sezione ad hoc può interessare le riunioni dell'assemblea (ordinaria e straordinaria), con le relative convocazioni ed i verbali, una volta scannerizzato il cartaceo, messo in rete in formato pdf e agevolmente scaricabile con un'operazione di download; il sito internet, ancora, potrebbe sostituire il registro di anagrafe condominiale di cui al novellato art. 1130, n. 6), c.c. (nel senso che il condomino, in relazione all'unità immobiliare di sua proprietà, potrebbe essere abilitato, compilando un apposito modulo, a fornire tutte le informazioni in ordine alla stessa – appartamento, garage, posto auto, cantina, ecc. – indicando le sue generalità – complete di codice fiscale, residenza, domicilio, recapiti – segnalando la presenza di titolari di diritti reali e personali di godimento, e comunicando, altresì, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare); particolare importanza inoltre, potrebbe rivestire il sito nell'ottica del controllo degli estratti di conto corrente e ad ogni altra eventuale documentazione di natura contabile (nel sito internet si potrebbe indicare, ad esempio, il numero di conto corrente intestato al condominio, l'ufficio postale o bancario presso il quale è attivo, il codice Iban si da consentire a ciascun condomino il tracciamento di tutte le movimentazioni riguardanti i prelevamenti ed i versamenti, con l'indicazione delle rate classificate e raggruppate per ogni unità immobiliare); il sito internet può includere, ancora, l'elenco dei fornitori e somministratori del condominio (ad esempio il manutentore dell'impianto termico, la ditta che si occupa delle pulizie delle scale e dell'androne, il controllore dell'impianto di ascensore, la società addetta alla fornitura idrica, ecc.). Una risposta all'evidenziato quesito si rinviene nel vademecum predisposto dal Garante della privacy il 10 ottobre 2013 (cui si è già fatto cenno in tema di videosorveglianza), ove si è ribadito, in via generale, che «solo le persone che ne hanno diritto possono consultare ed estrarre copia dei documenti condominiali», sicché «devono essere previste delle procedure (ad esempio l'autenticazione tramite password individuale), che consentano l'accesso sicuro a tali documenti digitali», salvo «prestare particolare attenzione nel caso in cui siano trattati, tra l'altro, i dati sensibili – come quelli che si riferiscono alle condizioni di salute di una persona – o quelli giudiziari».

Avuto riguardo alla tematica della mediazione, invece, a seguito della novella introdotta dall'art. 25, della l. n. 220/2012 (che ha inciso non già sulle disposizioni del codice civile quanto, piuttosto, sul d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell'art. 60 l.  18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali») e del d.l. n. 69/2013 (c.d. «Decreto Fare, che ha reintrodotto anche in materia condominiale, a far data dal 21 settembre 2013, la mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, dopo che essa era stata «espulsa» dall'ordinamento a seguito della pronunzia della Corte Cost., n. 272/2012, che aveva invece dichiarato l'illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, delle norme con cui il d.lgs. 28 cit. aveva previsto il carattere obbligatorio della mediazione, non avendo previsto il legislatore delegante, né direttamente, né indirettamente il potere del Governo di introdurre il tentativo obbligatorio di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale), chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa, tra l'altro, ad una controversia in materia di condominio è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, il quale rappresenta condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Quanto alle modalità di svolgimento del procedimento di mediazione, l'art. 71-quater disp. att. c.c. attualmente prevede, pur dopo la novella che ha interessato la norma a seguito della cd. Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 149 del 2022), che per «controversie in materia di condominio», ai sensi dell'art. 5, comma 1, del decreto legislativo n. 28/2010, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l'attuazione del codice: quindi, tutte le controversie relative, sia agli artt. da 1117 a 1139 c.c., sia alle fattispecie disciplinate nelle disposizioni di attuazione del codice stesso. Per capire la rilevanza ed il numero delle materie coinvolte, a titolo meramente esemplificativo possono ricordarsi: le impugnazioni delle deliberazioni assembleari (art. 1137 c.c.); le questioni attinenti alla ripartizione delle spese (artt. 1123,1124,1125 e 1126 c.c.); la natura comune o esclusiva dei beni o degli impianti facenti parte dell'edificio (comprese le questioni attinenti al «condominio parziale») (art. 1117 c.c.); le problematiche attinenti alle innovazioni (nelle varie loro forme di: consentite, vietate e gravose/voluttuarie) (artt. 1120 e 1121 c.c.); le opere eseguite dal singolo partecipante sull'unità immobiliare di sua proprietà esclusiva (art. 1122 c.c.), compresa la sopraelevazione (art. 1127 c.c.); il perimento e/o la ricostruzione dell'edificio (art. 1128 c.c.); lo scioglimento del condominio (artt. 61 e 62 disp. att. c.c.); la materia della nomina, conferma e revoca dell'incarico di amministratore e al suo svolgimento (artt. 1129, 1130, 1131, 1133 e 1135 c.c.); il c.d. dissenso alle liti (art. 1132 c.c.); le anticipazioni (di spesa) effettuate dal singolo condomino (art. 1134 c.c.); ogni problematica riguardante il regolamento (approvazione del documento e/o integrazione/modifica delle relative clausole) (art. 1138 c.c.); la riscossione delle quote dovute dai singoli per oneri condominiali, comprese le questioni sull'insorgenza del relativo obbligo e sulle responsabilità gravanti sui vari interessati (art. 63 disp. att. c.c.); le questioni concernenti la redazione, l'approvazione e la revisione delle tabelle millesimali (artt. 68 e 69 disp. att. c.c.).

 Anche a tale proposito la casistica giurisprudenziale è abbastanza ampia, giacché La formulazione, apparente chiara contenuta nell’art. 71-quater, comma 1, disp. att. c.c. lascia in ogni caso spazio a numerosi dubbi interpretativi, risolti in vario modo dalla giurisprudenza di merito. Così, ad esempio, rinviando per un approfondimento, sul punto, al commento alla disposizione in esame, si è ritenuta non rientrante nell’ambito di operatività della mediazione obbligatoria l'azione con la quale un creditore del condominio agisce per ottenere la condanna dell'amministratore a consegnare i nominativi ed i dati dei condòmini morosi, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c. (Trib. Catania, 6 ottobre 2023); è stata, altresì, ritenuta non soggetta al procedimento di mediazione obbligatoria la controversia avente ad oggetto l'azione promossa dall'appaltatore nei confronti di un condominio, volta ad ottenere il pagamento del corrispettivo dovuto in forza della stipulazione di contratto di appalto di lavori condominiali (Trib. Napoli, 16 marzo 2023); allo stesso modo, non rientrano tra quelle per cui è previsto l'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione le controversie in materia di danni da infiltrazioni, avendo esse ad oggetto il risarcimento da fatto illecito ex art. 2051 c.c. (Trib. Taranto, 23 aprile 2024; Trib. S.M.C.V., 13 febbraio 2024; Trib. Napoli, 10 gennaio 2023); non ultimo, non soggiacciono alla mediazione obbligatoria le controversie instaurate con i terzi estranei al condominio (Trib. Taranto, 22 agosto 2017; Trib. Milano, 21 luglio 2016).

In dottrina si è osservato come l’operatività dell'art. 71-quater disp. att. c.c. non è subordinata alla semplice presenza in giudizio del condominio, «giacché l'obbligo de quo non si radica dallo status di «condominio», bensì dalla ricorrenza di una delle situazioni sopra menzionate e individuate al comma 1 dell'art. 71-quater disp. att. c.c. [Sicché], non una qualsiasi lite intervenga tra soggetti proprietari di unità immobiliari site nell'edificio condominiale debba essere soggetta alla condizione di procedibilità ivi prevista, come ad esempio una controversia attinente alla compravendita di un appartamento, ai vizi denunciati, e quant'altro; inoltre, non tutte le azioni proposte da o contro un condominio rivestono per ciò solo natura condominiale: serie perplessità potrebbero, infatti, sorgere per le cause, in tema di inadempienza contrattuale, che registrino, come contendenti, un condominio ed un fornitore di beni e servizi o un appaltatore (si pensi all'impresa che non ha eseguito a regola d'arte i lavori di rifacimento della facciata). Tali controversie sono soltanto lato sensu condominiali, nel senso che uno dei soggetti coinvolti è il condominio, ma non lo sono per la specifica natura della controversia sottoposta all'autorità giudiziaria. Ne consegue che, dall'ambito di applicazione della mediazione obbligatoria, dovrebbero essere escluse tutte quelle cause che attengono a rapporti, instaurati dal condominio con un soggetto terzo, per i quali il primo assume la veste di ordinaria parte contrattuale, in primis, il contratto di appalto disciplinato negli artt. 1655 ss. c.c. – e le azioni derivanti dalle garanzie ivi previste ex art. 1667 e 1669 c.c. – nonché il contratto di somministrazione di cui agli artt. 1559 ss. c.c.» (TARANTINO).

 La condizione di procedibilità è stata, al contrario, ritenuta applicabile al giudizio di revoca giudiziale dell'amministratore di condominio (Cass. VI, n. 1237/2018; Trib. Avellino, 20 novembre 2019; Trib. Vasto, 4 maggio 2017; Trib. Padova, 24 febbraio 2015. Anche se in senso contrario cfr. App. Napoli, 18 aprile 2024, trattandosi di procedimento che si svolge nelle forme del procedimento in camera di consiglio), a quello di impugnazione delle delibere assembleari (Trib. Milano, 2 dicembre 2016; Trib. Savona, 10 maggio 2015), a quello volto al recupero dei crediti condominiali (Trib. Milano, 9 dicembre 2015), nonché alla controversia avente ad oggetto la domanda risarcitoria proposta da un condomino, oltre che nei confronti di altri soggetti, anche verso l'amministratore condominiale per suo asserito inadempimento al proprio mandato (Trib. Bologna, 11 marzo 2022.

Con riferimento precipuo al procedimento di mediazione, peraltro, va segnalato che, nella vigenza dell’originaria formulazione dell’art. 71-quater disp. att. c.c. la legittimazione processuale (attiva e passiva) dell'amministratore incontrava un ulteriore sensibile limite: ed infatti, poiché ai sensi del comma 3 dell'art. 71-quater cit. l'amministratore di condominio era legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria solo previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione, ne conseguiva che la condizione di procedibilità delle "controversie in materia di condominio" non potesse dirsi realizzata qualora l'amministratore, anche nelle materie di propria pacifica competenza e rispetto alle quali, quindi, lo stesso sarebbe stato dotato di autonoma legittimazione processuale, avesse partecipato all'incontro davanti al mediatore senza la previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione né procedere al relativo svolgimento, come prevede il comma 1 dell'art. 8 d.lgs. n. 28/2010 (Cass. VI, n. 10846/2020).

Si è allora osservato in dottrina (CHIESI, 2025) come tale complessivo assetto finisse per condurre a conclusioni, invero, paradossali: l’amministratore, cioè, ben avrebbe potuto chiedere ed ottenere un decreto ingiuntivo ex art. 63, comma 1, prima parte, disp. att. c.c., senza autorizzazione dell’assemblea (trattandosi di attività rientrante nelle proprie attribuzioni ex art. 1130, n. 3, c.c. e, anzi, a tratti doverosa, ex art. 1129, comma 9, c.c.) mentre, nel successivo giudizio introdotto per effetto dell’opposizione ex art. 645 c.p.c. del condomino ingiunto, in mancanza dell’autorizzazione assembleare, egli non avrebbe potuto ritualmente introdurre la procedura di mediazione, con conseguente dichiarazione di improcedibilità dell’originaria richiesta monitoria e revoca del decreto opposto (Cass., S.U. n. 19596/2020).

Attualmente, invece, a seguito della novella del D.Lgs. 28 del 2010, come realizzata dalla cd. Riforma Cartabia (D.Lgs.n. 149 del 2022) l’intervento dell’assemblea è stato ricollocato, dall’art. 5-ter., in un momento successivo e, precisamente, nella fase di delibazione dell’accordo o della proposta: all’esito del primo incontro innanzi al mediatore, infatti, sia che sia stato raggiunto un accordo sia che, al contrario, sia stata formulata una proposta, il verbale al quale l’uno o l’altra sono allegati vanno sottoposti all'approvazione dell'assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell'accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’art. 1136 c.c. (con l’ulteriore conseguenza che, in caso di mancata approvazione entro detto termine, la conciliazione si intende non conclusa). Il passaggio assembleare e l’individuazione di maggioranze non più fisse (secondo l’originaria previsione contenuta all’art. 71-quater, comma 5, disp. att. c.c., per la conclusione dell’accordo occorreva la maggioranza prevista dal comma 2 dell’art. 1136 c.c.) dipendono, da un lato, dalla considerazione che il potere di transigere spetta all’assemblea e non certo all’amministratore (Cass. II, n. 10846/2020) e, dall’altro, che, quando la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni (ipotesi in cui l’amministratore può certamente partecipare al procedimento di mediazione, sia pure non nell’ambito dei propri ordinari poteri di rappresentanza, bensì quale procuratore speciale dei singoli comproprietari) è comunque necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. (Cass. II, n. 821/2014) - cfr. infra.

 Si pone, infine, nel regime vigente anteriormente alla Riforma Cartabia il problema (ormai superato, per effetto dell’art. 5-ter del D.Lgs. n. 28 del 2010) della validità di una clausola regolamentare (necessariamente approvata con una maggioranza non inferiore a quella originariamente prevista, in via ordinaria, dall’art.71-quater, pena sua nullità per violazione dell'art. 1138, comma 4, c.c., in relazione all'inderogabilità delle norme che disciplinano le maggioranze assembleari) che preveda, in generale, la preventiva autorizzazione alla partecipazione dell'amministratore alla mediazione obbligatoria prevista dal d.lgs. n. 28 del 2010 esonerando così, lo stesso, ad essere autorizzato di volta in volta dall'assemblea.

La questione è stata affrontata in dottrina (Salciarini), la quale partendo dal presupposto che la riforma non si è in alcun modo preoccupata di indicare se il citato art. 71-quater disp. att. c.c. sia derogabile o meno dal regolamento di condominio, esclude tale possibilità, giustificando affondando tale soluzione con la natura giuridica precetto: la previsione di una deliberazione autorizzativa ad hoc, in quanto imposta direttamente dalla legge e coinvolgendo interessi che travalicano l'ambito di disponibilità dei singoli condomini, ha – si dice – carattere «pubblicistico»; a ciò aggiungasi che un'autorizzazione preventiva (contenuta nel regolamento) frustrerebbe la stessa ratio della norma, che è quella di sollecitare una decisione consapevole dell'assemblea, la quale solo attraverso la discussione sula specifica lite passiva è in condizione di valutare, caso per caso, se partecipare o meno allo specifico procedimento di mediazione. Ne consegue che il regolamento di condominio (nemmeno quello contrattuale, vale a dire predisposto dall'originario costruttore ovvero approvato all'unanimità dei partecipanti) non può derogare l'art. 71-quater disp. att. c.c., eliminando la necessità di una preventiva deliberazione assembleare autorizzativa per la partecipazione del condominio al procedimento di mediazione ai sensi del d.lgs. n. 28 del 2010, con conseguente nullità di qualsiasi contraria previsione.

 Per quanto concerne, infine, l'approvazione della proposta di mediazione, si è già dato conto supra del regime attuale, conseguente alla cd. Riforma Cartabia. Nel passato, invece, l'eventuale accordo conciliativo andava approvato dall'assemblea condominiale con la medesima maggioranza richiesta per l'autorizzazione all'amministratore a partecipare alla mediazione e, cioè, quella prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c. Dunque, la medesima maggioranza richiesta per deliberare sulle liti attive e passive. Sennonché era dubbio se essa potesse essere sufficiente per approvare qualunque tipo di conciliazione. La questione si poneva considerando l'orientamento, pacifico in giurisprudenza, per cui i sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. (applicabile al condominio in virtù del rinvio operato dall'art. 1139 c.c.), è richiesto il consenso di tutti i comunisti – e, quindi, della totalità dei condomini – per gli atti di alienazione del fondo comune, o di costituzione su di esso di diritti reali, o per le locazioni ultranovennali, con la conseguenza che tale consenso è necessario anche per la transazione che abbia ad oggetto i beni comuni (cfr., su tale specifico profilo, Cass. VI-2, n. 514/2022) potendo essa annoverarsi, in forza dei suoi elementi costitutivi (e, in particolare, delle reciproche concessioni), fra i negozi a carattere dispositivo: sicché, non rientrava nei poteri dell'assemblea condominiale – che decide, invece, con il criterio delle maggioranze – autorizzare l'amministratore del condominio a concludere transazioni che abbiano ad oggetto diritti comuni (Cass. II, n. 7201/2016). Ad ulteriore specificazione del principio che precede, Cass. II, n. 1234/2016, chiarisce che l'assemblea può deliberare a maggioranza su tutto ciò che riguarda le spese di interesse comune e, quindi anche sulle transazioni che a tali spese afferiscano, essendo necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c., solo quando la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni. A ciò si aggiunga, indipendentemente dalla conclusione di transazioni con carattere dispositivo, che se la maggioranza qualificata dell'art. 1136, comma 2, c.c. «copre» la maggior parte delle operazioni condominiali (tra queste: l'approvazione dei bilanci e/o delle ripartizioni di spesa; l'approvazione di opere di manutenzione ordinaria e/o straordinaria; delibere concernenti tutte le materie speciali previste dall'art. 1136, comma 4, c.c.; le innovazioni tecnologiche contemplate dall'art. 1120, comma 2, c.c.; l'approvazione del regolamento e delle tabelle millesimali), cionondimeno vi sono ipotesi che richiedono maggioranze più elevate (ad esempio, quella dell'art. 1136, comma 5, c.c., in relazione alle innovazioni consentite ex art. 1120, comma 1, c.c., ovvero quella ancor più rinforzata contemplata dall'art. 1117-ter c.c. in tema di modifiche alle destinazioni d'uso delle parti comuni) ovvero, ancora, che richiedono necessariamente l'unanimità dei consensi (è il caso delle ripartizioni di spesa in deroga ai criteri legali, ex art. 1123, comma 1, c.c., ovvero, all'approvazione di clausole regolamentari di natura contrattuale o delle tabelle millesimali convenzionali).

Sicché si poneva, in ultima analisi, il problema della interferenza dell'art. 71-quater disp. att. c.c. con l'art. 1136 c.c. in termini di specialità o meno.

Si era allora osservato che, in un sistema di norme dove le maggioranze previste dalla legge sono assolutamente vincolanti ed inderogabili (ex art. 1138, comma 4, c.c.), è da escludersi che un'eventuale deroga avvenga per il tramite di una disciplina – sicuramente posteriore e, quindi, astrattamente idonea a porsi rispetto alla prima in rapporto di specialità, ma – dettata ad altri fini (in specie, la deflazione del contenzioso giudiziario). «Meglio quindi ritenere che la previsione dell'art. 71- quater disp. att. c.c. sia una norma di mera garanzia, finalizzata cioè ad ottenere un'approvazione dell'accordo di conciliazione con una maggioranza superiore a quelle ordinariamente (cioè, per deliberazioni al di fuori della mediazione) previste dal codice civile, e non certo finalizzata a prescrivere maggioranze inferiori a quelle già poste dalla disciplina condominiale o, addirittura, dal diritto dei contratti. In altri termini, la maggioranza prevista dall'art. 71-quater non va posta in relazione con i quorum maggiori del codice civile (o addirittura con la necessità dell'unanimità), ma con i quorum minori (i quali, come visto, non sono affatto pochi). Detto ancora in altro modo, l'art. 71-quater – per l'accordo di conciliazione – determina l'effetto di aumentare i quorum più bassi, ma non quello di abbassare quelli più alti che rimarranno sempre vincolanti (come pure l'unanimità) anche nel caso in cui la medesima «decisione» sia contenuta in un accordo di conciliazione» (Salciarini).

Il potere di autotutela assembleare

L'espressione “autotutela” indica il potere, riconosciuto ad un soggetto, di farsi giustizia da sé. Tale facoltà, assente nel diritto penale è invece centrale nel diritto amministrativo e trova applicazione nel diritto civile con precipuo riferimento, tra l'altro, al riconosciuto potere dell'assemblea delle società per azioni di annullare una propria precedente deliberazione. In particolare, l'art. 2377, comma 8, c.c. prevede che:“l'annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto. In tal caso il giudice provvede sulle spese di lite, ponendole di norma a carico della società, e sul risarcimento dell'eventuale danno.” L'adozione della nuova delibera, infatti, “sana” i vizi di quella adottata in precedenza, rendendo l'operato dell'organo collegiale perfettamente legittimo.

  Orbene, la possibilità di “doppiare” una precedente delibera, espressamente riconosciuta per le società di capitali, è dalla giurisprudenza costante estesa, per identità di ratio, anche all'ambito condominiale (Cass. II, n. 852/2000; Cass. II, n. 11961/2004. Nella giurisprudenza di merito cfr. App. Napoli, 22 gennaio 2021; Tirb. Lucca, 12 gennaio 2021; Trib. Roma, 15 aprile 2020), riconoscendosi all'organo collegiale il potere di intervenire immediatamente su un proprio precedente atto, ritenuto illegittimo o invalido, ed evitare, per tale via, una possibile pronuncia giudiziale che stigmatizzi detta invalidità: la sostituzione della delibera impugnata con altra adottata dall'assemblea in conformità della legge, infatti, facendo venir meno la specifica situazione di contrasto fra le parti, determina - analogamente a quanto disposto dal cit. art. 2377, comma 8, c.c. - la cessazione della materia del contendere (Cass. VI-2, 20071/2017; Cass. II, n. 2999/2010), rimanendo affidata al giudice soltanto la pronuncia finale sulle spese sulla base del principio della soccombenza virtuale. Occorre, all'uopo, tuttavia, che la “nuova” delibera sia adottata in conformità della legge e del regolamento condominiale e regoli le medesime materie oggetto di quella sostituenda, giacché - diversamente - alcun effetto sostitutivo potrebbe verificarsi in concreto (Cass. VI-2, n. 10847/2020).

  La più recente dottrina (Ponsiglione, Avallone, 2021) riorganizza tali arresti, osservando, a margine di Cass. VI-2, n. 18186/2021, che “per giurisprudenza consolidata e risalente della Suprema Corte, trova applicazione, per identità di ratio, la disposizione dell'art. 2377 ultimo comma c.c., secondo cui una deliberazione dell'assemblea dei soci delle società per azioni può essere sostituita con altra presa in conformità della legge (v. Cass. n. 1561 del 1976; Cass. n. 8622 del 1998 e ribadito da Cass. n. 8515 del 2018). Ne discende, secondo l'orientamento consolidato della Suprema Corte, che in tema di impugnazione delle delibere condominiali, la sostituzione della delibera impugnata con altra adottata dall'assemblea in conformità della legge, facendo venir meno la specifica situazione di contrasto fra le parti, determina la cessazione della materia del contendere, analogamente a quanto disposto dall'art. 2377, comma 8, c.c. dettato in tema di società di capitali (Cass. Sez. 6 - 2, 11/08/2017, n. 20071; Cass. Sez. 2, 10/02/2010, n. 2999; Cass. Sez. 2, 28/06/2004, n. 11961), rimanendo affidata soltanto la pronuncia finale sulle spese. In sostanza, il potere riconosciuto all'assemblea condominiale di sostituire o revocare una precedente delibera adottata dall'assemblea stessa costituisce un tipico esempio di esercizio del potere di autotutela, che garantisce all'organo collegiale di intervenire immediatamente su un proprio precedente atto ritenuto illegittimo o invalido, evitando, per tal via, una possibile pronuncia giudiziale che stigmatizzi detta invalidità… La declaratoria di cessata materia del contendere, nel determinare la chiusura del procedimento nel quale è pronunciata, comporta la necessità di individuare altresì la parte cui addebitare le spese di lite. A tal fine è stata elaborata la nozione di soccombenza virtuale”.

La facoltà di adottare delibere in autotutela, peraltro, può essere esercitata dall'assemblea del condominio anche revocando una o precedenti delibere non impugnate da alcuno dei partecipanti: l'organo collegialeha, infatti, il potere di decidere le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nonché di modificare quelle in atto,  anche sulla base di una rivalutazione - il cui sindacato è precluso al giudice di merito, se non nei limiti dell'eccesso di potere - dei dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, non producendosi alcun autonomo diritto acquisito in capo ai condomini, ovvero ai terzi, soltanto per effetto ed in sede di esecuzione della precedente delibera (Cass. II, n. 2636/2021).

«Casistica» delle competenze assembleari.

Giacché l'art. 1135 c.c. non esaurisce il campo di attribuzioni dell'assemblea – che potrebbe, anzi, definirsi organo a competenza «residuale», nel senso che spetta ad essa ogni decisione in ordine a ciò che non rientra nella competenza dell'amministratore di condominio (ex lege ovvero nell'ambito dei maggiori poteri assegnatigli dal regolamento o da singole delibere) o nelle legittime facoltà dei singoli proprietari esclusivi, appare infine opportuna una breve, quanto utile, carrellata di decisioni che hanno affrontato, in materie diverse (alcune, peraltro, già affrontate nel corso della presente trattazione), i poteri dell'organo assembleare: 1) la maggioranza richiesta per il conferimento della direzione dei lavori di straordinaria manutenzione, proprio giacché incidente sulla puntuale esecuzione del contratto di appalto è quella prescritta dall'art. 1136, comma 4, c.c., in quanto la nomina del direttore dei lavori è strettamente collegata alla decisione di far eseguire gli interventi manutentivi straordinari (Trib. Civitavecchia, 11 aprile 2007); 2) l'approvazione o la ratifica di spese urgenti sostenute può essere deliberata con la normale maggioranza assembleare (Trib. Verona, 5 aprile 2004); 3) in tema di servizi comuni, l'assemblea, con deliberazione assunta a maggioranza, può modificare, sostituire o sopprimere un servizio, anche laddove il regolamento di condominio, nell'interesse collettivo, istituisca e disciplini il servizio nell'interesse del gruppo dei condomini: ed, infatti, accertato che quel determinato servizio è diventato oneroso e va surrogato con altri mezzi idonei, l'assemblea può deliberarne la sostituzione a maggioranza, trattandosi di una modificazione delle modalità di svolgimento del servizio, che non incide sul diritto di cui sono titolari i singoli condomini (Cass. II, n. 6915/2007); 4) la modifica dell'uso di un bene comune (nel caso di specie, transito veicolare sulla cosa comune, già adibita a transito pedonale) non concreta un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2 (ora comma 4), c.c., non implicando alcun mutamento di destinazione, né comportando alcuna imputazione, trasformazione, modificazione della consistenza o sfruttamento del bene per fini diversi da quelli precedenti (Cass. II, 11943/2003); 5) l'installazione di un comando elettrico che serva il cancello carraio di accesso all'area condominiale non necessita di quorum particolari in quanto l'automazione non incide sul godimento del bene comune in violazione del disposto di cui all'art. 1120, comma 2 (ora comma 4), c.c.: dunque, per l'approvazione della relativa delibera opera la regola generale di cui all'art. 1136, comma 3, c.c., valida per la seconda convocazione assembleare (Trib. Trani 3 febbraio 2007); 6) la delibera assembleare con la quale venga disposta la chiusura di un'area di accesso al fabbricato condominiale con un cancello o con una sbarra comandati elettricamente e con consegna del congegno di apertura e di chiusura ai proprietari delle singole unità immobiliari, rientra nei poteri dell'assemblea dei condomini, attenendo all'uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione, senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, e non incorre, pertanto, nel divieto stabilito dall'art. 1120, comma 2 (ora comma 4), c.c. per le innovazioni pregiudizievoli delle facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull'essenza del bene comune, né alterandone la funzione o la destinazione: essa, pertanto, può essere approvata a maggioranza semplice (Cass. II, n. 9999/1992); 7) la mancanza di tabelle millesimali applicabili in relazione alla spesa effettuata consente all'assemblea di adottare, a titolo di acconto e salvo conguaglio, tabelle provvisorie, per le quali è sufficiente che la delibera sia assunta a maggioranza, essendo l'unanimità necessaria soltanto per l'approvazione delle tabelle definitive (Cass. II, n. 24670/2006); 8) l'assemblea dei condomini non ha il potere di disporre delle cose comuni costituendo su di esse diritti reali a favore di condomini o di terzi, a meno che la relativa deliberazione non sia assunta all'unanimità da tutti i condomini né – e salvo che alla stessa intervengano tutti i condomini, i quali ivi esprimano voto favorevole unanime – di autorizzare l'amministratore del condominio a concludere transazioni che abbiano ad oggetto diritti comuni (Cass. II, n. 4258/2006); 9) l'installazione di un servoscala per facilitare l'accesso al portatore di handicap costituisce un'opera provvisoriamente sostitutiva rispetto all'installazione dell'ascensore: non implica rinunzia a quest'ultimo e può essere deliberata con la maggioranza ridotta prescritta dall'art. 1136, commi 2 e 3, c.c. (Cass. II, 8286/2005); 10) la delibera assembleare con cui aree condominiali scoperte vengano destinate, in parte, a parcheggio delle autovetture dei singoli condomini ed, in parte, a parco giochi va approvata con la maggioranza qualificata dei condomini ex art. 1136, comma 5, c.c. – con la quale possono essere disposte tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni (art. 1120, comma 1, c.c.) – non essendo all'uopo necessaria l'unanimità (Cass. II, n. 24146/2004. Trattasi, tuttavia, di fattispecie antecedente alla novella del 2012 ed alla introduzione dell'art. 1117-ter c.c.); 11) la trasformazione, in tutto o in parte, di un bene comune in bene di proprietà esclusiva di uno dei condomini può essere validamente deliberata dai condomini soltanto all'unanimità e, cioè, mediante una decisione che, nella sostanza, assuma valore contrattuale (Cass. II, n. 17397/2004; Cass. II, n. 13783/04); Simmetricamente, la comproprietà di una o più cose, non incluse tra quelle elencate nell'art. 1117 c.c. (quale, nella specie, un tetto avente funzione di copertura di una sola delle unità immobiliari compresa in un condominio orizzontale), può essere attribuita a tutti i condomini quale effetto dell'acquisto individuale operato con i rispettivi atti di una quota di tale bene, oppure in forza di un contratto costitutivo di comunione, ai sensi degli artt. 1350, n. 3, e 2643, n. 3, c.c., recante l'inequivoca manifestazione del consenso unanime dei condomini, espressa della forma scritta essenziale, alla nuova situazione di contitolarità degli immobili individuati nella loro consistenza e localizzazione (Cass. II, n. 10370/2021);   12) per la validità della delibera assembleare avente ad oggetto la ricognizione circa la perdurante vigenza e vincolatività di una disposizione del regolamento condominiale non avente natura contrattuale non è richiesta l'unanimità dei consensi (Cass. II, n. 1558/2004); 13) le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini o contro terzi e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell'edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi possono essere esperite dall'amministratore solo previa autorizzazione dell'assemblea, ex art. 1131, comma 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 4, c.c. (Cass. II, n. 5147/2003); 14) la previsione di comproprietà del passo carrabile di accesso dalla pubblica strada ai box auto contenuta all'interno di un regolamento condominiale di natura contrattuale, con annessa tabella di ripartizione di tale diritto di proprietà in carature millesimali, non implica alcuna limitazione del potere dell'assemblea di deliberare, a maggioranza, l'accollo ai proprietari dei box della tassa comunale di occupazione di suolo pubblico (t.o.s.a.p. – ora c.o.s.a.p.) la quale rappresenta una spesa relativa ad un servizio fruito esclusivamente dai detti proprietari: ed infatti, non trattandosi di norma regolamentare contenente criteri e tabelle delle spese, la delibera non incide in alcun modo sul diritto di comproprietà dei singoli condomini sull'area in questione (Cass. II, n. 2864/2003); 15) una delibera approvata all'unanimità dall'assemblea può essere modificata o revocata da una successiva, anche se assunta nel corso della medesima assemblea, e se approvata a maggioranza, purché col quorum richiesto dalla legge (Trib. Bergamo 27 aprile 2000); 16) l'istituzione di un servizio di guardiania notturna, destinato ad assicurare continuità, in determinati periodi dell'anno, ovvero in alcuni giorni della settimana, al servizio di vigilanza di norma assicurato dal portiere, deve essere approvato dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 3, c.c. (Trib. Napoli 21 marzo 2000); 17) la locazione ad un condomino per uso abitativo di un appartamento condominiale in precedenza concesso ad un condomino per uso deposito, non realizzando un mutamento di destinazione del bene comune quanto, piuttosto, una diversa utilizzazione dello stesso, può essere deliberata dall'assemblea con la maggioranza semplice di cui all'art. 1136, commi 2 e 3, c.c. (Cass. II, n. 8622/1988); 18) affinché l'amministratore sia legittimato a stipulare un contratto di assicurazione dello stabile condominiale, non é richiesto il consenso di tutti i condomini, occorrendo soltanto, ed anche nel caso di assicurazione di durata superiore ad un anno – nella specie ultranovennale – la deliberazione dell'assemblea, che deve essere assunta a maggioranza qualificata, non però ai sensi dell'art. 1136, comma 5, c.c. (trattandosi di un atto che non rientra nell'ambito delle innovazioni), bensì con quella prevista dall'art. 1136, commi secondo e quarto, c.c., sia in prima che in seconda convocazione (Cass. II, n. 15872/2010); 19) in relazione alla derogabilità dei criteri di ripartizione delle spese per la manutenzione e ricostruzione delle scale ex art. 1124 c.c., mentre la giurisprudenza tradizionale richiede la presenza di un regolamento contrattuale ovvero di una deliberazione adottata all'unanimità dei millesimi (Cass. II, n. 4699/1986), più recentemente Cass. II, n. 2018/1993 ha ritenuto che le spese in questione, attenendo all'organizzazione ed al funzionamento delle cose comuni destinate a servire i condomini in misura diversa, hanno natura tipicamente regolamentare e, quindi, la loro ripartizione ben può essere modificata a maggioranza; 20) i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall'art. 1123 c.c. o dal regolamento condominiale contrattuale possono essere modificati solo con l'unanimità dei consensi dei condomini (Cass. II, n. 6714/2010; Trib. Roma, 25 gennaio 2018). In proposito, Cass. SU, n. 9839/2021ha  evidenziato chel'azione di annullamento delle delibere assembleari costituisce la regola generale, ai sensi dell'art. 1137 c.c., come modificato dall'art. 15 della l. n. 220 del 2012, mentre la categoria della nullità ha un'estensione residuale ed è rinvenibile nelle seguenti ipotesi: mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali, impossibilità dell'oggetto in senso materiale o giuridico - quest'ultima da valutarsi in relazione al "difetto assoluto di attribuzioni" -, contenuto illecito, ossia contrario a "norme imperative" o all'"ordine pubblico" o al "buon costume". Pertanto, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell'assemblea previste dall'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c., mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell'esercizio di dette attribuzioni assembleari, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. (cfr., in senso conforme, Cass. II, n. 2580/2024). Appare, poi, perfino superfluo evidenziare che, ove sia dichiarata l'invalidità di un rendiconto che abbia suddiviso le spese facendo applicazione di un criterio convenzionale illegittimo, sorge in sede di predisposizione dei rendiconti per gli esercizi successivi l'onere per l'amministratore di tener conto delle ragioni di detta invalidità, ovvero di correggere i bilanci successivi a quello annullato, sottoponendo quelli rettificati nuovamente all'approvazione dell'assemblea (Cass. II, n. 20888/2023). In applicazione del principio che vuole che le modifiche ai criteri legali di ripartizione delle spese siano approvate all'unanimità, si può ulteriormente evidenziare che l'assemblea può, con tale modalità: 20.a) derogare alle previsioni contenute nell'art. 1126 c.c. (Cass. II, n. 5125/1993). In proposito, però, Cass. II, n. 5814/2016 ha precisato che, poiché – come detto – le attribuzioni dell'assemblea condominiale, previste dall'art. 1135 c.c., sono circoscritte alla verifica e all'applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge, e non comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri legali di riparto delle spese, deve ritenersi nulla e non meramente annullabile, anche se assunta all'unanimità, la delibera che modifichi il criterio legale di ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare stabilito dall'art. 1126 c.c., senza che i condomini abbiano manifestato l'espressa volontà di stipulare un negozio dispositivo dei loro diritti in tal senso. Tale nullità, peraltro, può essere fatta valere, a norma dell'art. 1421 c.c., anche dal condomino che abbia partecipato all'assemblea esprimendo voto conforme alla deliberazione stessa, purché alleghi e dimostri di avervi interesse, giacché non opera nel campo del diritto sostanziale la regola propria della materia processuale secondo cui chi ha concorso a dare causa alla nullità non può farla valere; 20.b) deliberare di ripartire sugli altri condomini i debiti derivanti dal mancato pagamento degli oneri condominiali da parte dei condomini morosi (Cass. II, n. 13631/2001); 21) La richiesta di somme spettanti al precedente amministratore a titolo di emolumenti è controversia che non rientra in quelle per le quali l'amministratore può agire autonomamente e quindi, al fine di costituirsi in giudizio, egli deve essere munito dell'autorizzazione dell'assemblea o di successiva convalida (Cass. II, n. 12525/2018);   22) l'assemblea del condominio ha il potere di decidere le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nonché di modificare quelle in atto, anche revocando una o precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti e stabilendone liberamente gli effetti, sulla base di una rivalutazione - il cui sindacato è precluso al giudice di merito, se non nei limiti dell'eccesso di potere - dei dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, non producendosi alcun autonomo diritto acquisito in capo ai condomini, ovvero ai terzi, soltanto per effetto ed in sede di esecuzione della precedente delibera(Cass. II, n. 2636/2021 , cit.); 23) la realizzazione di un "cappotto termico" sulle superfici esterne dell'edificio condominiale non rientra tra le innovazioni voluttuarie o gravose di cui all'art. 1121 c.c., né configura una cosa che è destinata a servire i condomini in misura diversa, oppure solo una parte dell'intero fabbricato ma, in quanto finalizzata alla coibentazione dell'edificio condominiale ed al miglioramento della sua efficienza energetica, va ricompresa tra le opere destinate al vantaggio comune dei proprietari, inclusi quelli dei locali terranei; ne consegue che, ove la sua realizzazione sia deliberata dall'assemblea, trova applicazione l'art. 1123, comma 1, c.c. per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (Cass. II, n. 10371/2021).).

24) L'assemblea di condominio, nell'esercizio dei poteri di gestione di cui all'art. 1135 c.c., può validamente autorizzare l'amministratore a stipulare una polizza assicurativa per la tutela legale, volta a coprire le spese processuali per tutte le azioni concernenti le parti comuni dell'edificio, promosse da o nei confronti del condominio, al fine di evitare pregiudizi economici ai condomini, non potendo siffatta deliberazione intendersi contraria all'art. 1132 c.c., stante la pressoché totale divergenza di contenuti e di funzione tra l'oggetto del contratto in esame e la menzionata norma, giacché quest'ultima: 1) esclude l'onere del dissenziente di partecipare alla sola rifusione delle spese del giudizio in favore della controparte nel caso d'esito della lite sfavorevole per il condominio, lasciandone tuttavia immutato, nell'inverso caso d'esito della lite favorevole, quello di partecipare alle spese affrontate dal condominio per la propria difesa, ove risultino irripetibili dalla controparte; 2) opera per le sole controversie eccedenti dalle attribuzioni demandate all'amministratore ex artt. 1130 e 1131 c.c., supponendo come condizione essenziale una specifica delibera di autorizzazione o ratifica dell'assemblea alla costituzione in giudizio dell'amministratore da cui estraniarsi; 3) postula una rituale manifestazione di dissenso del singolo condomino rispetto alla singola lite deliberata dall'assemblea, dissenso che, ad un tempo, non è impedito dalla stipula di una polizza per la tutela legale del condominio, né può impedire la conclusione di un tale contratto; 4) lascia comunque il condomino dissenziente identicamente esposto verso i terzi per le conseguenze negative della responsabilità del condominio, fornendogli soltanto un meccanismo di rivalsa (così Cass. II, n. 23254/2021)

Il funzionamento dell'assemblea: cenni e rinvio

Si rinvia, per quanto attiene alle modalità di funzionamento dell'assemblea al commento all'art. 1136 c.c.

Bibliografia

Amagliani, L'amministratore e la rappresentanza degli interessi condominiali, Milano, 1992, 168; Amendolagine, Costituzione del fondo speciale per opere straordinarie senza la corrispettiva approvazione dei lavori in assemblea, in condominioelocazione.it 20 marzo 2018; Bordolli, Gli impianti di videosorveglianza condominiale dopo la riforma, in Immobili & proprietà 2014, 92 ss.; Calzaro, L'amministratore del condominio, Milano, 1982, 35; Carrato, Il rapporto tra condominio e amministratore e l'ammissibilità della revoca tacita dell'incarico, in Corr. giur. 2015, 202 ss.; Castaldo-Russolillo, Quale quorum per la conferma dell'amministratore?, in condominioelocazione.it 20 febbraio 2018; Celeste, Il rapporto amministratore-assemblea tra margini di autonomia e limiti di ingerenza, in Immobili &  proprietà 2017, 11 ss.; Celeste, La revoca dell'amministratore del supercondominio è appannaggio della sola adunanza plenaria, in condominioelocazione.it 31 ottobre 2017; Celeste, Sito internet, in condominioelocazione.it, 2017; Celeste-Salciarini, La mediazione obbligatoria nel condominio, Milano, 2012; Celeste-Scarpa, Riforma del condominio. Primo commento alla legge 11 dicembre 2012 n. 220, Milano, 2013, 46 ss., 174 ss.; Chiesi-Crispino-Costabile-Landolfi-Sinisi-Troncone, Commentario sistematico del condominio e delle locazioni, Piacenza, 2014; Chiesi, Brevi spunti in tema di “mediazione condominiale”, in consulenza.it, 2025; Chiesi, Assemblea di condominio: delibera unica o più delibere?, in consulenza.it, 2018; Chiesi, Perimento dell’edificio e regime proprietario della nuova costruzione: il condominio risorge…quando meno te l’aspetti!, condominioelocazione.it; Cirla, La riforma del condominio: una realtà che necessita di nuove regole, in Immobili & proprietà 2011; Cirla-Monegat, Il fondo speciale per le opere straordinarie ed il trust, in Immobili & proprietà 2013, 552 ss.; Colonna, Commento agli artt. 1129 ss., in Commentario del Codice civile, diretto da Gabrielli, Della Proprietà, vol. III, a cura di Jannarelli-Macario, Torino, 2013, 333; Costabile, Il diritto del partecipante al rimborso delle spese necessarie alla conservazione della cosa comune, in Immobili & Proprietà 2016, 485; Crescenzi, Le controversie condominiali, Padova, 1991, 219; De Rentis, L'amministratore del condominio degli edifici, Padova, 1995, 20 e ss.; De Rentis-Redivo-Nicoletti-Ferrari, Trattato del condominio, Padova, 2008, 885; Ditta, Eccesso di potere, in condominioelocazione.it, 2018; Dogliotti-Figone, Il condominio, Torino, 2001, 380; Gallucci, Nulla la delibera che vieta al condomino l'installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto, in Immobili & proprietà 2015, 142 ss.; Ginesi, Appalto per opere straordinarie in condominio: i poteri dell'assemblea, in Immobili &  proprietà, 2017, 353 ss.;  Giordano,-Chiesi, La posizione di garanzia dell’amministratore di condominio tra reati omissivi e presunti doveri civilistici, in consulenza.it, 5 giugno 2020; Girino-Baroli, Condominio negli edifici (voce), in Dig. disc. priv., sez. civ., 1988; Guida, È nulla la nomina dell''amministratore che non ha frequentato il corso annuale di aggiornamento, in condominioelocazione.it, 7 giugno 2017; Lazzaro-Stincardini, L'amministratore del condominio, Milano 1982, 37 ss.; Lazzaro-Di marzio-Petrolati, Codice del condominio, Milano, 2014, 527; Lazzaro-Padovini, La mediazione condominiale, in Codice commentato degli immobili urbani, Torino, 2017, 596; Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, Milano, 1984, 181; Luminoso, Il rapporto di amministrazione condominiale, in Riv. giur. edil. 2017, I, 221; Marostica, La contabilità e il rendiconto condominiale, in Immobili &  proprietà 2017, 698 ss.; Monegat, L'assemblea condominiale ha il potere discrezionale di istituire un fondo-cassa per spese ordinarie, in Immobili & proprietà 2016, 590 ss.; Nasini, L'amministratore, in Il nuovo condominio, a cura di Triola, Torino, 2013, 771; Nicola, Gli impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili, in Immobili & proprietà 2013, 351 ss.; Nicoletti, Lavori di manutenzione straordinaria: fondo speciale e finanziamento bancario, in condominioelocazione.it, 2017; P. Petrelli, L'amministratore di condominio e le novità introdotte dalla legge di riforma sul condominio n. 220 dell'11 dicembre 2012, in Giur. it. 2013, 7 ss.; Peretti Griva, Il condominio delle case divise in parti, Torino, 1960, 446; Rota, Il nuovo amministratore di condominio, in Immobili & proprietà 2014, 687 ss.; Salciarini, Mediazione obbligatoria (condominio), in condominioelocazione.it, 29 gennaio 2018; Salciarini, Regolamento contrattuale e deroga all'art. 71 quater disp. att. c.c., in condominioelocazione.it, 21 febbraio 2018; Salis, Condominio: nomina dell'amministratore ed accettazione, in Riv. giur. edil. 1986, 545; Salis, Il condominio negli edifici, Torino, 1959, 275, 279; Santarelli, La nomina dell'amministratore tra accettazione e dimissioni, in condominioelocazione.it, 19 gennaio 2018; Scalettaris, Ancora sul diritto del condomino al rimborso delle spese sostenute per la cosa comune, in Giur. it. 2017, 1323 ss.; Scalettaris, La prescrizione del credito del condominio per i contributi dei condomini, in Giur. it. 2015, 313 ss.; Scarpa, L'accettazione della nomina dell'amministratore di condominio, in Immobili e proprietà 2018, 11 ss.; Scarpa, La delega e la rappresentanza nelle assemblee di condominio e di supercondominio, in Immobili & proprietà 2017, 691 ss.; Scarpa, La riforma protestante dell'assemblea di condominio, in Immobili &proprietà 2013, 687 ss.; Scarpa, La sibilla e l'amministratore di supercondominio: andrai, sarai nominato non sarai revocato in assemblea, in consulenza.it; Spoto, L'assemblea di condominio e i problemi di validità delle delibere, in Contratto & impresa 2016, 92 ss.; Spoto, Le mediazioni civili e le liti condominiali, in Contratto & impresa 2013, 1071 ss.; Tarantino, Mediazione: no all''accordo con i terzi creditori del condominio, in condominioelocazione.it, 14 dicembre 2017; Tedeschi, La revoca dell'amministratore del supercondominio è di competenza dell'assemblea plenaria, in condominioelocazione.it, 21 giugno 2018; Terzago, Il condominio. Trattato teorico-pratico, Milano, 1998, 391 ss.; Tortorici, La nuova figura dell'amministratore condominiale, in Immobili & proprietà 2013, 623; Tortorici, I revisori dei conti in condominio, in Immobili & Proprietà 2015, 375; Triola, Il condominio, Milano, 2007, 455; Triola, Nomina di società ad amministratore di condominio, in Foro it. 1994, I, 3436; Visco, Le case in condominio, Milano, 1967, 212, 417; Visintini, Trattato di diritto immobiliare, 2013, I, 291; Voi, Assemblea di condominio e conflitto d'interessi. la variabilità dei quorum?, in Immobili & proprietà, 2017, 16 ss.; Voi, Rendiconto condominiale, in condominioelocazione.it 11 maggio 2018.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario