Codice Civile art. 1137 - Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea 1Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea1 [I]. Le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini. [II]. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. [III]. L'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità giudiziaria. [IV]. L'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione. Per quanto non espressamente previsto, la sospensione è disciplinata dalle norme di cui al libro IV, titolo I, capo III, sezione I, [con l'esclusione dell'articolo 669-octies, sesto comma,] del codice di procedura civile.2
[1] Articolo modificato dall'art. 15, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo precedente recitava: «[I]. Le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini. [II]. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria, ma il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità stessa. [III]. Il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti». V. Corte cost., 2 febbraio 1990, n. 49 che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 l. 7 ottobre 1969, n. 742 «nella parte in cui non dispone che la sospensione feriale dei termini ivi prevista si applichi anche al termine di 30 giorni di cui all'art. 1137 del codice civile per l'impugnazione delle delibere dell'assemblea di condominio». [2] Le parole «, con l'esclusione dell'articolo 669-octies, sesto comma,» sono state soppresse dall'art. 1, comma 11, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149/2022, il citato decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoAll'interno del contenzioso condominiale, le controversie più frequenti dal punto di vista statistico sono sicuramente le impugnazioni delle deliberazioni assembleari disciplinate dall'art. 1137 c.c., deliberazioni che rappresentano il modo ordinario con cui si forma e manifesta la volontà dei condomini. Comunque, oggetto di tale impugnazione è soltanto la «deliberazione» condominiale, vale a dire quella statuizione attraverso la quale si esprime, con il metodo collegiale ed in osservanza del principio maggioritario, la volontà dell'organo costituito per gli interessi del condominio (anche se, nelle conclusioni di alcuni atti introduttivi dei relativi giudizi, si legge impropriamente che si impugna il «verbale» o la «assemblea»). D'altronde, mediante il giudizio di impugnazione vengono coinvolti tutti gli aspetti che afferiscono sia alla «sostanza» della statuizione, cioè al suo contenuto che può riguardare ogni momento della vita condominiale (pur sempre nei limiti delle attribuzioni in capo all'organo gestorio), sia alla «forma» dell'atto, ossia al suo formarsi secondo l'iter prescritto dalla legge mediante le progressive fasi della convocazione, costituzione, svolgimento, discussione e decisione. Il comma 1 dell'art. 1137 c.c. è rimasto immutato, ma, riferendosi alle deliberazioni prese dall'assemblea «a norma degli articoli precedenti», comunque arricchiti a seguito della Riforma del 2013, la previsione normativa continua ad essere viziata per difetto. Anche se la l. n. 220 del 2012 non è intervenuta sul punto, deve considerarsi assodato che, in tema di condominio negli edifici, devono qualificarsi nulle le deliberazioni dell'assemblea prive degli elementi essenziali, quelle con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume) o che non rientra nella competenza dell'assemblea, quelle che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, nonché le deliberazioni comunque invalide in relazione all'oggetto; sono, invece, annullabili le deliberazioni con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali o regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, nonché quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. Il nuovo testo del comma 2 dell'art. 1137 c.c. prevede che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino – non solo assente o dissenziente, ma anche astenuto – possa adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. I successivi commi 3 e 4 dell'art. 1137 c.c. mantengono le espressioni adottate in precedenza, ma contengono anche interessanti aggiunte: da un lato, si conferma che l'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità giudiziaria, e, dall'altro, si puntualizza che l'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione, mentre, per quanto non espressamente previsto, la suddetta sospensione è disciplinata dalle norme di cui al libro IV, titolo I, capo III, sezione I, ossia quelle del procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis ss. c.c. ma con l'esclusione dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. Competenze dell'assembleaEscluso il riformulato art. 1136 c.c. (al cui commento si rinvia) – che disciplina l'iter per addivenire ad una valida decisione (quanto a convocazione, costituzione, votazione, verbalizzazione, ecc.), anche se oggi indica, sia pure sotto il profilo del quorum, altre ipotesi di competenza dell'organo gestorio – il richiamo immediato, operato dall'incipit dell'art. 1137, comma 1, c.c., è all'art. 1135 c.c., il quale, ai punti da 1) a 4), menziona espressamente le «attribuzioni» dell'assemblea, ossia, rispettivamente, la conferma dell'amministratore e l'eventuale sua retribuzione, l'approvazione delle spese occorrenti e la relativa ripartizione tra i condomini, l'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e l'impiego del residuo della gestione, le opere di manutenzione straordinaria e le innovazioni previa obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori (sul punto, è intervenuto il d.l. n. 145 del 2013, convertito in l. n. 9del 2014, che ha aggiunto il seguente periodo: «se i lavori devono essere eseguiti in base ad un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, tale fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti»). La l. n. 220/2012 ha inserito, altresì, il comma 3, che contempla la possibilità in capo all'assemblea – di non agevole comprensione – di «autorizzare l'amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato». A sua volta, l'art. 1135 c.c., quando parla delle attribuzioni dell'assemblea, si riferisce, altresì, «a quanto stabilito dagli articoli precedenti»: si pensi a quelle interessanti l'amministratore, in ordine alla nomina (art. 1129, comma 1, c.c.), alla possibilità di conferire allo stesso maggiori poteri di quelli derivanti dalla legge circa la promozione di controversie giudiziarie (art. 1131, comma 1, c.c.), al ricorso avverso i provvedimenti da lui adottati (art. 1133 c.c.), ai compiti specifici riguardo alle liti contro un condomino o contro i terzi (artt. 1131, comma 3, e 1132 c.c.), alla ricostruzione parziale dell'edificio (art. 1128, comma 2, c.c.), nonché alle innovazioni (artt. 1120 e 1121 c.c.). Tuttavia, i poteri dell'assemblea riguardano, in linea generale, la disciplina lato sensu della cosa comune, sicché la predetta disposizione deve essere integrata con tutti quei riferimenti ai poteri del massimo organo gestorio contenuti in altre norme del codice civile e delle leggi speciali: si pensi, rispettivamente, alla formazione ed alla modifica del regolamento (art. 1138 c.c.), nonché allo scioglimento del condominio (art. 61 disp. att. c.c.), oppure, per esempio, in tema di eliminazione delle barriere architettoniche (l. n. 13/1989), realizzazione di parcheggi (l. n. 122/1989), trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato e sistemi di contabilizzazione del calore (l. n. 10/1991), installazione di antenne satellitari collettive (l. n. 66/2001), ipotesi, quest'ultime, compendiate attualmente nell'art. 1120, comma 2, c.c. Atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute all'assemblea dall'art. 1135 c.c., è ragionevole sostenere addirittura che la stessa assemblea, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, possa deliberare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, purché non si tratti di statuizioni volte a perseguire finalità extracondominiali. Obbligatorietà delle decisioni assembleariPer il resto, il comma 1 dell'art. 1137 c.c. non desta particolari problematiche in ordine alla sua formulazione letterale ed applicazione pratica: invero, le predette deliberazioni, anche se adottate a maggioranza, assumono carattere obbligatorio per «tutti» i condomini, anche per quelli che abbiano manifestato dissenso o si siano astenuti dalla votazione, nonché per quelli che non abbiano partecipato alla relativa riunione. In pratica, le decisioni assembleari acquisiscono efficacia analoga a quella propria delle deliberazioni approvate all'unanimità, ma, qualora difetti il quorum costitutivo o/e deliberativo prescritto dalla legge, la minoranza ha l'onere di far valere tempestivamente le eventuali ragioni di impugnazione. Al riguardo, qualche breve precisazione è forse opportuna. Per quanto concerne i condomini, le deliberazioni, approvate con le maggioranze di legge, sono decisioni dell'ente condominiale, vincolanti per tutti; i predetti condomini, dissenzienti, astenuti o assenti, risultano impegnati a rispettare le statuizioni dell'assemblea, ed eventualmente a partecipare alle spese dalla stessa approvate, e con essi lo sono pure coloro che, al momento della votazione, non erano condomini, poiché gli acquirenti degli originari partecipanti restano vincolati alle deliberazioni legittimamente prese a suo tempo in ordine agli interessi comuni del condominio (Cass. II, n. 176/1983, secondo cui una deliberazione condominiale, assunta dal gruppo dei comproprietari, e non impugnata, è obbligatoria nei confronti di tutti, e ciò a prescindere dall'esistenza di una lite pendente tra alcuni comproprietari, quando anche riferita a materia che ha costituito oggetto della medesima deliberazione; Cass. II, n. 4542/1982). Di converso - premesso che l'efficacia preclusiva e precettiva del giudicato di annullamento di una delibera condominiale è meramente negativa, in quanto essa pone soltanto un limite all'esercizio dell'attività di gestione dell'assemblea, impedendole di riapprovare un atto affetto dagli stessi vizi, atto che sarebbe altrimenti a sua volta invalido - si è affermato (Cass. II, 2127/2021) che la sentenza di annullamento resa ai sensi dell'art. 1137 c.c. ha effetto nei confronti di tutti i condomini, anche qualora non abbiano partecipato direttamente al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro, ma con riguardo alla specifica deliberazione impugnata. A questo punto, ci si chiede se, nonostante che l'art. 1137, comma 1, c.c. si riferisce solo ai «condomini», l'assunto valga anche per gli aventi causa. La risposta è senz'altro affermativa: invero, l'accordo assembleare, oltre a produrre effetti diretti, si riverbera come proiezione nel mondo esterno, sicché, proprio rispetto ai terzi, il successore a titolo particolare si viene a porre in una situazione di diritto-dovere, essendo trasferiti nella sua persona tutti i diritti, di godimento e di disponibilità della cosa, che i terzi devono rispettare e, nel contempo, tutti gli oneri, alla cui osservanza detto successore non può sottrarsi. Infine, anche se tale norma non lo dica in modo esplicito, le statuizioni in materia di condominio sono – oltre che obbligatorie, anche – «immediatamente» efficaci, in quanto ciò si evince dal tenore del riformulato comma 3, che attribuisce appunto al giudice il potere, in casi eccezionali, di ordinare la sospensione dell'efficacia della deliberazione impugnata. Infatti, la statuizione assembleare, quantunque illegittima, riveste pur sempre una sua efficacia obbligatoria per tutti i condomini – a prescindere dal potere/dovere dell'amministratore di eseguirla ai sensi dell'art. 1130, n. 1), c.c. – potendo venir meno solo con la sentenza che ne accerti l'invalidità: fino a tale momento, la stessa, anche se palesemente viziata, è suscettibile di applicazione, a meno che non venga accolta, da parte del magistrato, l'istanza di inibitoria eventualmente avanzata dal condomino impugnante. Vizi delle deliberazioniDeliberazioni invalide Anche nella prevalente dottrina – pur se con diverse sfumature (per tutti, Triola 1991, 416; Alvino, 2661) – nell'àmbito delle deliberazioni invalide, si era affermata la distinzione tra quelle nulle e quelle meramente annullabili; in particolare, si era sostenuto che la disciplina dettata dall'art. 1137 c.c. atteneva soltanto a queste ultime, e non alle prime, la cui impugnazione, risolvendosi in un'azione di mero accertamento della nullità, non risultava soggetta ad alcun termine di decadenza. In giurisprudenza, si era rilevato – ripetendo una formula ormai standard – che risultavano assolutamente nulle le deliberazioni dell'assemblea prive dei requisiti essenziali o affette da vizi relativi alla regolarità della costituzione dell'assemblea o della formazione della volontà della prescritta maggioranza, oppure prese con riguardo ad oggetto impossibile o illecito o esorbitante dai limiti delle attribuzioni dell'assemblea, o concernenti innovazioni lesive dei diritti di ciascun condomino sulle cose comuni o su quelle di proprietà esclusiva di ognuno di essi, mentre erano invece semplicemente annullabili le deliberazioni affette da vizi formali, e cioè prese in violazione di prescrizioni legali, convenzionali o regolamentari attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, nonché quelle affette da eccesso di potere e quelle viziate da incompetenza, ossia che eccedevano il campo riservato all'amministratore (v., ex plurimis, Cass. II, n. 5334/1996; Cass. II, n. 8451/1988; Cass. II, n. 3775/1981; Cass. II, n. 2288/1980; Cass. II, n. 3725/1978; Cass. II, n. 1380/1976; Cass. II, n. 132/1976; Cass. II, n. 1078/1973; Cass. II, n. 181/1967; Cass. II, n. 2978/1964). La distinzione riproduceva, in linea di massima, l'orientamento che, con riferimento al negozio ed alle deliberazioni societarie, considerava nullo l'atto quando era assente o del tutto carente un elemento costitutivo, secondo la configurazione richiesta dalla legge: pertanto, a causa dell'assenza o dell'assoluta carenza di un elemento essenziale, l'atto si reputava inidoneo a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il diritto ricollegava al tipo legale, in conformità con la funzione economico-sociale che era la sua caratteristica. Per contro, si riteneva annullabile l'atto in presenza di deficienze considerate meno gravi, secondo la valutazione degli interessi fatta dalla legge: annullabile era, quindi, l'atto che, pur mancando degli elementi essenziali del tipo e dando vita precaria alla nuova situazione giuridica che il diritto ricollegava al tipo legale, poteva essere rimosso. Tale distinzione comportava che: a) le deliberazioni nulle sono deducibili in via giudiziale in ogni tempo, oltre a essere imprescrittibili, salva, tuttavia, la prescrizione dell'azione di ripetizione, mentre le deliberazioni annullabili devono essere impugnate nel termine di decadenza di trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c.; b) le prime possono essere proposte da chiunque vi abbia interesse (e, quindi, anche dal condomino che ha votato a favore), mentre le seconde soltanto da chi non ha concorso a formare la volontà assembleare (dissenzienti, astenuti e assenti); c) l'azione di nullità è meramente dichiarativa, mentre l'azione di annullamento è di natura costitutiva; d) la prima, di regola, non può essere né sanata, né convalidata, e può essere solo sostituita da altra di analogo contenuto (validamente adottata), che però non potrà avere effetto retroattivo, mentre la seconda può essere sanata con una (valida) deliberazione successiva. Fatto sta che la distinzione tradizionalmente accolta tra deliberazioni nulle e annullabili – senza il supporto di un sicuro criterio differenziatore – aveva dato àdito nella pratica ad una situazione di incertezza, fonte di gravissimi inconvenienti, lasciando talvolta il giudice arbitro di far rientrare un determinato vizio in una categoria anziché in un'altra; era successo, in pratica, che la giurisprudenza si trovava ad affermare, in identiche fattispecie, la nullità di una deliberazione quando, con altra sentenza, l'aveva dichiarata annullabile, e viceversa, con conseguenze devastanti in ordine alla tutela giudiziaria, che, per esempio, poteva essere negata qualora si accertasse il trascorso del termine di decadenza per l'impugnativa. Nullità e annullabilità In senso contrario al delineato e consolidato orientamento giurisprudenziale sul criterio di distinzione tra nullità e annullabilità della deliberazione condominiale, è intervenuta una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. II, n. 31/2000), la quale, innovando sul punto, ha reinterpretato la materia de qua e ha tentato di porre finalmente un punto fermo. Riprendendo l'iter argomentativo della predetta sentenza – in considerazione, peraltro, della eadem ratio prevista per le deliberazioni delle società di capitali – i giudici di legittimità, in materia condominiale, ritengono di non ammettere cause di nullità diverse dall'impossibilità giuridica e dall'illiceità dell'oggetto. Per quanto concerne la prima, vengono in considerazione tutti quei vizi consistenti nell'inidoneità delle deliberazioni a disciplinare gli interessi regolati – in astratto o secondo l'assetto predisposto in concreto – mentre, per quanto riguarda la seconda, tutti i vizi consistenti nella violazione di norme imperative o nella lesione dei diritti soggettivi dei singoli condomini. La limitazione delle cause di nullità ai soli vizi dell'oggetto – in parallelo con quanto contemplato dall'art. 2379 c.c. – si spiega con i confini, fissati in materia di condominio, al metodo collegiale ed al principio maggioritario. Invero, tanto l'impossibilità giuridica, quanto l'illiceità dell'oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea, considerando che la prima consiste nell'inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che decide a maggioranza, o a ricevere dalle deliberazioni l'assetto stabilito in concreto, e che la seconda si identifica con la violazione di norme imperative alle quali l'assemblea non può derogare, o con la lesione dei diritti individuali attribuiti ai singoli dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni. Se, dunque, gli interessi, dei quali l'assemblea decide, non sono idonei ad essere disciplinati con il metodo collegiale e con il principio di maggioranza, o non è ammesso l'assetto conferito agli interessi in concreto, o se vengono violate norme imperative, oppure sono lesi gli interessi tutelati con l'attribuzione di diritti, il vizio inerente all'oggetto riveste una gravità tale, per cui l'atto non produce effetti, non è suscettibile di sanatoria per la mancata impugnazione del termine di cui all'art. 1137, comma 2, c.c. da parte dei condomini dissenzienti, astenuti o assenti, e, per contro, risulta impugnabile in ogni tempo da chiunque abbia interesse (argomentando ex artt. 2379 e 1422 c.c.). Pertanto, la formula prevista dall'art. 1137 citato deve interpretarsi – secondo i giudici di legittimità – nel senso che, per «deliberazioni contrarie alla legge», si intendono quelle assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prestabilite dall'art. 1136 c.c. (ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120,1121,1129,1132 e 1135 c.c.). Mentre le cause di nullità afferenti all'oggetto raffigurano le uniche cause di invalidità riconducibili alla «sostanza» degli atti, alle quali l'ordinamento riconosce rilevanza, sono inficiate da vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva per gestire le cose comuni. Ne consegue che se gli stessi condomini ritengono che, dal provvedimento adottato senza l'osservanza delle forme prescritte, non derivi loro un danno, manca il loro interesse a chiedere l'annullamento, ed il difetto di impugnazione nei termini va considerato come acquiescenza ad eseguire la deliberazione. Dalla disciplina riguardante i soggetti legittimati ad impugnare, il termine e le conseguenze dell'omessa impugnazione si argomenta, pertanto, che la contrarietà alla legge e al regolamento condominiale, contemplata dall'art. 1137, comma 2, c.c., riguarda soltanto i vizi meno gravi sanzionati con l'annullabilità; come nelle società ex art. 2377 c.c., anche nel condominio negli edifici, la difformità delle deliberazioni dalla legge o dal regolamento per quanto attiene al procedimento di formazione produce un vizio meno grave che, se non viene fatto valere dagli interessati, non inficia gli atti, i quali restano in vita e continuano a produrre effetti. Le predette deliberazioni, in altre parole, se non impugnate dai condomini dissenzienti, assenti o astenuti entro trenta giorni, restano valide ed efficaci nei confronti di tutti in via definitiva, il che riveste riflessi anche nei confronti del condominio che, secondo l'impostazione tradizionale, non poteva mai sapere se la statuizione adottata era passata, per così dire, in giudicato, onde poterla fare valere a tutti i condomini. Casistica Chiarite le linee guida – senza la pretesa di essere esaustivi e stando agli arresti giurisprudenziali più recenti – si può affermare che sono considerate cause di annullabilità, tra le altre, in quanto configuranti vizi afferenti al procedimento: la mancata convocazione di un condomino all'assemblea (Cass. II, n. 17486/2006); le ipotesi di difetto di quorum costitutivo o deliberativo (Cass. II, n. 1625/2007; Cass. II, n. 13013/2000); le irregolarità nella convocazione ed informazione dei condomini (Cass. II, n. 13350/2003; Cass. II, n. 11940/2003); l'incompletezza dell'ordine del giorno (Cass. II, n. 143/2004); la mancata sottoscrizione del verbale da parte del presidente; la partecipazione all'assemblea di un condomino munito di un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento, o dell'amministratore in posizione di conflitto di interessi (v., da ultimo, Cass. II, n. 1662/2019). Risultano, per contro, viziate di nullità, tra le altre, le deliberazioni che, a mera maggioranza, dispongono: la modifica delle tabelle millesimali (secondo l'orientamento tradizionale, superato dall'intervento delle Sezioni Unite del 2010); la fissazione di criteri derogatori a quelli legali nella ripartizione delle spese (Cass. II, n. 22634/2013; Cass. II, n. 6714/2010; Cass. II, n. 1679372006, la quale precisa che le deliberazioni in materia di ripartizione delle spese condominiali sono nulle se l'assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifica i criteri di riparto stabiliti dalla legge o in via convenzionale da tutti i condomini, mentre sono annullabili nel caso in cui i suddetti criteri vengano violati o disattesi); l'illecita compressione dei diritti esclusivi del singolo (Cass. II, n. 9981/2004); la deliberazione dell'assemblea condominiale con la quale venga approvata la stipulazione di un contratto di opera professionale e di un appalto, che riguardi anche beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini (Cass. II, n. 5528/2025, nella specie trattavasi di balconi); la deliberazione avente ad oggetto l'installazione di un ascensore inidoneo al raggiungimento dell'ultimo piano incidendo, da un lato, sul diritto del singolo (proprietario dell'ultimo piano) rispetto all'utilizzo di un bene comune (ascensore), impedendogli in tal modo un uso pieno del bene e, dall'altro, sul valore della proprietà esclusiva (Cass. II, n. 21909/2019); la costituzione di una servitù sulle parti comuni; la sottrazione di un bene condominiale all'uso collettivo; l'accertamento dell'àmbito dei beni comuni in deroga all'art. 1117 c.c., perché inidonea a comportare l'acquisto a titolo derivativo di tali diritti, non essendo sufficiente, all'uopo, un atto meramente ricognitivo ed occorrendo, al contrario, l'accordo di tutti i comproprietari espresso in forma scritta (Cass. II, n. 20612/2017). In quest'ordine di concetti, va considerata affetta da nullità assoluta, per illiceità dell'oggetto, la deliberazione che attivamente determini un illecito edilizio, consentendo, attraverso l'autorizzazione a collegarsi ai servizi privati comuni – acqua, luce, gas, scarichi fognari – la trasformazione dei locali sottotetti in vani abitabili, in violazione delle norme contenute nello strumento urbanistico in vigore (Cass. II, n. 16641/2007, aggiungendo che una tale deliberazione non può considerarsi valida neppure per effetto del successivo condono edilizio, perché, in base ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, la sua illiceità, e conseguente nullità, va verificata con riferimento alle norme edilizie in vigore al momento della sua approvazione); parimenti, è nulla, per impossibilità dell'oggetto, la deliberazione che pregiudichi la sicurezza del fabbricato mediante la copertura di spazi comuni, aventi la connaturata destinazione all'areazione delle unità immobiliari dei singoli condomini che su di esso prospettano, senza l'adozione di misure sostitutive atte ad assicurare un ricambio d'aria adeguato alle necessità anche potenziali di dette unità e con il pericolo di un accumulo di vapori e fughe di gas (Cass. II, n. 1626/2007: nella specie, relativa alla richiesta avanzata nel 1991, da parte di nuovi condomini, di demolizione di una tettoia del cortile comune realizzata nel 1963, che impediva la circolazione dell'aria e limitava la possibilità degli istanti di installare una caldaia per riscaldamento autonomo nel loro balcone di proprietà esclusiva, nel cassare la sentenza d'appello che aveva respinto la domanda, si era precisato che restava ferma l'osservanza, quanto alla possibilità di installazione della caldaia a gas, della disciplina dettata dall'art. 890 c.c. e dalla l. 6 dicembre 1971, n. 1083, in dipendenza della pericolosità e potenziale nocività dell'impianto; cui adde, da ultimo, Cass. II, n. 23255/2021, in tema di sequestro preventivo penale ex art. 321 c.p.p.). Statuizione inesistente Da tale distinzione dovrebbe ancora differenziarsi la delibera c.d. inesistente, cioè quella affetta da un vizio di invalidità talmente grave da sconfinare nell'abnormità. In altri termini, è stata commessa una manchevolezza sbalorditiva tanto da non essere prevista come invalidità perché irrealizzabile, segno evidente che ci troviamo in presenza di un vizio insanabile nemmeno con il decorso del tempo (come, per esempio, quella adottata dal solo amministratore in segreto, o quella presa dai singoli condomini mediante referendum con consultazione verbale separata); in queste ultime ipotesi, siamo in presenza di un aborto di deliberazione, in quanto una riunione non si è tenuta, non si è proceduto ad alcuna votazione, o hanno votato soggetti non legittimati, sicché l'atto è stato posto in essere fuori dal collegio, non possedendo i requisiti strutturali e funzionali minimi per potersi definire una deliberazione assembleare. In realtà, la prassi ha registrato che il condomino impugnante prospetti il petitum e la causa petendi sia in termini di pronuncia di annullamento sia in termini di dichiarazione di nullità, e ne è sintomo il tenore più o meno standardizzato delle conclusioni degli atti introduttivi, in cui si chiede, di solito, che la deliberazione impugnata venga dichiarata «illegittima, invalida, nulla, annullabile, inesistente, comunque priva di effetti», e quant'altro; tale prassi, del resto, non può totalmente ascriversi alla superficialità o alla poca chiarezza di idee, perché – come abbiamo visto – il discrimen tra nullità e annullabilità delle deliberazioni costituisce uno degli aspetti di maggiore incertezza nelle controversie condominiali. Intervento delle Sezioni Unite Il massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 4806/2005) è intervenuto in subiecta materia, recependo in toto i risultati ermeneutici raggiunti dai magistrati di Piazza Cavour all'inizio del nuovo millennio, tanto da dubitare della sussistenza di un vero e proprio contrasto interpretativo (Cass. n. 31/2000 citata è stata seguita, nella stessa linea, da Cass. II, n. 8493/2004, e Cass. II, n. 1292/2000, sempre in tema di mancata comunicazione dell'avviso di convocazione ad un condomino, tanto che appare un mero incidente di percorso quell'isolata pronuncia rappresentata da Cass. II, n. 4531/2003). Il supremo organo di nomofilachia sviluppa il proprio ragionamento sostanzialmente in quattro direttrici. In primo luogo, viene riproposto il parallelismo tra la norma di cui all'art. 1137 c.c. ed i corrispondenti artt. 1441,1442 e 2377 c.c. dettati in àmbito societario, riconducendo il concetto dell'annullabilità all'interesse leso, ossia all'interesse strumentale in quanto connesso con le regole procedimentali concernenti la formazione degli atti, e reputando non grave il vizio relativo alla formazione della deliberazione, come tale, non inficiante l'atto deliberativo se non fatto valere entro il contemplato termine decadenziale. In secondo luogo, la considerazione per cui l'omessa informazione preventiva della deliberazione sarebbe cosa diversa dall'omessa convocazione (artt. 1105 e 1109 c.c.) si spiegherebbe perché nella comunione non è prevista l'assemblea, ma la semplice riunione dei comproprietari interessati, sicché il difetto di informazione è assimilabile all'omessa convocazione, in quanto la mancata informazione si attua non solo con le carenze dell'avviso, ma anche con l'omesso avviso della convocazione. In terzo luogo, il fatto correlato alla mancata impugnazione della deliberazione viziata deve essere equiparato alla mancanza di interesse a chiederne l'annullamento, assumendo tale condotta il significato di una successiva (implicita) adesione, con effetti positivi circa la certezza in àmbito condominiale, evitando che, in presenza di statuizioni affette da vizi non gravi, le decisioni assembleari possano essere messe in discussione dopo un lungo periodo di tempo. In quarto luogo, sul versante societario, la regola è quella dell'annullabilità e conseguente stabilità dei rapporti giuridici, senza sacrificio degli interessi dei singoli che possono impugnare con esclusione di limitazioni di tempo le deliberazioni prive degli elementi essenziali, quelle con oggetto impossibile o illecito, quelle avente un oggetto non di competenza dell'assemblea, quelle che incidono sui diritti individuali, sulle cose o sui servizi comuni, oppure sulla proprietà esclusiva di ciascun condomino, mentre sono meramente annullabili le deliberazioni affette da vizi attinenti alla regolare costituzione dell'assemblea, o da vizi relativi all'avviso di convocazione, partecipazione, discussione, votazione, o riscontranti irregolarità riguardanti la redazione del verbale, oppure adottate con quorum inferiori a quelli prescritti dalla legge. La sentenza del massimo organo di nomofilachia, pertanto, riprende tutte le argomentazioni svolte dalla precedente decisione del 2000, anche se, nel ribadire il nuovo criterio differenziatore, l'opzione interpretativa lascia qualche perplessità (tra i contributi dottrinari: Celeste 2006 26; Petrolati 2005, 165; Tiscornia, 33; Amendolagine, 124; Terzago 2005, 39; De Tilla 2007, 14; Battelli, 2047; Boggi, 261; Ditta, 1460; Scarpa 2010, 28; Piazzese, 6; Izzo 2005, 799; Imperato, 133; De Marzo, 616). Innanzitutto, non convince il parallelo operato con l'art. 1105, comma 3, c.c. in tema di comunione, poiché l'omessa «informazione» preventiva sull'oggetto della deliberazione non è assimilabile tout court all'omessa «convocazione»: il principio maggioritario in tanto può operare in quanto vige il metodo collegiale, in base a cui tutti gli aventi diritto (nessuno escluso) siano posti in condizione di intervenire in assemblea, partecipando alla discussione ed alla votazione. Non si tratta, quindi, di un mero error in procedendo – come, per esempio, un avviso intempestivo, un'imperfetta informazione, un difetto di quorum, un'irregolare verbalizzazione, ecc. – in quanto la mancata comunicazione dell'avviso ad un condomino preclude all'assemblea di costituirsi ab origine in massa deliberante; la convocazione non attiene alla fase procedimentale perché, nei confronti del condomino non convocato, il procedimento non inizia affatto. Il vizio de quo inficia, in via genetica, la stessa costituzione della volontà assembleare; laddove, invece, vi sia stata una valida costituzione dell'organo deliberante, e quindi correlativamente l'imputabilità delle deliberazioni al condominio mediante l'organo deputato ad esprimerne la volontà, le statuizioni adottate, per esempio, senza raggiungere la maggioranza ogni volta richiesta per la singola materia, sono pienamente efficaci e, coinvolgendo solo la partecipazione del singolo condomino, sarà quest'ultimo a dolersene, se del caso, nei termini stabiliti. Pertanto, non è vero che, in difetto della predetta convocazione, «la delibera non è definitivamente valida, essendo suscettibile di impugnazione», in quanto la stessa assemblea «non può deliberare» se non consta che tutti i condomini siano stati invitati alla riunione – art. 1136, comma 6, c.c., anche se ora fa riferimento agli «aventi diritto» – ossia viene meno in radice il potere deliberante dell'organo gestorio. Al riguardo, non è sufficiente osservare che «la configurazione della mancata convocazione del condomino come vizio procedimentale, da cui ha origine la semplice annullabilità, non significa privare della tutela il condomino convocato, (in quanto), essendogli riconosciuto il potere di impugnare nel termine di trenta giorni dalla comunicazione, egli ha modo di far valere le sue ragioni»; potrebbe, infatti, benissimo succedere che il condomino pretermesso in ordine ad una data assemblea non venga notiziato nemmeno in seguito circa le statuizioni adottate nel corso della stessa – peraltro, immediatamente esecutive e, talvolta, consolidatesi per omessa opposizione con impossibilità di reintegrare lo status quo ante – e ciò per dolo o colpa dell'amministratore, oppure semplicemente per questioni oggettive connesse alla complessità dell'edificio in condominio (Celeste 2005, 1116). Inoltre, la tesi fatta propria dalle Sezioni Unite, facente leva sull'analogia al diritto societario – in realtà, accennata, anche se non pienamente sviluppata – potrebbe, però, incrinarsi ora alla luce del nuovo testo dell'art. 2379 c.c. (come novellato dalla riforma del diritto societario ex d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), che prevede altre cause di «nullità delle deliberazioni» (non richiamando più, come faceva il vecchio testo, le regole generali sulla nullità dei contratti di cui agli artt. 1421,1422 e 1423 c.c.) ed un'impugnabilità (sempre da chiunque vi abbia interesse, ma) entro tre anni e non più senza limiti di tempo. In àmbito societario, la mancanza di convocazione è, poi, espressamente prevista come causa di nullità (art. 2379, comma 1, c.c.), mentre prima la giurisprudenza in materia societaria era addirittura per l'inesistenza della deliberazione assembleare successivamente adottata; invero, si reputava che, in tale ipotesi, facesse difetto uno dei requisiti del procedimento necessari ai fini della formazione di una deliberazione imputabile alla società: tale carenza avrebbe determinato una fattispecie «apparente», non riconducibile alla categoria giuridica delle decisioni assembleari per la propria inadeguatezza strutturale o funzionale rispetto al modello previsto dalla legge (Cass. I, n. 11186/2001; Cass. I, n. 835/1995; Cass. I, n. 1768/1986; Cass. I, n. 2009/1982; in particolare, Cass. I, n. 9364/2003, ha ritenuto, invece, annullabile la deliberazione adottata dall'assemblea di società di capitali a seguito di convocazione effettuata da parte di soggetto non legittimato). Ciò dovrebbe valere a fortiori nel condominio dove non esiste un ente personificato, né una posizione analoga a quella del socio che concorre a formare la volontà di un soggetto giuridico ben distinto sul piano del diritto, ossia la società cui l'ordinamento riconosce la personalità giuridica. Peraltro, alla luce della nuova disciplina, la convocazione si considera omessa anche qualora non consenta a coloro che hanno diritto di intervenire di essere «preventivamente» avvertiti della convocazione e della data dell'assemblea, conseguendone la nullità della deliberazione adottata dall'assemblea convocata in base ad avvisi non sufficienti a garantire con certezza l'informazione dei soci circa luogo, data e materie all'ordine del giorno, mentre in campo condominiale, per esempio, si ritiene pacificamente che l'invio dell'avviso oltre i termini di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. o altro vizio del procedimento riguardante la predetta informazione comporta la mera annullabilità della predetta deliberazione. Da ultimo, il massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 9839/2021) è tornato sulla scivolosa questione relativa all'individuazione dell'esatto discrimen tra nullità e annullabilità delle delibere condominiali, segnatamente riguardo a quelle concernenti l'approvazione di una spesa: in particolare, risolvendo il contrasto sorto in giurisprudenza e sostanzialmente aderendo all'impostazione tradizionale, si è affermato che sono nulle le delibere con cui, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell'assemblea previste dall'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c. e che è sottratta al metodo maggioritario, mentre sono, invece, meramente annullabili le delibere aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ma in violazione degli stessi, trattandosi di delibere assunte nell'esercizio delle dette attribuzioni assembleari, che non sono contrarie a norme imperative, sicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. Resta inteso che l e delibere dell'assemblea di condominio che ripartiscano le spese dando esecuzione a un criterio illegittimamente adottato in una precedente delibera nulla, sono annullabili e non nulle per propagazione, in quanto non volte a stabilire o modificare per il futuro le regole di suddivisione dei contributi previste dalla legge o dalla convenzione, ma in concreto denotanti una violazione di dette regole, di tal che la loro invalidità può essere sindacata dal giudice nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei contributi solo se dedotta mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento nel termine previsto dall'art. 1137 c.c. (Cass. II, n. 20888/2023). Novità della Riforma Delineata sopra la cornice di riferimento giurisprudenziale, il legislatore del 2012 aveva la possibilità di scegliere all'interno di tre opzioni. O aggiungere, nel testo di riforma dell'art. 1137 c.c., un'espressione del tipo: «alle deliberazioni nulle per impossibilità o illiceità dell'oggetto si applicano le disposizioni degli articoli 1421,1422 e 1423» del codice civile, recependo, in buona sostanza, l'insegnamento dei giudici di legittimità, sicché, per esclusione, tutte le volte che la deliberazione, presa pur sempre nei limiti delle attribuzioni stabilite dal codice civile (e, quindi, con il rispetto della «sostanza» dell'atto collegiale), fosse stata adottata senza l'osservanza delle «forme» previste del precedente art. 1136, trovava applicazione il disposto del comma 2, per cui la stessa, in quanto «contraria alla legge», diventava impugnabile solo nel ristretto termine di decadenza. O circoscrivere con precisione quali fossero le ipotesi di nullità e quali di mera annullabilità – compito assai arduo – rispondendo all'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche inerenti alla gestione della cosa comune e, al contempo, tutelando l'affidamento di tutti coloro (condomini, amministratore, terzi) che avessero rapporti, a qualunque titolo, con il condominio. Oppure – e questa risulta la strada imboccata dalla Riforma – abbandonare del tutto tale distinzione tradizionale, pur sempre frutto di creazione della giurisprudenza, e contemplare uno speciale regime di annullabilità, disciplinato appunto dall'art. 1137 c.c., per «tutte» le deliberazioni invalide, ossia non distinguendo secondo il tipo di vizio fatto valere. Invero, il nuovo testo del comma 2 dell'art. 1137 c.c. prevede che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino – assente, dissenziente o astenuto – possa adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. In fondo, quando il codice del 1942 stabiliva che tutte le deliberazioni assembleari invalide, poiché «contrarie alla legge o al regolamento di condominio», fossero soggette al solo regime di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c., mediante la decadenza comminata nello stesso articolo, intendeva eliminare ogni incertezza, ammettendo che la deliberazione, viziata o meno, diventasse efficace dopo trascorso il termine previsto per l'impugnativa. Tale opzione interpretativa appare avallata dal fatto che il testo di riforma prevede espressamente la possibilità di invocare, da parte dell'autorità giudiziaria, soltanto «l'annullamento» (e non la nullità) della deliberazione, laddove tale espressione non sembra riferirsi alla mera caducazione del provvedimento viziato, ossia alla sua cancellazione dal mondo giuridico. D'altronde, la stessa espressione – «l'azione di annullamento» – è ripetuta nel comma 3 dello stesso art. 1137 c.c. per precisare che questa non sospende l'esecuzione della deliberazione, e anche l'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., alla fine, dopo aver precisato le modalità che deve possedere un valido avviso di convocazione all'assemblea, definisce espressamente «annullabile» l'ipotesi particolare della deliberazione adottata in caso di «omessa, tardiva o incompleta convocazione dei condomini». Dunque, sia che si tratti del difetto di attribuzioni in capo all'assemblea che decide a maggioranza, sia che si tratti di violazioni delle forme procedimentali stabilite per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva, qualora gli stessi condomini ritengano che, dal provvedimento approvato, non derivi loro alcun danno, difetterà il loro interesse a chiedere l'annullamento, e pertanto, tali deliberazioni, non impugnate nei termini, diventeranno efficaci nei confronti di tutti in via definitiva. Appaiono, invece, residuali, e comunque eccezionali, le ipotesi di «nullità» enucleate dalla Riforma del 2013, come nel caso dell'art. 1117-ter, comma 3, c.c. (deliberazione che approva le modificazioni delle destinazioni d'uso delle parti comuni priva dell'indicazione delle stesse parti comuni oggetto della modificazione e della nuova destinazione d'uso), o nel caso dell'art. 1129, comma 14, c.c. (deliberazione di nomina dell'amministratore senza la specificazione analitica dell'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività da svolgere). Legittimazione attivaCondomino La legittimazione all'impugnazione – salvo quanto si dirà appresso a proposito del conduttore – è, di regola, inscindibilmente connessa alla titolarità di un diritto reale su una porzione dello stabile condominiale (al riguardo, Cass. II, n. 35794/2021 ha avuto modo di precisare che, n el giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 c.c., la questione dell'appartenenza, o meno, di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, o ppure della titolarità comune o individuale di una porzione dell'edificio, in quanto inerente all'esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell'atto collegiale, ma privo – in assenza di esplicita domanda di una delle parti ai sensi dell'art. 34 c.p.c. - di efficacia di giudicato in ordine all'estensione dei diritti reali dei singoli, svolgendosi il giudizio ai sensi dell'art. 1137 c.c. nei confronti dell'amministratore del condominio, senza la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario ) . Ne consegue, tra l'altro, che la stessa non può fare capo al possessore di uno degli appartamenti dello stabile condominiale (Cass. II, n. 3420/1957; in termini generali, v., da ultimo, Cass. II, n. 5611/2019, secondo cui, in tema di impugnazione di delibere condominiali annullabili, posto che la legittimazione ad agire spetta al condomino che sia stato assente all'assemblea nel corso della quale la delibera contestata è stata assunta o che, se presente, abbia espresso in merito il suo dissenso o si sia astenuto, ricade sullo stesso l'onere di provare tali circostanze, mentre il difetto di detta legittimazione può, invece, essere rilevato d'ufficio dal giudice ed il relativo accertamento non è soggetto a preclusioni, non potendosi accordare la facoltà di opporre la menzionata delibera a chi non ne abbia titolo). In caso di delega, ai fini dell'individuazione della legittimazione ad impugnare la deliberazione assembleare, per la qualifica di dissenziente, deve aversi riguardo alla posizione assunta dal delegato, salva l'eventuale responsabilità di questi per violazione delle norme sul mandato; atteso che il voto del rappresentante è direttamente riferibile al condomino, quest'ultimo non potrà impugnare – non potendosi essere considerato dissenziente – se il primo ha approvato la deliberazione, mentre se, per un condomino, ha partecipato all'assemblea un mandatario, questi – sempre se non avrà espresso voto favorevole – sarà legittimato ad esercitare l'impugnazione solo se, ai sensi dell'art. 77 c.p.c., gli è stato conferito il relativo potere. Nell'ipotesi in cui sussista una situazione di comproprietà in relazione ad un'unità immobiliare facente parte dello stabile condominiale, ogni comproprietario è legittimato a proporre l'impugnazione, ferma restando la necessità dell'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti alla comunione; resta inteso che, qualora all'assemblea abbia partecipato uno dei comproprietari di un appartamento in proprietà esclusiva in base alla designazione attuata secondo quanto previsto dal novellato art. 67, comma 2, disp. att. c.c. – in caso di dissenso interno, in base all'art. 1106 c.c., mentre prima era contemplato il sorteggio da parte del presidente dell'assemblea – gli altri comproprietari non potranno impugnare le deliberazioni rispetto alle quali tale rappresentante abbia espresso voto favorevole (salva l'ipotesi di nullità della deliberazione). Particolare, in proposito, si presenta l'ipotesi di unità immobiliari in regime di comunione legale tra coniugi, in cui si è chiarito che la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari spetta a ciascun coniuge separatamente, trovando applicazione l'art. 180, comma 1, c.c., secondo cui la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all'amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi, conseguendone che, in caso di partecipazione all'assemblea di uno solo dei coniugi, ove vengano deliberati argomenti non inseriti all'ordine del giorno, il coniuge non presente può impugnare la delibera ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. (Cass. II, n. 27772/2023, la quale ha affermato l'irrilevanza, ai fini dell'ammissibilità e della fondatezza dell'impugnazione proposta da un coniuge, della presenza all'assemblea dell'altro coniuge comproprietario). Per completezza, va rilevato che l'impugnazione di una deliberazione assembleare può essere opera di una pluralità di condomini, ma in tal caso si determina, tra gli stessi, una situazione di litisconsorzio processuale, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione medesima, sicché, ove la sentenza che ha deciso su tale impugnativa sia stata appellata soltanto da alcuni dei detti condomini, l'esito dell'impugnazione si estende anche a quelli che, tra gli originari litisconsorti, non l'abbiano proposta (Cass. II, n. 22370/2017, aggiungendo anche se la decisione concerna, stante la cessazione della materia del contendere, le sole spese di lite, trattandosi di capo accessorio che condivide il carattere di inscindibilità della causa principale; cui adde Cass. II, n. 2859/2016, la quale, sul summenzionato presupposto che l'impugnativa di una deliberazione assembleare proposta da una pluralità di condomini determina una situazione di litisconsorzio processuale tra gli stessi, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione, ha affermato che, ove la sentenza che ha statuito su tale impugnativa venga appellata da alcuni soltanto di tali condomini, il giudice di secondo grado deve disporre, ex art. 331 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, quali parti di una causa inscindibile). Si consideri, inoltre, che le unità immobiliari, facenti parte dello stabile condominiale, sono soggette a varie vicende giuridiche, tra le quali la vendita, sicché è interessante analizzare, rispetto alla legittimazione ad impugnare la deliberazione assembleare, la posizione che eventualmente riveste il venditore e l'acquirente, vale a dire il condomino che era o meno tale al momento dell'approvazione del provvedimento assembleare. Si era rilevato che l'acquirente di un appartamento in un edificio condominiale poteva far valere la sua qualità di condomino e contestare efficacemente le deliberazioni dell'assemblea, prese con l'intervento del venditore, solo ove avesse provveduto previamente alla notificazione o comunicazione al condominio dell'atto del suo acquisto (ad esempio, attraverso l'esibizione o il deposito presso l'amministratore della scrittura privata di compravendita, v. Cass. II, n. 1176/1980 e Cass. II, n. 1946/1978); attualmente, tale iniziativa del condomino è necessaria per l'aggiornamento della c.d. anagrafe condominiale a cura dell'amministratore ai sensi dell'art. 1130, n. 6), c.c. a seguito di sollecitazione da parte dei soggetti interessati, mentre la trasmissione del titolo di trasferimento rivela i suoi effetti ai fini della sola responsabilità solidale concernente il pagamento degli oneri condominiali. Parimenti, dovrebbe riconoscersi che l'impugnazione di una deliberazione assembleare possa essere proposta anche da chi non era condomino nel momento in cui la deliberazione stessa è stata adottata, ma lo è diventato successivamente (in argomento, Cass. II, n. 2362/2007, appunto sul presupposto che la legittimazione ad impugnare una deliberazione assembleare compete a chi abbia acquistato l'immobile in epoca successiva alla delibera condominiale, poiché, ai fini della legittimazione, occorre tener conto della situazione esistente al momento della proposizione della domanda, ha affermato che sussiste la legittimazione di chi sia divenuto donatario di una porzione condominiale nello stesso giorno in cui, mediante notifica della citazione, sia stata instaurata la controversia); né, al riguardo, si potrebbe invocare la lettera dell'art. 1137 c.c., il quale considera solo i condomini (assenti, dissenzienti o astenuti) quali titolari del diritto di impugnativa, per ricavarne, con argomento a contrario, l'esclusione del nuovo condomino: questi, infatti, non esercita un diritto proprio, ma un diritto che gli è stato trasmesso dall'alienante, in quanto strettamente connesso con la proprietà dell'appartamento. In buona sostanza, come il nuovo condomino è vincolato dalle deliberazioni prese quando non aveva ancora assunto la qualità di condomino – o quando non l'aveva ancora comunicata – così gli deve essere riconosciuta la legittimazione all'impugnazione della deliberazione illegittima, operando la successione nello status di condomino sia dal lato passivo sia dal lato attivo (opinando diversamente si arriverebbe all'assurda conclusione che la deliberazione non potrebbe essere impugnata né dal condomino alienante per difetto di interesse, non essendo più destinata ad incidere nella sua sfera giuridica, né dall'acquirente). Ad esempio, il successore a titolo particolare nella proprietà condominiale può avere interesse ad impugnare le deliberazioni dell'assemblea prese prima del suo acquisto, per mancata convocazione del suo dante causa, allorché esse abbiano avuto oggetto materie – nella specie, il completamento di opere condominiali e le tabelle millesimali – destinate ad incidere nella sua nuova sfera giuridica (Cass. II, n. 4137/1976). Va, infatti, considerato che l'obbligatorietà della deliberazione non impugnata riguarda anche il condomino che non rivestiva tale qualità al momento della sua approvazione, poiché gli aventi causa degli originari condomini restano vincolati dalle deliberazioni assembleari prese legittimamente a suo tempo in ordine agli interessi comuni del condominio (v. supra). Sulla base di questo principio, la giurisprudenza ha, però, precisato che l'eventuale impugnativa da parte del condomino che contesti la valutazione dell'assemblea che abbia ritenuto la contrarietà al decoro dello stabile di una determinata opera – nella specie, doppi vetri nelle aperture degli appartamenti – e l'abbia vietata, va proposta entro i trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c., senza che rilevi che, all'epoca della deliberazione, il condomino non fosse ancora tale (Cass. II, n. 4542/1982); nel contempo, il Supremo Collegio ha affermato che l'alienante rimane legittimato a partecipare direttamente alle riunioni assembleari e ad impugnare le relative deliberazioni, nonostante abbia perduto lo status di condomino, fino a quando l'acquirente non si qualifichi di fronte al condominio, rendendo noto, in forma adeguata, il mutamento di titolarità dell'unità immobiliare, che giustifica il suo formale inserimento nel condominio (Cass. II, n. 2658/1987). Nell'ipotesi speculare e contraria, si è avuto modo di puntualizzare (Cass. II, n. 16654/2024) che, sul presupposto che l'azione di annullamento della deliberazione assembleare, disciplinata dall'art. 1137 c.c., presupponga, quale requisito di legittimazione, la sussistenza della qualità di condomino dell'attore sia al momento della proposizione della domanda sia al momento della decisione della controversia, in quanto la perdita di tale status determina, di regola, il venir meno dell'interesse dell'istante alla caducazione o alla modifica della portata organizzativa della deliberazione impugnata, rimane salva l'imposti in cui questi vanti un diritto correlato alla sua passata partecipazione al condominio e tale diritto dipenda dall'accertamento della legittimità della delibera o che la medesima continui ad incidere, in via derivata, sul suo patrimonio. Comunque, è condivisibile ritenere che, indipendentemente dalla realtà giuridica concernente l'appartamento, fino a quando non è stato notificato o comunicato l'avvenuto passaggio di proprietà, rimangono medio tempore in capo all'alienante sia i diritti – come ad esempio, quello di partecipare alle assemblee e di impugnare le relative deliberazioni – che gli obblighi – si pensi al pagamento degli oneri condominiali – relativi alla posizione di condomino; quindi, in difetto di una qualche iniziativa, si conserva la legittimazione ad impugnare ad un soggetto che non è più titolare di alcun diritto sull'edificio, mentre la si esclude nei confronti del reale destinatario degli effetti della deliberazione (Scarpa 2009, 36). Va precisato, infine, che la nozione di condomino non va intesa in senso tecnico, vale a dire come sinonimo di titolare di un diritto di proprietà o di comproprietà su una porzione dell'edificio. Il nuovo art. 67 disp. att. c.c. prevede che l'usufruttuario di un piano o di una porzione di piano esercita il diritto di voto negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose comuni, mentre, nelle deliberazioni che riguardano innovazioni, ricostruzioni o opere di manutenzione straordinaria delle parti comuni dell'edificio, il diritto di voto spetta invece al nudo proprietario. Il nuovo comma 7 di tale disposto prevede che, in particolari casi, contemplati dagli artt. 1006,985 e 986 c.c., l'avviso di convocazione all'assemblea debba essere comunicato sia all'usufruttuario sia al nudo proprietario, inducendo a ritenere che, nelle rimanenti ipotesi, il soggetto destinatario dello stesso avviso sia individuato a seconda degli argomenti da trattare (Riccio, 17). Quindi, nell'àmbito delle prime materie, si deve riconoscere la legittimazione all'impugnazione dell'usufruttuario; a favore della soluzione negativa, non si potrebbe invocare la specialità dell'art. 1137 c.c. – che riconosce come legittimati all'impugnazione solo i «condomini» (assenti, dissenzienti o astenuti) – in quanto tale specialità non impedisce un'interpretazione logica nel senso del riconoscimento del potere di impugnazione a chi è titolare del diritto di partecipare all'assemblea (opinando diversamente, tale diritto rimarrebbe privo di tutela giudiziaria), mentre deve negarsi un autonomo potere di impugnativa in capo al nudo proprietario, non potendo questi essere considerato dissenziente rispetto ad una deliberazione alla quale non aveva diritto di partecipare. Ad analoghe conclusioni dovrebbe pervenirsi con riferimento alla figura dell'abitatore, in forza del richiamo contenuto nell'art. 1026 c.c. alle norme relative all'usufrutto, anche in relazione al principio per cui chi occupa tutta la casa è tenuto al pagamento dei tributi come l'usufruttuario (art. 1025 c.c.). Astenuto L'art. 1137, commi 2 e 3, c.c. (vecchio testo) prevedeva espressamente la legittimazione all'impugnazione delle deliberazioni – contrarie alla legge o al regolamento condominiale – soltanto in capo a «ogni condomino dissenziente» (oltre che all'assente). A questo punto, era sorto il problema se fosse legittimato anche quel condomino che era presente alla riunione ed aveva partecipato alla discussione, ma si era astenuto dalla votazione finale (considerandosi, invece, irrilevanti i motivi che avevano determinato tale comportamento). A stretto rigore, deve considerarsi astenuto chi non ha espresso alcuna volontà, né in senso positivo, né in senso negativo, per cui non potrebbe impugnare: in parole povere, egli non è assente perché è intervenuto all'assemblea, né è dissenziente perché non ha votato. In un primo momento, la giurisprudenza (Cass. II, n. 2217/1971; Cass. II, n. 3060/1969, Cass. II, n. 240/1967; Cass. II, n. 1135/1959) si era orientata nel ritenere che il condomino presente, che ha partecipato alla discussione ed alla votazione, non potesse impugnare la deliberazione se non era dissenziente rispetto al capo della statuizione che impugnava. Si era ritenuto, infatti, che il condomino che interveniva all'assemblea era libero di votare o non votare, ma a garanzia degli altri partecipanti – affinché essi fossero in grado di valutare le concrete possibilità di impugnativa di una deliberazione che volevano adottare – egli doveva esternare con il voto la sua intenzione se intendeva approvare o dissentire dalla stessa deliberazione, per conservare la legittimazione ad impugnarla; pertanto, l'art. 1137 c.c., riconoscendo tale legittimazione solo ai condomini assenti o dissenzienti, sanzionava in questo modo, per le anzidette ragioni di tutela, il comportamento omissivo di chi, avendo partecipato all'assemblea, non si era opposto al formarsi di una determinata volontà collettiva, punendo così l'inerzia in virtù dei principi di autoresponsabilità e di affidamento a tutela dei terzi (Cass. II, n. 3725/1978). D Successivamente, è apparso, però, preferibile ammettere la possibilità anche per l'astenuto di opporsi alla deliberazione condominiale (in dottrina, Salciarini 2010, 19; Maglia, 837; De Tilla 1989, 1873). In altri termini, tutti i condomini che non hanno votato in maniera conforme alla deliberazione assembleare sono legittimati ad impugnarla, siano stati presenti alla seduta o assenti – l'unica differenza consistendo nel dies a quo per proporre l'opposizione, che decorre dalla data della deliberazione per i primi e dalla data della comunicazione per gli altri – ivi compresi gli astenuti, i quali sostanzialmente non hanno approvato la deliberazione, a nulla rilevando che questi ultimi, al momento del voto, abbiano formulato riserva da sciogliere dopo la seduta. È vero che il citato art. 1137 (vecchio testo) faceva riferimento solo ai condomini dissenzienti – oltre che assenti – sicché a fondamento della tesi restrittiva militava la lettera della legge, che espressamente riconosceva il potere di impugnazione soltanto ai primi, mentre, a sostegno dei limiti della legittimazione, si potevano dedurre anche le esigenze di certezza delle deliberazioni che, in generale, restringevano i termini di impugnazione. Tuttavia, nel condominio negli edifici, occorre distinguere tra le maggioranze richieste per la validità della costituzione dell'assemblea e le maggioranze stabilite per la validità delle deliberazioni: alla regolare costituzione del collegio concorrono tutti i condomini presenti e, quindi, anche coloro i quali, nelle votazioni, si asterranno, mentre, all'approvazione delle decisioni, non concorrono, invece, tutti i presenti. Ora, perché le deliberazioni si assumono con la maggioranza (semplice o qualificata) dei partecipanti all'assemblea regolarmente costituita, non facendo parte della maggioranza all'approvazione della deliberazione, gli astenuti non concorrono: ai fini della formazione della maggioranza necessaria per l'approvazione, i voti dei condomini astenuti sono equiparati a quelli dei condomini dissenzienti o assenti. L'approvazione della deliberazione e, quindi, la sua validità ed efficacia dipendono dall'esistenza del quorum prescritto; la deliberazione si ascrive all'intero collegio, in quanto vincola anche i dissenzienti e gli assenti, ma come atto giuridico valido viene ad esistenza se risulta approvata da un determinato numero di condomini: si perfeziona, cioè, in virtù del formarsi della maggioranza stabilita. Sotto il profilo decisivo della formazione della deliberazione, vale dire della volontà sottostante al decisum, in quanto non concorrono alla formazione della maggioranza, i partecipanti astenuti – secondo i giudici di legittimità – vengono equiparati ai dissenzienti: la ragione per cui non è consentito proporre impugnazione è l'aver concorso all'approvazione della deliberazione, facendo parte della maggioranza che si è espressa in senso favorevole alla proposta messa ai voti (Cass. II, n. 6671/1988). Ciò posto, non si vede perché i condomini astenuti, i quali come quelli dissenzienti e assenti, non hanno concorso all'approvazione, non debbano equipararsi ai condomini dissenzienti ed assenti anche per quanto attiene alla legittimazione all'impugnazione. In difetto di una norma specifica, che alla dichiarazione di astensione attribuisca un contenuto ed un'efficacia precisi, poiché il potere di impugnazione è riconosciuto a coloro i quali non hanno concorso all'approvazione, dal sistema si ricava che legittimati ad impugnare la deliberazione sono anche i condomini astenuti, in quanto si trovano nella stessa posizione dei dissenzienti e assenti, non avendo neppure essi contribuito all'approvazione (Cass. II, n. 21298/2007; Cass. II, n. 129/1999). In questa prospettiva, risulta pienamente condivisibile l'aggiunta inserita dalla Riforma del 2013 – del resto, in linea a quanto stabilito nelle società di capitali – che ammette espressamente la possibilità anche per l'astenuto di opporsi alla deliberazione condominiale, facendo propri i rilievi esposti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la legittimazione spetta a tutti i condomini che non hanno votato in senso conforme alla deliberazione, specificando, ovviamente, che il termine decadenziale (sempre di trenta giorni) decorre dal momento della riunione, e non dalla comunicazione del relativo verbale. Partecipante non pretermesso. Una situazione particolare, ma abbastanza frequente nella vita condominiale, si registra allorché un condomino si lamenta che alcuni partecipanti non siano stati avvisati nei termini o nemmeno convocati, non denunciando, però, alcun vizio relativamente alla sua posizione. In altri termini, ci si chiede se l'opposizione alla deliberazione possa essere promossa dal condomino non pretermesso, ossia da un partecipante al condominio, ritualmente convocato, che si duole del fatto che «altri» condomini non sono stati chiamati alla riunione, sull'ovvio presupposto che questi ultimi non abbiano, a loro volta, impugnato la deliberazione per il medesimo vizio. Partendo dalla premessa – peraltro, in linea con il recente indirizzo giurisprudenziale, volto a delineare compiutamente il discrimen tra deliberazioni nulle ed annullabili (v. supra) – secondo la quale la mancata convocazione di taluni dei condomini concreta un vizio concernente il procedimento di formazione della volontà collettiva e, quindi, configura una causa di annullabilità, da far valere dal condomino interessato nel termine di decadenza di trenta giorni, una recente pronuncia di merito (Trib. Como 21 maggio 2012) ha precisato che, qualificandosi la mancata convocazione di un condomino quale ipotesi di mera annullabilità della deliberazione assembleare, la legittimazione a domandare l'annullamento, in ragione del disposto di cui all'art. 1441, comma 1, c.c., che trova applicazione relativamente a tutti gli atti negoziali, spetta solo alla «parte nel cui interesse è stabilito dalla legge». Peraltro, l'applicazione dei principi in materia di mera annullabilità ai negozi plurilaterali comporta che ciascuna delle parti è legittimata ad impugnare il negozio solo per gli effetti che la riguardano; ne consegue, quindi, che il condomino convocato non ha alcun interesse ad impugnare la deliberazione per un presunto vizio di convocazione di altri condomini, derivandone, sotto tale profilo, l'inammissibilità della domanda. Sul punto, un'altra pronuncia di merito (Trib. Salerno 31 marzo 2011) ha osservato che, una volta ricondotto il vizio dell'omessa convocazione alla patologia dell'annullabilità, va verificata ulteriormente la legittimazione del condomino, regolarmente convocato, a fare valere l'invalidità dell'atto deliberato per il difetto di invito alla riunione (non di se stesso, ma) di altri partecipanti, sembrando in tal caso per lo meno invocabile per analogia il principio – recato in materia societaria dall'art. 2373 c.c. – secondo cui chi agisce per l'annullamento dovrebbe allegare e provare un suo specifico interesse a lamentarsi, nella specie, dell'altrui omessa convocazione, interesse diverso da quello meramente rappresentato dalla rimozione dell'atto, e piuttosto subordinato alla condizione che il voto mancato del condomino non invitato potesse assumere rilievo determinante per raggiungere o ribaltare la maggioranza altrimenti formatasi; ragionando diversamente – si aggiunge – «l'interesse del condomino regolarmente avvisato ad impugnare la deliberazione per l'omessa convocazione di altri condomini equivarrebbe ad un mero interesse astratto, non avente riflessi pratici sulla deliberazione adottata, con sacrificio dell'interesse collettivo rispetto a quello individuale». Tale affermazione, volta ad invocare una legittimazione ad impugnare in conformità con l'art. 1441 c.c. e, quindi, abbandonando quella prospettata dall'art. 1421 c.c., si pone in linea con la decisione del giudice lombardo, ma, al contempo, in contrasto con i principi summenzionati in materia di annullabilità della deliberazione, secondo cui, per la relativa azionabilità, non occorre, da parte del condomino impugnante, quell'allegazione e dimostrazione della concreta lesione del suo diritto, reputandosi sufficiente la mera affermazione dell'illegittimità formale della statuizione assembleare (v. appresso riguardo all'interesse ad agire). A ben vedere, la deliberazione dell'assemblea dei condomini è un atto collettivo – cioè il risultato del concorso di più volontà espresso da ciascuno dei partecipanti e la cui somma rappresenta la maggioranza semplice o qualificata (a seconda delle materie che ne costituiscono l'oggetto) delle quote di comproprietà rispetto al totale – conclusivo di un procedimento di formazione svolto con l'osservanza di alcune regole fissate dalla legge o insite nella natura stessa dell'atto. Ora, una di queste regole, non prevista espressamente dalla legge, ma derivante da un principio generale, secondo cui la volontà di ciascun partecipante confluente nell'atto collettivo va liberamente manifestata, è che tale libera manifestazione debba essere possibile non solo nell'espressione conclusiva (voto di assenso o di dissenso) ma anche nelle premesse; in pratica, il condomino ha il diritto di rendere noto agli altri partecipanti le ragioni per cui ritiene di approvare o rifiutare la proposta di deliberazione contenuta nell'ordine del giorno. Risulta irrilevante che i condomini assenti siano titolari di millesimi tali da non spostare l'esito della votazione, perché la convocazione è richiesta non solo per votare, ma anche per discutere e controllare. Per questo motivo, si ribadisce la contrarietà al recente orientamento giurisprudenziale, che qualifica meramente «annullabile» la deliberazione affetta dal vizio di omessa convocazione di un condomino (v. supra): una deliberazione di maggioranza degna di questo nome non può sussistere se non sia stata regolarmente costituita la massa deliberante, nel senso che ciascuno dei condomini, nessuno escluso, deve essere posto nelle condizioni di partecipare alla decisione, prima ancora con il proprio voto, con le proprie osservazioni e proposte; del resto, la predetta maggioranza deve formarsi in sede di assemblea, perché la minoranza ha sempre il diritto di essere sentita, potendo i suoi argomenti convincere gli altri partecipanti a mutare opinione. Sembra, quindi, più ragionevole ritenere che l'attore, deducendo la mera omessa convocazione di un altro condomino, non faccia valere l'interesse astratto alla «rimozione dell'atto impugnato», ma, in realtà, prospetti una concreta irregolarità nel procedimento di formazione della volontà assembleare: in altri termini, l'impugnante denuncia che un condomino non è stato invitato e, quindi, non ha potuto partecipare alla discussione, non escludendo che proprio il pretermesso, ancorché titolare di una quota millesimale insignificante, avrebbe potuto – con la sua preparazione tecnico o/e giuridica, con la sua esperienza, con la abilità oratoria, e quant'altro – orientare diversamente il convincimento dell'organo gestorio, facendo convogliare i consensi in favore della posizione uscita minoritaria in quell'assemblea (minoranza di cui faceva parte il condomino impugnante, che eventualmente si è trovato solo a contrastare una maggioranza arrogante, quando avrebbe potuto trovare valido supporto nel condomino non invitato alla riunione). Il tutto a livello quantomeno allegatorio, perché trattasi di prospettazioni che difficilmente potrebbero essere provate, atteso che i verbali assembleari riportano sovente l'esito finale della decisione e raramente indicano le c.d. intenzioni di voto o le motivazioni che le sorreggono. Il potere di impugnativa, da parte del singolo (dissenziente, astenuto o assente), non è attribuito tanto per tutelare l'interesse generico della collettività alla regolarità formale degli atti di gestione, ma piuttosto per salvaguardare in concreto la minoranza dissenziente: l'aver impedito la partecipazione di qualcuno all'assemblea – diritto conferito dall'art. 1136, comma 6, c.c. a «tutti i condomini» (ora agli aventi diritto) – configura una delle ipotesi di contrarietà alla legge ex art. 1137, comma 2, c.c., la cui mera prospettazione, ad opera dell'impugnante, è idonea a giustificare il suo interesse ad agire, anche se la sua posizione non è stata direttamente menomata (Petrolati 2011, 772). In quest'ordine di concetti, si colloca la nuova versione dell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., la quale – dopo aver prescritto le modalità dell'avviso di convocazione, che deve, altresì, contenere la specifica indicazione dell'ordine del giorno – aggiunge che, «in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, la deliberazione assembleare è annullabile ai sensi dell'articolo 1137 del codice su istanza dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati». Tale previsione sembrerebbe forse superflua alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale, tendente a circoscrivere sempre di più l'ipotesi della nullità, confinata ai vizi più gravi inficianti le statuizioni assembleari, salvo negare la legittimazione all'impugnativa a condomini diversi da quelli interessati all'omessa o irregolare convocazione; in altri termini, solo i condomini pretermessi o non correttamente informati dell'oggetto della riunione sono legittimati ad impugnare la relativa deliberazione – peraltro, entro il ristretto termine decadenziale – precludendo tale possibilità, invece, a chi non risulta direttamente coinvolto da tali omissioni o/e irregolarità, ma agisca per il solo rispetto delle formalità prescritte dal codice per la valida partecipazione di tutti i condomini all'iter assembleare. Risultano, in tal modo, apertamente superate le condivisibili conclusioni alle quali era, di recente, giunta una corte territoriale (App. Roma 11 gennaio 2012), ad avviso della quale, ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari, per qualsiasi vizio implicante annullamento, è riservata ad «ogni condominio dissenziente» (o assente e, da oggi, astenuto) senza alcuna limitazione in ordine all'immediata soggettiva incidenza del vizio. Si è evidenziato, da un lato, che la richiamata disposizione di cui all'art. 1137, comma 2, c.c. deve ritenersi «speciale» rispetto a quella generale di cui all'art. 1441 c.c., sulla legittimazione alla domanda di annullamento nella materia negoziale, onde non è necessaria la selezione, di volta in volta, del soggetto «nel cui interesse» l'annullamento «è stabilito dalla legge», e, dall'altro, che ogni condomino è da ritenersi comunque interessato alla convocazione di tutti gli aventi diritto ai fini della garanzia che tutti i condomini siano posti in condizioni di intervenire in assemblea per esprimere la rispettiva opinione ed eventualmente orientare quella di altri, così da «assicurare la correttezza della dialettica quale presupposto indeclinabile per la gestione del condominio secondo il principio di maggioranza». Va registrato, tuttavia, che l'opposta tesi sembra oramai essere stata recepita, di recente, dai giudici di legittimità (Cass. VI/II, n. 15550/2017; Cass. II, n. 22903/2016; Cass. II, n. 10338/2014; Cass. II, n. 9082/2014), secondo i quali il condomino assente in assemblea, ma regolarmente convocato, non può impugnare la deliberazione per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all'altrui sfera giuridica, come conferma «l'interpretazione evolutiva» fondata sull'art. 66 disp. att. c.c., modificato dalla l. n. 220/2012 (v., da ultimo, Cass. II, n. 6735/2020, la quale, diversamente dal riparto dell'onere probatorio normalmente a carico del condominio, fa gravare sul singolo avente diritto pretermesso la prova dei fatti dai quali l'omessa comunicazione risulti); cui adde Cass. II, n. 10071/2020, aggiungendo che l'interesse a far valere un vizio che renda annullabile una deliberazione dell'assemblea, non può ridursi al mero interesse alla rimozione dell'atto, ovvero ad un'astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all'esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti).
Curiosamente, ad una lettura attenta del capoverso oggetto di scrutinio, si vede che la norma è tutt'altro che univoca riguardo ai «dissenzienti» i quali, appunto perché tali, risultano convocati; in altri termini, si può limitare l'àmbito applicativo del suddetto disposto ai soli condomini «assenti perchè non ritualmente convocati», ma non ai condomini dissenzienti; addirittura per gli astenuti, non menzionati affatto nell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., contrariamente all'indicazione contenuta nel novellato art. 1137, comma 2, c.c., dovrebbe valere una legittimazione generale, e tale più ampio privilegio, in fondo, premia i soggetti presenti in assemblea, dissenzienti o astenuti, dotandoli di un più largo accesso alla tutela rispetto a chi è rimasto assente e, ovviamente, non abbia voluto delegare nessuno in sua vece; tale ratio, d'altronde, non risulta affatto irragionevole, ed anzi si rivela in linea con tutte le altre disposizioni della Riforma del 2013, che incentivano in vari modi la presenza del condomino alla riunione (v., tra le altre, le modifiche dei quorum contenuti nell'art. 1136 c.c., che ora fanno riferimento agli «intervenuti» all'assemblea e non più ai «partecipanti» al condominio). Il condomino dissenziente e, a fortiori, quello astenuto si può ben lamentare di essere «lasciato solo» a fronte di una maggioranza contraria, laddove proprio la partecipazione del condomino pretermesso, in sintonia con i suoi intendimenti, avrebbe diversamente orientato il dibattito assembleare che, purtroppo per l'impugnante, ha avuto un diverso epilogo, quantomeno tentando di coagulare attorno a sé il voto conforme degli altri partecipanti alla riunione. Conduttore L'art. 10 della l. 27 luglio 1978, n. 392 (c.d. sull'equo canone) prevede tuttora, al comma 1, che il conduttore ha diritto di voto, in luogo del proprietario dell'appartamento locatogli, nelle deliberazioni dell'assemblea relative alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, e, al comma 2, che lo stesso conduttore ha diritto di intervenire, ma senza diritto di voto, nelle deliberazioni relative alla modificazione degli altri servizi comuni. In relazione alla possibilità del conduttore di partecipare all'assemblea condominiale, si è notato (Annesanti, 615) che la particolare considerazione per la gestione del servizio di riscaldamento rispetto agli altri servizi – che pure gravano interamente sul conduttore – si spiega con il preminente interesse di questi, non soltanto al controllo della spesa, ma anche e soprattutto alle modalità di erogazione del servizio, cui il locatore, invece, non ha alcun interesse, mentre la possibilità di partecipare all'assemblea senza diritto di voto nelle deliberazioni concernenti le modificazioni degli altri servizi è correlata all'obbligo di pagamento che grava (totalmente o in parte) sul conduttore, cosicché, nonostante l'ultima parola al riguardo spetti al locatore, l'inquilino, intervenendo, può illustrare il proprio punto di vista, cercando in tal modo di far coagulare intorno ad esso la volontà degli altri partecipanti. Orbene, in ordine al riconoscimento, in capo all'inquilino, della legittimazione ad impugnare la deliberazione condominiale, si suggerisce di distinguere le azioni di nullità e di annullamento (v., più dettagliatamente, supra). Riguardo alle prime – sempre che ricorra l'ulteriore requisito dell'interesse ad agire – non può negarsi la legittimazione del conduttore a far valere l'asserita nullità di una deliberazione; né appare corretto limitare tale interesse alle sole statuizioni concernenti le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento, in quanto non può escludersi un interesse dell'inquilino a dedurre la nullità di una deliberazione che, nel regolamentare l'uso della cosa comune o nell'imporre illegittime restrizioni all'uso del bene di proprietà esclusiva, possa avere pregiudicato indirettamente il diritto di godimento derivante dal contratto di locazione (Trib. Monza-Desio 8 febbraio 2001). Riguardo alle seconde, atteso che il legislatore ha concesso il diritto di voto al conduttore in certe materie e, quindi, il diritto di partecipare, al posto del locatore-condomino, alla formazione della volontà condominiale, deve essere riconosciuto in capo al primo un autonomo diritto a far valere in sede giudiziaria le eventuali irregolarità di tale manifestazione di volontà (v., di recente, Cass. II, n. 869/2012, la quale ha ribadito che Il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, per il disposto dell'art. 1137 c.c., ai titolari di diritti reali sulle singole unità immobiliari, anche in caso di locazione dell'immobile, salvo che nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, per la quale la decisione e, conseguentemente, la facoltà di ricorrere al giudice, sono attribuite ai conduttori). In altri termini, la titolarità del diritto di voto ex art. 10 della l. n. 392/1978 comporta, come ineludibile conseguenza, anche la titolarità dell'azione di cui all'art. 1137 c.c., non apparendo coerente conferire la predetta legittimazione al proprietario che, in determinati argomenti, per essere considerato estraneo ai riflessi pratici della deliberazione, è stato legislativamente escluso dal diritto di partecipare alla formazione della decisione assembleare sul punto. Comunque, per una corretta impostazione della fattispecie, è preliminare la risoluzione della questione in ordine alla natura del diritto di partecipazione del conduttore, per affrontare poi le problematiche connesse alla sua convocazione, agli effetti dell'omesso avviso e, quindi, all'impugnabilità delle relative deliberazioni. Le opinioni divergevano tra chi reputava sussistere l'obbligo di convocazione da parte dell'amministratore che fosse stato tempestivamente edotto della locazione e chi, invece, poneva a carico del locatore l'obbligo della rituale convocazione dell'inquilino. Seguendo la prima tesi, stante la completa equiparazione del conduttore al condomino operata dall'art. 10 della l. n. 392/1978 – salvo sempre l'onere del locatore di effettuare all'amministratore le necessarie segnalazioni in ordine all'esistenza del rapporto di locazione – doveva concludersi che l'omesso avviso al conduttore viziava la deliberazione, al pari dell'omessa convocazione di un condomino, e rendeva la deliberazione stessa impugnabile ex art. 1137 c.c. Seguendo la seconda tesi, la mancata convocazione avrebbe prodotto, invece, i suoi effetti esclusivamente nel rapporto interno tra proprietario e conduttore, e, in tal senso, era orientata la prevalente giurisprudenza (v., tra le altre, Cass. II, n. 4802/1992), secondo cui l'art. 10 della l. n. 392/1978 non aveva comportato modificazioni al disposto dell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. (vecchio testo), che disciplinava la comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea ai soli «condomini», con la conseguenza che tale avviso doveva essere comunicato al proprietario e non al conduttore dell'appartamento, restando solo il primo a farsi parte diligente per informare il secondo dell'avviso di convocazione ricevuto dall'amministratore onde consentirgli di partecipare alle deliberazioni previste dal citato articolo, senza che le conseguenze della mancata convocazione del conduttore potessero farsi ricadere sul condominio, che rimaneva «estraneo al rapporto di locazione». In altre parole, nell'àmbito del condominio, l'amministratore agiva in forza di un mandato con rappresentanza ricevuto dai singoli condomini, mentre, nell'àmbito del contratto di locazione, il locatore ed il conduttore contraevano reciproci diritti e obblighi, nel contesto di un rapporto che aveva effetto solo inter partes, senza alcun riflesso rispetto ai terzi estranei a tale rapporto, quali il condominio e gli altri condomini. Comunque, non sembrava che potesse operarsi una sostanziale differenza, per quanto attiene alla predetta partecipazione del conduttore ed agli effetti della mancata convocazione, tra deliberazioni concernenti il riscaldamento e quelle relative alle modificazioni degli altri servizi comuni (Caputo, 394): se era pur vero che, per queste ultime, il conduttore non aveva diritto di voto, non per questo doveva ritenersi ininfluente la sua partecipazione, giacché egli risultava legittimato ad intervenire, fare le proprie osservazioni che potevano essere recepite dagli altri condomini, e comunque partecipare alla discussione incidendo sulla formazione di una diversa volontà assembleare, per cui anche le statuizioni concernenti «la modificazione degli altri servizi comuni» potevano essere impugnate dal conduttore che – dall'amministratore o dal proprietario – non era stato invitato a intervenire; tuttavia, una volta convocato, il conduttore non appariva legittimato ad impugnare tali deliberazioni assunte in materie nelle quali aveva soltanto il diritto di intervenire, senza sostituire il locatore-condomino (d'altronde, potendo partecipare alla discussione di cui sopra ma non avendo il diritto di voto, non avrebbe potuto considerarsi tecnicamente «dissenziente»). In ogni caso, si era concordi nel ritenere che si trattava di un'eccezionale interferenza del rapporto di locazione nella sfera condominiale, nel senso che quella sopra delineata non doveva costituire lo spunto per una più generale legittimazione del conduttore all'impugnazione di una deliberazione. Sul punto, il Supremo Collegio (Cass. II, n. 8755/1993) aveva puntualizzato che l'art. 10 della l. n. 392/1978, con il rinvio alle disposizioni del codice civile concernenti l'assemblea dei condomini, riconosceva implicitamente il diritto dell'inquilino di impugnare le deliberazioni viziate, sempre che avessero per oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, tuttavia, al di fuori delle situazioni richiamate, la norma in esame non attribuiva al conduttore il potere generale di sostituirsi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali, sicché doveva escludersi la legittimazione del primo ad impugnare la deliberazione di nomina dell'amministratore nonché di approvazione del regolamento di condominio e del bilancio preventivo (tra le sentenze di merito, si segnala Trib. Cagliari 14 aprile 1992, in ordine alle spese di portierato). In via analogica, si è, di recente statuito (Cass. II, n. 17162/2018) che il generale potere exart. 1137 c.c. di impugnare le deliberazioni condominiali in relazione alle spese necessarie per le parti comuni dell'edificio compete al proprietario della singola unità immobiliare, mentre non spetta all'utilizzatore di un'unità immobiliare in leasing, essendo lo stesso titolare non di un diritto reale, ma di un diritto personale derivante da un contratto ad effetti obbligatori che rimette il perfezionamento dell'effetto traslativo ad una futura manifestazione unilaterale di volontà del conduttore (aggiungendo che, ai fini della legittimazione dell'utilizzatore in leasing alla partecipazione all'assemblea ed alla correlata impugnativa, non può rilevare il principio dell'apparenza del diritto, dando valore dirimente al fatto che quegli si comportasse abitualmente come fosse un condomino, non trovando motivo di applicazione i principi di affidamento e di tutela della apparentia iuris nei rapporti fra condominio e singoli partecipanti ad esso). Nello stesso ordine di concetti, si è statuito (Cass. II, n. 15222/2023) che, in tema di condominio solo i condomini, titolari di diritti reali sulle unità immobiliari, hanno la facoltà di impugnare le deliberazioni dell'assemblea; facoltà riconosciuta anche ai conduttori limitatamente alle ipotesi regolate dall'art. 10, comma 1, della l. n. 392/1978, potendo quest'ultimi, in caso di approvazione di una delibera che arreca pregiudizio, o molestia, all'esercizio del loro diritto di godimento dell'immobile, avvalersi delle tutele di cui agli artt. 1585 e 1586 c.c. In conclusione, anche se l'amministratore sapeva chi fosse il conduttore, oppure gli era stata comunicata l'esistenza di un contratto di locazione, doveva «fingere» di non conoscere l'inquilino e rivolgersi soltanto al proprietario, unico suo legittimo destinatario: infatti, era a lui che doveva indirizzare gli avvisi di convocazione per l'assemblea. Tuttavia, i risultati ermeneutici raggiunti fin qui dalla magistratura di vertice potrebbero essere messi in discussione a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 220/2012, che sembra aver cambiato tale prospettiva, atteso che il comma 7 dell'art. 1136 c.c. – al cui commento si rinvia – attualmente, prevede che «l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati», laddove la versione precedente era nel senso che «l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti i condomini sono stati convocati alla riunione». In buona sostanza, si è volutamente sostituito il termine «condomini» con quello di «aventi diritto», quasi a significare che vi sono altri soggetti, diversi dai condomini, come appunto i conduttori, i quali hanno diritto ad essere convocati all'assemblea direttamente, cioè by-passando il locatore, da parte dell'amministratore (che, pertanto, diventa obbligato in tal senso). Amministratore Di regola, l'amministratore del condominio – che ovviamente non rivesta anche la qualifica di condomino – non è legittimato a contestare giudizialmente le deliberazioni dell'assemblea. E ciò non soltanto perché l'art. 1137, comma 2, c.c. menziona solo i «condomini» assenti, dissenzienti o astenuti, ma anche perché non appare logicamente concepibile che l'amministratore, il quale è incaricato dell'esecuzione delle medesime deliberazioni (art. 1130, n. 1, c.c.), le impugni facendosi carico della tutela giudiziaria delle ragioni della minoranza dissenziente, che, invece, è compito esulante le sue attribuzioni (v. la datata Cass. II, n. 2298/1941; tra le pronunce di merito, v. Trib. Salerno 6 maggio 1964, il quale, però, ammette che l'amministratore possa invocare l'inopponibilità della deliberazione invalida nei suoi confronti nel caso in cui essa sia affetta da nullità insanabile). In una pronuncia (Cass. II, n. 3432/1969), è stata fatta salva l'ipotesi in cui l'invalidità debba farsi valere in via di eccezione nell'interesse del condominio stesso, per contrastare la domanda giudiziale di un singolo condomino fondata sull'esistenza di una decisione invalida; in particolare, in applicazione del principio secondo cui la nullità della deliberazione può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, si è riconosciuta la legittimazione dell'amministratore a proporre la domanda riconvenzionale diretta alla declaratoria della nullità di una deliberazione dell'assemblea approvata contro i limiti delle attribuzioni della stessa e lesiva dei diritti dei condomini sulle parti comuni. Qualora, poi, l'amministratore rivesta contemporaneamente la qualità di condomino, il problema non concerne l'accertamento del cumulo, nel soggetto che ha proposto l'impugnativa, della duplice veste di condomino e di amministratore, in quanto anche il condomino-amministratore non è legittimato all'impugnazione qualora agisca in rappresentanza del condominio, e non invece, come gli è certamente consentito dalla propria qualità di condomino, in proprio. Tale questione interessa quelle ipotesi in cui, relativamente all'instaurazione di una lite, sussista una situazione conflittuale tra l'amministratore ed il condominio dal primo rappresentato: si pensi al caso del condomino-amministratore che intenda impugnare una deliberazione assembleare. In tutti questi casi, è chiaro che l'amministratore non potrebbe validamente essere attore o convenuto, rispettivamente, in proprio e quale legale rappresentante del condominio, o viceversa, né potrebbe instaurare un giudizio nei propri confronti, notificando l'atto introduttivo a se stesso. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che è principio generale del processo civile che, in caso di conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante, debba procedersi alla nomina di un curatore speciale al rappresentato ex art. 78, comma 2, c.p.c.: il termine «rappresentanza» è in tali norme usato nella sua più lata accezione e comprende tutte le ipotesi in cui ad essa facciano capo diversi e autonomi centri di interessi tra loro in contrasto (Cass. II, n. 3757/1975). Ne consegue che il soggetto il quale, rivestendo la qualità di amministratore, intenda agire nei confronti del condominio da esso rappresentato per impugnare una deliberazione assembleare, potrà far ricorso alla procedura menzionata per la nomina di un curatore speciale, nei cui riguardi instaurare la lite; in alternativa, in relazione ai principi generali della materia, è sempre in sua facoltà provvedere alla citazione personale di tutti i condomini, che gli sono ben noti in virtù dell'incarico svolto (Crescenzi, 29). Secondo alcuni (Triola 1995, 117), però, non potrebbe applicarsi analogicamente né l'art. 78 c.p.c., in quanto norma eccezionale che non contempla espressamente il condominio, né l'art. 65 disp. att. c.c., stante la diversità di ratio – a tutela del terzo che non conosce i singoli condomini, né può chiedere al giudice la nomina del rappresentante di un ente a lui estraneo – con l'ipotesi della mancanza dell'amministratore; seguendo questa tesi, l'amministratore-condomino, che voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio da lui rappresentato, dovrebbe prima dimettersi e sollecitare l'assemblea a nominare il suo successore, salvo, in caso di inerzia, richiedere la nomina (in sede camerale) al giudice ex art. 1129, comma 1, c.c. (il cui testo è rimasto sostanzialmente inalterato anche a seguito della Riforma, salvo aggiungere opportunamente la legittimazione anche in capo all'amministratore dimissionario). Legittimazione passivaAmministratore Ai sensi del comma 2 dell'art. 1131 c.c. – immutato anche a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 220/2012 – l'amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente «le parti comuni dell'edificio»; quindi, a differenza della legittimazione attiva, che è – di regola, salvo ampliamenti da parte dell'assemblea – limitata alle questioni connesse alle sue funzioni istituzionali ex art. 1130 c.c., quella passiva riveste una portata generale; nel caso in cui, quindi, il condominio assuma le vesti di convenuto, rispetto ad azioni promosse da terzi o da alcuno dei condomini che investano interessi comuni, l'amministratore è passivamente legittimato a stare in giudizio (v., ex multis, Cass. II, n. 2091/1982; Cass. II, n. 3403/1981; Cass. II, n. 5968/1979). Sul punto, è intervenuto il Supremo Collegio, il quale ha avuto di precisare che, ai sensi dell'art. 1131 c.c., il terzo che vuol far valere in giudizio un diritto nei confronti del condominio ha l'onere di chiamare in giudizio colui che ne ha la rappresentanza processuale secondo la deliberazione dell'assemblea dei condomini, e pertanto non può tener conto di risultanze derivanti da documenti diversi dal relativo verbale, ciò in quanto il principio dell'apparenza del diritto è inapplicabile alla rappresentanza nel processo, essendo in quest'ultimo escluso sia il mandato tacito che l'utile gestione; ne deriva che la notifica di un atto processuale ad un soggetto che non sia stato nominato amministratore del condominio è giuridicamente inesistente, mancando appunto il presupposto della sua legittimazione processuale (Cass. II, n. 65/2002). Tale disciplina trova essenzialmente la sua ratio nella realizzazione di un'evidente esigenza di semplificazione nei rapporti tra il condominio ed eventuali terzi od alcuno degli stessi partecipanti al condominio, che intendano far valere, in sede giudiziale, pretese che attengano a beni o ad interessi comuni (Crescenzi, 54): la norma consente, infatti, di ovviare alla necessità di citare indistintamente una moltitudine di soggetti diversi in situazioni che, attese le sempre più estese dimensioni che va assumendo nella pratica la realtà condominiale (o supercondominiale), finirebbero con il risultare di fatto ostative alla proposizione della causa, senza considerare le difficoltà pratiche di preservare nel corso del relativo giudizio il litisconsorzio passivo nei confronti di tutti i condomini. Inizialmente, si era sostenuto che, essendo l'amministratore passivamente legittimato solo in ordine alle azioni concernenti le parti comuni dell'edificio e nei limiti delle attribuzioni conferitegli dall'art. 1130 c.c., non poteva essere proposta nei suoi confronti l'azione tendente ad invalidare una deliberazione assembleare. Tuttavia, dopo una ormai remota pronuncia (Cass. II, n. 1220/1969), con la quale tutti i condomini sono stati considerati litisconsorzi necessari nelle cause di impugnazione delle deliberazioni assembleari, la Suprema Corte ha, poi, ripetutamente affermato che l'amministratore è legittimato passivo in ordine all'impugnazione delle deliberazioni condominiali, perché riguarda l'interesse comune dei condomini, ancorché in opposizione all'interesse particolare di uno di essi, e tende a soddisfare le esigenze della gestione collettiva (v., tra le altre, Cass. II, n. 14037/1999). Quindi, ai fini dell'esatta individuazione della legittimazione passiva dell'amministratore, occorre soltanto stabilire se la controversia coinvolga interessi concernenti beni, impianti o servizi comuni dell'edificio condominiale, poiché, se, invece, la lite attenga ad interessi individuali o afferisca alle singole proprietà, verrebbe meno la rappresentanza processuale dell'amministratore, e la domanda de qua andrebbe proposta nei confronti del singolo partecipante al condominio. In quest'ottica, l'amministratore del condominio è sicuramente legittimato passivamente nelle cause originate dall'impugnazione di una deliberazione assembleare da parte di un condomino (v., tra le tante, Cass. II, n. 12379/1992; Cass. II, n. 8198/1990), trattandosi appunto di controversie riguardanti beni comuni, senza la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti (Cass. II, n. 12556/2002), e trattandosi di giudizi rientranti nelle sue normali attribuzioni, senza la necessità di una specifica autorizzazione assembleare (Cass. II, n. 4900/1998; Cass. II, n. 7359/1996). Si è, in particolare, rilevato che, nel compito di eseguire le deliberazioni dell'assemblea dei condomini affidato all'amministratore dall'art. 1130, n. 1), c.c. e per il cui espletamento nel successivo art. 1131 gli è riconosciuta la rappresentanza in giudizio del condominio, deve ritenersi implicitamente ricompreso quello di difendere la validità delle stesse deliberazioni (v., tra le più recenti, Cass. II, n. 23550/2020; Cass. II, n. 1421/2014, la quale ha statuito che, in tema di condominio negli edifici, l'amministratore può resistere all'impugnazione della deliberazione assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, giacché l'esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso). L'amministratore è, altresì, legittimato passivamente a rappresentare il condominio nelle controversie in cui sia impugnata la stessa deliberazione assembleare con la quale sia stato nominato, sempre che di tale deliberazione non sia stata disposta la sospensione ex art. 1137, comma 3, c.c., quando sia stato fatto valere un vizio che non determina la nullità, ma solo l'eventuale annullabilità della medesima deliberazione (Cass. II, n. 2309/1985; Cass. II, n. 237/1974). Vero è che il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità, distinta da quella dei suoi partecipanti – i quali, in sostanza, stanno essi stessi in giudizio, sia pure per mezzo dell'organo rappresentativo della collettività – per cui, nella generalità delle controversie condominiali, si ammette che l'esistenza del predetto organo non privi i singoli condomini del potere di agire a difesa sia dei diritti esclusivi che di quelli comuni, compresa la possibilità di impugnare l'eventuale decisione ove l'amministratore resti inerte (v., in generale, Cass. II, n. 11278/1995, e, per le ipotesi conseguenti alle impugnazioni di deliberazioni assembleari, Cass. II, n. 5843/1997), ma si è anche precisato che tali poteri autonomi di azione e di intervento non interferiscono sulla rappresentanza processuale, specie quella passiva, che spetta ex lege esclusivamente all'amministratore, conseguendone che non può ritenersi ammissibile l'opposizione alla deliberazione condominiale proposta nei confronti di soggetti diversi dall'amministratore (Cass. II, n. 2998/1981). È stato, però, puntualizzato che tali principi non trovano applicazione con riguardo alle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di deliberazioni assembleari che tendono a soddisfare esigenze soltanto collettive della gestione condominiale, senza attinenza diretta all'interesse esclusivo di uno o più partecipanti, con la conseguenza che, in tali controversie, la legittimazione ad agire, e, quindi, anche ad appellare, spetta in via esclusiva all'amministratore, la cui acquiescenza alla sentenza – non rileva se sua o aliena sponte - esclude la possibilità di impugnazione proposta dai condomini uti singuli (Cass. II, n. 6480/1998; in senso conforme, Cass. II, n. 8257/1997, nel giudizio di opposizione ad una deliberazione condominiale relativa alla ripartizione delle spese di pulizia del fabbricato, dell'assicurazione del relativo addetto, nonché di acquisto del materiale di pulizia, illuminazione e lampade; Cass. II, n. 2393/1994, la quale ha escluso la possibilità di alcuni partecipanti di impugnare la sentenza sfavorevole al condominio, essendosi gli stessi limitati ad escludere che, nel caso della deliberata riattivazione della porta dell'ascensore al piano rialzato, ricorresse la costituzione di un nuovo servizio). Tornando alla legittimazione passiva dell'amministratore nei giudizi di impugnazione delle deliberazioni condominiali, il predetto principio ha trovato ripetute applicazioni nella giurisprudenza di legittimità. Ad esempio, si è affermata la legittimazione passiva dell'amministratore nel caso in cui un condomino chieda la declaratoria di nullità della deliberazione avente ad oggetto l'utilizzazione a parcheggio per i condomini di un'area di sua proprietà esclusiva, potendo il predetto rappresentante invocare l'esistenza di un vincolo di destinazione ai sensi dell'art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765 (Cass. II, n. 7474/1997); come nella domanda di un condomino volta all'accertamento dell'invalidità della deliberazione assembleare relativa alla trasformazione dell'impianto centralizzato di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas secondo le previsioni della l. 9 gennaio 1991, n. 10 (Cass. II, n. 5843/1997); come nella domanda concernente la legittimità dei distacchi dall'impianto centralizzato di riscaldamento attuati dai singoli condomini a seguito di deliberazione autorizzativa dell'assemblea (Cass. II, n. 852/2000; Cass. II, n. 1302/1998); come con riferimento all'impugnazione della deliberazione di ripartizione delle spese per le cose ed i servizi comuni (Cass. II, n. 590/1980; Cass. II, n. 5769/1978); come in relazione all'impugnazione rivolta al rilievo dell'omessa convocazione di tutti i condomini ed alla contestazione dell'omissione dell'esibizione della documentazione necessaria per l'esame dei bilanci approvati con la deliberazione impugnata (Cass. II, n. 993/1967). In tale contesto, l'amministratore ha anche la facoltà di proporre tutti i gravami che successivamente si rendano necessari in conseguenza della vocatio in ius (Cass. II, n. 3773/2001, con riferimento al ricorso per cassazione, in relazione al quale è legittimato a conferire la procura speciale all'avvocato iscritto nell'apposito albo speciale a norma dell'art. 365 c.p.c.; Cass. II, n. 12204/1997, in fattispecie concernente l'impugnazione di deliberazione assembleare avente ad oggetto la ricostruzione di un edificio ai sensi della l. n. 219/1981). Sul punto, si registra un contrasto all'interno della II Sezione della Corte di Cassazione, riguardo all'eventuale legittimazione concorrente del singolo condomino. Invero, secondo alcune pronunce (Cass. II, n. 16562/2015), nel giudizio di impugnazione della deliberazione dell'assemblea di condomino, il singolo condomino è legittimato ad impugnare la sentenza emessa nei confronti dell'amministratore e da questi non impugnata, anche qualora la deliberazione controversa persegua finalità di gestione di un servizio comune ed incida sull'interesse esclusivo del condomino soltanto in via mediata; tale assunto trova il suo presupposto sull'orientamento tradizionale, secondo il quale, configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l'esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l'amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti esclusivi e comuni inerenti all'edificio condominiale, non sussistendo impedimenti, pertanto, a che i singoli condomini, non solo intervengano nel giudizio in cui tale difesa sia stata assunta dall'amministratore, ma anche si avvalgano, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall'amministratore, non spiegando influenza alcuna, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione di tale sentenza da parte dell'amministratore (v., tra le altre, Cass. III, n. 10717/2011; Cass. II, n. 12588/2002). In senso contrario, si è sostenuto che, nel condominio di edifici, il principio secondo cui l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore del condominio e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti del condominio, non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di deliberazioni della assemblea condominiale che perseguono finalità di gestione di un servizio comune e tendono ad soddisfare esigenze soltanto collettive, senza attinenza diretta all'interesse esclusivo di uno o più partecipanti, conseguendone che, in tali controversie la legittimazione ad agire, e quindi ad impugnare, spetta in via esclusiva all'amministratore, con esclusione della possibilità di impugnazione da parte del singolo condomino (Cass. II, n. 29748/2017, con riferimento alla deliberazione approvativa della ripartizione delle spese per il servizio di autospurgo; Cass. II, n. 19223/2015, riguardo alla deliberazione di nomina dell'amministratore; cui adde Cass. II, n. 9213/2005, sul presupposto che, in tali controversie, non vi è correlazione immediata con l'interesse esclusivo di uno o più partecipanti, bensì con un interesse direttamente collettivo e solo mediatamente individuale al funzionamento e al finanziamento corretti dei servizi stessi). Al riguardo, si è, di recente, chiarito (Cass. II, n. 2636/2021) che, nel giudizio di impugnazione di una delibera assembleare ex art. 1137 c.c., i singoli condomini possono volontariamente costituirsi mediante intervento che, dal lato attivo, va qualificato come adesivo autonomo (con la facoltà di coltivare il procedimento nei vari gradi di lite, anche in presenza di rinuncia o acquiescenza alla sentenza da parte dell'originario attore), ove essi siano dotati di autonoma legittimazione ad impugnare la delibera, per non essersi verificata nei loro confronti alcuna decadenza, o, se quest'ultima ricorra, come adesivo dipendente (e, dunque, limitato allo svolgimento di attività accessoria e subordinata a quella della parte adiuvata, esclusa la possibilità di proporre gravame); tale ultima è la qualificazione da riconoscersi, altresì, all'intervento, ove questo sia a favore del condominio, siccome volto a sostenere la validità della delibera impugnata, stante la legittimazione processuale passiva esclusiva dell'amministratore nei giudizi relativi all'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea, non trattandosi di azioni relative alla tutela o all'esercizio dei diritti reali su parti o servizi comuni. Condominio privo di rappresentante Resta da verificare cosa succede qualora il condomino, che voglia promuovere il giudizio di impugnazione della deliberazione assembleare, si trovi davanti a sé un condominio privo di amministratore. In tale ipotesi, colui che volesse iniziare una lite nei confronti del condominio dovrebbe notificare – e non solo potrebbe – l'atto di citazione a tutti i condomini (Cass. II, n. 255/1983), previa identificazione degli stessi, comportando così notevoli difficoltà pratiche (si pensi, ad esempio, al fenomeno attuale del c.d. supercondominio). Del resto, è chiaro che, nel caso di cui sopra, se la predetta domanda non sia proposta nei confronti di tutti i partecipanti, la relativa decisione sarebbe inutiliter data (v., tra le altre, Cass. II, n. 5566/1988), con la conseguenza che, ove si accerti in sede di gravame il difetto di integrità del contraddittorio, per essere stati convenuti in giudizio soltanto alcuni dei condomini, il giudice di appello, a norma dell'art. 354 c.p.c., dovrebbe dichiarare la nullità della sentenza impugnata, e rimettere la causa al giudice di primo grado per l'integrazione del contraddittorio e la trattazione della stessa con la partecipazione di tutti i condomini (Cass. II, n. 3805/1996). Per ovviare all'inconveniente relativo alla mancanza dell'amministratore, l'art. 65 disp. att. c.c. – che riproduce, in sostanza, l'art. 22 del r.d. 15 gennaio 1934, n. 56, e non risulta modificato con l'entrata in vigore della l. n. 220 del 2012 – prevede che, quando per qualsiasi causa, manca il legale rappresentante dei condomini, chi intende iniziare o proseguire una lite contro i partecipanti ad un condominio può richiedere la nomina di un curatore speciale» ai sensi dell'art. 80 c.p.c. Trattasi, pur sempre, di un'iniziativa lasciata alla discrezionalità del terzo, il quale potrebbe azionare il giudizio di impugnazione della deliberazione condominiale citando singolarmente i condomini, rinunciando alla facoltà di convenire nella lite una sola persona, fino a che ciò torni a lui comodo o fino a che i condomini non si decidano a nominare un loro legale rappresentante (al contempo, la legittimazione passiva del curatore speciale non menoma il potere di ciascun condomino di resistere individualmente). Sul punto, si è, tuttavia, osservato (Triola, 1995, 6) che, tenuto conto della ratio della norma e della sua formulazione («contro i partecipanti»), tale nomina possa essere richiesta soltanto da un terzo estraneo al condominio, e non da uno dei partecipanti allo stesso che volesse iniziare un giudizio nei confronti del condominio; infatti, il condomino – che, nel caso di specie, vuole introdurre una causa di impugnazione della deliberazione assembleare – avrebbe la possibilità di far precedere l'instaurazione del giudizio dalla richiesta di nomina, da parte dell'autorità giudiziaria in sede camerale, dell'amministratore ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c., al quale, poi, notificherà l'atto introduttivo della lite. Risulta, invece, controverso se la nomina del curatore speciale riguardi solo i condominii con più di quattro partecipanti, per i quali è obbligatoria la nomina dell'amministratore – art. 1129, comma 1, c.c., che attualmente innalza la soglia a otto partecipanti – o anche per i condominii c.d. minori. In senso favorevole ad un'interpretazione restrittiva, si è invocato (Peretti Griva, 571) il fatto che l'art. 65 citato prevede il caso in cui manchi il «legale» rappresentante del condominio, ed il legale rappresentante non può essere che quello reso obbligatorio dalla legge, il che si verifica nei condominii con più di quattro partecipanti, mentre per quelli al di sotto di tale soglia l'esiguo numero dei condomini non giustificherebbe, per apprezzabili ragioni economiche, la misura obbligatoria dettata, per il caso di mancata provvidenza delle parti, dalla norma in questione. In senso estensivo, si è osservato (Branca 1982, 524), invece, che la suddetta norma è finalizzata alla tutela del terzo che voglia agire in giudizio nei confronti di una collettività di soggetti, cui non corrisponda un unico centro di riferimento degli effetti della citazione; con l'espressione «legale rappresentante», il legislatore ha inteso riferirsi all'amministratore in genere, al quale tale qualifica viene riconosciuta dall'art. 1131 c.c.; il procedimento per la nomina in oggetto non è obbligatorio («può»), ed il terzo sarà arbitro di vagliare la convenienza o meno, anche sotto il profilo economico, del procedimento de quo. In ogni caso, la norma in esame contempla ogni ipotesi di mancanza dell'amministratore («per qualsiasi causa»), sicché la nomina del predetto curatore potrebbe avvenire sia nell'ipotesi in cui il condominio non abbia ab origine provveduto a tale nomina in sede assembleare (e nessuno dei condomini si sia rivolto al giudice per tale incombente ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c.), sia nell'ipotesi in cui l'amministratore, inizialmente nominato, sia successivamente venuto meno (per morte, per perdita della capacità di agire, per dimissioni accettate dall'assemblea senza provvedere alla nomina del successore, per revoca ex art. 1129, comma 12, c.c., per sospensione della deliberazione di nomina in forza dell'art. 1137 c.c., mentre negli altri casi di scadenza dell'incarico dovrebbe operare il regime della prorogatio, anche se la Riforma del 2013 ne ha notevolmente circoscritto l'operatività). Litisconsorzio necessario Dunque, deve ritenersi ricompresa nell'àmbito dei poteri rappresentativi demandati all'amministratore medesimo la difesa del condominio in relazione alle questioni concernenti la validità delle deliberazioni assembleari, restando inteso che l'azione diretta alla dichiarazione di invalidità delle suddette statuizioni può anche, a discrezione dell'impugnante, essere proposta nei riguardi di tutti i condomini, che dovranno quindi essere citati personalmente; così si determina un'ipotesi di litisconsorzio necessario, con l'ovvia conseguenza di dover integrare il contraddittorio nei confronti degli eventuali condomini pretermessi, e in questo secondo caso il litisconsorzio è reso necessario dal fatto che un condomino non rappresenta l'intera collettività, per cui è nei confronti di questa, quale autrice, che la deliberazione deve essere attaccata. Sussistono, tuttavia, anche ipotesi in cui il giudizio di impugnazione delle deliberazioni assembleari instaurato nei confronti del condominio, pur nella presenza dell'amministratore, implica necessariamente – e, quindi, non a mera discrezione del soggetto che intraprende l'iniziativa giudiziaria – la partecipazione di tutti i condomini. Si pensi al caso delle tabelle millesimali, in ordine alle quali la Corte di Cassazione ha operato un corretto distinguo, evidenziando che occorre differenziare l'ipotesi di impugnazione della deliberazione che a maggioranza approva o modifica le tabelle millesimali, e l'ipotesi di impugnazione delle tabelle medesime: in ordine alla prima, che costituisce un'azione di accertamento dell'impossibilità dell'oggetto per difetto di competenza dell'assemblea, è legittimato passivamente soltanto l'amministratore, mentre, in ordine alla seconda, come in tutte le azioni dirette ad ottenere una modificazione in sede giudiziale delle tabelle medesime – posto che la determinazione dei valori millesimali delle unità immobiliari viene ad incidere sui diritti e sugli obblighi dei singoli partecipanti al condominio – sono legittimati passivi tutti i condomini, stante la natura contrattuale dell'atto di approvazione delle tabelle millesimali (Cass. II, n. 14037/1999). Si pensi, poi, al regolamento di condominio, relativamente al quale si è sottolineato che l'azione promossa per ottenere la declaratoria della nullità, totale o parziale, del regolamento medesimo è esperibile – non da o nei confronti del condominio, nella persona dell'amministratore, carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma – da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in una situazione di litisconsorzio necessario, non potendo, altrimenti, risultare utiliter data l'eventuale sentenza di accoglimento (Cass. II, n. 12342/1995). Si pensi, infine, all'ipotesi di scioglimento del condominio, in ordine alla quale gli ermellini hanno avuto modo di precisare che l'art. 784 c.p.c. è norma speciale rispetto all'art. 1131, comma 2, c.c., e, pertanto, malgrado quest'ultima disposizione conferisca all'amministratore di condominio la legittimazione passiva per qualunque azione, se un condomino chiede lo scioglimento della comunione su un bene comune e la conseguente modifica dell'uso di esso, è necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, onde tutelare più intensamente le loro ragioni nella trasformazione delle rispettive facoltà di godimento (Cass. II, n. 4655/1998). Interessante si rivela una recente precisazione degli ermellini (Cass. II, n. 20612/2017), i quali, premesso che esula dai limiti della legittimazione passiva dell'amministratore una domanda volta ad ottenere l'accertamento, in capo ad un singolo, della proprietà esclusiva su di un bene altrimenti comune, giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini, hanno affermato che, nel giudizio di impugnazione avverso una deliberazione assembleare in cui la legittimazione passiva spetta all'amministratore, l'allegazione, ad opera del ricorrente, della proprietà esclusiva del bene su cui la suddetta deliberazione abbia inciso – nella specie, l'area cortilizia antistante il fabbricato, oggetto di assegnazione assembleare quale spazio a parcheggio per le autovetture dei condomini – può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell'atto collegiale ma privo di efficacia di giudicato in ordine all'estensione dei diritti reali dei singoli. Orbene, secondo alcuni (Crescenzi, 54), anche in tali casi di legittimazione passiva di tutti i condomini, non è apparsa ultronea la citazione dell'amministratore, in quanto soggetto tenuto, ai sensi dell'art. 1130, n. 1), c.c., a dare attuazione alle deliberazioni assembleari e, quindi, destinatario anch'egli degli effetti della pronuncia. La questione ha una notevole rilevanza pratica qualora l'azione di impugnativa della deliberazione assembleare sia stata o meno erroneamente proposta nei confronti dell'amministratore in rappresentanza del condominio: o si esclude la legittimazione passiva dell'amministratore, e allora il processo è stato instaurato nei confronti di un soggetto non legittimato, conseguendone che la domanda dovrà essere rigettata, oppure si ritiene che l'amministratore sia comunque titolare di una legittimazione passiva rispetto alla domanda di accertamento dell'invalidità di una deliberazione, e allora si dovrà integrare il contraddittorio ex art. 102, comma 2, c.p.c. nei confronti dei singoli condomini individualmente considerati, e ciò anche se, come è normale che avvenga, sia ormai trascorso il termine di decadenza di trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c. – prescritto, peraltro, per le sole deliberazioni annullabili – poiché detta decadenza è stata evitata con la proposizione del giudizio in tempo ed è prevista dalla legge nei confronti del condominio e non dei singoli. Interesse ad impugnareDeliberazioni annullabili Tra le condizioni dell'azione, nel caso di specie di impugnativa, vi è, oltre la legittimazione attiva – esaminata supra – anche l'interesse ad agire. L'art. 100 c.p.c. prevede che, per proporre una domanda in giudizio, è necessario avervi interesse, sicché l'interesse ad agire può essere definito come il rapporto di utilità corrente tra la lesione di un diritto, che è stata affermata, ed il provvedimento di tutela giurisdizionale, che viene domandato. Esso si distingue dall'interesse «sostanziale», per la cui protezione si intenta l'azione: l'interesse ad agire è perciò un interesse «processuale», secondario e strumentale rispetto all'interesse sostanziale primario, ed ha per oggetto il provvedimento che si domanda al magistrato, come mezzo per ottenere il soddisfacimento dell'interesse primario, rimasto leso dal comportamento della controparte (o, più genericamente, dalla situazione di fatto oggettivamente esistente). Quando l'interesse sostanziale non è riscontrabile o è già stato soddisfatto, viene a mancare il presupposto per lo svolgimento dell'attività giurisdizionale, perché non sono ammissibili le astratte dichiarazioni di diritto, essendo appunto l'attività processuale condizionata alla necessità di un interesse concreto ed attuale delle parti. Per stabilire, quindi, se sussista l'interesse ad agire, come condizione dell'azione, non si possono prendere in esame fatti eventuali o ipotetici, ma è necessario che esistano circostanze concrete che dimostrino l'esistenza di un pregiudizio attuale (e non meramente potenziale) rispetto alla temuta lesione del diritto; nella valutazione dell'interesse ad agire, il giudice deve, poi, fare riferimento alle ragioni prospettate dalle parti ed alla concreta utilità che esse si possano ripromettere di ottenere dall'accoglimento della domanda. Fatte queste premesse generali, va ora esaminato l'atteggiarsi dell'interesse ad agire per quanto riguarda l'impugnazione della deliberazione condominiale: orbene, in base ai principi generali del nostro ordinamento giuridico, per impugnare una decisione assembleare è necessario che l'attore abbia un interesse giuridicamente rilevante alla sua caducazione. Nell'affrontare tale tematica, la giurisprudenza ha sottolineato la distinzione tradizionale tra deliberazioni annullabili e nulle. In particolare, si affermava che, in tema di azione di annullamento delle statuizioni condominiali, la legittimazione ad agire attribuita dall'art. 1137 c.c. ai condomini dissenzienti e assenti non era subordinata alla deduzione ed alla prova di uno specifico interesse diverso da quello della rimozione dell'atto impugnato, deliberato in conseguenza delle violazioni di legge o del regolamento condominiale, essendo l'interesse ad agire, richiesto dall'art. 100 c.p.c. come condizione dell'azione di annullamento anzidetta, costituito proprio dall'accertamento dei vizi formali di cui sono affette le deliberazioni, oltre a sostanziarsi nell'utilità di ciascun partecipante allo svolgimento delle relazioni condominiali nel rispetto delle regole (v., tra le altre, Cass. II, n. 17276/2005; Cass. II, n. 4270/2001; Cass. II, n. 2912/1997; analogamente, circa l'impugnazione delle deliberazioni societarie, v. Cass. I, n. 10814/1996). Non occorreva, quindi, da parte del condomino impugnante, quell'allegazione e dimostrazione della concreta lesione del suo diritto, che era stata richiesta in precedenza, quando non si riteneva sufficiente la mera affermazione dell'illegittimità formale della deliberazione (Celeste, 2006, 33). Di recente, però, gli ermellini sembrano richiedere anche l'esistenza del pregiudizio in concreto subìto, statuendo che l'interesse all'impugnazione per vizi formali di una deliberazione dell'assemblea, ai sensi dell'art. 1137 c.c., pur non essendo condizionato al riscontro della concreta incidenza sulla singola situazione del condomino, postula comunque che la deliberazione in questione sia idonea a determinare un mutamento della posizione dei condomini nei confronti dell'ente di gestione, suscettibile di eventuale pregiudizio (Cass. II, n. 11214/2013: nella specie, si è confermata la sentenza di merito, la quale aveva dichiarato la carenza di interesse del condomino all'impugnativa di due deliberazioni, l'una concernente la nomina di un tecnico per la verifica di necessità dei lavori di manutenzione sollecitati dallo stesso ricorrente, e l'altra volta a precisare la portata della precedente espressione della volontà assembleare, proprio nel senso di eliminare il contenuto negativo ravvisato dal singolo partecipante nella prima deliberazione). Il che, peraltro, si rivelava conforme ad un orientamento giurisprudenziale (Cass. S.U., n. 1831/1955), per il quale, qualora si trattasse di rimuovere una situazione determinata con atto annullabile, cioè si tendesse ad una pronuncia costitutiva di annullamento, bastava l'allegata esistenza del vizio a determinare l'interesse, mentre le diverse conseguenze pratiche costituivano, nello stesso giudizio, un plus rispetto alla domanda di annullamento (e, quindi, sebbene tutte o alcune di esse fossero inaccoglibili, ciò nonostante permaneva l'interesse a conseguire la rimozione dell'atto annullabile, qualora non potesse escludersi assolutamente che, dalla pronuncia di annullamento, conseguivano effetti pratici a vantaggio di colui che l'aveva ottenuta). Di recente, si è chiarito, sul punto, che sussiste l'interesse del condomino a promuovere l'azione di annullamento di una delibera condominiale avente ad oggetto crediti del medesimo di valore minimo, in quanto dal principio che la giurisdizione è risorsa statuale limitata - potendo la legge limitare, espressamente o implicitamente, il ricorso ad essa onde garantire la durata ragionevole del processo ex artt. 111 Cost. e 6 CEDU – non può, tuttavia, derivare il potere del giudice di stabilire limitazioni all'accesso al giudizio di legittimità, posto che nel nostro ordinamento la giurisdizione si attua mediante il giusto processo ed è sempre ammesso il diritto di ricorrere per cassazione avverso le sentenze per violazione di legge; diritto il cui esercizio non dipende dal valore economico della controversia, soprattutto ove la predetta azione miri ad una verifica giudiziale della correttezza del modus operandi dell'amministratore nella generale iscrizione dei pagamenti in bilancio (Cass. II, n. 9544/2023). Resta inteso — ad avviso di Cass. VI/II, n. 21339/2017 – che, ove il giudice abbia dichiarato nulla una deliberazione dell'assemblea, deve escludersi l'interesse della parte a impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della qualificazione del vizio in termini di annullabilità della deliberazione medesima, salvo che a quest'ultima sia ricollegabile una diversa statuizione contraria all'interesse della parte, quale, ad esempio, la non soggezione della relativa impugnazione al termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c. Deliberazioni nulle Diverso discorso doveva, invece, farsi relativamente alle deliberazioni affette da nullità, che poteva essere fatta valere, secondo i principi generali – al di fuori del termine di decadenza di cui all'art. 1137 c.c. – mediante un'azione di accertamento imprescrittibile, esperibile da chiunque vi avesse interesse e, quindi, non solo dalla minoranza dissenziente o assente (v., anche se datata, Cass. II, n. 1853/1968, e, tra le pronunce di merito, Trib. Firenze 14 marzo 1963). Oltre alla particolare posizione del conduttore e dell'amministratore, che non sono condomini, non sembrava, però, che l'interesse a dedurre la nullità della deliberazione assembleare potesse sorgere in soggetti estranei al condominio, stante che la stessa statuizione risultava, per sua intrinseca natura, destinata ad esplicare i suoi effetti esclusivamente nell'àmbito del condominio. In questa prospettiva, si era messo in luce (Cass. II, n. 8135/2004) che la legittimazione generale prevista dall'art. 1421 c.c. all'azione di nullità non esimeva l'attore dall'onere di dimostrare il proprio, concreto interesse ad agire, e perciò, se oggetto dell'impugnazione era una deliberazione condominiale, essa non poteva esser impugnata per nullità da un terzo estraneo al condominio, bensì per l'esperibilità di detta azione era necessaria la qualità di condomino – presente o assente, consenziente o dissenziente che fosse stato all'approvazione della deliberazione impugnata – la quale costituiva requisito essenziale per la configurabilità del suo interesse ad agire per la nullità della deliberazione medesima. In generale, si affermava che colui il quale proponeva l'azione di nullità doveva comunque dimostrare di avere un concreto interesse ad evitare, a mezzo della pronuncia del giudice, una lesione del proprio diritto e il conseguente danno alla sua sfera giuridica, sicchè doveva essere valutata la posizione di vantaggio effettivo che dalla pronuncia di merito poteva derivare (ad ogni buon conto, la lesione del diritto non era più attuale se l'atto nullo aveva esaurito nel tempo ogni effetto, mentre l'azione non poteva essere esperita a tutela di un danno futuro). Riguardo alle delibere condominiali nulle, la valutazione dell'interesse all'impugnazione si poneva in termini di strumentalità rispetto alla decisione sull'eventuale rilevabilità d'ufficio della medesima nullità, nel senso che se, da un lato, il giudice poteva e doveva rilevare la nullità dell'atto posto a fondamento della domanda, dall'altro, ciò non avrebbe avuto utilità alcuna ove la stessa parte non aveva interesse a che la suddetta nullità fosse dichiarata. In particolare, è opportuno richiamare qualche caso concreto affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, stante che la possibilità di impugnare la deliberazione viene riconosciuta anche a chi ha partecipato all'assemblea ed abbia espresso voto favorevole alla decisione che si assume nulla. In proposito, deve considerarsi ius receptum la legittimazione ad impugnare le deliberazioni nulle anche a chi, con il suo voto favorevole, abbia partecipato alla formazione della deliberazione impugnata, in quanto, da un lato, il principio di cui all'art. 1421 c.c., per il quale la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, salvo diverse disposizioni di legge, non risulta derogato dalle norme in tema di comunione e di condominio, e, dall'altro, la regola per cui chi ha concorso a dare causa alla nullità non può farla valere (art. 157 c.p.c.) è propria della materia processuale, ma è estranea alla materia sostanziale, dove l'azione è concessa anche a chi abbia partecipato alla stipulazione di un atto nullo (Cass. II, n. 5125/1993). Dunque, il condomino è legittimato ad impugnare con azione di nullità ex art. 1421 c.c. una deliberazione come esorbitante i poteri che competono all'assemblea, purché deduca e dimostri di avere interesse all'accertamento della nullità, e cioè che la deliberazione impugnata gli arreca un apprezzabile pregiudizio, non essendo sufficiente un mero interesse alla legittimità formale della deliberazione (Cass. II, n. 12281/1992; Cass. II, n. 10602/1990: nella specie, un condomino, avente l'uso esclusivo di una parte del lastrico solare, aveva fatto valere la nullità della deliberazione che aveva deciso il rifacimento della pavimentazione per tutta la superficie del lastrico medesimo, sostituendo altro tipo di mattonato a quello preesistente, senza indicare quale concreto pregiudizio era a lui derivato dall'anzidetta sostituzione; Cass. II, n. 244/1974; contra, in un primo momento, Cass. II, n. 3735/1978, sul presupposto che il condomino favorevole aveva contribuito al perfezionamento della volontà collettiva; tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Pescara 31 gennaio 2000, e Trib. Palermo 26 marzo 1968, che ha escluso l'interesse ad agire, trattandosi di deliberazione di ripartizione delle spese in cui la quota a carico del condomino impugnante era inferiore a quella dovuta). Con riferimento alla richiesta dichiarazione di nullità della deliberazione presa non all'unanimità, ma a maggioranza, concernente la ripartizione delle spese ex art. 1123 c.c., si è ravvisato l'interesse ad agire nella violazione del diritto del condomino di concorrere alle spese per le cose comuni in misura non superiore a quella dovuta per legge (Cass. II, n. 4197/1986, riguardo alla caldaia comune le cui spese erano state suddivise in parti uguali; Cass. II, n. 1600/1988; in argomento, v., da ultimo, Cass. VI/II, n. 6128/2017, ad avviso della quale il condomino che intenda impugnare una deliberazione dell'assemblea, per l'assunta erroneità della disposta ripartizione delle spese, deve allegare e dimostrare di avervi interesse, il quale presuppone la derivazione dalla detta deliberazione di un apprezzabile pregiudizio personale, in termini di mutamento della sua posizione patrimoniale). È stata ritenuta (Cass. II, n. 15377/2000) correttamente e logicamente motivata la decisione che aveva escluso l'interesse del ricorrente ad impugnare la deliberazione condominiale con la quale erano state modificate le tabelle millesimali in seguito alle mutate condizioni di una parte dell'edificio, come conseguenza delle innovazioni di vasta portata, consistenti nel mutamento della destinazione degli immobili sottotetto, senza che da tale modifica ex art. 69, n. 2), disp. att. c.c. derivasse al ricorrente stesso alcun pregiudizio, non potendosi considerare concretamente tale il dedotto minor peso che allo stesso sarebbe derivato dalla deliberazione in conseguenza della diminuzione dei millesimi del suo appartamento, né la circostanza che questo, in seguito alla trasformazione del sottotetto, non si trovasse più all'ultimo piano, e, perciò, avesse subìto una diminuzione di valore (in proposito, v., altresì, Cass. II, n. 14037/1999). Mancanza di pregiudizio Non sempre tutte le determinazioni dell'assemblea appaiono in realtà suscettibili di incidere nella sfera giuridico-patrimoniale dei condomini. Si pensi, ad esempio, alle deliberazioni di carattere meramente programmatico, con le quali l'assemblea decida di inserire una determinata questione all'ordine del giorno di una futura riunione, o quelle con le quali si limiti a differire una decisione, o quelle con cui si affida all'amministratore incarichi esplorativi o conoscitivi, oppure si riservi la valutazione dell'opportunità di una spesa all'acquisizione di preventivi. Quantunque adottate a seguito di una regolare votazione, in linea generale, dovrebbe escludersi l'impugnazione di tali deliberazioni, per il difetto di un reale interesse del condomino alla loro caducazione, e ciò anche qualora esse riflettano un atteggiamento dell'assemblea tendenzialmente elusivo della questione che le sia stata prospettata, in quanto, comunque, l'eventuale dichiarazione di invalidità non comporta alcun vantaggio pratico per l'impugnante. Tuttavia, anche se è vero che la mancata impugnazione nei termini non determina alcuna preclusione per il condomino in ordine all'impugnazione di una successiva deliberazione di contenuto precettivo e definitivo, non può negarsi, in assoluto, che, di fronte ad una deliberazione programmatica, vi possa essere l'interesse del condomino a far accertare, ad esempio, l'illegittimità o l'impossibilità di quanto il condominio si propone di realizzare, al fine di eliminare ogni incertezza sul punto (Cass. II, n. 5084/1993). Nella stessa prospettiva, dovrebbe escludersi l'impugnabilità delle deliberazioni meramente confermative di precedenti deliberazioni non impugnate, giacché, dall'eventuale caducazione in sede giudiziale degli effetti della seconda deliberazione, non deriverebbe alcun beneficio al condomino impugnante; in quest'ordine di concetti, è stato affermato che qualora – secondo l'incensurabile apprezzamento del giudice di merito – una deliberazione costituisca semplice conferma di una precedente deliberazione, non è dato al condomino dissenziente, che abbia omesso di impugnare la precedente deliberazione, di proporre impugnazione contro la deliberazione confermativa (Cass. II, n. 2694/1950). E ciò a meno che, nell'ordine del giorno, venga inserita la conferma di una precedente deliberazione, espressamente chiamando l'assemblea a pronunciarsi sull'eventuale revoca di tale deliberazione: in questa ipotesi, non potrebbe negarsi al condomino, che abbia interesse a che tale deliberazione non venga eseguita, la legittimazione ad impugnare la nuova pronuncia dell'assemblea ove non assunta secondo le forme prescritte dalla legge o dal regolamento condominiale. Analogamente, per quanto concerne le deliberazioni che si limitano a stabilire le modalità esecutive di una precedente deliberazione non impugnata, l'interesse ad agire sarà valutato con riferimento solo alle statuizioni specificatamente concernenti le modalità di attuazione, cosicché se queste non sono di per sé suscettibili di conseguenze pregiudizievoli per gli interessi del condomino, dovrebbe essere esclusa la sussistenza di un reale interesse alla proposizione di un'impugnazione. Per converso, è stato affermato che, per l'approvazione di innovazioni che comportino un mutamento di destinazione della cosa comune, con conseguente esclusione permanente del singolo condomino dall'uso e godimento della cosa stessa, l'interesse del singolo condomino ad ottenere la declaratoria di invalidità della deliberazione assembleare, che deve persistere in tutti i gradi del processo fino alla pronuncia finale, non viene meno a seguito di successive deliberazioni che, presupponendola, si limitino a stabilirne le modalità di esecuzione (Cass. II, n. 6817/1988). Dubbi dovrebbero sussistere per escludere che possa essere autonomamente impugnata una deliberazione il cui contenuto sia il necessario presupposto di una successiva deliberazione assembleare non impugnata: si pensi al caso del condominio che decida, invalidamente, di eseguire dei lavori, provvedendo in una successiva assemblea ad approvare, validamente, le spese necessarie e la loro ripartizione, sicché è opinabile che si possa configurare l'interesse del condomino a far valere eventuali cause di nullità della prima deliberazione, in quanto implicitamente ratificata, nel suo contenuto, dalla successiva manifestazione di volontà dell'assemblea. Inoltre, non potrebbe in astratto negarsi al condomino, il quale abbia interesse a che non venga data concreta attuazione ad una decisione assembleare, la possibilità di impugnare la deliberazione esecutiva, ove la stessa non sia stata adottata, ad esempio, nel rispetto delle forme previste dalla legge o dal regolamento di condominio. Accade spesso nella pratica che l'assemblea prenda una deliberazione di massima, per giungere ad una definitiva approvazione solo in una successiva assemblea, dando mandato all'amministratore di porre in essere quel deliberato e determinato comportamento; ad esempio, il singolo potrebbe esercitare la facoltà di escludersi dall'utilizzo di un dato servizio, con conseguente esonero dal contributo della spesa, se non nel momento in cui l'importo della medesima spesa sia effettivamente conosciuto dal condomino. Quanto, infine, alle deliberazioni di contenuto negativo, l'interesse ad agire dovrà essere valutato con riferimento alla possibilità di ottenere in sede giudiziale un provvedimento che supplisca alla manifestazione di volontà dell'assemblea: si pensi al caso in cui si rigettino proposte o iniziative del condomino impugnante riguardo all'allegazione di lavori necessari o improcrastinabili di manutenzione dell'edificio condominiale, dove l'eventuale contenuto negativo della deliberazione potrà legittimare l'impugnazione ex art. 1137 c.c. sotto il profilo dell'eccesso di potere, per il grave pregiudizio derivante alle cose comuni (v. infra). Non sarà, invece, ravvisabile un interesse all'impugnazione qualora sia preclusa la possibilità di un intervento sostitutivo: si pensi alla deliberazione assembleare che abbia negato lo scioglimento del condominio ex art. 61 disp. att. c.c., perché l'autorità giudiziaria, investita della relativa impugnazione, non potrà comunque dar corso alla separazione dei condominii se gli attori non rappresentino almeno un terzo dei comproprietari della parte scorporanda, e, quindi, in difetto di tali presupposti soggettivi, non appare ravvisabile alcun reale interesse alla dichiarazione di invalidità della deliberazione assembleare de qua. Sul punto, è intervenuto il Supremo Collegio – in una fattispecie in cui era stata respinta la proposta di ripristino degli ascensori di servizio – secondo il quale la tesi della non impugnabilità delle deliberazioni aventi un contenuto negativo non solo non trova riscontro in alcuna norma di legge, ma è priva di qualsiasi logica: invero, l'art. 1137 c.c. si limita a stabilire la possibilità del ricorso all'autorità giudiziaria contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, senza operare nessuna distinzione tra statuizioni che abbiano approvato proposte o richieste e statuizioni che le abbiano respinte; deve, inoltre, considerarsi che, talvolta, la deliberazione con cui viene respinta la proposta o la richiesta di un determinato provvedimento è suscettibile di condizionare gli interessi dei singoli condomini in maniera anche più incisiva di una deliberazione di senso contrario; ciò senza rilevare che il regolamento condominiale o la legge possono essere violati anche negando qualcosa che, invece, in base alle norme regolamentari o legislative, deve essere accordata, e non vi sarebbe ragione per escludere la tutela giurisdizionale in tali situazioni (Cass. II, n. 313/1999). In ogni caso, dovrebbe escludersi che il condomino attore possa limitarsi ad impugnare la deliberazione di contenuto negativo, senza promuovere, nello stesso momento o nell'àmbito di un altro giudizio che risulti già pendente, l'accertamento del proprio diritto negato in sede assembleare (ad esempio, diritto di distaccarsi dall'impianto di riscaldamento centralizzato, o diritto di apporre un'insegna sul muro condominiale, o diritto di realizzare una veranda sul proprio balcone). Cessazione della materia del contendere L'interesse ad impugnare di cui sopra deve non solo sussistere al momento della proposizione dell'azione, ma deve permanere nel corso del giudizio. È, infatti, innegabile che l'interesse ad agire, originariamente sussistente al momento della proposizione dell'impugnazione, possa venire meno nel corso del giudizio per l'intervento di fatti nuovi: deve, infatti, ritenersi pienamente legittimo, da parte dell'assemblea condominiale, intervenire su una deliberazione – nulla o annullabile – già impugnata in sede giudiziale, atteso che, di regola, le deliberazioni assembleari non sono irrevocabili (v., di recente, Cass. II, n. 2636/2021, secondo cui l'assemblea ha il potere di decidere le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nonché di modificare quelle in atto, anche revocando una o precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti e stabilendone liberamente gli effetti, sulla base di una rivalutazione - il cui sindacato è precluso al giudice di merito, se non nei limiti dell'eccesso di potere - dei dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, non producendosi alcun autonomo diritto acquisito in capo ai condomini, o ai terzi, soltanto per effetto ed in sede di esecuzione della precedente delibera). Il caso classico che qui interessa è quello in cui l'assemblea abbia nuovamente e validamente deliberato in ordine allo stesso tema oggetto della deliberazione impugnata, con revoca, espressa o implicita, della statuizione viziata. Sul punto, si è comunemente ritenuto (Paparo, 579) che il disposto dell'art. 2377, ultimo comma, c.c. – secondo cui l'annullamento della deliberazione non può essere pronunciato se la statuizione impugnata è stata sostituita da altra presa in conformità della legge e dell'atto costitutivo – benché dettato con riferimento alle società per azioni, sia ormai pacificamente ritenuto di carattere generale, e quindi applicabile in materia condominiale per identità di ratio. Si tratta di un orientamento consolidato (v., tra le altre, Cass. II, n. 30479/2019: nella specie, si era chiarito che la prima deliberazione, mediante la quale un condomino era stato escluso dalla contribuzione al pagamento delle spese per la manutenzione della canna fumaria, dovute per legge, era stata validamente sostituita da una successiva deliberazione assembleare, avente il medesimo oggetto, che aveva invece ricompreso il condomino tra i soggetti tenuti a contribuire; Cass. VI/II, n. 20071/2017; Cass. II, n. 11961/2004; Cass. II, n. 8622/1998; Cass. II, n. 12439/1997; Cass. II, n. 642/1996; Cass. II, n. 6304/1995; Cass. II, n. 3159/1993; Cass. II, n. 13740/1992; Cass. II, n. 3069/1988; Cass. II, n. 6511/1980), mentre l'unica voce discordante è rappresentata da un'isolata pronuncia (Cass. II, n. 5084/1993), secondo la quale il condomino conserva l'interesse ad impugnare una deliberazione adottata in una seduta per la quale non gli sia stato inviato il prescritto avviso, anche se ad essa ne sia seguita un'altra sullo stesso oggetto, da parte di assemblea ritualmente convocata (v., però, Cass. II, n. 2999/2010, a parere della quale, ove ad una prima deliberazione assembleare, di cui venga accertata giudizialmente l'illegittimità, faccia seguito una seconda deliberazione, assunta sullo stesso argomento della prima e di questa sostitutiva, anch'essa oggetto di impugnazione giudiziale, il giudice del gravame sulla sentenza che ha definito tale secondo giudizio non può addivenire, qualora anche la seconda deliberazione sia stata dichiarata illegittima, ad una pronuncia di cessazione della materia del contendere, non potendo trovare applicazione il principio generale dettato, in tema di deliberazioni di assemblea societaria ed estensibile anche alla materia condominiale, dall'art. 2377, ultimo comma, c.c., nella sua formulazione originaria applicabile ratione temporis, giacché esso presuppone, al fine di impedire l'annullamento della delibera impugnata, che la deliberazione sostitutiva sia stata presa in conformità della legge o dell'atto costitutivo). In effetti, non vi sarebbe ragione di far proseguire un giudizio nel quale l'eventuale accoglimento della domanda nessuna conseguenza pratica potrebbe avere nella gestione del condominio, in quanto i rapporti tra i condomini sono ormai regolati dalla deliberazione successiva; ne consegue che l'assemblea, regolarmente riconvocata, possa annullare espressamente il provvedimento opposto, o possa deliberare sugli stessi argomenti di una precedente deliberazione impugnata, ponendo in essere – pur senza l'adozione di forme ad hoc – un atto sostitutivo di quello invalido o incompatibile con quello impugnato (di recente, Cass. II, n. 10847/2020, chiarisce che può statuirsi la cessazione della materia del contendere alla sola condizione che la nuova deliberazione abbia un identico contenuto, e che cioè provveda sui medesimi argomenti, della deliberazione impugnata, ferma soltanto l'avvenuta rimozione dell'iniziale causa di invalidità; cui adde, da ultimo, Cass. II, n. 5997/2022, ad avviso della quale la cessazione della materia del contendere può ravvisarsi soltanto quando il secondo deliberato modifichi le decisioni del primo in senso conforme a quanto richiesto dal condomino che impugna e non anche quando reiteri o comunque adotti una decisione nello stesso senso della precedente, presupponendo la stessa il sopravvenire di una situazione che consenta di ritenere risolta o superata lite insorta tra le parti, sì da comportare il venir meno dell'interesse a una decisione sul diritto sostanziale dedotto in giudizio). In tali casi, deve dichiararsi la cessazione della materia del contendere, salva la valutazione della fondatezza dell'impugnazione, ai fini dell'accertamento del principio della c.d. soccombenza virtuale e della statuizione sulle spese di lite ex artt. 90 ss. c.p.c. (a meno che non vi sia un accordo tra le parti in causa); la statuizione assembleare, intervenuta dopo l'instaurazione del giudizio di impugnazione, rende così superflua ogni ulteriore decisione del giudice, imponendogli quel provvedimento anche d'ufficio – e cioè, a prescindere dalla formale rinuncia ex art. 306 c.p.c. o dal tenore delle conclusioni di merito eventualmente assunte dai contendenti – purché emerga comunque dagli elementi disponibili il venir meno dell'oggetto del contrasto e, pertanto, la scomparsa del relativo interesse alla lite. Forma dell'impugnazioneAtto di citazione Va salutato con estremo favore il fatto che si è volutamente abbandonato il termine «ricorso» all'interno della norma che disciplina le impugnazioni nei confronti delle deliberazioni condominiali, il che dovrebbe sancire che la relativa azione debba essere proposta secondo le regole ordinarie, e cioè con atto di citazione, ponendo fine a tutti quei problemi che l'uso di quel termine aveva generato. Invero, l'art. 1137 c.c., nel vecchio testo, stabiliva che, contro le deliberazioni dell'assemblea contrarie alla legge o al regolamento, potesse proporsi «ricorso all'autorità giudiziaria», precisando che il «ricorso» non sospendeva l'esecuzione del provvedimento (comma 2), e prescrivendo che il «ricorso» medesimo dovesse essere proposto entro il termine di decadenza di trenta giorni (comma 3). A fronte di un orientamento tradizionale pluriennale dei giudici di legittimità, i quali ritenevano concordemente che il concetto di ricorso dovesse interpretarsi in senso tecnico (in ordine cronologico, v. Cass. II, n. 1716/1975; Cass. II, n. 1662/1988; Cass. II, n. 2081/1988; Cass. II, n. 6205/1997), ed a fronte di qualche successiva apertura nel senso dell'indifferenza delle modalità di impugnazione utilizzate (Cass. II, n. 14560/2004; Cass. II, n. 8440/2006; Cass. II, n. 14007/2008), il massimo organo della magistratura di vertice (Cass. S.U., n. 8491/2011) si è espresso – a chiare note – nel senso che «l'art. 1137 c.c. non disciplina la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali, che vanno proposte, pertanto, con citazione, in applicazione dell'art. 163 c.p.c.». Infatti, quello che rimaneva irrisolto era quale attività il condomino dissenziente dovesse svolgere prima della scadenza del termine di trenta giorni indicato dall'art. 1137 citato, in quanto alcune decisioni affermavano che, per evitare il verificarsi della decadenza, l'impugnante era tenuto (anche) a notificare il ricorso, unitamente al provvedimento di fissazione dell'udienza di comparizione, e non solo a depositare l'atto presso la cancelleria del giudice adìto (in dottrina, Baio, 571; Celeste, 1998, 179; Terzago, 1998, 568; Sanguineti, 740; Petrolati, 2004, 29; Izzo, 2006, 33; Gallucci, 355; De Scrilli, 593; Cirla, 580; Contestabile, 2459). Era ragionevole, invece, ritenere che l'espressione «fare ricorso all'autorità giudiziaria», che compariva nel vecchio testo dell'art. 1137 c.c., era da considerarsi come un'espressione atecnica, in quanto, intesa nel significato comune delle parole, essa appariva maggiormente riferibile alla possibilità di adire il giudice, che non alla proposizione di un «ricorso»; in buona sostanza, il legislatore non aveva affatto inteso imporre uno specifico strumento tecnico-giuridico con il quale proporre l'impugnazione avverso le deliberazioni che si assumevano invalide, quanto piuttosto – e più semplicemente – garantire la possibilità del condomino di rivolgersi ad un magistrato. Adottando il «ricorso» come specifica ed esclusiva forma di impugnazione delle deliberazioni condominiali, si trattava, poi, di verificare come funzionava la nuova disciplina del processo civile ordinario quando la domanda introduttiva fosse proposta con forme diverse dalla citazione, specie per quanto atteneva all'udienza di prima comparizione, al termine a comparire, alla costituzione del convenuto, all'avvertimento in ordine alle decadenze, alla prima udienza di trattazione. Pertanto, la soluzione proposta, con il voluto abbandono del termine «ricorso» – sia nel comma 2 sia nel comma 3 dell'art. 1137 c.c. – è nel senso che l'atto introduttivo del giudizio di impugnazione della deliberazione condominiale debba rivestire le forme proprie della citazione, con la conseguenza di verificare la tempestività dell'opposizione al momento della notificazione della citazione medesima al condominio. Il legislatore del 2012 deve, però, essere biasimato per un eccesso di timidezza perché, nel testo licenziato al Senato, compariva l'espressione secondo cui il condomino potesse adire l'autorità giudiziaria «con atto di citazione», dicitura quest'ultima, poi, stranamente scomparsa nel testo definitivo e, invece, estremamente opportuna, alla luce dei contrasti interpretativi sopra delineati e delle conseguenti incertezze operative; in altri termini, sarebbe stato preferibile specificare in modo espresso anche le modalità di impugnazione della deliberazione assembleare, perché il cittadino deve sapere con certezza, sotto il profilo processuale, almeno se la sua domanda è stata o meno proposta tempestivamente, mentre altro discorso attiene alla fondatezza della relativa pretesa. Uso improprio del ricorso Ci si deve interrogare cosa succeda se l'impugnazione viene, invece, ancora proposta – a questo punto, impropriamente – con ricorso, anzichè con citazione. Sul punto, un recente provvedimento di un giudice di merito (Trib. Milano 21 ottobre 2013) in ordine alla forma di opposizione alla deliberazione condominiale, a fronte di una domanda proposta con ricorso, ha ritenuto che, stante il chiaro tenore normativo di cui al nuovo art. 1137 c.c., non si può più aderire alla teoria dell'equipollenza degli strumenti di impugnazione, patrocinata da un orientamento interpretativo della magistratura di vertice – v. supra – che consentiva indistintamente l'utilizzo sia della citazione ad udienza fissa sia del ricorso. Si è considerato, infatti, che il ricorso depositato, in quanto sprovvisto sia della citazione ad udienza fissa sia degli avvertimenti previsti dagli artt. 163 e 164 c.p.c., non fosse idoneo a radicare il giudizio, né a determinare l'effettivo contraddittorio con la parte convenuta, né a diversa soluzione poteva pervenirsi neanche facendo leva sui principi di conservazione dell'atto e di raggiungimento dello scopo, atteso che la funzione del ricorso – che palesava unicamente la editio actionis ma che era del tutto sprovvisto della vocatio in ius, richiedendo a tale scopo la fissazione dell'udienza con decreto ad opera del giudice investito della controversia – risultava ontologicamente diversa da quella dell'atto di citazione ad udienza fissa che, al contrario, la vocatio in ius palesemente manifestava. Viene considerato, inoltre, che il condominio resistente, non avendo ricevuto la notifica dell'atto di citazione entro il termine decadenziale di trenta giorni previsto dalla legge, aveva, nel caso concreto, già «maturato un legittimo affidamento circa l'intervenuta inoppugnabilità della deliberazione impugnata» con il ricorso de quo, e che «le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di natura condominiale non tollerano alcun allungamento dei termini di impugnazione, necessitando piuttosto che le statuizioni assembleari assunte dai condomini vengano cristallizzate e diventino definitive». La conclusione del provvedimento in esame è, pertanto, nel senso che il ricorso azionato dal condomino impugnante dovesse essere dichiarato «inammissibile» e che il relativo procedimento venisse dichiarato «estinto»: la soluzione tranchant adottata dal giudice meneghino desta, però, qualche perplessità. Va dato atto che non si conosce se, nel caso di specie, trattavasi di deliberazione meramente annullabile o nulla, perché, in quest'ultimo caso, dichiarato inammissibile il ricorso ed estinto il relativo procedimento, il condomino impugnante avrebbe potuto sempre ripresentare la domanda tesa alla suddetta declaratoria, proponibile in ogni tempo; tuttavia, se fosse una deliberazione annullabile, la stessa statuizione di sostanziale irricevibilità dell'atto avrebbe probabilmente comportato la tardività dell'impugnazione, perché è estremamente difficile che non si fossero già consumati i termini perentori contemplati dalla norma codicistica. Va evidenziato, comunque – v. infra – che siamo in presenza di un'ipotesi di decadenza comminata dalla legge in relazione al solo fatto della mancata proposizione del giudizio di impugnazione nel termine stabilito; ora, in conformità con i principi generali in tema di decadenza, si deve escludere che la stessa possa essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.), conseguendone che l'eccezione di decadenza resta soggetta alla disciplina delle c.d. eccezioni in senso stretto, ossia di quelle deduzioni difensive con le quali il condominio convenuto rilevi l'intervento di fatti estintivi (o modificativi) del diritto di opposizione fatto valere in giudizio dal condomino attore. Peraltro, il condominio resistente, restando nelle sue facoltà, avrebbe potuto non sollevare tale eccezione, nonostante l'impugnazione tardiva, ed accettare il contraddittorio sul merito dell'opposizione proposta dal condomino, proprio al fine di avere un giudizio definitivo sulla legittimità (o meno) della deliberazione opposta, ad esempio, per evitare nel futuro eventuali errori pregiudizievoli per la gestione della res comune. Dunque, stante che l'art. 1137 c.c. non disciplina più la forma delle impugnazioni delle deliberazioni condominiali e non menziona più il termine «ricorso», resta inteso che quest'ultimo rimane sempre un'ipotesi eccezionale, espressamente contemplata dal legislatore in determinate ipotesi – si pensi all'impugnativa della deliberazione condominiale proposta mediante il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. (inseriti dalla l. 18 giugno 2009, n. 69) – sicché le stesse impugnazioni vanno proposte secondo le regole generali, ossia con atto di citazione, in applicazione dell'art. 163 c.p.c. Se, invece, l'impugnazione viene ancora proposta impropriamente con ricorso, anzichè con citazione – ipotesi inversa a quella che si verificava in precedenza – secondo le summenzionate Sezioni Unite sembrava che potesse essere ritenuta valida qualora, entro i trenta giorni stabiliti dall'art. 1137 c.c., l'atto veniva tempestivamente depositato presso la cancelleria del giudice adìto. Tale soluzione – a ben vedere – si rivela alquanto «buonista», forse volta a sanare le situazioni di irregolarità processuale esistenti nei vari Tribunali, ma sicuramente destinata ad essere superata dal nuovo chiaro dettato legislativo che non contempla affatto alcuna piena fungibilità tra le due forme di impugnazione delle deliberazioni condominiali; da tale soluzione sembra un po' prenderne le distanze la recente giurisprudenza (Cass. S.U., n. 22848/2013), la quale ha puntualizzato che «la diversa soluzione adottata da Cass. S.U., n. 8491/2011, in tema di impugnazione di deliberazione condominiale dispiegata con ricorso anziché, come dovuto, con citazione – impugnazione reputata suscettibile di sanatoria in ragione del solo tempestivo deposito dell'atto in cancelleria e, dunque, indipendentemente dalla sua tempestiva notificazione – trova (del resto dichiarata) giustificazione nella precipua specificità morfologica e funzionale dell'atto impugnato (deliberazione condominiale) e, conseguentemente, della relativa opposizione, cosicché è soluzione non estendibile oltre il circoscritto specifico àmbito di riferimento». In linea coerente con il principio di conservazione degli atti nulli, il magistrato potrà anche fissare in calce al ricorso il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione, restando inteso che lo stesso ricorso risulterà idoneo ad impedire la decadenza solo se notificato, unitamente al pedissequo decreto di cui sopra, alla controparte, perché è solo in questo momento che il medesimo atto avrà raggiunto lo scopo proprio della citazione (e non quando sia solo depositato presso la cancelleria del giudice adìto). Come acutamente osservato (Scarpa 2013, 349), una volta eliminato dal testo dell'art. 1137 c.c. il riferimento letterale al «ricorso», quale forma dell'atto di impugnazione delle deliberazioni condominiali, ed essendo, quindi, ormai inequivocabile che esso vada proposto con citazione, è facile presagire che sia destinata ad esaurirsi l'indulgente soluzione dell'equipollenza delle forme propugnata dalle Sezioni Unite del 2011, essendo, del resto, rimasta tale soluzione isolata nell'àmbito del più ampio dibattito circa la piena fungibilità, tuttora osteggiata dalla giurisprudenza, degli atti litis ingredientes; pertanto, per le deliberazioni da impugnare a fare tempo dal 18 giugno 2013, un ricorso si riterrà idoneo ai fini del rispetto del termine di decadenza di trenta giorni soltanto se, entro lo stesso termine, venga notificato (e non meramente depositato) alla controparte insieme al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di comparizione; e c'è da credere che, quando la giurisprudenza – preso atto della soppressione del decettivo utilizzo della locuzione «ricorso» nell'art. 1137 c.c. – si orienterà per assoggettare nuovamente le impugnative delle deliberazioni condominiali ai limiti generali di funzionamento del principio di conservazione degli atti processuali, non si presterà a dar tutela ai condomini impugnanti più distratti neppure la teoria del c.d. overruling, in quanto l'ennesima evoluzione esegetica non si rivelerà inattesa, o priva di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, giacché indotta da un esplicito mutamento normativo. Si ritiene, comunque, che la soluzione ambrosiana, nel senso – lo si ripete – di considerare «inammissibile» la domanda di impugnativa di delibera assembleare proposta con atto di citazione in luogo del ricorso, a tale fine facendo perno argomentativo sulla riformulazione dell'art. 1137 c.c. come disposta dalla Riforma, sia alquanto drastica. Forse un approccio ermeneutico più soft, a fronte delle persistenti domande di impugnativa delle deliberazioni condominiali con il ricorso, consiglierebbe di dare ragionevolmente seguito alle stesse mediante l'emissione del decreto di comparizione delle parti, corredato dagli avvisi di cui all'art. 163, comma 3, n. 7), c.p.c. del giudice, anche perché la statuizione di inammissibilità – lo si ripete – segnatamente nell'ipotesi di deliberazioni annullabili, potrebbe seriamente pregiudicare il diritto costituzionale di azione in giudizio di cui all'art. 24 Cost. che, in ragione della sua rilevanza primaria, non dovrebbe essere postergato all'interesse connesso al celere assestamento delle relazioni giuridiche endocondominiali (che il provvedimento del Tribunale di Milano sembra, invece, privilegiare). D'altronde, la conversione dell'atto originariamente inidoneo alla corretta instaurazione del giudizio in altro conforme al pertinente paradigma legale rimane, pur sempre, una regola processuale di portata generale (v., ex multis, Cass. II, n. 18201/2006) ove, in concreto, non venga eccepito e provato che dall'erronea inversione sia derivato effettivo pregiudizio per alcuna delle parti relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quant'altro possa aver impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario; infatti, anche a volere ritenere nullo l'atto introduttivo non conformato secondo il modello legale – ossia ricorso anziché citazione – tale nullità rientrerebbe pur sempre fra quelle formali di cui all'art. 156 c.p.c., sanabili con il raggiungimento dello scopo. Peraltro, anche nell'instaurazione della fase introduttiva del giudizio ordinario con atto di citazione, lo stesso legislatore si è mostrato piuttosto «indulgente» per quanto concerne i vizi attinenti alla vocatio in ius: invero, in forza dell'art. 164, comma 2, c.p.c., si prevede, in tali casi di nullità, un obbligo generale per il giudice di provocarne la sanatoria mediante rinnovazione della citazione nonché il carattere retroattivo di tale sanatoria (e di quella derivante dalla costituzione del convenuto); se l'ordine del giudice viene eseguito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda retroagiscono al momento della prima notificazione; se, invece, la rinnovazione non viene eseguita, si ha la cancellazione della causa dal ruolo ed il processo si estingue ai sensi dell'art. 307, comma 3, c.p.c. e non si producono gli effetti sananti, il che dovrebbe, comunque, escludere la possibilità di emettere in primo grado sentenze dichiarative della nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius. D'altronde, nell'ipotesi opposta, ossia allorché la legge processuale impone il ricorso (e non la citazione) come atto introduttivo della controversia, la stessa giurisprudenza ha ritenuto che il giudizio risulta validamente instaurato anche con la seconda, ma la convalida dell'atto nullo opererà soltanto nel momento in cui quest'ultima produca la medesima situazione processuale propria dell'atto valido, cui viene equiparato, e, nella specie, sarà soltanto con il deposito della citazione in cancelleria che si determinerà l'effetto proprio del ricorso, e cioè il contatto tra la parte ed il giudice (in pratica, occorrerà guardare la data dell'iscrizione a ruolo della causa da considerarsi equivalente al deposito del ricorso); i medesimi principi sono stati reiteratamente affermati nei casi in cui l'appello, nelle materie soggette al rito previsto per le controversie di lavoro, sia stato proposto con citazione anzichè con ricorso (v., ex plurimis, per le cause locatizie, Cass. III, n. 11591/2011, nonché, per le cause di lavoro, Cass. S.U., n. 5959/1982), come anche nei casi in cui l'opposizione a decreto ingiuntivo, pronunciato in controversia di cui all'art. 409 c.p.c., sia stata introdotta con citazione anzichè nella forma peculiare del rito del lavoro (Cass. lav., n. 8014/2009; Cass. lav., n. 2669/1989). Con ciò non si intendono affatto negare le (altrettanto) fondamentali esigenze di certezza delle situazioni giuridiche nascenti dagli atti di gestione del condominio, per cui, decorso il termine perentorio ivi previsto, la validità della deliberazioni non dovrebbe essere più messa in discussione – con le immaginabili conseguenze in ordine all'affidamento su di essa da parte dei condomini, dell'amministratore e dei terzi – e, in questa prospettiva, non sembra soddisfare tali esigenze la forma del ricorso, notificato eventualmente alla controparte a distanza di tempo dal deposito (complice spesso il ritardo del cancelliere nel trasmettere il fascicolo d'ufficio o/e del magistrato nell'emanare il decreto di fissazione di comparizione delle parti). Resta fermo, però, che l'appello avverso la sentenza che abbia deciso sull'impugnazione, avanzata nelle forme del ricorso – secondo la formulazione dell'art. 1137 c.c. antecedente alla l. n. 220/2012 – di una delibera assembleare, va proposto, in assenza di specifiche previsioni di legge, mediante citazione, in conformità alla regola generale di cui all'art. 342 c.p.c., sicché la tempestività del gravame va verificata in base alla data di notifica dell'atto e non a quella di deposito dello stesso nella cancelleria del giudice ad quem (Cass. VI/II, n. 8839/2017; Cass. II, n. 23692/2014; in senso contrario, v. però Cass. II, 18117/2013; così anche Cass. II, n. 21632/2019,secondo cui, in tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari, ove il primo grado sia trattato nelle forme del rito speciale del lavoro e, perciò, introdotto con ricorso anziché con citazione, l'impugnazione della sentenza che venga proposta, anch'essa, con ricorso deve considerarsi ammissibile se quest'ultimo sia tempestivamente depositato in cancelleria, a prescindere dalla sua successiva notificazione, e ciò in ragione del principio di ultrattività del rito che - quale specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del provvedimento compiuta dal giudice - trova fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è stato erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice). Da ultimo, va segnalato che il d.lgs. n. 149/2022 (c.d. riforma Cartabia) ha innovato il procedimento davanti al Giudice di Pace, nel senso che, dal 1° marzo 2023, quest'ultimo è modellato sulla base del procedimento semplificato di cognizione, delineato ora negli agli artt. 281-decies ss. c.p.c. - prendendo, in buona sostanza, il posto del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. (introdotto dalla legge n. 69/2009) - al quale sono state apportate ulteriori “semplificazioni” procedurali, giustificate dalla (almeno tendenziale) minore complessità delle liti affidate al magistrato onorario e dall'esigenza di rendere accessibile lo strumento anche ad un'utenza non specializzata; ne consegue che, nelle cause di impugnazione di delibere condominiali che rientrano nella competenza del suddetto giudice onorario, la domanda si propone necessariamente con ricorso ai sensi dell'art. 281-udecies c.p.c., e lo stesso dicasi per i giudizi davanti al Tribunale, qualora si opti per tale rito semplificato allorchè “la domanda è “fondata su prova documentale” ex art. 281-decies c.p.c., come spesso avviene in materia di impugnazione delle suddette delibere. Termine per l'impugnazioneDerogabilità Con il disposto dell'art. 1137, comma 2, c.c., il legislatore del 2012 mantiene il termine di trenta giorni per proporre l'impugnativa delle deliberazioni assembleari. Va premesso che il predetto art. 1137 è norma inderogabile dal regolamento condominiale ex art. 1138 c.c., nel senso che non possono essere derogate, attraverso il regolamento, le disposizioni relative all'impugnazione delle deliberazioni assembleari, neppure con l'accordo unanime dei partecipanti al condominio; così, ad esempio, dovrebbe considerarsi invalida una clausola regolamentare, anche se contrattuale, con la quale si inibisca in via preventiva al singolo condomino di impugnare le decisioni dell'assemblea dinanzi all'autorità giudiziaria, o si limiti fortemente tale diritto contemplando un ristretto termine per proporre opposizione (Cass. II, n. 19714/2010, ad avviso della quale è nulla la clausola del regolamento di condominio che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni per chiedere all'autorità giudiziaria l'annullamento delle delibere dell'assemblea, atteso che l'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. vieta che con norme regolamentari siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all'art. 1137 c.c.). Se è possibile che un condomino possa rinunciare ad impugnare una decisione viziata ma già adottata, una disposizione di tale natura introdotta nel regolamento condominiale si porrebbe in evidente ed insanabile conflitto con principi di livello costituzionale ex art. 24 Cost. in modo da rimanere inficiata da nullità (Terzago 1969, 176). Come è noto, la giurisprudenza tende a ritenere che tale termine si riferisca soltanto all'azione di annullamento, rimanendo estranea alla predetta previsione legislativa la diversa azione volta all'accertamento della nullità della deliberazione impugnata, che può, al contrario, essere proposta senza limiti di tempo. È stato, in proposito, sostenuto correttamente che la qualificazione della domanda, ai fini anche dell'accertamento della fondatezza o meno del rilievo eventualmente sollevato dal convenuto condominio circa il trascorso di detto termine, deve essere effettuata prescindendo dalla terminologia adottata dal condomino impugnante, e valutando, invece, la riconducibilità del vizio allegato ad una delle due categorie – nullità o annullabilità – elaborate dalla giurisprudenza (Crescenzi, 57). Individuazione del dies a quo La Riforma del 2013 conferma che il termine decorre dalla data di «deliberazione» per i dissenzienti e per gli astenuti, e dalla data di «comunicazione» per gli assenti alla riunione. Riguardo a questi ultimi, si è mantenuta la terminologia usata dal citato art. 1137 c.c., non prescrivendo, quindi, alcuna forma particolare (di recente, Cass. II, n. 22240/2013, ha puntualizzato che, con la prova dell'avvenuto recapito, all'indirizzo del condomino assente, della lettera raccomandata contenente il verbale dell'assemblea, sorge in capo al destinatario la presunzione, iuris tantum, di conoscenza posta dall'art. 1335 c.c. e, conseguentemente, scatta il dies a quo per l'impugnazione della deliberazione stessa, ai sensi dell'art. 1137 c.c.; v., però, Cass. II, n. 25791/2016, ad avviso della quale, ai fini del decorso del termine di impugnazione ex art. 1137 c.c., la comunicazione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, del verbale assembleare al condomino assente all'adunanza si ha per eseguita, in caso di mancato reperimento del destinatario da parte dell'agente postale, decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell'avviso di giacenza oppure, se anteriore, da quella di ritiro del piego, in applicazione analogica dell'art. 8, comma 4, della l. n. 890 del 1982, onde garantire il bilanciamento tra l'interesse del notificante e quello del destinatario in assenza di una disposizione espressa, non potendo la presunzione di cui all'art. 1335 c.c. operare relativamente ad un avviso – come quello di giacenza – di tentativo di consegna, che non pone il destinatario nella condizione di conoscere il contenuto dell'atto indirizzatogli). Spesso, tale comunicazione avviene mediante la trasmissione (a mani o per posta) di copia del verbale assembleare, ma non si è escluso che l'assente possa avere notizia in altro modo del contenuto della deliberazione, purchè idoneo alla tutela delle sue ragioni; sembra, in ogni caso, preferibile che la comunicazione sia «scritta», ossia rivesta la stessa forma dell'atto (verbale) il cui contenuto viene portato a conoscenza del destinatario, e, in proposito, potrebbero mutuarsi i suggerimenti contenuti nel novellato art. 66, comma 3, disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – il quale, sia pure riguardo all'avviso di convocazione per l'assemblea condominiale, prescrive che lo stesso sia comunicato «a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano». In argomento, i giudici della Consulta, con una recente ordinanza (Corte cost., n. 52/2014), hanno ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1137,1334 e 1135 c.c., sollevata in riferimento all'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedevano che la comunicazione della deliberazione che, nei confronti dei condomini che non avessero preso parte alla relativa seduta, determinava il decorso iniziale del termine di trenta giorni di cui al citato art. 1137, fosse presidiata dalle medesime garanzie di conoscibilità dell'atto previste per la notificazione degli atti giudiziari, ciò soprattutto nelle ipotesi in cui, avvenuta la comunicazione del relativo verbale a mezzo posta, la relativa raccomandata era stata recapita al soggetto che si trovava in vacanza e risultava restituita al mittente sùbito dopo ferragosto, sicché il condomino assente non aveva potuto beneficiare della sospensione feriale dei termini processuali. Impedimento della decadenza La decadenza prevista dall'art. 1137, comma 2, c.c. può essere impedita esclusivamente dal compimento dell'atto previsto dalla legge (art. 2966 c.c.), e, pertanto, solo dalla proposizione – nelle forme prescritte, v. supra – del giudizio di impugnazione. In quest'ordine di concetti, il Supremo Collegio ha avuto modo di precisare che le eventuali censure o lamentele scritte sulla legittimità della deliberazione formulate con lettera o le eventuali opposizioni sollevate, anche se non verbalmente, in sede assembleare non ostano al compimento del termine di decadenza (Cass. II, n. 3291/1989: fattispecie in tema di approvazione del preventivo delle spese e del rendiconto annuale dell'amministratore, le cui deliberazioni, in mancanza di formale impugnazione, alla quale non può essere equiparata una contestazione scritta, sono obbligatorie anche per il condomino dissenziente che non può sottrarsi al pagamento di quanto da lui dovuto in base alla ripartizione approvata). In proposito, si è affermato che la proposizione dell'impugnazione dinanzi ad un giudice incompetente è comunque idonea ad impedire la decadenza di cui sopra, qualora la causa sia tempestivamente riassunta davanti al giudice indicato nella pronuncia di incompetenza (Cass. II, n. 213/1950); si è ritenuto, invece, che non rivestano alcuna efficacia impeditiva della decadenza la mera proposizione del ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. (Cass. II, n. 2339/1982), nonché l'atto diretto a sollecitare la costituzione del collegio arbitrale, qualora gli arbitri si siano successivamente dichiarati incompetenti (Cass. II, n. 1261/1971). Parimenti, si esclude che sia idonea all'impedimento della decadenza la proposizione del giudizio di impugnazione nei confronti di soggetto non legittimato passivamente (Cass. II, n. 61/1985), mentre allorquando la domanda sia stata proposta, anziché nei confronti del condominio nella persona dell'amministratore, nei riguardi dei singoli condomini – ad esempio, qualora manchi l'amministratore oppure vi sia un conflitto di interessi tra quest'ultimo ed il condominio, e non si opti, per ragioni di tempo, per la nomina di un curatore speciale, v. supra – la tempestiva proposizione dell'impugnazione nei confronti di alcuno dei partecipanti dovrebbe escludere la deducibilità della decadenza da parte degli altri (v., in analogia, i principi generali in tema di impugnazione delle sentenze, nonché l'art. 1310 c.c. secondo cui l'interruzione della prescrizione nei confronti del condebitore solidale opera anche riguardo agli altri). L'estinzione del giudizio, determinando l'inefficacia degli atti compiuti, comporta che anche all'atto introduttivo della lite non possa essere attribuito alcun effetto processuale o sostanziale, compreso quello di impedire la decadenza de qua (Cass. II, n. 1214/1980; Cass. II, n. 2561/1970), con la conseguenza che l'eventuale estinzione del giudizio di impugnazione, tempestivamente promosso, legittimerà il condominio a sollevare l'eccezione di decadenza qualora il condomino riproponga la domanda. Eccezione di parte Per come chiaramente desumibile dal testo della disposizione di cui all'art. 1137 c.c. – anche se leggermente mutato a seguito della l. n. 220/2012 (v. infra) – siamo in presenza di un'ipotesi di decadenza comminata dalla legge in relazione al solo fatto della mancata proposizione del giudizio di impugnazione nel termine stabilito. Ora, in conformità con i principi generali in tema di decadenza, si deve ribadire che la stessa non possa essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.), vertendosi nella specie in materia di diritti rimessi alla disponibilità delle parti (Cass. II, n. 4009/1995, per cui la parte che denuncia in sede di legittimità la violazione della predetta norma, sostenendo che il giudice di merito ha omesso di rilevare la decadenza, ha l'onere di indicare l'atto nel quale la relativa eccezione è stata da lei opposta nel giudizio di merito; v., altresì, Cass. II, n. 15131/2001, che ha confermato l'inammissibilità dell'eccezione di decadenza perché proposta dal condomino solo in sede di comparsa conclusionale, e, dunque, tardivamente). Ne consegue che l'eccezione di decadenza resta soggetta alla disciplina delle c.d. eccezioni in senso proprio, cioè di quelle deduzioni difensive con le quali il condominio convenuto rilevi l'intervento di fatti estintivi o modificativi del diritto di opposizione fatto valere in giudizio dal condomino attore (peraltro, il convenuto, restando nelle sue facoltà, potrebbe non sollevare tale eccezione, nonostante l'impugnazione tardiva, ed accettare il contraddittorio sul merito dell'opposizione proposta dal condomino). E ciò anche perché l'imposizione del termine di cui all'art. 1137, comma 2, c.c. risponde esclusivamente ad esigenze di certezza facenti capo al condominio ed attinenti a materia non sottratta alla disponibilità delle parti, tanto che – diversamente da quanto avviene in caso di inosservanza dei termini per la proposizione dell'appello o di altri mezzi di impugnazione di pronunce giudiziali, che rispondono ad interessi di carattere pubblicistici – l'inosservanza del termine decadenziale in questione non è rilevabile d'ufficio dal giudice, trattandosi appunto di un'eccezione in senso proprio, che può essere eccepita, solo e tempestivamente, dal condominio convenuto, nella comparsa di costituzione ex art. 167 c.p.c. (Cass. II, n. 8216/2005). Oltre lo sbarramento sopra delineato, scattando le relative preclusioni per il condominio, deve ritenersi esclusa la deducibilità dell'eccezione di decadenza nell'ulteriore corso del giudizio, come anche nel giudizio di appello stante il nuovo disposto dell'art. 345, comma 2, c.p.c. (v., altresì, Cass. II., n. 9/1990, per la quale l'inosservanza del termine deve essere eccepita dal condominio convenuto nel giudizio di merito, non potendo essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità; Cass. II, n. 1716/1975, secondo cui, qualora il giudice abbia rilevato erroneamente ex officio il decorso del termine di decadenza, la questione può essere riesaminata dal giudice di appello solo in quanto abbia formato specifico oggetto di gravame, sicché, se in appello la questione della non rilevabilità d'ufficio non ha costituito oggetto di gravame, malgrado la pronuncia ex officio della decadenza da parte del giudice di primo grado, la questione è coperta dal giudicato interno sul punto). Sospensione per il periodo feriale Una questione molto rilevante nella pratica è quella se al termine di decadenza per impugnare la deliberazione condominiale si debba o meno applicare la sospensione per il periodo feriale contemplata dall'art. 1 della l. 7 ottobre 1969, n. 742 (recante «Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale», inizialmente dal 1° agosto al 15 settembre, ridotto a 31 giorni a seguito dell'art. 16 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162). Tale questione presupponeva, però, la corretta individuazione della natura di tale termine. In precedenza, la Corte Costituzionale era intervenuta solo una volta in materia condominiale: ci si riferisce alla sentenza (Corte cost., n. 49/1990), la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24 Cost., dell'art. 1 della l. n. 742 del 1969 – nella parte in cui non disponeva che la sospensione ivi prevista si applicasse anche al termine di trenta giorni, di cui all'art. 1137 c.c., per l'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea di condominio; in particolare, il giudice delle leggi aveva rilevato come la sospensione di detti termini per il periodo feriale si imponga, quando la possibilità di agire in giudizio costituisca per il titolare l'unico rimedio per far valere un suo diritto. Quest'ultimo principio doveva ritenersi applicabile anche al caso in esame, che riguardava la previsione dell'art. 1137 c.c., il quale fissa, a pena di decadenza, il termine di trenta giorni per l'impugnativa delle deliberazioni dell'assemblea condominiale: invero, la brevità di tale termine rende particolarmente difficile, a colui che intenda esercitare il proprio diritto di impugnativa delle suddette deliberazioni, di munirsi della necessaria difesa tecnica quando detto termine cada nel periodo feriale, proprio perché l'istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale nasce dalla necessità di assicurare un periodo di riposo a favore degli avvocati (Accordino, 451; Celotto, 1025; Celeste, 2007, 49). Quindi, ove la sospensione in parola non fosse estesa anche a detta ipotesi, ne risulterebbe menomato il diritto alla tutela giurisdizionale, in contrasto con l'art. 24 Cost. Pertanto, atteso che non si ravvisavano preminenti ragioni a tutela di altri valori costituzionali, che imponessero la rigorosa osservanza del suddetto termine, ricorreva anche nel caso in esame la medesima ratio che aveva indotto il legislatore ad introdurre con la norma denunciata la sospensione dei termini processuali e, poiché il giudice a quo non riteneva che l'art. 1 della l. n. 742 del 1969 potesse essere interpretato nel senso di comprendervi anche il termine previsto dall'art. 1137 c.c., la prima disposizione doveva dichiararsi costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non prevedeva la sospensione, durante il periodo feriale, del suddetto termine. Illuminanti, al riguardo, i rilievi offerti nel precedente richiamato nella suddetta sentenza (Corte cost., n. 255/1987), la quale ha ritenuto fondata, sempre in riferimento all'art. 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 1 della l. n. 742/1969, nella parte in cui non disponeva che la sospensione da esso prevista si applicasse anche al termine di cui all'art. 19, comma 1, della l. n. 865/1971 e all'art. 14 della l. n. 10/1977 (opposizione alla stima dell'indennità di espropriazione). A ben vedere, l'art. 152 c.p.c. non offre una nozione generale di «termini processuali», limitandosi a statuire che «i termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge», ma anche se lo stesso articolo offrisse una nozione di termine processuale, partire da quella per individuare il criterio di distinzione tra termini sostanziali e processuali, valida «anche» per l'interpretazione dell'art. 1 della l. n. 742/1969, non sembra condivisibile, a meno che e fino a quando non si dimostri, per altra via, che «proprio e soltanto» a quel criterio la l. n. 742/1969 si è attenuta; ogni criterio di distinzione non soltanto non può essere assunto come generale ed assoluto, ma è, per sua natura, di volta in volta, legato allo scopo ed alla funzione del «distinguere»: la demarcazione tra «sostanza» (diritto sostanziale) e «procedura» (diritto processuale) è una delle linee più storicamente variabili e più legate alle necessità dei rami e dei singoli settori della ricerca. Accanto alle due categorie di termini «sostanziali» e «processuali», se ne possono individuare altre – ad esempio, «termini sostanziali a rilevanza anche processuale» – come si può affermare l'esistenza di termini processuali «in senso stretto» (formalmente inseriti nel processo e riferiti ad atti processuali, a giudizio già iniziato) e termini processuali «in senso largo» (comunque processualmente rilevanti). Posto che l'istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale nasce dalla necessità di assicurare un periodo di riposo a favore degli avvocati, va sottolineato che la situazione di chi deve ricorrere in periodo feriale ad un legale perché rediga un atto processuale (in senso stretto) non è diversa da quella di chi deve necessariamente ricorrere ad un legale per predisporre l'atto introduttivo del giudizio di primo grado, che costituisce certamente un atto processuale. D'altronde, poiché l'istituto della sospensione dei termini nel periodo feriale è anche correlato al potenziamento del diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.), limitare arbitrariamente la sospensione ai soli termini che, ad altri fini, sono qualificati processuali – termini processuali «in senso stretto», che presuppongono il giudizio già iniziato – ed escludere, per l'ipotesi dell'art. 1137 c.c. che è certamente non meno importante dei termini processuali «puri» e che non incide, in modo rilevante, su situazioni «preminenti» rispetto agli scopi del suddetto istituto della sospensione, equivale a violare l'art. 24 Cost. Natura perentoria È legittimo interrogarsi se le suesposte considerazioni mantengono la loro validità anche a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 220/2012 al comma 2 dell'art. 1137 c.c. A ben vedere, la Riforma mantiene il termine di trenta giorni per proporre l'impugnativa delle deliberazioni assembleari, anche se il vecchio testo usava l'espressione «il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro ...», laddove la nuova versione prevede che ogni condomino possa «adire l'autorità giudiziaria ... nel termine perentorio di ...» (in precedenza, si era affermato che trattavasi di termine che decorreva senza interruzioni, v., tra le altre, Cass. II, n. 3559/1975 e Cass. II, n. 132/1976, dovendo essere rispettato anche se il condomino, nell'impugnare la deliberazione, chieda contestualmente la revoca dell'amministratore, v. Cass. II, n. 1716/1975). Qualora non si ravvisi un'operazione di mero maquillage normativo, si potrebbe sostenere che il riferimento al «termine perentorio» richiama la possibilità di un rilievo officioso, restando semmai affidato alla parte, ai sensi dell'art. 153, comma 2, c.p.c., la possibilità di invocare dal giudice una proroga, rimettendola in termini se il mancato rispetto sia dovuto a causa a lei non imputabile. Più corretta appare, invece, l'opinione (Scarpa 2012, 57), secondo la quale, pur in presenza della suddetta diversità terminologica, il legislatore abbia voluto mantenere, all'art. 1137 c.c., la natura di termine sostanziale ma a rilevanza processuale – nel senso sopra delineato – con tutte le conseguenze quanto a sospensione nel periodo feriale. In proposito, va ricordato che, nel periodo emergenziale dovuto al coronavirus, l'art. 83 del d.l. n. 17 marzo 2020, n. 18, convertito (senza modificazioni sul punto), in l. 24 aprile 2020, n. 27, ha stabilito: 1) al comma 2, che, dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020, è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei "procedimenti civili" (tale termine è stato prorogato all'11 maggio 2020 dall'art. 36 del d.l.8 aprile 2020, n. 23, conv. con modif. in l. 5 giugno 2020, n. 40); e 2) al comma 8 che, per il periodo di efficacia dei provvedimenti che precludano la presentazione della domanda giudiziale, è sospesa la decorrenza dei termini di decadenza dei diritti che possono essere esercitati “esclusivamente” mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi (ne consegue, ad esempio, che, riguardo ad una delibera, in ipotesi annullabile, adottata poco prima del lockdown, i termini per l'impugnazione ex art. 1137 c.c. sono sospesi, per poi ricominciare a decorrere finita tale parentesi). A conforto di quest'ultima tesi può soccorrere quanto, da ultimo, affermato dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 2907/2014). Infatti, già con Cass. S.U., n. 8491/2011, precisato che l'impugnazione delle deliberazioni condominiali si propone con citazione, e non con ricorso – come opinato, in precedenza, dai giudici di legittimità – il problema dell'ammissibilità della sanatoria dell'impugnazione spiegata a mezzo di ricorso è stato risolto ritenendo che questo può essere considerato tempestivo anche all'esito del semplice deposito in cancelleria nel termine perentorio previsto dalla legge. Tuttavia, nella sentenza n. 21675/2013, condivisa dalla successiva n. 22848/2013, il supremo organo di nomofilachia ha puntualizzato che la diversa soluzione adottata in tema di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea condominiale proposta con ricorso anziché con citazione – soluzione ispirata, sul piano funzionale (alla luce dei principi del giusto processo e dell'affidamento in buona fede su prassi interpretative processuali consolidate), dall'intento di evitare conseguenze pregiudizievoli, sul piano delle preclusioni processuali, alle impugnazioni proposte sotto forma di ricorso – trovi giustificazione nella «specificità morfologica e funzionale» dell'atto impugnato (deliberazione di assemblea condominiale) e, conseguentemente, della relativa opposizione. Questa nuova configurazione del termine in esame conforta – tra l'altro – l'applicabilità della disposizione contenuta nell'art. 155 c.p.c., secondo la quale se il giorno di scadenza è festivo, la medesima scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. Giudice competenteMateria Per quanto riguarda le impugnazioni delle deliberazioni condominiali interessa soprattutto quella competenza funzionale del Giudice di Pace riferita alle «cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case», prima ripartite tra conciliatore e pretore (art. 7, ultimo comma, n. 2, c.p.c.). Innanzitutto, va precisato che il riferimento ai «servizi» deve essere interpretato in senso ampio, in quanto la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il principio secondo cui, per cause relative alle modalità d'uso o misura dei «servizi condominiali», come, ad esempio, ascensore, riscaldamento, acqua, luce, ecc., devono intendersi anche quelle relative all'uso delle «cose comuni», come, ad esempio, scale, lastrici solari, cortili interni, strade, ecc. (v., tra le altre, Cass. II, n. 5800/1992; Cass. II, n. 4441/1991). Sotto quest'ultimo profilo, si possono in tal modo ipotizzare – tanto per fare qualche caso concreto – le questioni circa: le modalità di parcheggio negli spazi condominiali; la chiusura di questi ultimi con transenne mobili; l'orario di funzionamento del servizio di riscaldamento; le ore di utilizzazione del cortile con il rispetto delle norme regolamentari; l'ampiezza di targhe ed il grado di luminosità delle insegne apposte sul muro comune; le modalità di circolazione sui viali condominiali collocandovi apposite cunette per rallentare la marcia; l'orario di funzionamento dell'impianto di illuminazione. Ora, appare opportuno richiamare i risultati interpretativi acquisiti nella materia de qua dalla giurisprudenza, in quanto, da un lato, consentono di circoscrivere la nuova competenza funzionale del Giudice di Pace su questo tema, e, dall'altro, facilitano l'individuazione della residuale competenza per valore. Infatti, alla luce della (infelice) l. n. 399/1984, è sorto il problema di specificare e differenziare, anche qualora le controversie traevano origine dall'impugnazione di una deliberazione condominiale, il concetto di «modalità d'uso» dei servizi condominiali, inteso come modo, più conveniente ed opportuno, di esercitare il godimento sui beni comuni, da quello di «misura», inteso come limite quantitativo, parziale o temporale del diritto; in altri termini, il criterio distintivo, in linea di principio, andava ricercato tra il quomodo – modalità d'uso – del godimento del servizio condominiale, rispetto al quantum – misura – dell'esercizio del godimento stesso (v., tra le tante, Cass. II, n. 2408/1999; Cass. II, n. 4575/1997; Cass. II, n. 772/1997; Cass. II, n. 7888/1994). Per delineare, invece, in materia di cose e servizi condominiali, la residua competenza per valore, la giurisprudenza aveva fornito una lettura alquanto restrittiva – v. Cass. II, n. 9946/1997, in tema di divieto assoluto di parcheggio di veicoli in un cortile comune; Cass. II, n. 5467/1996, sulla chiusura di un pianerottolo con una porta la cui chiave era stata fornita a tutti i condomini; Cass. II, n. 6936/1993; Cass. II, n. 7041/1988; Cass. II, n. 2169/1982; Cass. II, n. 5721/1980; Cass. II, n. 1520/1975 – nel senso che la predetta cognizione doveva ritenersi limitata alle sole cause relative alla disciplina materiale dei servizi comuni, cioè alle cause in cui si controverteva sulla portata quantitativa dell'estensione del diritto di uso dei singoli condomini nei riguardi dei servizi comuni, oppure in cui si controverteva sul modo in cui il diritto di uso dei singoli condomini doveva essere esercitato, e non poteva, pertanto, essere estesa alle cause che incidessero sul patrimonio, sul diritto di proprietà, o su altri diritti reali dei condomini, e, quindi, alle cause in cui venisse in discussione l'esistenza stessa del diritto all'uso dei servizi comuni, o in cui il thema decidendum avesse natura prevalentemente patrimoniale e fosse costituito dal regolamento dei rapporti economici derivanti dal suddetto uso (Cass. II, n. 25/2000). Significativa, al riguardo, un'altra pronuncia dei magistrati di Piazza Cavour (Cass. II, n. 4905/1987), che, da un lato, ha ritenuto la competenza del Conciliatore con riferimento all'impugnazione di una deliberazione assembleare solo relativamente alla determinazione dell'orario di funzionamento dell'impianto di riscaldamento ed alla nomina del condomino incaricato di controllarne l'osservanza, e, dall'altro lato, ha affermato la competenza per valore del Tribunale riguardo allo stanziamento delle spese di gestione e di manutenzione del suddetto impianto, alla ripartizione millesimale tra i condomini, ed alla misura dello sconto per quelli che non intendevano utilizzare il predetto servizio. Sulla configurabilità o meno della nuova competenza del Giudice di Pace, più di recente, è intervenuto il Supremo Collegio, il quale – reiterando i principi in precedenza affermati – ha ribadito che, in tema di controversie tra condomini rientranti nella cognizione esclusiva del predetto giudice onorario, devono intendersi per cause relative alle modalità d'uso dei servizi condominiali quelle riguardanti i limiti qualitativi di esercizio delle facoltà contenute nel diritto di comunione, e, quindi, quelle relative al modo più conveniente ed opportuno in cui tali facoltà devono essere esercitate, mentre per cause relative alla misura dei servizi in condominio devono intendersi quelle concernenti una riduzione o limitazione quantitativa del diritto dei singoli condomini; sussiste, invece, la competenza ordinaria per valore qualora al condomino non derivi una limitazione qualitativa o quantitativa del suo diritto, ma la negazione in radice di esso (Cass. II, n. 6642/2000: in applicazione di tale principio, in una controversia insorta a seguito della domanda di un condomino che, deducendo la nullità della deliberazione che aveva destinato a parcheggio l'area del cortile condominiale, per il mutamento, da esso operato in violazione dell'art. 1102 c.c., della naturale destinazione del cortile medesimo, si è confermata la decisione del Tribunale, il quale aveva dichiarato la propria competenza, sul rilievo che, in detta controversia, veniva in contestazione il diritto stesso dei condomini ad utilizzare il cortile come area di parcheggio; cui adde, nella stessa lunghezza d'onda, Cass. II, n. 5449/2002; Cass. II, n. 14527/2001). Per completezza, va segnalato che la stessa giurisprudenza è concorde nel ritenere che la cognizione della regolarità anche formale di un atto giuridico spetta allo stesso giudice competente a decidere sui rapporti sostanziali regolati da tale atto (deve, quindi, intendersi di competenza del predetto giudice onorario la controversia instaurata da un condomino, con l'impugnazione della deliberazione dell'assemblea, attinente alla regolamentazione dell'uso degli spazi comuni del complesso condominiale e dei relativi accessi, fattispecie analizzata da Cass. II, n. 2312/1985, in relazione all'allora cognizione pretorile). Queste considerazioni valgono anche quando la deliberazione venga impugnata solamente per un vizio formale del procedimento – costituzione dell'assemblea o formazione della volontà condominiale – per cui la cognizione della regolarità del provvedimento impugnato spetta al giudice competente per materia a decidere sui rapporti sostanziali – modalità d'uso o misura dei servizi condominiali – oggetto della deliberazione adottata (Cass. II, n. 7650/1990; Cass. II, n. 7041/1988; Cass. II, n. 2854/1971; Cass. II, n. 501/1966; per la preferenza del criterio contenutistico, v., di recente, anche Cass. II, n. 7074/2011). Invero, riguardo alla predetta competenza ratione materiae – modalità o misura d'uso dei servizi e delle cose comuni – si deve sottolineare che l'elemento determinante ed individualizzante della domanda svolta con l'impugnazione di una deliberazione assembleare da parte di un condomino sia costituito, ai fini della determinazione della predetta competenza, dalla natura della pretesa azionata e non dalle relative domande di annullamento della deliberazione (Scirè, 387; Lotito, 525) Parte della dottrina si è mostrata di contrario avviso (Triola 1995, 5), sostenendo, invece, che il condomino che impugna una deliberazione per un vizio formale del procedimento di emanazione mira ad ottenere un solo risultato, e cioè l'annullamento della deliberazione, senza mettere in discussione la legittimità dal punto di vista sostanziale delle decisioni adottate, sicché, trattandosi di causa di valore indeterminabile, la competenza spetterebbe al Tribunale. Cosí, esemplificando, rientra nella competenza del Giudice di Pace la controversia in cui si sostenga l'illegittimità di una deliberazione condominiale autorizzante l'uso dell'ascensore per il trasporto di carrozzine per bambini, essendo lo stesso collaudato solo per il trasporto di persone, anche se si alleghi, quale unico vizio inficiante la validità della decisione, la genericità dell'ordine del giorno; e ancora, l'impugnazione di una deliberazione che ha regolamentato le modalità d'uso di un parcheggio deve essere proposta davanti al magistrato onorario, seppure, a fondamento dell'impugnazione, venga dedotta soltanto la mancata convocazione di un condomino alla riunione condominiale (per un'ipotesi di controversia relativa alla legittimità di una deliberazione assembleare che aveva vietato l'uso dell'ascensore per il trasporto di animali domestici, nella quale si è affermata la competenza del Conciliatore – e quindi ora del Giudice di Pace – v. Cass. II, n. 8431/1994). Di contro, va affermata la competenza del Tribunale in ordine all'impugnazione della deliberazione nella parte in cui si stabilisca di mantenere il distacco dell'apertura della porta di ingresso dello stabile dai singoli citofoni anche durante le ore di chiusura del portierato, in quanto solo apparentemente tale decisione concerne le modalità e la misura d'uso dei beni comuni, ma di fatto si risolve in una limitazione delle dotazioni dei singoli appartamenti privati ed ai diritti del singolo condomino, rimanendo a tale stregua impedita ogni possibilità di scendere ad aprire a qualsiasi invitato o fornitore, nonché di ricevere soccorso in caso di impedimento a scendere le scale (Cass. II, n. 4030/2005). Valore A seguito delle modifiche introdotte dalle successive riforme del codice di rito (l. n. 353/1990, l. 374/1991, l. n. 69/2009) e dall'introduzione del giudice unico (d.lgs. n. 51/1998), la competenza c.d. verticale, per quanto concerne il criterio del valore, veniva ad articolarsi tra due soli livelli, e precisamente: 1) il Giudice di Pace continuava ad essere competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a € 5.000,00, purché non siano devolute alla competenza ratione materiae di altro giudice; 2) il Tribunale è competente per tutte le cause concernenti beni immobili qualunque ne fosse il valore, per quelle relative a beni mobili purché di valore superiore a € 5.000,00, e per quelle di valore indeterminabile. Sul punto, la c.d. riforma Cartabia (d.ls. n. 149/2022, con decorrenza dal 30 giugno 2023) ha provveduto all'innalzamento della competenza per valore in capo al giudice onorario, che passa dagli attuali € 5.000,00 al triplo di tale importo: invero, si è modificato il comma 1 dell'art. 7 c.p.c., nel senso che: “Il giudice di pace è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a quindicimila euro, quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice”. Orbene, una volta escluso che ricorrano i menzionati criteri dell'individuazione della competenza ratione materiae del Giudice di Pace – v. supra – la determinazione del giudice competente a conoscere dell'impugnazione della deliberazione assembleare deve essere effettuata in relazione al valore della controversia. Sul punto, è stato espressamente affermato che il criterio per individuare la competenza a decidere l'impugnazione di una deliberazione assembleare da parte di un condomino è il valore, desumibile dalla deliberazione impugnata, salvo che l'oggetto di essa rientri nella competenza funzionale di un dato magistrato. È vero, infatti, che l'entrata in vigore del codice civile ha comportato l'abrogazione delle disposizioni del r.d. 15 gennaio 1934, n. 56, che disciplinava i rapporti di condominio sulle case, cosicché non può più ritenersi in vigore la regola relativa alla speciale competenza del Tribunale in tema di impugnativa delle deliberazioni delle assemblee condominiali, già contenuta nell'art. 26 del menzionato decreto e non riprodotta nell'art. 1137 c.c. (Cass. II, n. 1540/1963; Cass. II, n. 181/1967; Cass. II, n. 4009/1995); ne consegue che la competenza sulle controversie instaurate dai condomini mediante l'impugnazione di deliberazioni dell'assemblea dei partecipanti al condominio – salvo il caso in cui queste vertano su questione affidate per materia alla cognizione di un determinato giudice (come, attualmente, quelle riguardanti la misura e le modalità d'uso dei servizi di condominio di case, per le quali l'art. 7 c.p.c. stabilisce la competenza del Giudice di Pace) – va determinata in base ai generali criteri per valore (Cass. II, n. 14078/1999: nel caso di specie, escluso, in base all'esame degli atti, che la causa fosse di valore indeterminabile ed accertato, invece, che la deliberazione impugnata aveva per suo preciso oggetto l'approvazione del piano di riparto tra i condomini delle spese per l'anno 1995, il cui ammontare complessivo non superava i due milioni di lire, la competenza per valore apparteneva al Giudice di Pace ex art. 7, comma 1, c.p.c.). Al riguardo, preliminarmente, sono necessarie alcune precisazioni. In primo luogo, si deve ritenere che la competenza ratione valoris si determina con riferimento alla singola parte della deliberazione condominiale che sia oggetto di impugnazione, senza che possano venire in rilievo le altre questioni coinvolte dalla deliberazione stessa (Cass. II, n. 836/1980), come nel caso in cui la riunione condominiale presenti più argomenti all'ordine del giorno, ma soltanto uno o alcuni di essi siano contestati in sede giudiziaria dal condomino assente o dissenziente. In secondo luogo, riguardo alla domanda di annullamento di una deliberazione relativa alla ripartizione tra i condomini di una spesa, esattamente circoscritta nel suo ammontare, la competenza per valore si determina – quando non siano in discussione i criteri generali astrattamente stabiliti per la ripartizione delle spese tra i condomini – a norma degli artt. 11 e 14 c.p.c. in base al valore complessivo della somma da ripartire, e non in base al valore della singola quota del condomino che ha assunto l'iniziativa giudiziaria (Cass. II, n. 5726/1994; Cass. II, n. 1540/1963; qualora la controversia sia inerente all'impugnativa della deliberazione relativa a contestazioni sul diritto di proprietà o su altri diritti reali, bisogna, invece, far riferimento all'art. 15 c.p.c., v. Pret. Vercelli 22 febbraio 1959). In proposito, i giudici di legittimità (Cass. II, n. 23559/2007; Cass. II, n. 21703/2004; Cass. II, n. 6617/2004; Cass. II, n. 8447/2000; Cass. II, n. 12633/1991) hanno affermato che l'art. 12, comma 1, c.p.c. – secondo cui il valore delle cause relative all'esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che sia in contestazione – subisce deroga quando il giudice sia chiamato ad esaminare, con efficacia di giudicato, le questioni relative all'esistenza o alla validità dell'intero rapporto; pertanto, nella controversia promossa da un condomino, che agisca nei confronti di un condominio per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo personale di pagare la quota a suo carico della spesa decisa ed approvata in via generale per tutti i condomini dall'assemblea, sull'assunto dell'invalidità della relativa deliberazione per violazione degli artt. 1136 e 1137 c.c., la contestazione deve intendersi estesa necessariamente all'invalidità dell'intero rapporto, il cui valore è, pertanto, quello da prendere in considerazione ai fini della determinazione della competenza, atteso che il thema decidendum non riguarda l'obbligo del singolo condomino, bensí l'intera spesa oggetto della deliberazione, la cui validità non può essere riscontrata solo in via incidentale incidentale (v., da ultimo, Cass. II, n. 12202/2022, sul rilievo fondante per cui la pronuncia non potrebbe operare solo nei confronti dell'istante e nei limiti della sua ragione di debito ; Cass. II, n. 19250/2021, secondo cui la domanda di impugnazione di delibera assembleare introdotta dal singolo condomino, anche ai fini della stima del valore della causa, non può intendersi ristretta all'accertamento della validità del rapporto parziale che lega l'attore al condominio e dunque al solo importo contestato, ma si estende necessariamente alla validità dell'intera deliberazione e dunque all'intero ammontare della spesa, giacché l'effetto caducatorio dell'impugnata deliberazione dell'assemblea condominiale, derivante dalla sentenza con la quale ne viene dichiarata la nullità o l'annullamento, opera nei confronti di tutti i condomini, anche se non abbiano partecipato direttamente al giudizio promosso da uno o da alcuni di loro). In senso contrario, gli stessi ermellini (Cass. II, n. 971/2001) si sono espressi nel senso che, in una controversia tra un condomino ed un condominio avente ad oggetto il criterio di ripartizione di una parte soltanto della complessiva spesa deliberata dall'assemblea, il valore della causa si determina in base all'importo contestato e non all'intero ammontare di esso, perché la decisione non implica una pronuncia, con efficacia di giudicato, sulla validità della deliberazione concernente la voce di spesa nella sua globalità (più di recente, v. Cass. II, n. 18283/2015; Cass. II, n. 16898/2013; Cass. II, n. 6363/2010, aggiungendo che, anche se il condomino agisce per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo di pagamento sull'assunto dell'invalidità della deliberazione, occorre porre riguardo al thema decidendum, invece che al quid disputandum, per cui l'accertamento di un rapporto che costituisce la causa petendi della domanda, in quanto attiene a questione pregiudiziale di cui il giudice può conoscere in via incidentale, non influisce sull'interpretazione e qualificazione dell'oggetto della domanda principale e, conseguentemente, sul valore della causa; cui adde, di recente, Cass. II, n. 21227/2018). Tali principi hanno trovato una recente puntualizzazione ad opera dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 17278/2011; Cass. II, n. 1201/2010), ad avviso dei quali, ai fini della determinazione della competenza per valore riguardo ad una controversia avente ad oggetto la contestazione del riparto di una spesa deliberata dall'assemblea, occorre distinguere l'ipotesi in cui il condomino agisca per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo personale di pagare la quota a suo carico sull'assunto dell'invalidità della deliberazione, da quella in cui il condomino abbia, invece, dedotto per qualsiasi diverso titolo l'insussistenza della propria obbligazione. Nel primo caso, la contestazione deve intendersi estesa necessariamente all'invalidità dell'intero rapporto implicato dalla deliberazione ed al valore della stessa deve farsi riferimento ai fini dell'individuazione del giudice competente, giacché il thema decidendum non riguarda l'obbligo del singolo condomino, bensì l'intera spesa oggetto della deliberazione, la cui validità non può essere riscontrata solo in via incidentale, mentre, nel secondo, il valore della causa va determinato in base al solo importo contestato, perché la decisione non implica una pronuncia sulla validità della deliberazione concernente la voce di spesa nella sua globalità (Salciarini 2010, 24). In terzo luogo, va sottolineato che la causa si presenta di valore indeterminabile, e quindi rientrante sempre nella competenza del Tribunale, quando l'oggetto della deliberazione assembleare impugnato non sia suscettibile di valutazione economica (Cass. II, n. 2646/1973, in tema di nomina di un amministratore con incarico gratuito). In quest'ottica, è stata reputata di valore indeterminabile la domanda rivolta alla declaratoria di nullità di una deliberazione assembleare, la quale, innovando sul criterio di ripartizione delle spese condominiali, aveva adottato il sistema delle «carature» in sostituzione di quello dei «millesimi», e ciò in considerazione del rapporto sostanziale regolato dalla deliberazione impugnata, in quanto tale rapporto si proiettava verso il futuro, per un periodo di tempo indeterminato, fino ad un'ulteriore modifica del criterio di ripartizione delle spese condominiali (Cass. II, n. 1513/1976). Inoltre, posta la sussistenza dell'interesse ad agire anche quando la relativa azione sia volta esclusivamente alla loro rimozione, ove il vizio abbia carattere meramente formale e la delibera impugnata non abbia ex se alcuna incidenza diretta sul patrimonio dell'attore, la domanda giudiziale appartiene alla competenza residuale del Tribunale, non avendo ad oggetto la lesione di un interesse suscettibile di essere quantificato in una somma di denaro per il danno ingiustamente subito ovvero per la maggior spesa indebitamente imposta (Cass. II, n. 15434/2020). Premesse queste brevi precisazioni, non può escludersi una sfera di competenza del Giudice di Pace solo perché l'art. 7 c.p.c., nel delimitare in generale la competenza di quest'ultimo, ne precisa l'àmbito in relazione alle sole cause attinenti a «beni mobili» (Crescenzi, 141). A ben vedere, non erano mancate pronunce della giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 4476/1992; Cass. III, n. 1841/1987), le quali, sia pure con riferimento alla figura del Conciliatore – ma la stessa clausola è stata sostanzialmente riprodotta nella norma che delimita la cognizione del Giudice di Pace, salvo l'innalzamento della soglia del valore – avevano ritenuto che il predetto magistrato non togato, nei limiti della sua competenza per valore, potesse anche giudicare sulle azioni personali concernenti beni immobili e, in particolare, sulle cause che avevano per oggetto somme di danaro relative a quei beni che, però, non involgevano questioni sul rapporto giuridico di fatto e di diritto con i medesimi. Del resto, anche la migliore dottrina, che aveva commentato le norme sulla competenza del Giudice di Pace, era concorde nel rifiutare ogni lettura indebitamente estensiva della clausola de qua (per tutti, Levoni, 118). Tuttavia, sembrava maggioritario l'indirizzo (Cass. I, n. 10787/1996; Cass. II, n. 1031/1995; Cass. III, n. 2334/1992; Cass. II, n. 578/1987), per il quale l'art. 7 c.p.c. escludeva ratione materiae la competenza del magistrato non professionale per tutte le cause aventi ad oggetto domande afferenti a diritti, reali o personali, relativi a beni immobili (v., in particolare, Cass. I, n. 15100/2001: nella specie, si era dichiarata la competenza del Tribunale, che si era spogliato, in ragione del valore inferiore a lire cinquemilioni, della causa avente ad oggetto domanda di acquisto della proprietà di un bene immobile per usucapione; cui adde, nella giurisprudenza di merito, Giud. Pace Benevento 12 gennaio 2001). Sul punto, è intervenuto, di recente, il massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 21582/2011), affermando la possibile cognizione del Giudice di Pace, nei limiti della sua competenza per valore, in ordine alle controversie aventi ad oggetto pretese che abbiano la loro fonte in un rapporto, giuridico o di fatto, riguardante un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di un'esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti e sempre che tale richiesta non appaia, ictu oculi, alla luce delle evidenze probatorie, infondata e strumentale – siccome formulata in violazione dei principi di lealtà processuale – allo spostamento di competenza dal giudice di prossimità al giudice togato. In quest'ordine di concetti, si può, quindi, affermare che, allorché sia impugnata la deliberazione assembleare di approvazione di una spesa, è configurabile, una competenza per valore: a) del Giudice di Pace, se la spesa in oggetto non superi l'importo di € 5.000,00; b) del Tribunale, se il valore superi quest'ultimo limite, oltre che sia di valore indeterminabile (v., in argomento, Cass. II, n. 7757/1999, la quale ha precisato che, ai fini della competenza per valore, più domande possono essere sommate tra loro solo se proposte contro la stessa parte, escludendo pertanto il cumulo tra l'impugnazione di deliberazione assembleare proposta contro il condominio e la pretesa risarcitoria avanzata in proprio contro l'amministratore). Territorio Va ribadito, in generale, che debba ritenersi abrogata la norma contenuta nell'art. 26 del r.d. 15 gennaio 1934, n. 56, la quale stabiliva la competenza esclusiva del Tribunale – o del Pretore nei luoghi che non fossero sede di tribunale – a decidere delle impugnazioni avverso le deliberazioni assembleari, in quanto tale norma non è stata riprodotta nel contesto della nuova disciplina dell'impugnazione della deliberazione delineata dall'art. 1137 c.c., né è stata inserita tra le disposizioni del codice di rito relative alla competenza (v., tra le altre, Cass. II, n. 14078/1999; Cass. II, n. 4009/1995); ciò in riferimento alla norma di cui all'art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, che contempla, tra i motivi di abrogazione, la disciplina ex novo dell'intera materia, ed in relazione al rilievo che la normativa in materia condominiale si articola in una nuova regolamentazione completa, nella quale sono state trasferite molte delle disposizioni del r.d. n. 56/1934 (Cass. II, n. 510/1982). D'altronde, l'art. 1137 citato parlava di «ricorso all'autorità giudiziaria», con evidente diretto riferimento alle generali norme distributive della competenza contemplate nel codice di rito (Cass. II, n. 4905/1987), e ciò a fortiori ora che il nuovo testo si riferisce genericamente alla possibilità di «adire l'autorità giudiziaria». Per il resto, nessun problema sembra creare la competenza per territorio (vale a dire la c.d. distribuzione «orizzontale» della competenza), che è rimasta – anche a seguito delle varie novelle del codice di rito – disciplinata dalle stesse norme previste negli artt. 18 ss. c.p.c. In estrema sintesi, si può affermare che il foro generale del condominio sia da individuare con riferimento al luogo dove si trova l'edificio condominiale, e ciò anche in applicazione analogica dell'art. 19, comma 2, c.p.c. (ad esempio, in ordine al procedimento di impugnazione del regolamento condominiale); per le cause condominiali relative a rapporti obbligatori di cui all'art. 20 c.p.c., risulta competente, in via alternativa, il giudice del luogo dove è sorta l'obbligazione o dove l'obbligazione dedotta in giudizio deve eseguirsi (tale ultimo criterio potrebbe avere rilevanza nel caso in cui, per esempio, sia necessaria, ai fini dell'adempimento in favore del condominio creditore, la collaborazione dell'amministratore e quest'ultimo abbia la residenza o l'ufficio in una località diversa e distinta da quella in cui si trova l'edificio condominiale). In proposito, sulla premessa che il condominio di edifici, costituendo un ente di gestione, non ha una sede in senso tecnico, si è rilevato che lo stesso condominio, ove non abbia designato nell'àmbito dell'edificio un luogo espressamente destinato o di fatto utilizzato per l'organizzazione e lo svolgimento della gestione condominiale, ha il domicilio coincidente con quello privato della persona fisica dell'amministratore che lo rappresenta; pertanto, ai fini della competenza territoriale ex artt. 18 e 20 c.p.c., nei giudizi aventi ad oggetto il pagamento di contributi condominiali, il luogo di adempimento dell'obbligazione dedotta in giudizio va individuato nel domicilio dell'amministratore in carica al tempo della scadenza dell'obbligazione (Cass. II, n. 976/2000; Cass. II, n. 12208/1993). Da segnalare, soprattutto, l'art. 23 c.p.c., il cui comma 1 stabiliva che, «per le cause tra condomini», la competenza apparteneva al «giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi» – peraltro, operante non solo nell'ipotesi di edifici condominiali, ma anche, più in generale, in tutti i casi di comunione di beni ex artt. 1110 ss. c.c. (Cass. II, n. 1365/1999; Cass. II, n. 10863/1998; Cass. II, n. 5967/1996) – mentre il comma 2 precisava che tale norma si applicava anche dopo lo scioglimento del condominio, purché la domanda fosse proposta entro un biennio dalla divisione. Atteso che il condominio non è una persona giuridica, ci si era chiesti se le controversie che formalmente registrano come parti, da un lato, il condominio medesimo e, dall'altro, un condomino, contrapponessero, in realtà, quest'ultimo agli altri condomini – in altri termini, un partecipante al condominio controverte contro tutti gli altri – e, quindi, potessero o meno rientrare nella previsione di cui all'art. 23 c.p.c. In proposito, già nel regime precedente, non poteva condividersi l'affermazione secondo la quale la competenza territoriale nelle cause tra il condominio ed i singoli condomini fosse disciplinata dalle norme generali in materia di obbligazioni, sulla premessa dell'inapplicabilità dell'art. 23 c.p.c., il quale avrebbe regolato le sole ipotesi di liti tra singoli condomini (in tal senso, v. Pret. Firenze 13 dicembre 1988). Infatti, anche a prescindere dal rilievo che, una volta escluso che il condominio fosse titolare di una propria soggettività giuridica, era necessario ritenere che le parti del giudizio fossero i condomini, rappresentati dall'amministratore, non si vedeva quale giustificazione potesse avere, sul piano logico, una tale distinzione, atteso che la ratio della disposizione sembrava individuabile nella determinazione di un foro coincidente con gli interessi di una pluralità di persone, sicché non avrebbe avuto senso escluderne l'applicazione proprio allorché venissero in rilievo tali interessi, collettivamente considerati (Carrato, 235). Sul punto, era stato sottolineato che risultava arbitraria la pretesa di limitare la sfera di applicazione del citato art. 23 alle liti tra singoli condomini attinenti a rapporti giuridici derivanti dalla proprietà delle parti comuni dell'edificio o dall'uso e godimento delle stesse, con esclusione di quelle attinenti ai diritti di obbligazione, e, in particolare, alla riscossione dei contributi condominiali necessari alla gestione (Cass. II, n. 13640/2005, ad avviso della quale le controversie relative a tale riscossione, costituendo una lite fra condomini, erano devolute alla cognizione del giudice del luogo in cui si trovava l'immobile condominiale; Cass. II, n. 8734/1993; contra, Cass. II, n. 269/2003, che, ai fini dell'applicabilità della disciplina di cui all'art. 23 c.p.c., regolante la competenza territoriale in ordine alle liti tra i partecipanti alla comunione, aveva ritenuto che doveva intendersi per «causa vertente tra condomini» quella in cui si discuteva sui rapporti giuridici attinenti al diritto reale di proprietà ed all'uso delle cose comuni, sicché la disposizione non era invocabile nella diversa ipotesi in cui l'amministratore, in rappresentanza del condominio, pretendeva, nei confronti del singolo, il pagamento delle spese condominiali). Era prevalente, comunque, l'opinione secondo la quale l'art. 23 c.p.c. si riferiva non soltanto alle liti tra condomini per i rapporti giuridici attinenti alla proprietà ed all'uso delle cose comuni, bensí anche a tutte le liti che potessero insorgere nell'àmbito condominiale – comprese quelle tra il condominio ed il singolo condomino relative al pagamento della quota di contributi da parte di quest'ultimo – considerato che il condominio, a differenza della società, non era un soggetto dotato di personalità giuridica sia pure attenuata, o di una propria autonomia patrimoniale rispetto ai soggetti che ne facevano parte, ma si configurava come gestione collegiale di interessi individuali facente capo a quest'ultimi, sicché il suo amministratore non poteva considerarsi investito di un potere di rappresentanza organica, ma aveva la semplice rappresentanza volontaria dei partecipanti (tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Nocera Inferiore 4 dicembre 2002). In proposito, era intervenuto il massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 20076/2006; cui adde Cass. II, n. 11008/2011; Cass. II, n. 21172/2004), affermando che l'art. 23 c.p.c. (vecchio testo), che prevedeva per le cause tra condomini il foro speciale esclusivo del luogo in cui si trovavano i beni comuni o la maggior parte di essi, si riferiva non soltanto alle liti tra condomini per i rapporti giuridici attinenti alla proprietà ed all'uso delle cose comuni, bensì a qualunque controversia potesse insorgere nell'àmbito condominiale per ragioni afferenti al condominio, quand'anche vedevano contrapposto un singolo partecipante a tutti gli altri, ciascuno dei quali è singolarmente rappresentato dall'amministratore, e quindi anche alle controversie tra il condominio ed il singolo condomino relative al pagamento della quota di contributi da parte di quest'ultimo. Tenuto conto del fatto – accennato sopra – che il condominio non ha personalità giuridica autonoma e pertanto non possiede una sede in senso tecnico, la competenza ai sensi dell'art. 23 c.p.c. sussisteva anche con riferimento alle impugnazioni delle deliberazioni assembleari, in quanto anche esse davano vita ad una lite tra il condomino impugnante e gli altri condomini, mentre costituivano sempre liti tra condomini soggette, quanto alla competenza territoriale, alla medesima norma, anche le controversie che insorgevano in ordine al pagamento dei contributi condominiali dovuti da ciascun condomino per l'utilizzazione delle cose comuni, atteso che l'amministratore, nella relativa attività di riscossione, agiva in rappresentanza degli altri condomini (in senso conforme, inizialmente, Cass. II, n. 9828/1992). La l. n. 220/2012 ha tenuto conto del summenzionato dibattito giurisprudenziale: invero, l'ultimo articolo della Riforma stabilisce che, all'art. 23, comma 1, c.p.c., dopo le parole «per le cause tra condomini», sono inserite le seguenti «ovvero tra condomini e condominio». Mette punto rammentare, infine, che, con l'istituzione del giudice unico ex d.lgs. n. 51/1998, l'art. 21, comma 1, c.p.c. – che interessa anche esso la materia condominiale – è stato modificato nel senso che, per le cause relative a diritti reali su beni immobili, per le cause in materia di locazione e comodato di immobili urbani, nonchè per le cause di cui all'art. 7, comma 3, n. 1), c.p.c., relative cioè ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi «è competente il giudice del luogo dove è posto l'immobile». In ogni caso, va ricordato che, per giurisprudenza costante, il forum rei sitae o forum condominii è un foro speciale ed esclusivo, nel senso che non può concorrere con il foro personale (v., tra le altre, Cass. II, n. 732/1958), ma l'art. 23 c.p.c. delinea una competenza territoriale di carattere derogabile, e, quindi, la relativa questione non può essere rilevata d'ufficio dal giudice e deve essere eccepita dalla parte entro determinati termini (v., tra le tante, Cass. II, n. 878/1954). Riscossione dei contributi condominialiDiversa struttura dei giudizi Le cause di impugnazione delle deliberazioni condominiali registrano, di regola, come indefettibili protagonisti, da un lato, il condomino (solo o con altri), nella veste di attore, e, dall'altro lato, il condominio, in persona dell'amministratore pro-tempore, nella veste di convenuto. Talvolta, queste cause presentano una struttura processuale diversa, che vede, da una parte, il condominio come ricorrente nel procedimento per decreto ingiuntivo attivato dall'amministratore per il recupero delle spese di gestione ordinaria e straordinaria, e, dall'altra parte, il singolo condomino come soggetto ingiunto, opponente al decreto ingiuntivo; in tali ipotesi, le posizioni processuali sembrano apparentemente uguali rispetto alla prima (condomino-attore e condominio-convenuto), ma risultano sostanzialmente invertite, in quanto il condominio, che propone una azione di recupero del credito, è attore in senso sostanziale, mentre il condomino, che resiste, è convenuto in senso sostanziale, con tutti i poteri di chi può sollevare eccezioni e spiegare una domanda riconvenzionale. Al riguardo, va premesso che, accanto all'azione nelle forme ordinarie, l'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. – non toccato, sul punto, dalla Riforma del 2013 (al cui commento si rinvia) – prevede che, per la riscossione dei contributi condominiali, l'amministratore possa ottenere decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante opposizione, in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea (pleonasticamente aggiungendo che, in tale incombente, il suddetto amministratore non abbisogna di alcuna autorizzazione da parte del supremo organo gestorio). Nulla esclude, però, che l'azione giudiziaria possa essere instaurata dal condomino che, pervenuta la richiesta da parte dell'amministratore di provvedere al pagamento delle quote di che trattasi, o anche venuto semplicemente a conoscenza dell'addebito a suo carico delle quote stesse, promuova un giudizio in cui, al contrario, si accerti di non essere obbligato ad adempiere. Per quanto riguarda l'individuazione del giudice competente, in relazione all'azione proposta nelle forme ordinarie o in quelle del procedimento monitorio, si rileva che la controversia in ordine alla riscossione delle quote condominiali di cui sopra esula dalla sfera di cognizione ratione materiae del Giudice di Pace, restando la competenza sulla stessa regolata secondo gli ordinari criteri ratione valoris e, quindi, la possibilità di concorso verticale di competenza risulta soltanto tra il predetto giudice onorario ed il Tribunale. Nè può escludersi la competenza del Giudice di Pace in relazione alla limitazione della sua competenza alle cause relative ai beni mobili affermando che i contributi in oggetto afferiscono all'edificio condominiale. In altri termini, non appare corretto (ad avviso di La Rocca, 191) inquadrare le controversie inerenti la declaratoria di debenza o meno dei contributi condominiali sulla base della stretta inerenza di dette cause all'immobile onerato dal contributo – quasi una sorta di actio negatoria - e, quindi, la loro insistenza nell'àmbito delle c.d. controversie immobiliari, come tali escluse a contrario dalla competenza (negativa per materia) del Giudice di Pace delineata dall'art. 7, comma 1, c.p.c.; è vero che si tende a configurare la natura propter rem del predetto contributo, il che importa un'oggettiva connessione tra titolarità del diritto ed obbligazione contributiva, e l'automatico trasferimento del «peso» a carico dei terzi acquirenti dell'unità immobiliare onerata, tuttavia sembra eccessivo escludere la competenza (per valore) del predetto magistrato onorario con riferimento alla controversia relativa a beni (contributi condominiali) avente natura mobile (somme di denaro) solo perchè diretta all'attuazione di un obbligo pecuniario che sia sinallagmaticamente collegato con l'immobile (edificio condominiale). Decreto ingiuntivo Per quanto concerne i giudizi ordinari, occorre distinguere le due ipotesi prospettate, ed esaminare separatamente i casi in cui ad iniziare l'azione è l'amministratore, da quelli in cui l'iniziativa è assunta dal condomino, presunto debitore. Nella prima ipotesi, l'amministratore, nell'individuare il giudice competente, non può derogare alle norme generali e, per la relativa determinazione, deve fare riferimento all'ammontare della somma oggetto della domanda: così la competenza è ripartita soltanto tra il Giudice di Pace (fino a € 5.000,00 ex art. 7 c.p.c.) ed il Tribunale (importo superiore a tale limite ex art. 9 c.p.c.). Nella seconda ipotesi, in cui la domanda è proposta dal condomino che ritiene di non essere obbligato alla corresponsione di quanto richiestogli – per fatti diversi dalle ipotesi di insussistenza o di già avvenuta estinzione della relativa obbligazione – bisogna accertare se, alla base del rifiuto di pagamento, sussista o meno la volontà (anche implicita) di impugnare (o porre comunque in discussione) la deliberazione con la quale l'assemblea ha provveduto alla ripartizione della spesa tra i condomini. In questo caso, trattandosi della quota di un'obbligazione che fa carico a più soggetti, nell'individuare il giudice competente deve farsi riferimento all'art. 11 c.p.c., ed il valore della causa si deve determinare – non con riferimento alla somma indicata nella domanda, bensì – all'intera somma di cui alla deliberazione con la quale si è proceduto alla ripartizione, poiché la spesa interessa tutti i condomini che ne rispondono ciascuno per la propria quota; del resto, tale conclusione è giustificata dall'eventualità che domanda analoga possa essere separatamente proposta contro altri condomini, o da altri condomini e, quindi, allo scopo di evitare eventuali decisioni contrastanti (v., ex multis, Cass. II, n. 5726/1994). Analoghe considerazioni dovrebbero possono farsi relativamente alla proposizione della domanda nelle forme del procedimento monitorio. Va ricordato che, in forza del disposto dell'art. 637, comma 1, c.p.c., per la predetta ingiunzione risulta competente il Giudice di Pace o, in composizione monocratica, il Tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria, con riferimento esclusivo alla somma di cui l'amministratore chiede il pagamento (in pratica, rispettivamente, fino a € 5.000,00, o oltre), mentre l'art. 645, comma 1, c.p.c. prescrive che l'opposizione al decreto ingiuntivo, proposto dal condomino che ritiene di non essere obbligato al relativo pagamento, deve inderogabilmente presentarsi davanti all'ufficio giudiziario al quale appartenga il giudice che ha emesso lo stesso decreto. Né tale competenza a conoscere dell'opposizione, che riveste carattere funzionale, può essere esclusa in base al rilievo dell'incompetenza del giudice che ha emesso il decreto, anche se, in tal caso, detta competenza è destinata ad esaurirsi in una sentenza che definisce il giudizio di opposizione dichiarando la nullità del decreto medesimo (Cass. II, n. 3443/1984); neppure la proposizione, da parte del condomino opponente, di una domanda riconvenzionale che ecceda i limiti di valore della competenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo, può importare uno spostamento della causa di opposizione, dovendo il giudice di quest'ultima limitarsi a separare i giudizi, e rimettere al giudice superiore la causa relativa alla domanda riconvenzionale, salva la sospensione del giudizio sull'opposizione ex art. 295 c.p.c. ove ne ricorrano i presupposti (Cass. II, n. 1496/2007; Cass. II, n. 3255/1984). Interferenze processuali Tali osservazioni offrono lo spunto per esaminare, dal punto di vista processuale, le frequenti ipotesi in cui la controversia originata dalla richiesta al condomino moroso di pagamento delle quote condominiali – nelle forme ordinarie o monitorie – si intreccia con il giudizio promosso (prima, contestualmente o dopo) dallo stesso condomino diretto all'impugnazione della deliberazione di approvazione dello stato di ripartizione su cui si basa sostanzialmente la richiesta di cui sopra. Nella prassi, le due cause si potrebbero trovare nelle seguenti situazioni: 1) il condomino impugna entro i rituali trenta giorni la deliberazione sul piano di riparto ed instaura una prima causa di impugnativa, e l'amministratore chiede e ottiene, separatamente, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, provocando l'opposizione del condomino, che instaura una seconda causa; 2) l'amministratore chiede ed ottiene il decreto ingiuntivo, ed il condomino propone opposizione allo stesso, e, in via riconvenzionale, instaura un'impugnativa della relativa deliberazione (di solito, per nullità, perché quella per annullamento dovrebbe risultare tardiva per decorrenza del termine di trenta giorni); 3) il condomino propone l'impugnazione ex art. 1137 c.c. o invoca l'accertamento per nullità delle deliberazione, ed il condominio si costituisce chiedendo il rigetto dell'impugnazione, e, in corso di causa, propone l'istanza di ingiunzione di cui all'art. 186-ter c.p.c. fondata proprio sulla deliberazione impugnata. A ciò si aggiunga che, in presenza dell'efficacia immediatamente esecutiva della deliberazione in pendenza di impugnazione e dell'efficacia esecutiva ex lege del decreto ingiuntivo nonostante l'opposizione, si possono intersecarsi nel processo due questioni, che possono influenzarsi a vicenda: da una parte, l'istanza di sospensione dell'esecuzione della deliberazione (art. 1137, comma 3, c.c.), e dall'altra, la richiesta di sospensione «per gravi motivi» dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo (art. 649 c.p.c.), il tutto in base ad una valutazione sommaria che potrebbe – anche se non è la regola – rispondere a logiche differenti e fondarsi su presupposti diversi (Cass. II, n. 397/1971, secondo cui l'accoglimento dell'inibitoria richiesta avverso la deliberazione non determina la caducazione automatica dell'efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo concesso ex art. 63 disp. att. c.c., potendo tale effetto essere ottenuto solo attraverso un autonomo provvedimento di sospensione). Il problema è che non sempre i due giudizi penderanno davanti allo stesso magistrato, in quanto risultano diversi i criteri di determinazione della competenza per valore, che fanno riferimento, rispettivamente, all'importo richiesto al singolo condomino moroso nella causa di riscossione dei contributi condominiali ed all'intera entità delle spese relativamente alla causa di impugnazione della deliberazione (Cimatti, 187; Guida, 55). Si pensi, ad esempio, ad una richiesta di pagamento al condomino di Euro 2.000,00, di competenza del Giudice di Pace, e ad un'impugnativa di deliberazione assembleare che ha approvato uno stato di riparto ammontante complessivamente a Euro 75.000,00, di cognizione, invece, del Tribunale (nulla quaestio, invece, qualora il condomino opponente non ponga in discussione la deliberazione assembleare con la quale si è provveduto alla ripartizione della spesa totale, ad esempio, quando eccepisca soltanto di aver pagato la quota richiestagli, o nell'ipotesi in cui si limiti a dedurre di non essere il proprietario dell'unità immobiliare cui la quota medesima si riferisce). In tali ipotesi, essendo impossibile la riunione dei giudizi, i rapporti tra le due cause dovrebbero eventualmente essere regolati dall'istituto della sospensione, atteso che la decisione dell'impugnazione della deliberazione assume carattere pregiudiziale rispetto alla definizione della controversia diretta ad una pronuncia di condanna del condomino al pagamento dei contributi condominiali; tale soluzione sembrerebbe, poi, obbligata in relazione alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo nei confronti del condomino moroso, atteso che la competenza del giudice dell'opposizione al predetto decreto ha carattere funzionale e non può subire deroghe per ragioni di connessione (v., altresì, Cass. S.U., n. 10984/1992; in ordine al concetto di questione pregiudiziale, v. Cass. II, n. 5086/1993). Risulta, invece, orientata diversamente la giurisprudenza di legittimità maggioritaria (Cass. II, n. 19519/2005; Cass. II, n. 7261/2002; Cass. II, n. 11515/1999; Cass. II, n. 7073/1999; Cass. II, n. 11457/1997; Cass. II, n. 7569/1994 – secondo cui non sussiste nè la continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c., nè la pregiudizialità necessaria di cui all'art. 295 c.p.c., tra la causa di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c., e quella preventivamente instaurata dinanzi ad altro giudice impugnando la relativa deliberazione, perchè presupposto del provvedimento monitorio è l'efficacia esecutiva della predetta statuizione condominiale, ed oggetto della causa davanti al giudice dell'opposizione è il pagamento delle spese dovute da ciascun condomino sulla base della ripartizione approvata con la medesima, obbligatoria ed esecutiva finchè non sospesa dal giudice dell'impugnazione ai sensi dell'art. 1137, comma 3, c.c., mentre oggetto del giudizio di impugnazione è la validità della suddetta deliberazione. Il contrasto giurisprudenziale insorto è stato composto dal massimo organo della magistratura di vertice (Cass. S.U., n. 4421/2007), il quale ha autorevolmente statuito che al giudice dell'opposizione al decreto ingiuntivo emesso per il pagamento degli oneri condominiali in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non è consentito sospendere il giudizio in attesa della definizione del diverso giudizio di impugnazione, ex art. 1137 c.c., della deliberazione dell'assemblea posta a base del provvedimento monitorio opposto. Ne consegue che, costituendo la deliberazione assembleare titolo di credito del condominio e, di per sé, prova dell'esistenza di tale credito, il condomino opponente può far valere solo questioni attinenti alla sua efficacia e non alla sua validità; la denuncia di un motivo di annullabilità della deliberazione va, invece, fatto valere con l'impugnazione nel termine di cui all'art. 1137 c.c. e non può essere accertato neppure incidenter tantum dal giudice adìto con opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di contributi deliberati dall'assemblea (Cass. II, n. 24658/2009). Tali considerazioni sembrano, però, messe in crisi da una recente sentenza dei magistrati di Piazza Cavour (Cass. II, n. 305/2016), che hanno dovuto esaminare la prospettata ipotesi di «nullità» di una delibera assembleare con cui erano stati approvati dalla maggioranza assembleare alcuni lavori di manutenzione straordinaria concernenti – oltre che le parti comuni, anche – beni di proprietà esclusiva. Nella specie, il giudice a quo aveva sostenuto che, attesa l'inesistenza di un qualsivoglia nesso processuale di continenza e pregiudizialità necessaria tra il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e quello di impugnazione della deliberazione posta a base del ricorso monitorio richiesto dal condominio, non si poteva accertare, ancorché ai soli fini dell'accoglimento dell'opposizione, la nullità della deliberazione di approvazione delle spese (dando così continuità a quel principio di diritto affermato – in realtà, senza alcuna valenza nomofilattica – da Cass. S.U., n. 26629/2009, secondo cui, nel suddetto procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice deve limitarsi a verificare «la perdurante esistenza ed efficacia» delle relative deliberazioni assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette deliberazioni risultano impugnate). Si è, tuttavia, evidenziato che così si trascura di considerare il fatto che il vizio (incompetenza dell'assemblea), del quale risulterebbe affetta la deliberazione con la quale sono stati approvati i lavori, il cui corrispettivo pro quota è oggetto della richiesta monitoria, rientra propriamente tra quelli idonei a determinare la ben più radicale conseguenza della «nullità» della medesima delibera – specie alla luce delle indicazioni fornite da Cass. S.U., n. 4804/2005 – e risulterebbe effettivamente, ove sussistente, suscettibile di provocare la nullità della delibera, di modo che non appare correttamente applicato il principio della rilevabilità, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, dell'invalidità della delibera assembleare. Dunque, gli ermellini affermano – a chiare note – che il limite in merito al rilievo dell'invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo operi solo per le deliberazioni «annullabili», richiamando anche i precedenti (Cass. II, n. 9641/2006), secondo cui ben può il giudice rilevare d'ufficio la nullità quando, come nella specie, si controverta in ordine all'applicazione di atti (deliberazione dell'assemblea di condominio) posti a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costitutivo della domanda (v., altresì, in motivazione, Cass. II, n. 1439/2014, e Cass. II, n. 23688/2014). Sembrano, quindi, riprendere vigore tutte quelle osservazioni – costituenti un vulnus alla decisione del supremo organo di nomofilachia del 2007 – in ordine al ritenuto rapporto di pregiudizialità, in quanto, negando l'applicazione dell'art. 295 c.p.c., il condomino sarebbe comunque costretto a pagare, quanto meno in via provvisoria, i contributi fissati dalla deliberazione impugnata, senza considerare che tale giudizio potrebbe concludersi con il passaggio in giudicato di una situazione sfavorevole all'opponente in ordine alla sussistenza del credito vantato nei suoi confronti dal condominio, in contrasto con l'invalidità, all'esito del relativo giudizio, proprio di quella deliberazione che rappresenta il titolo costitutivo di tale credito; disponendo invece la sospensione, a seguito dell'accoglimento dell'impugnazione della deliberazione, verrebbe evitato un possibile conflitto di giudicati e, per effetto della caducazione del titolo in base al quale è stato emesso il decreto ingiuntivo, il condomino avrebbe diritto alla restituzione di quanto eventualmente pagato. D'altronde, il fatto che, tra le stesse parti (condomino e condominio), si controverta in una causa della nullità del titolo – id est della deliberazione assembleare – che, in altra causa, è posto a fondamento della domanda di condanna per l'inadempimento alle obbligazioni dal titolo stesso derivanti, fa desumere che, tra i due giudizi, ricorra quel rapporto di pregiudizialità necessaria, per il quale si impone la sospensione del secondo in attesa del giudicato di accertamento sulla nullità oggetto del primo, diversamente potendosi dar luogo a giudicati contrastanti; e ciò soprattutto allorquando, nel primo, si discuta di nullità del titolo e non di mera annullabilità – come nella specie da ultimo esaminata da Cass. II, n. 305/2016 - stante che il giudicato di accertamento impedisce all'atto di produrre ab origine qualunque effetto, sia pure interinale, e non si potrebbe contrapporre un distinto giudicato, di accoglimento della pretesa basata su quel medesimo titolo, contrastante con il primo in quanto presupponente un antecedente logico-giuridico opposto. A questo punto – a conferma di una certa insofferenza al suddetto diktat – dovrebbe superarsi anche quell'obiezione a tenore della quale non vi sarebbero problemi in ipotesi di contrasto di giudicati in caso di rigetto dell'opposizione all'ingiunzione e di accoglimento dell'impugnativa della deliberazione, potendosi ovviare alle relative conseguenze in sede esecutiva, facendo valere la sopravvenuta inefficacia del provvedimento monitorio, oppure in sede ordinaria mediante azione di ripetizione dell'indebito, atteso che le prospettate esigenze di rapidità e di incisività della riscossione coattiva dei contributi condominiali, perseguite dell'art. 63 disp. att. c.c., non appaiono tali da far pretermettere, in tale misura, le altrettanto impellenti esigenze di economia processuale e di non contraddittorietà delle pronunce, che animano l'intero processo civile. Proprio queste esigenze (come acutamente osservato da Scarpa 2015, 173) inducono a ravvisare invece il rapporto di continenza tra la domanda fondata su un titolo negoziale ed azionata nelle forme del procedimento monitorio, ed una simmetrica causa di cognizione ordinaria, proposta davanti ad altro giudice, e volta a far dichiarare l'invalidità del titolo da cui deriverebbe l'obbligazione del ricorrente in monitorio. Né convince affermare che l'eventuale contrasto di giudicati sull'esistenza del credito fra il decreto ingiuntivo, in seguito al rigetto dell'opposizione all'ingiunzione, e l'accoglimento dell'impugnativa della deliberazione, possa superarsi in sede esecutiva, giacché ciò scalfirebbe l'ulteriore regola generale che, in ipotesi di procedura fondata su titolo esecutivo giudiziale, preclude al giudice dell'esecuzione di effettuare qualsiasi controllo intrinseco sul titolo stesso, ossia diretto ad invalidarne l'efficacia in base ad eccezioni o difese che dovevano essere dedotte nel giudizio che a quel titolo aveva dato origine. Parimenti, la soluzione che rimette ad un nuovo e distinto giudizio ordinario di ripetizione di indebito le pretese restitutorie conseguenti alla declaratoria di invalidità della deliberazione di ripartizione delle spese, oltre a privare il giudicato sul decreto ingiuntivo della sua tipica forza riguardante la sussistenza del debito – la quale, altrimenti, farebbe venir meno l'essenziale condizione del pagamento non dovuto – contrasta con evidenti primarie ragioni di economia processuale; ed «è evidente quanto poco giovi agli stessi auspici di certezza, tipici dei rapporti condominiali, l'eventualità di dover restituire, semmai dopo tanti anni, all'esito del giudizio sull'invalidità del riparto, le somme incassate per effetto dell'improcrastinabile riscossione operata grazie al decreto ingiuntivo di cui all'art. 63 disp. att. c.c.» (così Scarpa, 2015, 174). Mutamento della domandaAlla fine del c.d. tiro incrociato contemplato nella prima udienza di trattazione delineata dall'art. 183 c.p.c., scatta la barriera preclusiva relativa al thema decidendum, cioè sui fatti principali posti a fondamento delle rispettive posizioni delle parti: effettuata l'eventuale integrazione, replica e controreplica, l'oggetto dell'impugnazione della deliberazione condominiale dovrebbe essere definitivamente circoscritto, per poi passare alla fase istruttoria (peraltro, in questo tipo di controversie non sempre necessaria). A proposito di quest'ultimo ius variandi – esercitabile, al massimo, nell'eventuale appendice scritta del comma 6 entro un termine perentorio – nei giudizi aventi ad oggetto le impugnazioni di deliberazioni assembleari, appare utile ricordare che l'attore non possa, con la scusa di assestare la propria difesa e modificare la propria domanda, introdurne una nuova, a prescindere dalla possibilità di un'accettazione del contraddittorio ad opera dell'altra parte (riguardo ad un procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995, v. Cass. S.U., n. 4712/1996, che ha escluso la sussistenza di tale accettazione nel mero silenzio della parte contro la quale è proposta la nuova domanda o nel suo difetto di reazione prolungato nel tempo). In generale, si può convenire che, nella valutazione dell'impugnazione di una deliberazione condominiale, il magistrato è necessariamente vincolato alla prospettazione del condomino impugnante, sia con riferimento al petitum che alla causa petendi. In particolare, l'azione di impugnativa definisce sia l'oggetto della domanda, mediante l'individuazione delle parti della deliberazione opposta di cui si deduce l'invalidità, sia i motivi che ne giustificherebbero la relativa declaratoria, conseguendone che il giudice non potrebbe pronunciare l'illegittimità della deliberazione se non limitatamente alle parti oggetto di specifica contestazione e per motivi diversi da quelli fatti valere dall'istante. Orbene, comunemente si ritiene che la mutatio libelli scatta quando si propone una domanda basata su presupposti diversi da quelli dedotti a fondamento dell'originaria istanza, dando cosí luogo ad un'oggettiva trasformazione della controversia. Si è rilevato che ogni motivo di impugnazione di deliberazione condominiale si risolve in un titolo autonomo e, quindi, in una domanda autonoma (Cass. II, n. 42/1967), conseguendone che la richiesta, in corso di causa, di declaratoria di nullità della stessa deliberazione per un motivo diverso da quello dedotto configura un mutamento dell'iniziale causa petendi, e pertanto una domanda nuova vietata dall'art. 345 c.p.c. (Cass. II, n. 1378/1999; Cass. II, n. 5101/1986, sia pure con riferimento al divieto di ius novorum stabilito dal testo previgente). Logico corollario è che la domanda di declaratoria dell'invalidità di una delibera dell'assemblea dei condomini per un determinato motivo non possa consentire al giudice, nel rispetto del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, l'annullamento della medesima delibera per qualsiasi altra ragione attinente a quella questione, né, tantomeno, l'annullamento, sia pure per la stessa ragione esplicitata con riferimento alla deliberazione specificamente impugnata, delle altre delibere adottate nella stessa adunanza ma non ritualmente opposte, in quanto, ancorché sia redatto un unico processo verbale per l'intera adunanza, l'assemblea pone in essere tante deliberazioni ontologicamente distinte ed autonome fra loro, quante siano le diverse questioni e materie in discussione, con la conseguente astratta configurabilità di separate ragioni di invalidità attinenti all'una o all'altra (Cass. II, n. 16675/2018). Resta dunque fermo (ad avviso di Cass. II, n. 22678/2017) che, in tema di impugnazione delle deliberazioni condominiali, trova applicazione il principio dettato in materia di contratti secondo cui la richiesta di accertamento, per la prima volta in appello, di un motivo di nullità diverso da quelli proposti in primo grado è inammissibile, a ciò ostando il divieto di nova ex art. 345, comma 1, c.p.c., salva la possibilità per il giudice del gravame – obbligato comunque a rilevare d'ufficio ogni possibile causa di nullità – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall'appellante, ai sensi dell'art. 345, comma 2, c.p.c. In questa prospettiva – per fare qualche esempio – chiesto l'annullamento di una deliberazione assembleare, nella parte concernente un argomento non posto all'ordine del giorno, costituisce domanda nuova, che immuta l'iniziale causa petendi ed introduce nel processo un tema di indagine nuovo, la domanda di annullamento della stessa deliberazione per non essere stato dato, o non essere stato dato tempestivamente, ad alcuni condomini l'avviso della convocazione dell'assemblea (Cass. II, n. 3406/1978); viceversa, proposta una domanda di annullamento della deliberazione assembleare, per essere stata approvata senza il quorum della maggioranza prescritta dall'art. 1136 c.c., o comunque in violazione dei criteri legali o/e regolamentari relativi alla ripartizione delle spese – nella specie, per il rifacimento della recinzione dei terrazzi a livello e dei balconi – è inammissibile, perché da considerarsi nuova, la domanda con la quale si deduca l'invalidità della stessa in quanto riguardante un argomento non indicato nell'avviso di convocazione dell'assemblea (Cass. II, n. 1361/1989; Cass. II, n. 5694/1978). Del resto, il comma 1 dell'art. 189 c.p.c. – nel testo sostituito dall'art. 23 della l. n. 353/1990, ed ora richiamato dall'art. 281-quinquies c.p.c., come inserito dall'art. 68 del d.lgs. n. 51/1998, che disciplina la fase decisoria nel procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica – prescrive che il giudice invita le parti a precisare le conclusioni «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'articolo 183» c.p.c., per cui un'eventuale nuova censura in ordine alla deliberazione impugnata, sollevata in un momento successivo al maturarsi delle preclusioni assertive, dovrebbe considerarsi d'ufficio inammissibile, anche in caso di accettazione del contraddittorio ad opera della controparte. Resta inteso che i predetti rilievi operano soltanto con riferimento alla proposizione di domande nuove nell'àmbito dello stesso giudizio, non precludendo che nuovi motivi di impugnazione possano essere fatti valere in un diverso giudizio, salvi, ovviamente, gli effetti di eventuali decadenze medio tempore verificatesi. Onere della provaRimane da risolvere il problema della ripartizione dell'onere della prova tra condomino impugnante e condominio resistente nel giudizio di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c. Inizialmente, si riteneva che incombesse all'impugnante l'onere di fornire la prova negativa del mancato rispetto delle regole dettate per la formazione della volontà assembleare (Cass. II, n. 4691/1989; Cass. II, n. 2568/1987; Cass. II, n. 3169/1978), e, nello stesso ordine di idee, che era a carico dell'opponente la prova del vizio di costituzione dell'assemblea (Cass. II, n. 2696/1975; Cass. II, n. 869/1975). Ad esempio, qualora si deducesse la mancata convocazione di un condomino all'assemblea, si era sostenuto che spettava al condomino dimostrare tale mancata convocazione, anche se, in tema di prova dell'avvenuta convocazione, si riscontravano anche pronunce ispirate a criteri difformi che affermavano l'ammissibilità delle presunzioni, aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza stabiliti dall'art. 2729 c.c. In seguito, però, la giurisprudenza di legittimità si è correttamente orientata nell'affermare che, nel caso in cui il condomino agisca per far valere l'invalidità della predetta deliberazione, incombe sul condominio convenuto l'onere di provare che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione, quale presupposto per la regolare costituzione dell'assemblea, mentre resta a carico dell'istante la dimostrazione degli eventuali vizi inerenti alla formazione della volontà della medesima assemblea (Cass. II, n. 5267/1997; Cass. II, n. 12379/1992; Cass. II, n. 9109/1987; Cass. II, n. 5769/1985, secondo cui l'avviso di convocazione previsto dall'art. 66, ultimo comma, disp. att. c.c. deve essere non solo inviato ma anche ricevuto nel termine ivi previsto di cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza; Cass. II, n. 6863/1982, per la quale è, invece, sufficiente provare che l'invito all'assemblea, indipendentemente dalla sua effettiva conoscenza, sia stato regolarmente fatto ad ogni condomino; più di recente, v. Cass. II, n. 22685/2014). Sempre sul presupposto che non può addossarsi al condomino impugnante, che deduce l'invalidità dell'assemblea, l'onere di fornire la prova negativa dell'inosservanza di tale obbligo, si è ribadito che risulta a carico del condominio, convenuto dal singolo per l'annullamento della deliberazione perché adottata senza convocarlo, l'onere di dimostrare, anche mediante presunzioni, che invece tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati ai sensi degli artt. 1105, comma 3, e 1136, penultimo comma, c.c. (Cass. II, n. 2838/1999, in materia di supercondominio, secondo cui tale prova non può essere offerta con la dimostrazione della consegna dell'avviso a soggetti ai quali non è stato conferito uno stabile potere di rappresentanza nei confronti del condominio; Cass. II, n. 8199/1998). A rigore, però, reputando – segnatamente sull'abbrivio di Cass. S.U., n. 4806/2005 - che l'omessa convocazione del condomino all'assemblea comporti la mera annullabilità della deliberazione adottata in quella riunione, si dovrebbe coerentemente inferire che l'onere di provare l'esistenza del vizio sia posto a carico dello stesso condomino che agisce impugnando tale deliberazione, essendo espressione del principio generale che è sempre onere dell'attore allegare e provare i fatti costitutivi della domanda, e, quindi, in caso di impugnazione della deliberazione condominiale, i fatti dai quali discende l'invalidità del provvedimento assembleare. In quest'ordine di concetti, si è recentemente statuito (Cass. II, 28262/2023) che il condomino, il quale impugni una deliberazione dell'assemblea, deducendo vizi relativi alla regolare costituzione o alla approvazione con maggioranza inferiore a quella prescritta, ha l'onere di provare la carenza dei quorum stabiliti dall'art. 1136 c.c., alla stregua del valore proporzionale delle unità immobiliari dei condomini intervenuti in rapporto al valore dell'intero edificio (aggiungendo, addirittura, che, a tal fine, non ha rilievo l'esistenza di una “tabella di proprietà” e di eventuali “tabelle di gestione”, le quali hanno, di regola, valore puramente dichiarativo dei criteri di calcolo stabiliti dalla legge per determinati beni o impianti destinati a servire i condomini in misura diversa o soltanto una parte dell'intero fabbricato e servono soltanto ad agevolare lo svolgimento delle assemblee e la ripartizione delle spese ad essi relativi). La sospensione dell'efficaciaPresupposti dell'inibitoria Quanto ai presupposti della sospensione della delibera impugnata, il comma 3 dell'art. 1137 c.c. continua a non precisare quali siano i criteri di valutazione a cui deve attenersi il giudice nella decisione sull'istanza di sospensione dell'efficacia della deliberazione impugnata, anche se, configurandosi come una misura cautelare, si individuano i presupposti dell'inibitoria nei tradizionali requisiti del c.d. fumus boni iuris e del c.d. periculum in mora (sul versante della giurisprudenza di merito, in difetto di pronunce dei giudici di legittimità, v. Trib. Napoli 19 novembre 2003, secondo il quale sussiste il pregiudizio irreparabile, ossia il presupposto del c.d. periculum in mora che, al pari di quello del c.d. fumus boni iuris, deve condizionare la concessione del provvedimento di sospensione dell'esecutività della deliberazione impugnata, allorquando non sia possibile, o sia oltremodo difficile, la riparazione in forma specifica della posizione giuridica lesa dall'esecuzione della predetta deliberazione; avverso l'ordinanza di sospensione dell'esecutività della deliberazione condominiale emessa ai sensi dell'art. 1137 c.c., stante la natura cautelare di tale provvedimento e la consequenziale applicabilità del procedimento cautelare uniforme contemplato dagli artt. 669-bis ss. c.p.c., è esperibile il reclamo di cui all'art. 669-terdecies c.p.c., v. Trib. Lecce 4 settembre 1991). In ordine al primo – il fumus – è innegabile che la delibazione della fondatezza dell'impugnazione costituisca un momento necessario della valutazione demandata al giudice; l'accertamento del fumus attiene, infatti, alla possibilità di esistenza del diritto di cui viene chiesta la cautela, per cui la domanda non dovrebbe apparire prima facie infondata, sia pure nella sommarietà della delibazione (Casaburi, 459) Per quanto concerne il secondo requisito – il periculum – generalmente si ritiene che debbano richiedersi gli stessi presupposti per la concessione del provvedimento ex art. 700 c.p.c. (Raschi 1968, 783; Manolo, 55; Lotito, 1087). Tuttavia, il concetto di «irreparabilità» non può essere inteso in senso assoluto, perché, a stretto rigore, è irreparabile soltanto il pregiudizio che non solo sia suscettibile di reintegrazione in forma specifica, ma non sia neppure risarcibile per equivalente, ma così significherebbe, di fatto, escludere o gravemente circoscrivere l'applicabilità pratica dell'istituto, in quanto una deliberazione condominiale non può quasi mai essere fonte di un pregiudizio irreparabile, soprattutto considerando la sua provenienza da un soggetto collettivo che, di regola, risulta in grado di offrire le più ampie garanzie per l'eventuale reintegrazione della lesione patrimoniale derivata al condomino dall'esecuzione della deliberazione impugnata (Crescenzi, 279), salvo concedere l'inibitoria solo in relazione a decisioni comportanti innovazioni vietate, suscettibili di compromettere la statica dello stabile condominiale, o implicanti notevoli modificazioni dello stato dei luoghi attraverso demolizioni, ricostruzioni, ampliamenti, oppure quando vi è un pericolo di danno alla salute degli abitanti coinvolgendo l'art. 32 Cost. In proposito, una pronuncia di merito (Trib. Ariano Irpino 25 ottobre 2005), ha affermato che la sospensione dell'esecutività della deliberazione assembleare può essere concessa, però, allorquando si appalesa un pregiudizio patrimoniale tout court, non dovendo il concetto di danno essere inteso in modo rigoroso e restrittivo, ovverosia come danno imminente ed irreparabile. Sarebbe stato, quindi, preferibile adottare un'espressione in linea con gli artt. 23 e 2378 c.c., che subordinano la sospensione delle deliberazioni associative e societarie alla sussistenza di «giusti motivi», poiché quest'ultimo concetto, più generico e, quindi, più duttile, consente una valutazione comparata dei contrapposti interessi in gioco (Celeste 2003, 613): e precisamente, da un lato, l'interesse del condomino impugnante ad una tutela immediata delle proprie ragioni e, dall'altro, l'interesse del condominio resistente a che la funzionalità della gestione della cosa comune non venga pregiudicata da comportamenti dilatori. In altri termini, il giudice dovrà valutare le conseguenze pratiche che la sua decisione sull'inibitoria potrà avere nei confronti dei soggetti coinvolti nel giudizio di impugnazione, comparando, da un lato, il danno che subirebbe il condomino a seguito dell'esecuzione della deliberazione impugnata e, dall'altro, il danno che subirebbe viceversa il condominio in connessione alla sospensione della stessa. Proponibilità ante causam Il testo riformato, al comma 4 dell'art. 1137 c.c., prevede espressamente che si possa chiedere l'inibitoria «prima dell'inizio della causa di merito», precisando, però, che tale presentazione non sospende né interrompe il termine per impugnare la stessa deliberazione di cui al comma 2 del citato art. 1137. In precedenza, si era reputata, invece, inammissibile la proposizione dell'istanza anteriormente al ricorso per l'annullamento della deliberazione, costituendo l'impugnativa di questa «l'antecedente logico necessario e il presupposto giuridico della sospensione» (così Cass. II, n. 3033/1959). Si deve, però, riconoscere che gli strettissimi termini di decadenza (trenta giorni), entro i quali le impugnazioni alle deliberazioni delle assemblee devono essere proposte – quantomeno con riferimento a quelle annullabili, che risultano, peraltro, le più frequenti sotto il profilo statistico – inducono ad escludere che il provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione possa essere richiesto ante causam, con conseguente pratica inapplicabilità dell'art. 669-ter c.p.c., nel senso che assai raramente il condomino avrà interesse a proporre l'istanza cautelare separatamente dalla domanda di impugnazione della deliberazione. Al contempo, non può in teoria escludersi che tale interesse sia talvolta configurabile, ad esempio nelle ipotesi di eccezionale urgenza; in pratica, da un lato, sarà necessario che il condomino, che chieda ante causam un provvedimento di sospensione della deliberazione, offra un'idonea giustificazione dell'impossibilità di attendere l'instaurazione del giudizio di impugnazione ex art. 1137 c.c., e, dall'altro, occorrerà fare bene attenzione al fatto che, una volta proposta in via autonoma l'istanza di sospensione, l'impugnazione della deliberazione dovrà essere proposta entro il termine di trenta giorni decorrente dalla data della deliberazione o dalla comunicazione della stessa, e non entro quello (ora di sessanta giorni) di cui all'art. 669-octies c.p.c. decorrente dal provvedimento di accoglimento (v. anche appresso). Una volta ritenuta l'ammissibilità della proposizione autonoma dell'istanza di sospensiva, la domanda cautelare si proporrà con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente a conoscere del merito, facendo sempre attenzione al fatto che al Giudice di Pace sono inibiti poteri cautelari (artt. 669-ter, comma 2, e 669-quater, comma 3, c.p.c.). In estrema sintesi, secondo il sistema delineato dalla Riforma del 2013, l'istanza di sospensione può essere proposta: a) in forma autonoma, e cioè prima dell'impugnazione della deliberazione assembleare (ciò si può configurare in casi eccezionali); b) contestualmente all'impugnazione medesima, quando l'inibitoria sia richiesta con l'atto di citazione introduttivo della causa (questa è l'ipotesi più diffusa); c) in corso di causa, con ricorso ad hoc depositato in cancelleria o con dichiarazione a verbale di udienza da parte del procuratore del condomino-attore (allorché si verifichino successivamente circostanze inesistenti all'inizio del giudizio, o che comunque in un primo tempo non avevano carattere di urgenza, v. gli artt. 669-quater e 669-decies c.p.c.). Procedimento cautelare uniforme Per la disciplina della sospensione, il nuovo comma 4 dell'art. 1137 c.c. rinvia, «per quanto non espressamente previsto», al procedimento cautelare uniforme di cui agli artt. 669-bis ss. c.p.c. Infatti, è innegabile che il provvedimento di sospensione dell'efficacia della deliberazione impugnata costituisca espressione del più esteso principio di tutela cautelare, di cui possiede la ratio peculiare, e cioè il fine di evitare che la durata del processo pregiudichi la situazione giuridica soggettiva di cui è chiesta la tutela, assicurando cosí l'effettività della funzione giurisdizionale (tra i recenti contributi dottrinari sull'argomento, Cariglia, 1159; Tamburro, 287; Spinoso, 21; Scalettaris, 428). Più nel dettaglio, nell'ipotesi particolare del provvedimento ex art. 1137 c.c., i presupposti della tutela cautelare sussistono pienamente, in quanto, innanzitutto, la sospensione mira ad evitare che il diritto del condomino possa essere leso o altrimenti pregiudicato dall'esecuzione della deliberazione impugnata; inoltre, l'inibitoria non è fine a se stessa, ma è preordinata all'adozione della sentenza finale di merito, di cui assicura, in via preventiva, anticipandone o conservandone gli effetti, la fruttuosità; infine, la futura pronuncia di annullamento è destinata a sostituirsi alla misura cautelare, che ha carattere solo temporaneo. Si può, quindi, affermare che il provvedimento ex art. 1137 c.c. abbia carattere strumentale e servente rispetto a quello di impugnazione della deliberazione: in buona sostanza, se la domanda è accolta e la deliberazione è annullata, la sospensiva resta assorbita dalla pronuncia maggiore, mentre, se viene rigettata l'impugnazione, in relazione alla quale il provvedimento cautelare era stato concesso, quest'ultimo sarà caducato. Premesso quanto sopra, è significativo l'intento di inquadrare il relativo procedimento nella nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale prevista dagli artt. 669-bis ss. c.p.c.; l'obiettivo della Riforma del 1995, in proposito, era stato quello di dettare la disciplina di un procedimento comune a tutte le misure cautelari, delle quali si sarebbero conservate soltanto le disposizioni relative all'individuazione delle fattispecie (v. il rinvio operato «agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile» dall'art. 669-quaterdecies c.p.c.); pertanto, se è indubbia la natura cautelare del provvedimento di sospensione della deliberazione impugnata, il problema dell'applicabilità o meno ad esso della disciplina del procedimento cautelare uniforme si sposta, e si concentra, sulla lettura che si fa del parametro della «compatibilità». Comunque, si realizza un sub-procedimento che si inserisce, con una sua autonomia, nell'àmbito di quello relativo alla domanda principale; salva la peculiarità in ordine alla proponibilità dell'istanza ante causam, sono stati, quindi, richiamati espressamente in proposito gli artt. 669-bis ss. c.p.c., relativi ai «procedimenti cautelari in generale» (restando ferma l'incompetenza del Giudice di Pace sul punto), per cui: - il giudice deve sentire le parti, e provvedere con ordinanza, salvo emettere decreto inaudita altera parte e fissare entro quindici giorni l'udienza di comparizione delle parti ai fini della conferma, modifica o revoca dello stesso con ordinanza; - lo stesso giudice può modificare o revocare, sempre su istanza di parte, il provvedimento di sospensione «se si verificano mutamenti delle circostanze» (art. 669-decies c.p.c.); - è ammissibile il reclamo secondo la procedura (Noviello, 1112) e con i limiti previsti dalla novella, e lo stesso riguarda i provvedimenti di accoglimento e di rigetto della sospensione (art. 669-terdecies c.p.c.); - l'istanza cautelare, pur se rigettata, può essere riproposta (art. 669-septies c.p.c.). Il novellato comma 4 dell'art. 1137 c.c. esclude espressamente soltanto l'applicazione dell'art. 669-octies, comma 6, c.p.c. (così come modificato dalla l. n. 80 del 2005), il quale stabilisce, in buona sostanza, che, per determinati provvedimenti cautelari, non c'è l'obbligo di instaurare il giudizio di merito, sicché il giudizio di impugnazione della deliberazione dovrebbe comunque essere instaurato se si vuole evitare il venire meno del concesso provvedimento di inibitoria; a ben vedere, tale norma, contemplata per i provvedimenti cautelari c.d. anticipatori, era rivolta a non costringere la parte vittoriosa ad instaurare il giudizio di merito dopo la fase cautelare, essendo quest'ultimo appunto facoltativo, mentre la Riforma, rendendo tale incombente obbligatorio a seguito dell'inibitoria ex art. 1137 c.c., di fatto, impone al condomino impugnante lungaggini processuali e spese legali evitabili, laddove poteva essere pienamente soddisfatto dall'adottato provvedimento di sospensiva. Molto opportunamente, il comma 11 dell'art. 1 del d.lgs. n. 149/2022 - c.d. riforma Cartabia, operativa dal 30 giugno 2023 - espunge dal comma 4 del summenzionato art. 1137 c.c. la frase “con esclusione dell'art. 669-octies, sesto comma, del codice di procedura civile”, al chiaro fine di allinearne il testo alle modifiche apportate al comma 6 dell'art. 668-octies c.p.c., che ora è del seguente tenore: “Le disposizioni di cui al presente articolo e al primo comma dell'articolo 669-novies non si applicano ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell'articolo 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell'articolo 688 e ai provvedimenti di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari adottati ai sensi dell'articolo 1137, quarto comma, del codice civile, ma ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito” (peraltro, anche il comma 8 dello stesso art. 669-octies c.p.c. è mutato, nel senso che “l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia dei provvedimenti di cui al sesto comma, né dei provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni assunte da qualsiasi organo di associazioni, fondazioni o società, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa”). Alla luce di tali modifiche, pertanto, confermando il regime di c.d. strumentalità attenuata, non è più necessario prevedere l'esclusione dell'applicazione della suddetta disposizione processuale, atteso che, in attuazione del principio di delega (comma 17, lettera q), sono state apportate le modifiche all'art. 669-octies c.p.c. al fine di prevedere, al comma 6, che il regime di non applicazione del procedimento di conferma previsto dall'art. 669-octies c.p.c. e dal comma 1 dell'art. 669-novies c.p.c. si applichi anche ai provvedimenti di sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari, adottati ai sensi dell'art. 1137, comma 4, c.c., fermo restando, comunque, la facoltà di ciascuna parte di instaurare il giudizio di merito. Poteri del giudiceControllo di legittimità Risulta consolidato tra i giudici di legittimità il principio secondo cui, sulle deliberazioni dell'assemblea di condominio, il sindacato dell'autorità giudiziaria non possa estendersi alla valutazione del merito ed al controllo della discrezionalità di cui dispone l'assemblea, quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità (v., tra le altre, Cass. II, n. 1165/1999), in quanto la facoltà di impugnativa è normativamente circoscritta alle sole ipotesi di violazioni delle disposizioni di legge o del regolamento di condominio. (v., da ultimo, Cass. II, n. 10362/2025, la quale ha ribadito che, nel sindacato del giudice sulla validità delle delibere assembleari oggetto di impugnazione ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c., non vi rientrano, ad esempio, questioni inerenti alla vantaggiosità della scelta operata dall'assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose e ai servizi comuni). Quindi, il controllo esercitato dal magistrato in sede di opposizione alla deliberazione condominiale non può mai inerire al merito di essa, nel senso che gli è preclusa la possibilità di interferire nella libera valutazione dell'assemblea nel giudizio di convenienza o ponderatezza sotteso al contenuto della deliberazione medesima, che pertanto non può essere censurata ed invalidata per la semplice sua irrazionalità, che non si traduca in una violazione di specifiche norme legislative o regolamentari (Salis 1979, 272). Al di fuori dei casi di nullità o annullabilità enucleati dalla giurisprudenza, non può mai essere dedotto e criticato l'apprezzamento di fatto da parte della maggioranza delle questioni trattate dall'assemblea (Cass. II, n. 2217/1971; Cass. II, n. 1865/1968). Il giudice – lo si ripete – può pronunciare l'annullamento delle deliberazioni assembleari solo per violazione di legge o del regolamento di condominio, sicché è da escludere che lo stesso possa sostituire la sua pronuncia di merito a quella illegittima dell'assemblea, dovendosi egli, invece, limitarsi a dichiarare la nullità o annullare la stessa. Peraltro, resta esclusa (ad avviso di Cass. II, n. 3747/1994) anche ogni diversa forma di invalidazione ex art. 1418 c.c., non essendo consentito al singolo condomino rimettere in discussione i provvedimenti adottati dalla maggioranza se non nella forma dell'impugnazione della deliberazione: questa è, quindi, considerata la modalità esclusiva di reazione anche per far valere i vizi implicanti la radicale inefficacia ab origine dell'atto collettivo. Ne consegue che nessun potere sostitutivo è attribuito dalla legge all'autorità giudiziaria, nel senso di possibile emanazione da parte della stessa di provvedimenti che prendano il posto delle deliberazioni illegittime, che, invece, restano di esclusiva competenza dell'assemblea dei condomini. Il principio di cui sopra costituisce, dunque, il limite del sindacato del magistrato, non essendo ammesso alcun riesame sul merito da parte dell'interprete, in particolare sull'opportunità della decisione e sulla fondatezza dei motivi che hanno indotto l'assemblea alla deliberazione; pertanto, l'intervento del giudice è circoscritto alle sole questioni connesse al riscontro della legalità del provvedimento assembleare, dovendo questi esclusivamente accertare, in concreto, se vi sia contrasto tra il contenuto della deliberazione o le modalità di formazione della stessa e le norme (di legge o di regolamento) in materia, senza che possa farsi ricorso, per la decisione finale, a criteri di congruità o di equità sulle ragioni che l'hanno determinata. Mette punto rammentare, però, che il sindacato di mera legittimità del magistrato non esclude la possibilità, anzi la necessità, di un accertamento della situazione di fatto che è alla base della determinazione assembleare, allorché tale accertamento costituisca il presupposto indefettibile per controllare la rispondenza della deliberazione alla legge (Cass. II, n. 5905/1987). Per completezza, si è chiarito (Cass. II, n. 28763/2017; Cass. II, n. 4501/2006) che, qualora le deliberazioni dell'assemblea condominiale, ove esprimano una volontà negoziale, le stesse devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 ss. c.c., privilegiando, innanzitutto, l'elemento letterale, e quindi, nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti e della conservazione degli effetti dell'atto, che impone all'interprete di attribuire alle espressioni letterali usate un qualche effetto giuridicamente rilevante anziché nessun effetto o un significato meramente programmatico (dal canto suo, Cass. II, n. 12556/2002 ha aggiunto che il relativo compito è assegnato al giudice del merito, e atteso che tale valutazione costituisce apprezzamento di fatto, la stessa è insindacabile in sede di legittimità, purché sorretta da congrua motivazione immune da vizi logici e giuridici). Eccesso di potere Si discute se il sindacato giudiziale delle deliberazioni condominiali possa configurarsi nelle ipotesi in cui queste risultino viziate da «eccesso di potere». In effetti, la figura dell'eccesso di potere trova le proprie origini negli studi di diritto amministrativo, ove l'esigenza di controllo del legittimo esercizio del potere discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad ampliarne i profili applicativi; tuttavia, nell'àmbito del diritto privato, ove non si ravvisa una posizione di istituzionale sperequazione tra i singoli – come è, invece, nei rapporti tra il privato e l'autorità amministrativa – il richiamo alla figura dell'eccesso di potere deve essere contenuto entro confini ben definiti; in quest'ordine di concetti, se ne ammette la configurabilità qualora si riscontri un sostanziale rapporto di potestà/soggezione – per esempio, nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, o tra genitori e figli – in relazione al quale emerga l'esigenza di garantire il soggetto più debole contro eventuali abusi della parte (economicamente o socialmente) più forte. L'annullabilità della deliberazione assembleare per eccesso di potere è stata probabilmente configurata in analogia a quanto affermato in tema di società per azioni – v. Cass. I, n. 9353/2003; Cass. I, n. 6361/2003; Cass. I, n. 11151/1995; Cass. I, n. 4323/1994; Cass. I, n. 3628/1986 – per le quali l'eccesso di potere, quale causa di annullamento della deliberazione sotto il profilo del perseguimento di un interesse diverso da quello sociale o esclusivo di un gruppo di soci, è stato ammesso solo ove la deliberazione stessa risulti frutto di una fraudolenta attività della maggioranza diretta a pregiudicare la società o a ledere i diritti sociali degli altri partecipanti. Nei rapporti condominiali, la ratio che sottende al ricorso alla nozione dell'eccesso di potere è stata ravvisata sostanzialmente nell'esigenza di tutelare la minoranza rispetto ad eventuali abusi della maggioranza (tra i contributi dottrinari in argomento, Celeste 2003, 769; Bordolli, 287; Branca 1978, 2763; Raschi 1966, 423). Di recente, i magistrati del Palazzaccio hanno statuito che la figura dell'eccesso di potere nel diritto privato ha la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità sulle espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (società o condominii), che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito predominio della maggioranza nei confronti del singolo, ma essa presuppone la sussistenza di un interesse dell'ente collettivo, che sarebbe leso insieme all'interesse del singolo (Cass. II, n. 4216/2014: nella specie, si era confermata la decisione che aveva escluso il vizio della deliberazione assembleare, avendo questa privilegiato, nella scelta del conduttore di locali condominiali, le qualità della persona rispetto all'entità del canone). In questa prospettiva, si correla l'àmbito di applicabilità di tale figura all'eventuale perseguimento, da parte dell'assemblea, di finalità non coerenti con gli interessi della collettività, o nell'intento di privilegiare gli interessi di alcuni soltanto dei partecipanti al condominio (tra le pronunce di merito, si segnala: Trib. Roma 18 maggio 2005, secondo cui la valutazione della scelta delle modalità di esecuzione di lavori urgenti di straordinaria manutenzione non rientra nei poteri di controllo del giudice, posto che la scelta dell'installazione dei ponteggi fissi, anziché mobili, è rimessa alla discrezionalità dell'assemblea; Trib. Roma 8 settembre 2004, che ammette l'annullabilità della deliberazione per ragioni di merito solo nel caso in cui la decisione sia viziata da eccesso di potere, ossia quando la causa della decisione risulti deviata dal suo modo di essere e sia intesa a realizzare finalità diverse da quelle del condominio; Trib. Casale Monferrato 3 aprile 2001; Trib. Napoli 5 gennaio 2001; Trib. Busto Arsizio 16 ottobre 2000; Trib. Genova 16 settembre 1993, che ha ritenuto nulla la deliberazione laddove prevedeva il mantenimento di un conto corrente condominiale intestato ad una società – di cui erano soci l'amministratore e la moglie – come conto d'appoggio dell'amministrazione condominiale sul quale fare affluire i versamenti di tutti i condomini, poiché integrava una lesione del diritto di ciascun condomino alla perfetta trasparenza, chiarezza e facile comprensibilità della gestione condominiale, che costituiva un limite inderogabile alle scelte discrezionali degli organi di amministrazione e di governo del condominio). La giurisprudenza di legittimità, pertanto, ha ravvisato la figura dell'eccesso di potere allorché la causa della deliberazione sia falsamente deviata dal suo modo di essere, ma pure in tal caso il giudice non controlla l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dall'impugnata deliberazione, ma stabilisce solo se quest'ultima sia o meno il risultato del legittimo esercizio dei poteri discrezionali dell'assemblea (Cass. II, n. 5889/2001; Cass. II, n. 10611/1990; Cass. II, n. 731/1988, con la quale si confermava la decisione che aveva annullato per eccesso di potere la deliberazione che aveva approvato un rendiconto non veridico, riguardo a debiti del condominio). In tal modo, la precisazione che, anche nell'ipotesi di eccesso di potere, la decisione dell'autorità giudiziaria conserva i caratteri di controllo della legittimità, preclude aperture da parte del giudice in ordine al merito delle decisioni dell'assemblea condominiale (v., altresì, Cass. II, n. 1890/1995). In quest'ordine di concetti, si è, di recente, ribadito (Cass. II, n. 20135/2017) che il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle deliberazioni assembleari non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità di cui dispone l'assemblea, quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi ad un riscontro di legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l'eccesso di potere, purché la causa della deliberazione risulti – sulla base di un apprezzamento di fatto del relativo contenuto, che spetta al giudice di merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all'art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l'opportunità o convenienza della soluzione adottata dall'impugnata deliberazione, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell'assemblea; ne consegue che esulano dall'àmbito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la vantaggiosità della scelta operata dall'assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose e ai servizi comuni (quali, nella specie, l'erogazione del compenso all'amministratore, la stipulazione di un contratto di assicurazione, la predisposizione di un fondo cassa per le spese legali). Sulla base degli stessi presupposti, si è ritenuto che non sia suscettibile di controllo da parte del giudice, attraverso l'impugnativa di cui all'art. 1137 c.c., l'operato dell'assemblea condominiale in relazione alla questione inerente alla mancata apertura di un conto corrente intestato al condominio, su cui depositare da parte dell'amministratore le somme ricevute, attenendo la stessa all'opportunità o alla convenienza dell'adozione delle modalità della gestione delle spese relative alle cose ed ai servizi comuni (Cass. II, n. 10199/2012). Il sindacato del magistrato non può comunque estendersi alla valutazione del merito della deliberazione, né può tradursi in una qualche limitazione della sfera di discrezionalità demandata all'organo gestorio; infatti, anche l'ipotesi di eccesso di potere sembra integrare un vizio di legittimità della statuizione assembleare, perché pure in tal caso il controllo dell'autorità giudiziaria non investe l'opportunità e la convenienza della soluzione adottata dall'assemblea, ma si incentra unicamente nella verifica della conformità della statuizione al legittimo esercizio dei poteri decisionali attribuiti all'assemblea medesima. In quest'ordine di concetti, si pone una sentenza del Supremo Collegio (Cass. II, n. 3938/1994), la quale ha affermato la correttezza della decisione, che aveva respinto un'impugnazione con cui era stata contestata l'opportunità della scelta operata dall'assemblea per aver approvato un preventivo di spesa per lavori straordinari in luogo di altro preventivo asseritamente più vantaggioso. Così, per esempio, non dovrebbe essere consentito al condomino di addebitare alla deliberazione impugnata l'eccessiva gravosità della spesa approvata dall'assemblea in relazione a riparazioni straordinarie di parti comuni assumendo che tale spesa avrebbe potuto essere meno gravosa, pur con il conseguimento del medesimo risultato, in quanto l'assunto del denunciante prospetta, in buona sostanza, un sindacato di merito dei criteri che hanno determinato la soluzione adottata dall'assemblea; senza dedurre alcun contrasto tra il contenuto della deliberazione e le norme di legge o del regolamento condominiale, si censura l'apprezzamento di fatto effettuato dalla maggioranza nella scelta di un preventivo di spesa, rispetto ad un altro anche se economicamente più favorevole; non viene così contestata la legittimità della decisione assembleare, ma soltanto l'opportunità, nemmeno potendosi invocare il profilo dell'eccesso di potere, posto che la scelta dell'impresa risulti essere stata operata dall'assemblea nel legittimo esercizio del potere discrezionale proprio di tale organo, il quale potrebbe aver consapevolmente fondato l'opzione sulle garanzie offerte dai tecnici incaricati o/e sulla sperimentata affidabilità dell'incaricata per lavori in precedenza eseguiti per conto del condominio (v., altresì, Trib. Milano 30 novembre 1995, secondo il quale, posto che destinatario del rendiconto di gestione è l'assemblea, quale tipica espressione della collettività condominiale mandante, l'approvazione del rendiconto stesso in sede assembleare rappresenta di per sé fatto impeditivo dell'ulteriore esercizio di poteri di controllo sulla gestione economica da parte del singolo condomino, salva l'ipotesi di invalidità della deliberazione per eccesso di potere sotto i profili procedimentali e/o sostanziali, ricorrenti qualora l'assemblea abbia fatto malamente uso della propria discrezionalità in danno della posizione del singolo condomino esprimendo il proprio benestare nei confronti dell'operato dell'amministratore che abbia in concreto impedito al singolo una verifica documentale preventiva oppure che abbia esposto costi non corrispondenti ad esborsi di effettiva competenza della collettività). Gli ermellini hanno avuto modo, altresì, di affermare che l'annullabilità in sede giudiziaria di una deliberazione per ragioni di merito, attinenti all'opportunità e convenienza della gestione del condominio, è configurabile solo nel caso di decisione viziata da eccesso di potere, vale a dire che implichi un «grave pregiudizio per la cosa comune» (art. 1109, comma 1, n. 1, c.c.) (Cass. II, n. 5061/2020) ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante (Cass. II, n. 25128/2008: nella specie, si era cassata la sentenza di merito per avere questa rigettato, sull'assunto della non sindacabilità per eccesso di potere delle delibere condominiali, l'impugnazione della deliberazione con cui un condominio aveva respinto la proposta di licenziamento del custode perché assente nell'orario di lavoro in quanto impegnato in servizi a pagamento a condomini richiedenti), con la conseguenza che, riguardo ad una deliberazione che risulti fondata su dati e apprezzamenti obbiettivamente rivolti alla realizzazione di interessi comuni ed alla buona gestione dell'amministrazione, deve ritenersi precluso il sindacato del giudice del merito in ordine all'uso da parte dell'assemblea di detta facoltà di apprezzamento, oltre i limiti consentiti dall'indagine per l'accertamento dell'eccesso di potere (Cass. II, n. 3177/1978; Cass. II, n. 2246/1961; v., da ultimo, Cass. II, n. 15320/2022, la quale, inordine alla ripartizione delle spese inerenti ad una locazione immobiliare stipulata nel comune interesse dal condominio in veste di conduttore ed avente ad oggetto il godimento di un immobile di proprietà di terzi, ha statuito che il suddetto sindacato non può riguardare la convenienza economica dell'importo del canone pattuito o la legittimità dell'accollo in capo al condominio conduttore degli esborsi sostenuti per il mantenimento della cosa in buono stato locativo o per l'esecuzione di miglioramenti o addizioni alla stessa, né può concernere questioni relative alla nullità o all'inefficacia delle clausole del contratto di locazione). In questa prospettiva, non è sufficiente a concretare la fattispecie dell'eccesso di potere la mera opinabilità delle decisioni dell'assemblea, ma occorre la prova che, attraverso la deliberazione, l'organo gestorio abbia inteso realizzare finalità estranee agli interessi del condominio, o abbia (anche senza volerlo) posto in essere una situazione di pregiudizio per la collettività. Inoltre, non è sufficiente, per concretizzare la figura dell'eccesso di potere, configurare il «cattivo uso» dei propri poteri discrezionali da parte dell'assemblea, comportante l'annullabilità della deliberazione, in quanto tale cattivo uso non può, di per sé solo, giustificare l'impugnazione della deliberazione, dal momento che quest'ultima non risulta «contraria alla legge», e comunque il giudice – per quanto sopra detto – non potrebbe esercitare un sindacato di merito in ordine alla sua opportunità, sembrando preferibile opinare che, nella contrarietà alla legge o al regolamento, confluisca ogni possibile deviazione dal potere decisionale verso la realizzazione di fini estranei alla comunità condominiale. In quest'ordine di concetti, si pone una sentenza di merito (Trib. Bari 4 settembre 2006), la quale ha sottolineato che, in pratica, per configurare l'eccesso di potere, occorre che la deliberazione sia adottata per un fine diverso (o ulteriore, purché incompatibile), da quello specifico per cui il potere stesso dell'assemblea sia stato conferito, ossia che sia volta a perseguire interessi estranei al condominio o, quanto meno, che appaia affetta da vizi logici, da un'inesatta o incongrua rappresentazione della realtà, oppure risulti irragionevole, mancando il necessario nesso di consequenzialità tra i presupposti e la decisione; nel caso di specie, poiché il diniego è stato adottato, pur in presenza di una relazione che confermava la sicurezza dell'opera e senza che fosse in alcun modo supportato da un giudizio tecnico di segno contrario, si è escluso che lo stesso fosse finalizzato alla tutela dei beni comuni. Nella stessa lunghezza d'onda, i giudici di merito hanno affermato che deve considerarsi viziata da eccesso di potere la deliberazione dell'assemblea, con cui venivano assunte statuizioni abnormi, gravemente ed ingiustificatamente lesive dell'interesse comune, come nel caso in cui la stessa assemblea aveva fissato il compenso dell'amministratore in misura irragionevole rispetto al compenso medio corrente nella città in cui si trovava l'edificio condominiale (Pret. Catania 27 ottobre 1997); parimenti, si è ritenuta affetta dallo stesso vizio la deliberazione dell'assemblea che aveva escluso a maggioranza di promuovere azione legale contro l'amministratore del condominio, il quale che si era reso responsabile di atti di mala gestio che avevano arrecato danni ai condomini (Trib. Milano 24 giugno 1991; cui adde, di recente, Trib. Lecco 13 giugno 2014, il quale, interpretando estensivamente il disposto dell'art. 1129, comma 14, c.c., ha configurato l'eccesso di potere nella nomina della moglie dell'amministratore precedentemente revocato dall'autorità giudiziaria). A rigore, però, l'eccesso di potere deve tenersi distinto dallo «straripamento di potere», ossia l'assunzione di deliberazioni che non rientrano nelle competenze dell'assemblea e che costituirebbero, quindi, un'ipotesi di violazione di legge; in caso di incompetenza, la deliberazione dovrebbe considerarsi nulla e non semplicemente annullabile, in applicazione del tradizionale principio secondo il quale l'annullabilità è limitata alle deliberazioni assunte in materie sulle quali l'assemblea possa deliberare, mentre sarebbero nulle quelle che, invece, esorbitino i poteri dell'assemblea medesima (Cass. II, n. 18192/2009, ad avviso della quale la deliberazione, che ratifichi una spesa assolutamente priva di inerenza alla gestione condominiale, è nulla e non già semplicemente annullabile, senza che possa aver rilievo in senso contrario il fatto che la spesa sia modesta in rapporto all'elevato numero di condomini ed all'entità complessiva del rendiconto: nella specie, si trattava di spese relative al telefono privato dell'amministratore ed all'acquisto di una licenza di software compiuta in proprio dall'amministratore medesimo). Rilievo d'ufficio L'art. 183 c.p.c.– al comma 3 (versione 1995) o al comma 4 (versione 2006) – contempla la possibilità per il giudice, all'udienza di trattazione (o a quella eventualmente fissata per il tentativo di conciliazione), di richiedere alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari, ed indicare le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritenga opportuna la trattazione. Per quanto riguarda l'indicazione delle questioni rilevabili d'ufficio, è stato evidenziato che costituisca compito essenziale del giudice quello di attuare i criteri di accelerazione e concentrazione, chiarendo il thema decidendum ed eliminando ogni indagine sul superfluo o su quanto già accertato, per essere stato allegato e non contestato, e ciò ai fini di una rapida istruzione, limitata ai veri punti controversi della lite. In altri termini, come un impegnato tentativo da parte del magistrato può aprire la strada alla conciliazione giudiziale, ed un efficace libero interrogatorio delle parti può evidenziare le questioni realmente controverse e semplificare spesso buona parte delle prove orali, così la tempestiva indicazione delle questioni rilevabili d'ufficio consente di indirizzare sùbito l'impugnazione della delibera condominiale verso la soluzione degli aspetti di maggiore importanza, ed evita che il giudizio debba regredire, mediante rimessione in termini, in caso di emersione tardiva delle eccezioni non riservate alla parte. Comunque, l'esercizio di questo potere da parte del giudice deve avvenire sempre con la provocazione della garanzia del contraddittorio delle parti, onde evitare decisioni a sorpresa, o della c.d. terza via (tale rilievo potrà essere segnalato anche nel prosieguo del giudizio); significativo, in tal senso, il comma 2 dell'art. 101 c.p.c. – introdotto dalla l. n. 69 del 2009 – secondo il quale, se il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, riserva la decisione assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione. Problemi possono sorgere nelle ipotesi di contumacia di una delle parti, come nel caso del condominio convenuto che, sulla base della mancata allegazione, da parte del condomino attore, di una questione rilevabile d'ufficio – si pensi alla nullità della deliberazione impugnata che ha approvato a maggioranza le tabelle millesimali - abbia reputato superflua ogni difesa, omettendo di costituirsi nel relativo giudizio di impugnativa; in tal caso, per rispetto del contraddittorio, sembra corretto o che il giudice si astenga dall'indicazione di tale questione, oppure che il relativo verbale di udienza sia notificato al contumace. Si pone, quindi, la questione relativa ai limiti del potere del giudice di rilevare d'ufficio eventuali motivi di nullità della deliberazione opposta che non siano stati specificatamente dedotti in sede di impugnazione dal condomino istante. Alla stregua delle considerazioni che precedono - e soprattutto alla luce del nuovo art. 101, comma 2, c.p.c.- il giudice non potrebbe porre a fondamento della sentenza questioni rilevabili d'ufficio non sottoposte all'esame e alla discussione delle parti, e qualora il rilievo avvenga in fase decisoria, lo stesso dovrebbe disporre lo spostamento della causa nella sede istruttoria affinché le parti interloquiscano sul punto, anche per l'esercizio della facoltà di precisazione e modificazione delle rispettive difese, in conseguenza dell'impostazione data alla causa dal giudice medesimo (ne consegue un rinnovo della fase trascurata ed una reimpostazione della lite). Così, per esempio, il giudice - una volta rilevata l'opportunità di prevedere la questione come decisiva e non indicata la stessa alle parti per la trattazione in contraddittorio – non potrebbe annullare una deliberazione assembleare per un difetto di quorum costitutivo nel caso sia stata lamentata soltanto l'indeterminatezza del relativo ordine del giorno, oppure annullare una deliberazione assembleare di approvazione dello stato di ripartizione per omessa convocazione di un condomino diverso da quello che si è opposto al decreto ingiuntivo fondato su tale riparto (in argomento, v. Cass. II, n. 9641/2006, ad avviso della quale ben può il giudice rilevare d'ufficio la nullità quando si controverta in ordine all'applicazione di atti – nella specie, una deliberazione di assemblea condominiale – posti a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costituivo della domanda). Nel caso in cui, invece, ciò avvenga, la parte soccombente, la quale si duole della questione rilevata d'ufficio in sede di decisione e non segnalata per tempo - a pena di nullità ex art. 101, comma 2, c.p.c.- potrà e dovrà far valere le proprie difese di merito come motivo di gravame, e proporre, in quella sede, le opportune difese, con la conseguenza che sarà il giudice dell'appello a pronunciare nel merito, non essendo ravvisabile alcuna ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado (artt. 353 e 354 c.p.c.); in sede di impugnazione, la parte potrà, altresì, proporre nuovi mezzi di prova, necessari in relazione all'omissione operata dal giudice di prime cure (art. 345, ultimo comma, c.p.c.). Le suesposte considerazioni appaiono scontate qualora si tratti di annullabilità delle deliberazioni, ma anche il principio, sancito dall'art. 1421 c.c., secondo cui la nullità può essere dedotta in ogni tempo e può essere rilevata d'ufficio, sembra trovare un'applicazione limitata nell'àmbito del giudizio di impugnazione della deliberazione condominiale. Al riguardo, i magistrati di piazza Cavour hanno ripetutamente affermato che il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità ex art. 1421 c.c.– applicabile in questo caso per analogia anche oltre l'àmbito contrattuale - va coordinato con le regole fissate dagli artt. 99 e 112 c.p.c., con la conseguenza che, soltanto se sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, l'eventuale nullità dell'atto stesso, mentre, qualora il thema verta direttamente sull'illegittimità di questo, una diversa ragione di nullità non può essere rilevata d'ufficio, né può essere dedotta per la prima volta in grado di appello, trattandosi di una domanda nuova e diversa da quella ab origine proposta dalla parte nell'esercizio del suo diritto di azione (Cass. II, n. 12582/2015; Cass. II, n. 13732/2005; Cass. I, n. 2772/1998; Cass. II, n. 7402/1986; Cass. I, n. 5958/1985; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Firenze 11 maggio 1996; Trib. Napoli 8 febbraio 1961, secondo il quale il sindacato del giudice, investito del ricorso contro una deliberazione assembleare, deve limitarsi a quella parte della decisione in cui si è verificata la violazione di legge o del regolamento, non derivando da tale violazione l'invalidità di ogni altra decisione adottata o la nullità della stessa convocazione assembleare). Invero, da un lato, l'art. 112 c.p.c. prescrive che il giudice non possa pronunciare oltre i limiti della domanda, per cui la rilevabilità ex officio della nullità di una deliberazione condominiale può operare, senza la necessità che la parte, nei cui riguardi si richiede che la delibera spieghi i suoi effetti, sollevi la relativa eccezione, soltanto quando si chieda in giudizio l'applicabilità della deliberazione medesima; al contrario, se non si invoca l'applicazione della deliberazione, e la declaratoria di nullità non sia domandata, mediante la proposizione della relativa azione, il giudice non può, di sua iniziativa, accogliere l'impugnazione della deliberazione stessa a seguito della valutazione di cause di nullità non dedotte dal condomino impugnante. Dall'altro lato, l'art. 99 c.p.c. sancisce che ogni azione è soggetta alla regola della domanda - secondo il noto principio dispositivo che presidia il processo civile - sicché il giudice non può dichiarare d'ufficio la nullità di una deliberazione assembleare della quale non si chieda in giudizio l'applicazione, dando luogo la violazione del divieto di decidere su domande non proposte ad un vizio di extrapetizione (v., in generale, tra le altre, Cass. III, n. 9877/1997; Cass. lav., n. 10681/1996; in termini, v. Cass. II, n. 4156/1995). Di contro, sarà in facoltà del giudice rilevare l'eventuale nullità di una deliberazione non impugnata dal condomino, ma dalla quale esso pretende di far derivare conseguenze favorevoli, come nel caso in cui, a motivo dell'impugnazione, si deduca il contrasto con la regolamentazione adottata in ordine alle stesse questioni in una precedente deliberazione che risulti nulla; fermo restando, comunque, che la rilevabilità d'ufficio della nullità va sempre coordinata con i principi della domanda e della disponibilità delle prove e, pertanto, postula che risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima, non potendo al giudice prospettarsi questioni giuridiche che presuppongano indagini per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. II, n. 6027/1980; Cass. II, n. 1062/1980; nella giurisprudenza di merito, v. App. Genova 25 gennaio 1988). Ne consegue che, una volta spirati i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. – così come modificato dalla l. n. 80/2005 – si pone un barrage processuale insuperabile al fine della definizione del thema decidendum, sicché deve ritenersi preclusa sia la mutatio della causa petendi perché vietata, sia la emendatio perché tardiva (v. supra); ove si denunci un vizio di nullità della deliberazione condominiale, non per questo ne deriva sic et simpliciter la sua rilevabilità d'ufficio: il congegno del processo civile, basato sul principio dispositivo, esclude che il giudice, dinanzi al quale la deliberazione sia stata impugnata, ne possa, di sua iniziativa, dichiarare la nullità, ove tale accertamento presupponga l'esercizio di un'azione diversa da quella in effetti proposta, anche alla luce del nuovo art. 111, comma 2, Cost. che richiede di evitare, aldilà di precise e certe indicazioni normative, ampliamenti dei poteri di iniziativa officiosa (v., sia pure in àmbito diverso, Cass. lav., n. 19903/2005: nella specie, si era dichiarata inammissibile la domanda di illiceità dell'oggetto di una deliberazione assembleare dedotta per la prima volta in appello e ritenuto la suddetta nullità non rilevabile d'ufficio, avendo l'attore proposto domanda di nullità sotto un differente profilo). Effetti della sentenza Qualora il giudice ritenga l'invalidità della deliberazione impugnata, sarà tenuto soltanto a dichiararne la nullità o a disporne l'annullamento, senza che possa adottare provvedimenti sostitutivi della regolamentazione posta nel nulla, dovendosi escludere che lo stesso giudice possa sostituire la sua pronuncia di merito a quella illegittima adottata dall'assemblea. A questo punto, vanno analizzati gli effetti del provvedimento giudiziale, vale a dire la sentenza, che pronunci l'invalidità della deliberazione oggetto dell'azione di impugnativa. Non sembra, in proposito, che possa distinguersi tra efficacia ex tunc della dichiarazione di nullità ed efficacia ex nunc riferibile al rilievo dell'annullabilità: infatti, è noto che il negozio annullabile produce tutti i propri effetti fino al momento della pronuncia di annullamento, ma quando interviene detta pronuncia il negozio si considera come se ab initio non fosse mai posto in essere, sicché la sentenza di annullamento riveste efficacia retroattiva, comportando il ripristino della situazione (di fatto e di diritto) preesistente al negozio annullato, salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi (art. 1445 c.c.). Appare più corretto, invece, ritenere la retroattività per entrambe le pronunce di nullità e di annullamento, le quali determineranno analoghi effetti restitutori: la dichiarata invalidità della deliberazione impugnata ne elimina ex tunc gli effetti nell'àmbito dei rapporti interni tra i condomini in cui essa è destinata normalmente ad operare, facendo anche sorgere l'obbligo in capo all'amministratore di adottare i provvedimenti conseguenti. Ne deriva, per esempio, che il condomino impugnante può esigere - all'interno dello stesso giudizio di impugnazione o con un'azione autonoma – non soltanto la rimessione in pristino in caso di dichiarazione di invalidità di una deliberazione di approvazione di opere di modifica della cosa comune, ma anche la ripetizione, nei limiti della prescrizione, degli esborsi eventualmente versati a seguito della deliberazione con cui siano stati modificati i criteri di ripartizione delle spese (ciò comportando, se del caso, la probabile revisione dell'intera contabilità condominiale). Qualora, poi, la deliberazione assembleare abbia modificato a mera maggioranza le tabelle millesimali relative alla ripartizione delle spese, si è ritenuta la sua radicale nullità ed inefficacia nei confronti del condomino assente o dissenziente, che è legittimato a far valere tale vizio senza limiti temporali, come si è ritenuta la nullità, e la conseguente impugnabilità senza tali limiti, anche delle deliberazioni con le quali, sulla base delle tabelle illegittimamente modificate, siano stati determinati i contributi da corrispondere da parte dei singoli condomini (Cass. II, n. 3920/1989). Se, invece, si inquadra il vizio di cui sopra nella sfera dei motivi di annullabilità della deliberazione, l'inefficacia del provvedimento di approvazione di ripartizione delle spese risulta necessariamente condizionata alla tempestiva impugnazione della deliberazione ed al conseguente accoglimento in sede giudiziale, ma tale dichiarazione di inefficacia non si comunica automaticamente alle deliberazioni successive che non siano state oggetto di specifica e tempestiva opposizione. Tuttavia, va precisato che la dichiarazione di invalidità della deliberazione di approvazione dell'esecuzione di lavori non possa anche implicare un diritto del condomino impugnante alla ripetizione di quanto eventualmente versato per effetto della delibera annullata, né il correlativo diritto ad astenersi dal contribuire alle spese per la rimessione in pristino, in quanto, una volta che la deliberazione sia stata posta nel nulla, essa diviene inefficace e improduttiva di effetti non soltanto nei riguardi dell'impugnante, ma anche nei confronti di tutti gli altri condomini, con la conseguenza che le relative spese non possono essere addebitate a questi soltanto (salva la ripetibilità di esse, sotto il profilo del risarcimento del danno, qualora si configuri una responsabilità dell'amministratore o dei singoli condomini che hanno partecipato alla medesima deliberazione, per esempio, disattendendo immotivatamente il dissenso manifestato dall'impugnante). In quest'ottica, si è statuito (Cass. II, n. 2756/2025) che la sentenza di annullamento di una deliberazione dell'assemblea di condominio ha efficacia di giudicato quanto alla causa di invalidità accertata verso tutti i condomini, ancorché non abbiano partecipato al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di essi, stante l'obbligatorietà delle delibere per tutti i partecipanti prevista ex art. 1137, comma 1, c.c.; viceversa, tale accertamento non ha alcuna efficacia di giudicato nel giudizio in cui sia dedotta la responsabilità per inadempimento dell'amministratore di condominio che a quella invalidità abbia dato causa. Va evidenziato, inoltre, che la legge non contempla gli effetti riflessi del predetto annullamento delle deliberazioni nei confronti dei terzi, come, per esempio, nel caso in cui questi ultimi abbiano concluso un contratto con il condominio che trovava il suo presupposto in una manifestazione di volontà espressa dai condomini con una decisione dichiarata successivamente invalida. Si è affermato, in proposito, che, qualora la deliberazione assembleare venga annullata, alla manifestazione di voto dei singoli condomini, che hanno concorso alla sua approvazione, non può attribuirsi l'efficacia di un'assunzione di obblighi a titolo personale nei confronti dei terzi, in quanto i voti dei singoli condomini diretti a formare la volontà dell'assemblea con effetto vincolante per tutti i condomini, anche dissenzienti ed assenti, impegnano i soggetti che li hanno espressi soltanto a condizione che si formi una valida deliberazione (Cass. II, n. 1561/1976); tuttavia, la decisione assembleare presa all'unanimità, anche se invalida in quanto esorbitante le attribuzioni dell'organo gestorio, può assumere rilevanza contrattuale nei reciproci rapporti tra i condomini, impegnandoli, quindi, validamente a osservare il contenuto della deliberazione stessa, ove non difetti dei requisiti di sostanza e di forma (Cass. II, n. 1830/1976); è stato, altresì, affermato (Cass. II, n. 644/1956) che l'annullabilità della deliberazione può anche essere dedotta in giudizio quale oggetto di accertamento autonomo nei rapporti interni tra i condomini, prescindendo del tutto dalla reazione che l'annullamento della deliberazione può avere sui negozi eventualmente conclusi con i terzi, sia che l'attore ritenga tali negozi inattaccabili in considerazione della buona fede del terzo, sia che egli si riservi di impugnarli in un separato giudizio (tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Roma 28 giugno 1961, secondo cui l'annullamento di una deliberazione assembleare non travolge necessariamente gli accordi e gli atti dispositivi realizzati, in sede di assemblea, dai condomini proprietari esclusivi dei beni oggetto degli stessi atti). Comunque, le deliberazioni dell'assemblea condominiale, ove esprimano una volontà negoziale, devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 ss. c.c., privilegiando, innanzitutto, l'elemento letterale, e quindi, nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti (Cass. II, n. 28673/2017). Al riguardo, si è ritenuto che l'art. 2377, comma 3, c.c., il quale, con riferimento alle società per azioni, stabilisce la salvezza dai diritti acquistati dai terzi in buona fede in esecuzione della deliberazione invalida, possa costituire espressione di un principio di carattere generale, a tutela della buona fede dei terzi; pertanto, applicando, per l'identità di ratio, il principio dell'apparenza anche in tema di condominio, dovrebbero restare salvi, e quindi azionabili nei confronti del condominio e dei singoli condomini, i diritti acquistati da terzi in buona fede, in esecuzione della deliberazione impugnata, anteriormente al suo annullamento. Resta inteso – v. supra – che la maggioranza può, tornando sui suoi passi, decidere diversamente da quanto statuito in precedenza, stabilendone liberamente gli effetti nel tempo, fino alla completa retroattività, ed obbligando tutti i condomini, dissenzienti compresi, sempre che la successiva deliberazione sia approvata con i quorum previsti dalla legge per l'oggetto trattato; peraltro, ogni deliberazione costituisce un fenomeno autonomo, sicché, nell'operare una modifica o una revoca di una precedente statuizione, non vi è alcun vincolo per il condomino nella manifestazione della sua volontà, nel senso che non è necessario che intervengano gli stessi condomini che in precedenza. Ne consegue che una deliberazione, pur se approvata con il consenso di tutti i condomini, può essere revocata o modificata da un'altra approvata solo a maggioranza, purché essa sia quella prescritta, in base alla natura di atto promanante da un organismo, l'assemblea del condominio, legalmente costituito per la rappresentanza degli interessi della comunione (v., tra le tante, Cass. II, n. 1281/1976; Cass. II, n. 2246/1961; tra le pronunce di merito, v. Trib. Napoli 29 ottobre 1975, il quale ha affermato che l'assemblea può legittimamente annullare una sua deliberazione, nulla o annullabile, già impugnata in sede giudiziale, e Trib. Roma 23 dicembre 1964, secondo cui, ove la revoca concerna una deliberazione impugnata, nel relativo giudizio è preclusa ogni pronuncia sul merito e va dichiarata la cessazione della materia del contendere, anche se la revoca sia avvenuta dopo la costituzione in giudizio del condomino ricorrente). Ovviamente, finché le deliberazioni restano in vita – per non essere state revocate da valide deliberazioni successive, o annullate dall'autorità giudiziaria, oppure sospese da quest'ultima – non possono esercitare alcuna influenza su di esse eventuali vicende e accordi modificativi o abrogativi delle stesse, intervenuti tra alcuni condomini, anche se costituenti la maggioranza. Nulla esclude che la delibera dell'assemblea di condominio, la quale privi il singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso, possa integrare un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino medesimo, il quale, lamentando la nullità della delibera, ha facoltà di chiedere, oltre l'annullamento delle delibera medesima, anche la condanna al risarcimento del danno del condominio, quale centro di imputazione degli atti e delle attività compiute dalla collettività condominiale e delle relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli (Cass. II, n. 23076/2018: nella specie, il condominio, a seguito di delibera, aveva realizzato, nella comune corte interna dell'edificio, un ascensore che aveva ridotto la luce e l'aria dell'appartamento, posto al piano terra, del ricorrente ed impedito a quest'ultimo l'uso di una porzione rilevante della stessa corte). Clausola compromissoriaPer completezza, va verificato se l'impugnazione della deliberazione condominiale possa essere compromessa in arbitri, atteso che l'intero art. 1137 c.c. viene richiamato dall'art. 1138, comma 4, c.c. per quanto riguarda l'inderogabilità ad opera del regolamento. Sul punto, anche se in epoca non recente, i giudici di legittimità hanno avuto modo di affermare la legittimità di una clausola compromissoria contenuta in un regolamento che deferiva al giudizio di arbitri la decisione sul ricorso avverso le deliberazioni assembleari, annullabili o radicalmente nulle (Cass. II, n. 2178/1952, secondo la quale il legislatore, prevedendo l'intervento della «autorità giudiziaria» nell'art. 1137 c.c., come possibilità di instaurare un giudizio di impugnazione, aveva inteso, per assicurare meglio la tutela del singolo, fare riferimento ad un potere superiore di autorità, piuttosto che alla sua funzione di giudicare, tenendo anche presente che il ricorso alla decisione arbitrale sostituirebbe soltanto una parte della funzione giudiziaria, quella cioè attinente alla cognizione, sviluppandosi sempre integralmente in via ordinaria ogni altro aspetto, cautelare ed esecutivo, dell'intervento del giudice). Il disposto di cui al citato art. 1137, infatti, stabilisce soltanto il principio dell'impugnabilità delle suddette deliberazioni, ma non intende determinare alcuna competenza particolare assoluta ed esclusiva di un giudice piuttosto che un altro (v., da ultimo, Cass. II, n. 28508/2020; il ricorso all'autorità giudiziaria è, quindi, il mezzo normale di impugnazione, ma non si esclude che le parti possano sostituire al giudice ordinario quello elettivo; ovviamente sarebbe radicalmente nulla una disposizione del regolamento, anche contrattuale, che stabilisca, invece, una rinuncia preventiva all'opposizione o l'ininpugnabilità delle statuizioni condominiali oppure la previsione di un termine talmente ridotto da determinare l'impossibilità di qualsiasi opposizione (secondo Cass. II, n. 388/1977, non integra, invece, una clausola compromissoria – la quale presuppone una rinuncia all'azione giudiziaria e dà luogo ad una cognizione di carattere arbitrale suscettibile di definire la controversia – la previsione del regolamento che, per i casi di contrasto tra i condomini, preveda l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite presso l'associazione dei proprietari dei fabbricati, per cui, se nonostante l'impegno di promuovere il tentativo di conciliazione, venga instaurato da un condomino il giudizio, questo non può considerarsi nullo; nella giurisprudenza di merito, v. App. Torino 4 maggio 1984; Trib. Roma 28 giugno 1961; Trib. Roma 1° aprile 1952). Nello stesso senso, si è mostrata una parte della dottrina (Vecchione, 250), secondo cui, in forza del principio generale che, nelle materie consentite, è sempre lecito sostituire al giudizio dell'autorità giudiziaria quello degli arbitri, con il divieto di deroga all'art. 1137 c.c. contenuto nel successivo art. 1138, il legislatore ha voluto solo impedire che il regolamento tolga al condomino il diritto di impugnare una deliberazione, ma non riservare unicamente all'autorità giudiziaria la competenza a conoscerne; in fondo, il condomino può disporre del suo diritto come qualunque altro cittadino, a meno che non trovi ostacolo in qualche norma di legge, e, impegnandosi a devolvere la controversia condominiale agli arbitri, lo stesso non rinuncia alla tutela dei suoi diritti, essendo il processo arbitrale equivalente a quello contenzioso di cognizione. Tale orientamento interpretativo è stato ripreso nelle pronunce successive della Cassazione (v., tra le altre, Cass. II, n. 73/1986; Cass. II, n. 4218/1983), ribadendo, così, la liceità della sottoposizione all'arbitrato c.d. rituale delle controversie relative all'impugnazione di deliberazioni dell'assemblea dei condomini. Sulla possibilità o meno di compromettere in arbitri le liti condominiali mediante clausola compromissoria contenuta in un regolamento, la dottrina che si è occupata dell'argomento – contrariamente alla giurisprudenza, nella quale prevale l'orientamento positivo – si è mostrata alquanto divisa (tra i favorevoli, Branca, 1982, sub. art. 1137, e Peretti Griva, 409; tra i contrari, Visco, 606, e Salis, 1959, 346). Per la formulazione datavi e per la sua identificabile ragione normativa, oltre che per la sede, l'art. 1137 c.c. è posto a regolare, per l'oggetto al quale ha riguardo, sul piano sostanziale, con il carattere di inderogabilità stabilito dal successivo art. 1138 c.c., il concreto rapporto che intercorre tra l'ente collettivo organizzato (condominio) ed il suo singolo componente (condomino), sì da garantire adeguatamente i rispettivi interessi, quando essi vengono a collidere, e, nel contempo, da soddisfare, in modo parimenti adeguato, la generale esigenza della certezza e stabilità delle situazioni giuridiche, per un verso, fissando il principio dell'impugnabilità dell'atto viziato da parte del dissenziente – di cui è esclusa la soggezione passiva alla volontà collettiva irregolarmente formata senza il suo consenso – e, per altro verso, consentendo la facoltà di impugnazione entro circoscritti limiti temporali, e perciò assoggettandola a decadenza. Ai fini della suddetta previsione legislativa della facoltà di ricorrere all'autorità giudiziaria contro le deliberazioni affette da vizio, è pertanto assicurata agli interessi considerati, in particolare a quelli del condomino dissenziente (e ora anche dell'astenuto), congrua tutela giurisdizionale, e di tale tutela è sancita l'irrinunciabilità a priori e l'insopprimibilità mediante norma del regolamento condominiale, ma certamente – secondo i giudici di legittimità – non è ulteriormente stabilita per tale tutela una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario, e, correlativamente, negata l'ammissibilità di un alternativo ricorso ad arbitri, in via del pari giurisdizionale, tanto non risultando in alcun modo dall'affatto generica formulazione della previsione stessa, e palesemente esulando dalle sue riconoscibili finalità. Nè il divieto di compromettere in arbitri tali controversie condominiali risulta sancito, direttamente o mediante richiamo, dagli artt. 806 e 808 c.p.c., in particolare non rientrando queste ultime in quelle che «non possono formare oggetto di transazione», perché attinenti a diritti non disponibili, per loro natura o per espressa disposizione di legge, oppure perché relative ad un contratto illecito ex artt. 1966 e 1972 c.c. Al riguardo, si potrebbe opinare l'impossibilità di sottrarre al magistrato le impugnative di deliberazioni condominiali sulla base del fatto che trattasi di materia coinvolgente un interesse pubblico, e, come tale, non oggetto di transazione; in fondo, l'art. 1137 c.c., quando conferisce al singolo il potere di impugnare la deliberazione solo che essa sia contraria alla legge o al regolamento, sembra prescindere dalla lesione del condomino stesso, investendolo di un potere che va oltre la tutela della sua limitata sfera giuridica, ma è anche significativo che si limita tale ricorso ai casi di illegittimità della deliberazione o di contrasto con il regolamento, escludendo nel contempo un esame della statuizione condominiale sotto il profilo del merito, concernendo una discrezionalità rimessa ai partecipanti al condominio. Si è osservato – ma ciò vale solo per le delibere annullabili, in quanto quelle nulle sono impugnabili da chiunque ed in ogni tempo – che la legge concede il potere di impugnativa soltanto ai condomini dissenzienti, per cui, solo in quanto l'interesse del singolo condomino sia in antagonismo con quelli della maggioranza, gli è dato ricorrere contro una deliberazione condominiale viziata, mentre, in caso contrario, nessuna irregolarità della deliberazione stessa il legislatore mostra di considerare capace di legittimare un condomino all'impugnativa, segno evidente, questo, che il potere gli è dato soltanto per la tutela del suo interesse particolare e non di un interesse oggettivo alla legittimità delle deliberazioni (Longo, 48, secondo il quale «è d'ordine pubblico l'esigenza che non venga tolto al condomino il potere di impugnare la deliberazione assembleare, ma nessun carattere pubblico rivestono gli interessi a tutela dei quali l'impugnazione è data»). Stante la legittimità della norma del regolamento che preveda una clausola compromissoria, con il correlativo obbligo di chiedere la tutela all'organo designato competente, ci si chiede quale sia lo strumento utile per l'inserimento di tale clausola. La risposta appare agevole nel senso di precludere tale potere al regolamento assembleare approvato dalla maggioranza di cui all'art. 1138, comma 3, c.c., non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sui diritti propri di ciascun condomino. Invero, dal combinato disposto degli artt. 1138, comma 4, e 1137, comma 2, c.c. emerge che, del potere di impugnare le deliberazioni davanti al magistrato, siccome garantito dalla legge in favore dei partecipanti ed espressamente dichiarato intangibile dalla maggioranza, possono disporre soltanto i condomini in virtù dell'autonomia negoziale, e non può disporre l'assemblea approvando il regolamento di condominio con il consueto canone della maggioranza dei presenti (Trib. Cagliari 27 febbraio 1973). Nel caso di regolamento non contrattuale, l'assemblea, quindi, non può vincolare la libertà dei dissenzienti, in base al principio che la scelta del giudice ordinario o elettivo è un diritto di cui ognuno può disporre, e che non può essere lasciata alla mercè della maggioranza condominiale, la quale, sebbene sia competente in ciò che riguarda la gestione delle cose comuni, non lo è invece nelle materie che toccano i diritti individuali dei condomini (Raschi 1968, 11; Remella, 7). Appare più rara l'ipotesi – forse praticabile nei piccoli condominii – che il compromesso sia approvato in sede assembleare con il voto della totalità dei partecipanti; dovrebbe, invece, ritenersi nulla una clausola del regolamento che demandi la risoluzione di controversie tra i condomini ad un collegio eletto dall'assemblea, senza esigere l'unanimità o almeno il voto favorevole del partecipante alla lite, stante l'inderogabile principio per cui gli arbitri devono essere designati con il concorso della volontà di entrambi i contendenti, e non devono essere espressione delle determinazioni di una soltanto delle parti; qualora, poi, gli acquirenti delle unità immobiliari abbiano conferito mandato al costruttore di provvedere alla redazione del regolamento, deve convenirsi (Ceniccola, 599) che l'inserzione, in quest'ultimo, di una clausola compromissoria sarà valida solo nel caso in cui di essa si faccia espressa menzione nel medesimo mandato. I risultati ermeneutici raggiunti permettono di concludere, dunque, nel senso che, da un lato, l'art. 1137, comma 2, c.c. concepisce il diritto soggettivo del condomino quale facultas agendi a tutela di interessi direttamente protetti dall'ordinamento giuridico, e, dall'altro, non esclude affatto la compromettibilità in arbitri delle controversie relative alle impugnative di deliberazioni assembleari, conseguendone la legittimità della norma del regolamento che preveda una clausola compromissoria e l'obbligo vincolante di chiedere la tutela all'organo arbitrale designato come competente. Ad ogni buon conto, per una corretta applicazione di tale clausola, è preferibile sempre attenersi a quanto dichiarato dalle parti e, in caso di dubbio, privilegiare l'interpretazione che fa salva la libertà delle parti medesime di ricorrere al giudice, non potendosi presumere, se non in presenza di espressioni inequivocabili, la rinuncia alla normale tutela giurisdizionale (tra le pronunce di merito che hanno analizzato peculiari fattispecie, si segnalano: Trib. Milano 6 aprile 1992; Trib. Milano 14 marzo 1991). BibliografiaAccordino, La sospensione dei termini per il periodo feriale si applica pure al termine per impugnare una delibera condominiale, in Arch. loc. 1990, 451; Alvino, Azione di nullità concessa anche al condomino che abbia espresso voto favorevole alla deliberazione, in Giust. civ. 1982, I, 2661; Amendolagine, Omessa comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale e annullabilità della deliberazione: la scelta di campo della Cassazione. Prevalenza della sostanza sulla forma a tutela dei preminenti interessi della comunità rispetto a quelli propri del singolo partecipante?, in Rass. loc. 2005, 124; Annesanti, Ancora sul rebus dei conduttori nelle assemblee di condominio, in Nuovo dir. 1977, 615; Baio, Brevi note sulla forma di impugnazione di delibera condominiale, in Arch. loc. 1988, 571; Battelli, Nullità ed annullabilità delle delibere condominiali (gli effetti della mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea), in Giur. it. 2005, 2047; Boggi, Annullabilità delle delibere condominiali in caso di mancato avviso ad un condomino ex art. 1137 c.c., in Nuova giur. civ. comm. 2006, I, 261; Bonsignori - Levoni - Ricci, Il giudice di pace, Torino, 1995; Bordolli, Eccesso di potere e delibere condominiali, in Immobili & proprietà 2008, 287; Branca, Eccesso di potere nei condomini, in Foro it. 1978, I, 2763; Branca, Condominio negli edifici, in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982; Caputo, La partecipazione del conduttore alle assemblee di condominio, in Giur. merito 1975, I, 394; Cariglia, L'ordinanza cautelare di sospensione dell'efficacia della delibera condominiale in seguito alla riforma dell'art. 1137 c.c., in Giusto processo civile 2013, 1159; Casaburi, La sospensione delle delibere condominiali, in Arch. loc. 1994, 459; Carrato, Il foro speciale di cui all'art. 23 c.p.c. si applica anche alle controversie tra condominio e condomino, in Rass. loc. 2006, 235; Celeste, La Cassazione ritorna sulla forma di impugnazione delle delibere condominiali: un'altra occasione mancata, in Foro it. 1998, I, 179; Celeste, Il provvedimento di sospensione dell'esecutività della delibera condominiale impugnata: i presupposti per l'adozione da parte del giudice e i rimedi esperibili in capo al soccombente, in Rass. loc. 2003, 613; Celeste, L'eccesso di potere nelle delibere condominiali e i limiti del sindacato da parte dell'autorità giudiziaria, in Arch. loc. 2003, 769; Celeste, Ribadito dalle Sezioni Unite il recente revirement della Corte di Cassazione sulla differenza tra delibere condominiali nulle e annullabili, in Riv. giur. edil. 2005, I, 1116; Celeste, L'interesse del condomino a impugnare la delibera assembleare, in Immobili & diritto 2006, fasc. 3, 33; Celeste, Omessa convocazione di condomino: è davvero un vizio meno grave?, in Immobili & diritto 2006, fasc. 1, 26; Celeste, Impugnazione della delibera, come verificarne la tempestività, in Immobili & diritto 2007, fasc. 1, 49; Celeste, Liti condominiali e nuovo processo civile, Milano, 2007; Celeste, L'impugnazione delle delibere del condominio, Milano, 2010; Celeste, Definite le modalità di impugnazione della delibera condominiale: una soluzione di buon senso per scongiurare un pericoloso overruling, in Foro it. 2011, I, 2080; Celeste, A Piazza Cavour regna ancora suprema la confusione sulle impugnazioni (di delibere condominiali e di sentenze), in Immobili & ; proprietà 2014, 726; Celotto, La Corte Costituzionale estende l'applicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale all'impugnazione delle delibere condominiali, in Giur. it. 1990, I, 1, 1025; Ceniccola, Condominio e clausola compromissoria, in Vita not. 1985, I, 599; Cimatti, Sul rapporto tra il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo condominiale ed impugnazione della delibera condominiale, in Rass. loc. 2005, 187; Cirla, L'impugnazione della delibera condominiale si propone con citazione, in Immobili & proprietà 2011, 580; Contestabile, L'impugnazione delle delibere condominiali ex art. 1137 c.c.: i problemi processuali connessi alla scelta del ricorso, in Giur. merito 2008, 2459; Crescenzi, Le controversie condominiali, Padova, 1991; De Marzo, Omessa convocazione del condomino e annullabilità della delibera: una vera svolta?, in Corr. giur. 2000, 616; De Scrilli, Forma e tempestività dell'impugnazione della delibera condominiale, in Vita not. 2007, 593; De Tilla, Contrasti sulla legittimazione dell'astenuto all'impugnativa della delibera condominiale, in Giust. civ. 1989, I, 1873; De Tilla, Sulla legittimazione ad agire per l'annullamento della delibera condominiale, in Arch. loc. 2005, 48; De Tilla, La nullità delle delibere per illiceità e impossibilità dell'oggetto, in Immobili & diritto 2007, fasc. 8, 14; Ditta, Le Sezioni Unite e l'annullabilità della delibera approvata in mancanza della convocazione di tutti i proprietari, in Riv. giur. edil. 2005, I, 1460; Gallucci, Forma dell'atto di impugnazione delle delibere condominiali, in Immobili & proprietà 2014, 355; Guida, La pregiudizialità tra ingiunzione e impugnativa di delibera sulle spese, in Immobili & diritto 2005, fasc. 5, 55; Imperato, Il vizio di omessa convocazione dell'assemblea comporta l'annullabilità, in Rass. loc. 2005, 133; Izzo, Precisati i confini della nullità ed annullabilità delle delibere condominiali, in Corr. giur. 2005, 799; Izzo, L'impugnativa della delibera deve essere fatta con citazione, in Immobili & diritto 2006, fasc. 1, 33; La Rocca, La competenza per valore del giudice di pace per le cause relative al pagamento delle quote di spese condominiali, in Arch. loc. 1997, 191; Longo, Clausola compromissoria e impugnative di delibere condominiali, in Giur. compl. cass. civ. 1953, 280, n. 48; Lotito, Sulla natura del provvedimento giudiziale di sospensione dell'esecuzione di deliberazione dell'assemblea condominiale e qualche problema connesso, in Nuovo dir. 1991, 1087; Maglia, Impugnabilità delle delibere assembleari da parte dei condomini astenuti, in Arch. loc. 1996, 837; Manolo, Autosospensione dell'esecuzione di deliberazione condominiale e diniego di provvedimento cautelare in pendenza di altro giudizio, in Arch. loc. 2002, 55; Noviello, Sulla questione della reclamabilità del provvedimento sospensivo dell'efficacia di delibera condominiale, in Giust. civ. 1994, I, 1112; Paparo, La sostituzione della delibera condominiale impugnata determina la cessazione della materia del contendere, in Corr. merito 2012, 579; Peretti Griva, Il condominio delle case divise in parti, Torino, 1960; Petrolati, La forma di impugnazione della delibera condominiale, in Arch. loc. 2004, 29; Petrolati, Omessa convocazione del condomino in assemblea: vizio non grave?, in Rass. loc. 2005, 165; Petrolati, Omessa convocazione di tutti i condomini: chi è legittimato a dedurre il vizio?, in Arch. loc. 2011, 772; Piazzese, Impugnazione delle delibere assembleari: tracciato il confine tra nullità e annullabilità, in Il Civilista 2008, fasc. 4, 6; Raschi, L'eccesso di potere nelle deliberazioni delle assemblee condominiali, in Nuovo dir. 1966, 423; Raschi, Il provvedimento di sospensione della deliberazione condominiale impugnata, in Nuovo dir. 1968, 783; Raschi, La clausola compromissoria nei regolamenti condominiali, in Nuovo dir. 1968, 11; Remella, Clausola compromissoria nel regolamento condominiale, in Giur. it. 1985, I, 2, 7; Riccio, Il voto e il pagamento delle spese nell'usufrutto: la riforma cambia non solo il rapporto del condominio con i titolari del diritto di usufrutto, ma anche quello tra usufruttuario e nudo proprietario, in Amministrare immobili 2014, fasc. 184, 17; Salciarini, Carenza di legittimazione a impugnare per l'astenuto, in Immobili & diritto 2010, fasc. 8, 19; Salciarini, Contestazione della spesa condominiale e individuazione del giudice competente, in Immobili & diritto 2010, fasc. 3, 24; Salis, Il condominio negli edifici, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, V. Torino, 1959; Salis, Controllo di legittimità e di merito dell'autorità giudiziaria sulle deliberazioni dell'assemblea di condominio, in Riv. giur. edil. 1979, I, 272; Sanguineti, Sulla forma dell'impugnazione della delibera assunta dall'assemblea condominiale, in Arch. loc. 1998, 740; Scalettaris, La riforma del condominio: primi appunti in tema di controversie condominiali, in Arch. loc. 2013, 428; Scarpa, Vendita di un appartamento e acquisizione dello status di condomino, in Immobili & diritto 2009, fasc. 2, 36; Scarpa, Invalidità della delibera per omessa convocazione dei condomini, in Immobili & diritto 2010, fasc. 4, 28; Scarpa, L'atto di impugnazione delle delibere assembleari, in Libro dell'anno del diritto 2012 Treccani, Roma, 2012, 54; Scarpa, Il regime transitorio della riforma del condominio, in Immobili & proprietà 2013, 347; Scarpa, Il contenzioso, Milano, 2015; Scirè, In tema di impugnativa di delibera condominiale e di competenza per materia nel caso in cui l'oggetto della delibera verta sulle modalità di uso della cosa comune, in Processi civili 1978, 387; Spinoso, Nuovo articolo 1137 c.c.: la riforma sceglie la strada della chiarezza, in Dossier condominio 2013, fasc. 137, 21; Tamburro, Il restyling dell'art. 1137 c.c. in materia di impugnazione delle delibere dell'assemblea condominiale, in Arch. loc. 2013, 287; Terzago, Brevi appunti sul termine per l'impugnativa delle delibere condominiali, in Riv. giur. edil. 1969, II, 176; Terzago, L'impugnativa delle delibere assembleari: ricorso o citazione?, in Arch. loc. 1998, 568; Terzago, Nullità e annullabilità delle delibere: l'ultima parola alle Sezioni Unite, in Immobili & diritto 2005, fasc. 5, 39; Tiscornia, Le Sezioni Unite tornano al condominio e risolvono un contrasto spinoso, in Immobili & diritto 2007, fasc. 6, 33; Triola, Deliberazioni nulle e deliberazioni annullabili nelle assemblee di condominio, in Vita not. 1991, 416; Triola, Condominio e contenzioso, Milano, 1995; Vecchione, L'arbitrato nel sistema processuale civile, Milano, 1971; Visco, Le case in condominio, Milano, 1976. |