Disp. Att. Trans. Codice Civile - 30/03/1942 - n. 318 art. 72InquadramentoAi sensi dell'art. 72 disp. att. c.c., i regolamenti di condominio non possono derogare alle disposizioni contenute nei precedenti artt. 63 (in tema di riscossione dei contributi condominiali), 66 (concernente le modalità di convocazione dell'assemblea dei condomini), 67 (in tema di funzionamento dell'assemblea del supercondominio) e 69 disp. att. c.c. (volto a disciplinare le ipotesi di revisione e modifica delle tabelle millesimali). Si tratta di una norma di chiusura, non applicabile al di fuori delle ipotesi ivi tassativamente contemplate (così, ad esempio, si è ritenuto che, non essendo l'art. 68 disp. att. c.c. richiamato dall'art. 72, il valore delle singole unità immobiliari facenti parte di un condominio può essere facoltativamente determinato con riferimento al numero dei vani di ciascun appartamento anziché in millesimi. Cass. II, n. 5686/1988; Cass. II, n. 2922/1979), assimilabile a quella contenuta all'art. 1138, comma 4, c.c. (alla cui stregua le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118, comma 2, 1119,1120,1129,1131,1132,1136 e 1137 c.c.) e che è stata oggetto di indagine soprattutto «in negativo»: nel senso che giurisprudenza e dottrina, più che soffermarsi sulle clausole colpite da nullità, per ricadere nel divieto di deroga ivi contemplato, hanno piuttosto soffermato la propria attenzione sulle statuizioni regolamentari valide siccome, pur afferenti alle materie disciplinate dalle previsioni richiamate dalla norma in esame, non sono state ritenute derogative di alcuna di esse. Essa va, inoltre, coordinata con il successivo art. 155, comma 2, disp. att. c.c., che, dettando una disciplina di carattere transitorio relativamente ai regolamenti di condominio formati anteriormente al 28 ottobre 1941, espressamente prevede che le disposizioni dagli stessi contenute e contrarie alle norme richiamate nell'ultimo comma dell'articolo 1138 del codice e, per l'appunto, nell'art. 72 disp. att. c.c., cessano di avere efficacia (Cass. II, n. 2427/1967 e Cass. II, n. 2246/1961). Nel medesimo senso la dottrina più accreditata (Branca, 363; Salis, 437) la quale, peraltro, con precipuo riferimento alla revisione delle tabelle millesimali (art. 69 disp. att. c.c.) osserva che la previsione contenuta in un regolamento di condominio antecedente al 28 ottobre 1941 ed ostativa all'esercizio di tale diritto è destinata ad essere caducata proprio per effetto dell'art. 155, comma 2, disp. att. c.c., indipendentemente dal tipo di regolamento – contrattuale o assembleare, facoltativo o obbligatorio – che la contenga. Estensione della nullitàSi è discusso, in dottrina, circa l'ambito di estensione della nullità contemplata dagli art. 1138, comma 4, c.c. e art. 72 disp. att. c.c.: giacché, a fronte di chi (Andreoli, 102; Branca, 578) ritiene che essa sia tale da non potere essere superata neppure da un regolamento di natura contrattuale (predisposto, cioè, dall'originario costruttore o approvato dai condomini all'unanimità), v'è chi (Visco 1966, 167 ss.), al contrario, assume che essa concernerebbe le sole previsioni, contenute nelle norme ivi richiamate e dichiarate inderogabili, aventi carattere di norme di ordine pubblico. Nel primo senso, si è osservato come l'intendimento del legislatore sia reso palese dalla stessa formulazione dell'art. 1138, comma 4, c.c., che non consente «in nessun caso» la deroga alle disposizioni ivi elencate; nella seconda prospettiva – avvalorata dalla mancanza di analoga espressione nell'art. 72 – è stato invece specificato (Peretti Griva, 523) che sarebbero contrattualmente derogabili quantomeno le previsioni degli originari art. 63, comma 3 (alla cui stregua «in caso di mora nel pagamento dei contributi, che si sia protratta per un semestre, l'amministratore, se il regolamento di condominio ne contiene l'autorizzazione, può sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni che sono suscettibili di godimento separato»), e art. 69 («i valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, nei seguenti casi: 1) quando risulta che sono conseguenza di un errore; 2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di espropriazione parziale o di innovazioni di vasta portata, è notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano»). Analoga diversità di opinioni si registra – sia pure con riferimento all'art. 1138, comma 4, c.c., ma con ragionamento pacificamente estensibile all'art. 72 disp. att. c.c. (Jannuzzi-Iannuzzi, 679) – in giurisprudenza: da un lato si evidenzia, infatti, che il legislatore avrebbe sancito l'assoluta inderogabilità delle disposizioni richiamate dalla previsione in commento da parte di qualunque regolamento, maggioritario o contrattuale che sia, argomentando tale conclusione, anzitutto, sulla base del tenore letterale dell'art. 1138, comma 4, c.c., che si esprime in termini categorici con riferimento ai regolamenti in generale e non solo a quelli approvati a maggioranza e, quindi, osservando che l'autonomia privata, mentre può consentire di rinunciare al diritto di proprietà o di fissare limitazioni anche ragguardevoli al suo esercizio mediante la costituzione di diritti reali frazionari, non può, almeno di regola, derogare alle norme riguardanti gli organi collegiali, che specificamente tutelano le minoranze, alle cui garanzie non possono abdicare neppure gli interessati (Cass. II, n. 5333/1997; Cass. II, n. 4950/1990; Cass. II, n. 1048/1970; Cass. II, n. 1049/1970); dall'altro, al contrario, si sostiene che il regolamento contrattuale predisposto dall'originario costruttore possa derogare alle previsioni richiamate dalle norme in questione, purché le relative disposizioni non siano contrarie a norme di ordine pubblico e non ledano il diritto di proprietà dei singoli: sicché, mentre sarebbe nulla la clausola che impone un termine per la comunicazione dell'avviso di convocazione inferiore ai 5 giorni previsto dall'art. 66, non altrettanto potrebbe dirsi – dovendosene, anzi, assumere la legittimità – con riferimento al regolamento contrattuale che, con previsione di «favore» per i condomini, fissi un termine maggiore di quello legale (Trib. Monza 12 marzo 2013; Trib. Roma 7 luglio 2009; App. Napoli 11 ottobre 1962; Trib. Roma 25 gennaio 1965). Si è già osservato, infine, che la inderogabilità contemplata dall'art. 72 disp. att. c.c. non sarebbe estendibile al di là dei casi tassativamente indicati dalla disposizione (cfr. supra): sennonché, residuano certamente casi in cui l'inderogabilità, pur non essendo riconducibile direttamente alla disposizione in commento, può ricavarsi da una lettura sistematica delle norme in materia condominiale e, per effetto di tale coordinata interpretazione, essere ricondotta alla previsione in commento. È il caso, ad esempio, di quanto previsto dall'art. 71- bis disp. att. c.c., disposizione introdotta dalla Riforma del 2012 e che, assieme agli artt. 1129 e 1135, comma 1, n. 1) c.c., si occupa della nomina dell'amministratore di condominio. Essa elenca, in particolare, i requisiti che devono essere posseduti dall'amministratore nominando e da quello in carica, la cui mancanza o venuta meno nel corso del rapporto determina l'impossibilità per il soggetto (persona fisica o giuridica che sia) di esercitare l'attività di amministratore di condominio: ed infatti, il comma 4 della medesima disposizione chiarisce che la perdita dei requisiti di cui al comma 1, lett. a), b), c), d) ed e) determina la cessazione dall'incarico, facoltizzando ciascun condomino alla convocazione, senza formalità, dell'assemblea, per la nomina del nuovo amministratore. Tali requisiti attengono, da un lato, alle qualità di onorabilità della persona nominata (cfr. art. 71-bis, comma 1, lett. a, d, c, d, e) e, dall'altro, alla formazione scolastica ed alla qualificazione professionale dell'amministratore (cfr. art. 71-bis, comma 1, lett. a, d, c, d, e). Orbene, come osservato da attenta dottrina (Tortorici, 623), l'art. 71-bis, rapportato alla l. 14 gennaio 2013, n. 4 (recante «disposizioni in materia di professioni non organizzate») ed al d.lgs. 16 gennaio 2013, n. 13 (recante «definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, a norma dell'art. 4, commi 58 e 68, l. 28 giugno 2012, n. 92»), deve considerarsi dettato dal legislatore a tutela della utenza, vale a dire dei condomini, che sono da considerarsi, salvo eccezioni, consumatori, ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206: ne discende che la normativa ha natura di disciplina di ordine pubblico ed è inderogabile, pure non essendo stata espressamente dichiarata tale, mediante una sua riconduzione all'art. 72 disp. att. c.c. non oggetto di novellazione ad opera della legge di riforma. Osserva il medesimo autore che, ad ogni buon conto, il regolamento di condominio potrebbe comunque dettare requisiti più restrittivi di quelli previsti dal'art. 71-bis disp. att. c.c., come già chiarito, d'altronde, dalla giurisprudenza formatasi in relazione alla normativa esistente anteriormente alla Riforma. Analogamente è da dirsi avuto riguardo ad un'ulteriore precetto introdotto dalla legge di Riforma del 2012 e, cioè, l'art. 71-quater disp. att. c.c.: la disposizione «disegna», infatti, una nuova competenza assembleare, conseguente alla riconduzione delle controversie condominiali nel novero di quelle per cui è prescritta la mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. n. 28/2010. In particolare, era previsto che la decisione di partecipare o meno alla mediazione dovesse essere adottata dall'assemblea con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., specificando, altresì, la norma che, il mancato raggiungimento della medesima maggioranza sulla proposta conciliativa dovesse essere intesa quale mancata accettazione della stessa. L'importanza della originaria formulazione della norma si coglie perfettamente considerando che, per effetto delle previsioni contenute nell'art. 71-quater cit., la legittimazione processuale (attiva e passiva) dell'amministratore finiva per incontrare un ulteriore sensibile limite: ed infatti, poiché ai sensi del comma 3 dell'art. 71-quater cit. l'amministratore di condominio era legittimato a partecipare alla procedura di mediazione obbligatoria solo previa delibera assembleare di autorizzazione, non rientrando tra le sue attribuzioni, in assenza di apposito mandato, il potere di disporre dei diritti sostanziali rimessi alla mediazione, ne conseguiva che la condizione di procedibilità delle "controversie in materia di condominio" non potesse dirsi realizzata qualora l'amministratore, anche nelle materie in cui fosse stato dotato di autonoma legittimazione processuale, avesse partecipato all'incontro davanti al mediatore sprovvisto della previa delibera assembleare, da assumersi con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., non essendo in tal caso possibile iniziare la procedura di mediazione né procedere al relativo svolgimento, come prevede il comma 1 dell'art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010 (Cass. VI, n. 10846/2020. Nel merito Trib. Venezia, 20 ottobre 2022, Trib. Massa, 27 luglio 2020). Tale complessivo assetto finiva per condurre a conclusioni, invero, paradossali: l'amministratore, cioè, ben avrebbe potuto chiedere ed ottenere un decreto ingiuntivo ex art. 63, comma 1, prima parte, disp. att. c.c., senza autorizzazione dell'assemblea (trattandosi di attività rientrante nelle proprie attribuzioni ex art. 1130, n. 3, c.c. e, anzi, a tratti doverosa, ex art. 1129, comma 9, c.c.) mentre, nel successivo giudizio introdotto per effetto dell'opposizione ex art. 645 c.p.c. del condomino ingiunto, in mancanza dell'autorizzazione assembleare, egli non avrebbe potuto ritualmente introdurre la procedura di mediazione, con conseguente dichiarazione di improcedibilità dell'originaria richiesta monitoria e revoca del decreto opposto (Cass., S.U. n. 19596/2020). Sicché si era posto il problema della validità di una clausola regolamentare (di natura contrattuale e, dunque, approvata all'unanimità) che preveda, in generale, la preventiva autorizzazione alla partecipazione dell'amministratore alla mediazione obbligatoria prevista dal d.lgs. n. 28/2010 esonerando così, lo stesso, a munirsi di volta in volta dell'autorizzazione assembleare. Orbene, partendo dal presupposto che la riforma del 2012 non si è in alcun modo preoccupata di indicare se il citato art. 71-quater disp. att. c.c. sia derogabile o meno dal regolamento di condominio, si era ritenuto di escludere tale possibilità, sia perché la previsione di una deliberazione autorizzativa ad hoc, in quanto imposta direttamente dalla legge e coinvolgendo interessi che travalicano l'ambito di disponibilità dei singoli condomini conferisce alla norma carattere di stampo «pubblicistico», sia in quanto un'autorizzazione preventiva avrebbe frustrato la stessa ratio della norma, che è quella di sollecitare una decisione consapevole dell'assemblea, la quale solo attraverso la discussione sula specifica lite passiva è in condizione di valutare, caso per caso, se partecipare o meno allo specifico procedimento di mediazione. La disposizione , ad ogni buon conto, è stata novellata dal D.Lgs. n. 149 del 2022 (cd. Riforma Cartabia) mediante l'abrogazione dei commi 2, 4, 5 e 6 e la riscrittura del comma 3, che ora dispone che al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore secondo quanto previsto dall'art. 5-ter del D.Lgs. n. 28/2010 (norma che, a propria volta prevede che “L'amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l'accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all'approvazione dell'assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell'accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall'articolo 1136 del Codice Civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa”). L'intervento dell'assemblea è stato dunque ricollocato, dall'art. 5-ter., in un momento successivo e, precisamente, nella fase di delibazione dell'accordo o della proposta: all'esito del primo incontro innanzi al mediatore, infatti, sia che sia stato raggiunto un accordo sia che, al contrario, sia stata formulata una proposta, il verbale al quale l'uno o l'altra sono allegati vanno sottoposti all'approvazione dell'assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell'accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall'art. 1136 c.c. (con l'ulteriore conseguenza che, in caso di mancata approvazione entro detto termine, la conciliazione si intende non conclusa). Coerentemente con la novella legislativa Trib. Trani, 19 giugno 2025 ha ritenuto che potendo l'amministratore partecipare al procedimento di mediazione, lo stesso possa legittimamente nominare il legale che deve rappresentarlo anche senza una previa delibera di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, derivando tale potere dal più generale dovere di tutelare il condominio contro le azioni intraprese da terzi Si ritiene che le medesime ragioni sottese alla inderogabilità dell'originario art. 71-quater possano essere riproposte in relazione al “nuovo” art. 71-quater ed al nuovo art. 5-ter del D.Lgs. n. 149 cit. Le previsioni in deroga all'art. 63 disp. att. c.c.L'art. 63 disp. att. c.c. è stato oggetto di parziale riformulazione ad opera del legislatore della Riforma, approvata con la l. 11 dicembre 2012, n. 220. In particolare, è stato (a) introdotto un ultimo periodo al comma 1 (implicante l'obbligo, per l'amministratore, di comunicare ai creditori i dati identificativi dei condomini morosi), (b) riformulato il comma 2 (mediante l'introduzione di una forma di responsabilità solidale sussidiaria), (c) parzialmente manipolato il comma 3 (non occorrendo più, al fine di sospendere al condomino moroso la fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, la specifica previsione regolamentare) e (d) introdotto il comma 5 (che pone un vincolo di solidarietà tra acquirente ed alienante in ordine al pagamento dei contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto). Circa la derogabilità delle previsioni contenute ai commi 1, 2, 4 e 5, la stessa sembra da escludere in nuce: così, ad esempio, non si vede come un regolamento potrebbe impedire all'amministratore di condominio di agire nei confronti del condomino moroso al fine di conseguire da questi il pagamento degli oneri rimasti inevasi; piuttosto, l'art. 72 disp. att. c.c. va coordinato, in parte qua, con il novellato art. 1129, comma 9, c.c. che conferisce all'assemblea il potere di dispensare l'amministratore, volta per volta, dall'agire per il recupero forzoso delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso. Certamente, invece, il regolamento potrebbe contenere una clausola che imponga all'amministratore di costituire formalmente in mora chi non è in regola con i pagamenti nei confronti del condominio, ma una simile previsione in ogni caso non precluderebbe, in ipotesi di sua inosservanza, il ricorso alla tutela monitoria per il recupero delle somme non versate, giacché la mancanza di una diffida stragiudiziale, potrebbe determinare – al più – la violazione di una regola di condotta, causa di responsabilità dell'amministratore per inadempimento ad uno specifico obbligo impostogli dal regolamento (Cass. II, n. 9181/2013. Nella giurisprudenza di merito, più di recente,Trib Catania, 31 agosto 2021). Ugualmente, il regolamento non potrebbe contenere una clausola che impedisca all' amministratore di comunicare ai terzi, con cui abbia assunto obbligazioni per conto del condominio, i dati identificativi (i.e., i nomi e l'importo dovuto dai singoli, oltre ai dati fiscali e catastali necessari a consentire l'esatta individuazione dei debitori e degli immobili di loro proprietà. Cfr. Trib. S.M.C.V., 1 luglio 2022 e Trib. Roma, 1 febbraio 2017) dei condomini non in regola con i pagamenti: si tratterebbe, infatti, di una previsione destinata ad inserirsi in un rapporto estraneo a quello tra condomini ed amministratore, sorgente ex lege a carico di quest'ultimo e che, d'altronde, esporrebbe l'amministratore ad una responsabilità personale (di natura contrattuale, siccome connessa alla violazione di una prescrizione normativa) nei confronti dei creditori rimasti insoddisfatti. La ricostruzione, in siffatti termini, del rapporto amministratore-creditori rispetto agli obblighi gravanti sul primo ex art. 63, comma 1, ult. parte, disp. att. c.c. è stata fatta propria, d’altronde, anche dalla Suprema Corte (Cass. II, n. 1002/2025) che ha puntualmente osservato come l'obbligo di comunicare i dati dei condomini morosi (e la conseguente legittimazione passiva in caso di azione giudiziale) spetta all'amministratore in proprio, trattandosi di un dovere legale di cooperazione con i creditori funzionale al rispetto dell'ordine di escussione contemplato dal comma 2 dell'art. 63 disp. att. c.c., che è estraneo al rapporto di mandato intercorrente con il condominio (cfr. anche, nella giurisprudenza di merito, Trib. Torre Annunziata, 6 febbraio 2025). ); del pari, con riferimento ai commi 2, 4 e 5, da un lato il regolamento non potrebbe comunque incidere sulla individuazione dei soggetti tenuti ex lege al pagamento degli oneri condominiali – concernendo esso, piuttosto, le modalità di ripartizione di tali contributi – dall'altro la gestione del rapporto terzo creditore/condomino moroso rappresenta, rispetto al regolamento, res inter alios acta (così, ad esempio, non potrebbe negarsi la possibilità che il creditore convenzionalmente rinunzi alla responsabilità solidale sussidiaria, ovvero rimetta il debito nei confronti del singolo condomino: ma simili conseguenze non potrebbero mai derivare da una previsione regolamentare) – si rinvia infra. Diversamente è da dirsi, invece, in relazione alla prescrizione contenuta al comma 3, con particolare riguardo a quelle clausole dei regolamenti di condominio che dispongono l'applicazione, a carico del condomino rimasto inadempiente ovvero in ritardo rispetto all'obbligo contributivo su di esso gravante, di un'indennità di mora, calcolata in un'aliquota percentuale rispetto all'importo rimasto inevaso. In proposito, già prima della novella si era osservato (Triola, 111) che, giacché l'art. 63, prevede, quale unica sanzione per il condomino moroso, la sospensione dell'utilizzazione di servizi comuni, ciò implicherebbe, mediante una lettura a contrario della norma, l'illegittimità di qualsivoglia altra sanzione a carico dello stesso (e, in specie, il pagamento di interessi di mora in misura diversa da quella legale). Di segno opposto è stato, invece, l'approccio della giurisprudenza che, pur ammettendo la possibilità che il regolamento contenga una simile previsione (Trib. Roma 24 febbraio 1983), ha diversamente ricostruito la sua natura. Secondo un primo orientamento, infatti, una simile previsione integrerebbe gli estremi di una vera e propria clausola penale, trattandosi di una forma di risarcimento del danno, predeterminata nel proprio ammontare, derivante dall'inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti avuto riguardo all'uso delle cose comuni (Trib. Torino 24 marzo 1986): essa sarebbe dunque riducibile dal giudice, ove manifestamente sproporzionata (Pret. Roma, 19 febbraio 1979, Cass. S.U., n. 12128/2005) e non rivalutabile (Cass. III, n. 1924/1975). Per l'opposto orientamento, al contrario, si è al di fuori dell'ambito operativo della clausola penale giacché, mentre questa rappresenta una pattuizione accessoria del contratto convenuta dalle parti per rafforzare, da un lato, il vincolo contrattuale e per stabilire, dall'altro, preventivamente, una determinata sanzione per il caso di inadempienza o di ritardo nell'adempimento, con l'effetto di limitare alla prestazione prevista per il risarcimento del danno indipendentemente dalla prova dell'effettivo pregiudizio economico verificatosi, la norma regolamentare ha, invece, quali destinatari, tutti i condomini in quanto vincolanti dalla regolamentazione comune e non solo se e in quanto vengano a trovarsi in concreto nelle situazioni previste, disciplinate o vietate (Cass. II, n. 5977/1992): la clausola in commento, pertanto, può essere dichiarata nulla o annullata, ma non modificata, con intervento dell'Autorità giudiziaria sostitutivo rispetto alla volontà regolamentare. Dalla qualificazione giuridica che si intende dare alla clausola in questione derivano, poi, conseguenze circa la natura del regolamento in grado di recepirla (Chiesi, 2013, 160): ove ricondotta alla clausola penale, la stessa va necessariamente approvata all'unanimità, ovvero deve essere contenuta all'interno di un regolamento (di natura contrattuale) trascritto. Chi, al contrario esclude tale natura, ritiene sufficiente la maggioranza di cui all'art. 1138, comma 3, c.c. – che rinvia al precedente art. 1136, comma 2, c.c. La giurisprudenza è, infine, consolidata ed univoca nell'escludere che possano introdursi nel regolamento condominiale sanzioni diverse da quelle pecuniarie, ovvero diversamente «afflittive», in quanto ciò si porrebbe in contrasto con i principi generali dell'ordinamento che non consentono al privato – se non eccezionalmente – il diritto di autotutela (Cass. II, n. 840/2014). Altra e diversa questione concerne, invece, (a) quali siano i servizi che possano essere sospesi dall'amministratore ex art. 63, comma 3, disp. att. c.c. e (b) se su tale facoltà possa intervenire una previsione del regolamento di condominio: se, cioè, questi possa procedere alla sospensione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, allorché tale sospensione si riferisca a servizi ritenuti essenziali per la salute dei condomini, quali il servizio di riscaldamento e raffrescamento o di approvvigionamento idrico (tutelato, peraltro, in sede pubblicistica, dal D.P.C.M. 29 agosto 2016, n. 105094 con riferimento al c.d. al fabbisogno minimo garantito), e quando sia necessario intervenire all'interno delle unità immobiliari private per procedere alle operazioni di sospensione (e se il regolamento di condominio possa statuire in merito). Sulla prima questione (a) la giurisprudenza è divisa in quanto, a fronte di pronunzie che negano all'amministratore il diritto di agire ex art. 63, comma 3, disp. att. c.c. qualora tale iniziativa, privando il condomino del riscaldamento nel periodo invernale o dell'acqua potabile (da considerarsi quali forniture essenziali per la vita della persona), possa ledere i diritti fondamentali della persona, quale il diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost. (Trib. Milano 24 ottobre 2013; Trib. Brescia 29 settembre 2014), v'è chi, al contrario, ritiene tale iniziativa un diritto-dovere dell'amministratore (soprattutto dopo che la Riforma del 2012 ha eliminato il riferimento necessità di una previsione regolamentare che abiliti l'amministratore alla sospensione): alcuni (Trib. Modena 5 giugno 2015), tuttavia, limitando l'intervento dell'amministratore alle sole ipotesi in cui la sospensione riguardi interventi sulle parti comuni dell'impianto e non anche le porzioni in proprietà esclusiva del condomino moroso, altri (Trib. Brescia 17 febbraio 2014), invece, imponendo al condomino moroso l'accesso alla propria unità immobiliare ai tecnici o all'impresa del condominio per procedere alla sospensione del servizio di riscaldamento, attraverso l'intercettazione e la chiusura delle tubazioni di acqua calda (si rinvia, per un approfondimento della tematica, al commento all'art. 63 disp. att. c.c.). È discusso, ancora, se i poteri ex art. 63, comma 3, cit. possano esplicarsi anche in assenza di un provvedimento giudiziale di carattere autorizzatorio, ovvero se questo sia comunque necessario e, dunque, se, in ultima analisi, l'amministratore debba munirsi di una previa “autorizzazione” alla sospensione del servizio comune da parte dell'A.G. (eventualmente adita in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c.). Una indicazione in tal senso sembra provenire da Cass. pen. VI, n.47276/2015, per la quale risponde del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose di cui all'art. 392 c.p., oltre che tenuto al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, l'amministratore il quale, nella sua qualità di gestore di un residence, disattiva la derivazione della corrente elettrica verso l'unità abitativa di un condomino che non ha provveduto al pagamento di utenze condominiali. Sulla seconda questione (b) innanzi proposta, invece, giacché prima della Riforma del 2012 la materia era già di competenza regolamentare (la norma, infatti, prevedeva che l'amministratore potesse sospendere al moroso l'utilizzazione dei servizi in commento, se il regolamento di condominio l'avesse consentito), non si rinvengono, invece, ragioni contrarie a che il regolamento possa prevedere quali servizi comuni siano da escludere dalla sospensione ovvero le modalità con cui l'amministratore debba procedere (limitandolo, ad esempio, al solo intervento sulle parti comuni dell'impianto). Non si ritiene, al contrario, che il regolamento, nella ricorrenza dei presupposti richiesti dalla norma (e, cioè, la durata ultrasemestrale della morosità e la natura del servizio in discussione, che dovrà essere suscettibile di godimento separato), possa vietare in radice all'amministratore la sospensione dei servizi. Ugualmente – più in generale – non potrebbe ammettersi la validità di una clausola regolamentare che esoneri dal pagamento degli oneri condominiali (ponendo, così, nel nulla gli effetti dell'art. 63 disp. att. c.c.) nel caso di mancato corretto funzionamento dei servizi comuni: il singolo condomino, infatti, non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali, che possa essere esercitato mediante un'azione di condanna della stessa gestione condominiale all'adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l'uso dell'impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 e ss. c.c. (Cass. n. 16608/2017). Questione connessa, anche se non direttamente attinente all'art. 63 disp. att. c.c., è quella concernente la derogabilità, ad opera del regolamento contrattuale di condominio, dell'art. 70 disp. att. c.c., relativamente alle sanzioni da comminare a carico del condomino che violi le prescrizioni del regolamento medesimo; la norma novellata dall'art. dall'art. 24, l. n. 220/2012 è stata ulteriormente integrata dall'art. 1, d.l. 23 dicembre 2013, n. 145 (c.d. decreto “Destinazione Italia”), conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, e contempla la possibilità di irrogare, nei confronti del condomino che violi il regolamento di condominio, una sanzione pecuniaria (fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800), con deliberazione assunta dall'assemblea con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.: le somme così raccolte sono devolute al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie. Orbene, si è in presenza di una pena privata, destinata a sanzionare, in presenza di specifica previsione del regolamento (Cass. II, n. 14735/2006. Cfr., amplius, infra), i condomini (dunque, i proprietari esclusivi e non anche i conduttori. In termini, cfr. Cass. II, n. 10837/1995. Ma cfr. infra), contemplata da una disposizione che, benché non ricompresa nell'elencazione di cui all'art. 72 disp. att. c.c., si ritiene comunemente avere carattere inderogabile: dal mancato richiamo nel cit. art. 72 disp. att. c.c., infatti, si dovrebbe dedurre che, per quanto attiene alla misura della penale, la somma indicata non dovrebbe essere un limite massimo invalicabile, nel senso che le parti potrebbero accordarsi diversamente in proposito, regolando liberamente i loro interessi, disciplinando i loro atti in vista dell'esigenza comune della comunità condominiale (al pacifico ed ordinato godimento del bene comune) e adeguando congruamente l'importo alla gravità dell'infrazione al codice disciplinare approvato (in considerazione della variabilità e mutevolezza delle fattispecie concrete); sennonché, la previsione dell'art. 70 disp. att. c.c. è stata interpretata piuttosto restrittivamente dai giudici di legittimità, nel senso che sono nulle le clausole regolamentari o le eventuali delibere assembleari che dovessero contemplare sanzioni di importo maggiore (cfr. Cass. II, n. 820/2014; Cass. II, n. 10329/2008; Cass. II, n. 948/1995). L'inflizione della sanzione rientra, ora, tra i compiti dell'assemblea mentre, per il passato, si era ritenuto che si trattasse di una attività inclusa tra le attività ordinarie dell'amministratore – ai sensi dell'art. 1130, n. 1), c.c. – che poteva esercitarle senza la necessità di delibera autorizzativa (così Cass. II, n. 14735/2006). La norma, nella sua originaria versione quanto agli importi ivi contemplati a titolo di sanzione, aveva inoltre positivamente superato anche il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale, avendo quest'ultima chiarito che, per quanto “effettivamente la misura della sanzione pecuniaria in esame [pari ad un importo “fino a lire cento”], di cui il remittente lamenta l'irrisorietà, non ha subito modifiche nel tempo, non essendo mai stata interessata da adeguamenti o rivalutazione [...] tuttavia [...] appartiene alla discrezionalità del legislatore ogni determinazione relativa all'entità delle sanzioni, la cui modifica è quindi al medesimo riservata» (Corte Cost., n. 388/1997). Come esposto, la Riforma del 2012 non ha mutato la previsione per cui la sanzione in esame deve essere necessariamente prevista in un regolamento condominiale: questo potrà essere anche approvato con il quorum di cui al comma 3 dell'art. 1138 c.c. – e, cioè, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio (art. 1136, comma 2, c.c.) – non essendo necessario che lo stesso sia di natura contrattuale. Il che implica che l'irrogazione di una sanzione, sulla scorta della sua previsione in una delibera assembleare, è possibile solo se vi sia un'esplicita previsione, a monte, nel regolamento: in difetto, né l'amministratore – che non potrebbe essere autorizzato dall'assemblea, volta per volta, ad irrogarla – né l'assemblea – che non potrebbe irrogarla direttamente (in vece dell'amministratore) – possono provvedervi. Deve trattarsi, poi, di un'infrazione al regolamento di condominio: opportunamente il Legislatore non ha tipizzato i comportamenti sanzionabili, purché essi si riconnettano ad una violazione del regolamento e che può riguardare, indifferentemente, l'uso delle cose comuni, la tutela del decoro dell'edificio, l'utilizzo dei servizi condominiali et similia. Quanto ai destinatari, non adoperando la Riforma alcun riferimento al “condomino”, quale trasgressore, si è sostenuto, in dottrina (Celeste 2014, 279), che “la sanzione pecuniaria potrebbe essere ora irrogata anche al conduttore o al comodatario dell'appartamento, o al titolare del diritto di usufrutto, uso, abitazione, in quanto costoro, quali effettivi utilizzatori delle parti di uso comune dell'edificio, in misura ed in proporzioni analoghe a quelle del proprietario, si trovano in una posizione di ingerenza nell'organizzazione condominiale – di cui ne subiscono perciò la disciplina – e ad essere titolari di poteri corrispondenti di fatto all'esercizio degli omonimi diritti. [A conferma di tale assunto si evidenzia che] la giurisprudenza sembra pacifica nel senso che, con il contratto di locazione, si trasferisce al conduttore il diritto di utilizzare le parti comuni negli stessi limiti spettanti al suo locatore, tanto che qualora l'inquilino di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva violi le limitazioni poste dal regolamento condominiale – ad esempio, riguardo alla destinazione dell'appartamento – si ritiene comunemente che l'azione del condominio, diretta a fare accertare l'illiceità di tale comportamento ed a farlo cessare, possa essere proposta anche direttamente nei confronti del conduttore medesimo”. Se ne trae la conclusione, dunque, per cui l'amministratore potrebbe irrogare le sanzioni anche ai familiari, dipendenti, conviventi e conduttori del condomino, senza, però, addebitare a quest'ultimo i relativi importi, con un'applicazione della tecnica simile a quella della responsabilità oggettiva. La novella legislativa ha lasciato tuttavia irrisolti alcuni problemi applicativi, non essendo stato chiarito chi, ed in quali termini, debba provvedere alla contestazione dell'infrazione né, tampoco, con quali modalità la “multa” possa essere censurata dal destinatario. Si può allora pensare ad una ricostruzione del sistema congegnato dalla norma nel senso del coinvolgimento, mediante una lettura in combinato disposto con l'art. 1117-quater c.c., dell'assemblea a seguito di segnalazione (da intendersi, quindi, alla stregua di una vera e propria contestazione) dell'amministratore; per identità di ratio, poi, la medesima forma di procedimentalizzazione assembleare dovrebbe essere seguita anche laddove le violazioni al regolamento non coinvolgano la destinazione d'uso di parti comuni (si pensi, ad esempio, al divieto di destinazione di proprietà esclusiva a determinati usi o attività). In maniera sostanzialmente analoga si evidenzia in dottrina (Celeste 2014, 269 ss.) che l'organo deputato all'accertamento dell'infrazione è rimasto l'amministratore – con esclusione, quindi, dell'assemblea o di terzi vigilatori (come, ad esempio, guardie private) – cui spetta anche il potere di contestare l'infrazione al trasgressore; “dovrà pur sempre trattarsi di una condotta imputabile (per dolo o per colpa) al trasgressore, e dovrà essere esattamente specificata quale inadempienza è stata accertata, non essendo sufficiente – anche ai fini dell'impugnativa di cui appresso – indicare ed imporre divieti o obblighi generici, magari con “norme di chiusura” (riferendosi ad essi, negli stessi termini, quando dovrà applicarsi la relativa sanzione)”. Segue. La solidarietà tra alienante ed acquirente e tra usufruttuario e nudo proprietario L'art. 63, comma 4 (già comma 2, anteriormente alla novella), disp. att. c.c., prevede che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso ed a quello precedente. Le annualità cui fa riferimento la disposizione in menzione sono quelle di gestione e non quelle solari (Cass. II, 7395/2017); in corretta applicazione della regola generale di cui all'art. 2697 c.c., spetta al condominio che, affermandosi titolare di un credito originato da un'obbligazione solidale di fonte legale, invochi in giudizio la responsabilità dell'acquirente di un'unità immobiliare per il pagamento dei contributi, l'onere di fornire la prova dei fatti costitutivi del proprio credito e, pertanto, dell'inerenza degli stessi all'anno in corso o a quello precedente al subentro dell'acquirente: il principio è stato ribadito anche da Cass. II, n. 21860/2020, che ha ribadito come, in tema di ripartizione delle spese condominiali tra venditore ed acquirente dell'immobile, il previgente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. – ora, come detto, comma 4 – delinea a carico dell'acquirente un'obbligazione solidale, non propter rem, ma autonoma, in quanto costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell'aspettativa creditoria del condominio su cui incombe, poi, l'onere di provare l'inerenza della spesa all'anno in corso o a quello precedente al subentro dell'acquirente. La successione in parola è, infine, quella a titolo particolare, in quanto il successore a titolo universale mortis causa subentra nell'intero patrimonio del de cuius, rispondendo di tutte le obbligazioni dalle quali lo stesso è gravato e non solo limitatamente agli obblighi contratti negli ultimi due anni. È stato in proposito osservato, in sede di legittimità, che «in virtù [di tale principio] l'acquirente di una unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidalmente con lui, ma non al suo posto, ed opera nel rapporto tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà di una singola unità immobiliare, non anche nel rapporto tra quest'ultimi. In questo secondo rapporto, salvo che non sia diversamente convenuto tra le parti, è invece operante il principio generale della personalità delle obbligazioni; l'acquirente dell'unità immobiliare risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandola, è divenuto condomino; e se, in virtù del principio dell'ambulatorietà passiva di tali obbligazioni sia stato chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, ha diritto a rivalersi nei confronti del suo dante causa» (Cass. II, 1956/2000): sicché, l'ambulatorietà passiva – che connota tali obbligazioni – si manifesta in relazione agli oneri condominiali insorti negli ultimi due anni, salva la facoltà di regresso del successore a titolo particolare nei confronti del proprio dante causa, ex art. 1298 c.c. La previsione va, poi, integrata con quanto attualmente previsto – in senso inverso – dal successivo comma 4 del medesimo art. 63 disp. att. c.c. (introdotto dalla novella del 2012), per cui chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto: la solidarietà in tal caso, fermo il riparto interno delle responsabilità, viene però spostata in avanti, senza l'indicazione di un limite temporale, se non quello coincidente con il momento in cui il mutamento del regime proprietario dell'immobile viene comunicato all'amministratore. Tali previsioni, come detto, sono inderogabili finanche dal regolamento contrattuale, ex art. 72 disp. att. c.c., il quale non potrebbe comunque incidere sull'individuazione dei soggetti tenuti ex lege al pagamento degli oneri condominiali – concernendo esso, piuttosto, le modalità di ripartizione di tali contributi. Sicché, se le parti del contratto di compravendita sono libere, nell'ambito della propria autonomia negoziale, di convenire una diversa ripartizione degli oneri condominiali, specificamente individuando chi tra alienante ed acquirente debba in ogni caso soddisfare gli oneri in questione, ma tale accordo ha efficacia esclusivamente inter partes e non è opponibile al condominio (Monegat, 1). Analoga disciplina (solidarietà ed inderogabilità) trova applicazione in relazione a quanto disposto dall'art. 67, comma 8, disp. att. c.c. relativamente al vincolo che lega il nudo proprietario e l'usufruttuario rispetto al pagamento degli oneri condominiali. Anteriormente alla Riforma del 2012 si riteneva, sulla scorta di quanto previsto dal comma 3 dell'art. 67 cit. (per cui l'usufruttuario di un piano o porzione di piano dell'edificio esercita il diritto di voto negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni) ed in mancanza di criteri speciali, derogatori della disciplina generale dettata dagli artt. 1004 e 1005 c.c., che, ove un piano o porzione di piano facente parte di un condominio fosse stato oggetto di usufrutto ed il relativo atto costitutivo fosse stato debitamente trascritto (Cass. II, n. 23291/2006), esso dovesse ritenersi opponibile erga omnes e quindi anche al condominio: con la conseguenza che, anche nel regime di attribuzione delle spese condominiali, dovesse trovare applicazione la disciplina dettata, per l'appunto, dai richiamati artt. 1004 e 1005 c.c., dipendendo la qualità di debitore degli oneri condominiali (quale tipica obligatio propter rem) dalla titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa. Nel silenzio del codice civile, tale orientamento è stato costantemente affermato in giurisprudenza, nonostante un'iniziale «diffidenza» verso tale posizione: ed infatti, nel passato non è mancato chi ha ritenuto sussistere una solidarietà passiva tra usufruttuario e nudo proprietario nel pagamento dei contributi condominiali, tale per cui l'amministratore avrebbe dovuto rivolgersi, per la loro riscossione, all'usufruttuario e, nel caso di morosità di costui, al nudo proprietario ovvero, in alternativa, al nudo proprietario per tutte le spese condominiali, salvo poi il diritto di regresso di quest'ultimo nei confronti dell'usufruttuario, restando il diritto reale costituito sull'immobile «in ombra» rispetto al condominio (Cass. II, n. 2986/1975). Presto abbandonata tale impostazione, la giurisprudenza maggioritaria ha invece riconosciuto rilevanza esterna, secondo il relativo regime di opponibilità, all'atto costitutivo del diritto di usufrutto affermando che in tema di ripartizione degli oneri condominiali tra nudo proprietario ed usufruttuario, in applicazione degli artt. 1004 e 1005 c.c., il nudo proprietario non è tenuto, neanche in via sussidiaria o solidale al pagamento delle spese condominiali, né può essere stabilita dall'assemblea una diversa modalità di imputazione degli oneri stessi in deroga alla legge (Cass. II, n. 21774/2008; Cass. II, n. 23291/2006 cit.; Cass. II, n. 26831/2011; Cass. II, n. 2236/2012). In altri termini, poiché le spese dovute dall'usufruttuario si configurano come obbligazioni propter rem, non si è ritenuto consentito all'assemblea di interferire sulla imputazione e sulla ripartizione dei contributi stabiliti dalla legge in ragione della loro natura, non rientrando nei poteri dell'organo deliberativo introdurre deroghe idonee ad incidere su diritti individuali. La situazione, a ben vedere, non è mutata a seguito della novella: nel senso che, se il legislatore ha ora espressamente derogato, rispetto allo specifico ambito condominiale, agli artt. 1004 e 1005 c.c., introducendo il vincolo di solidarietà tra nudo proprietario ed usufruttuario, indipendentemente dalla natura delle spese ascrivibili all'unità immobiliare (così effettivamente relegando i richiamate artt. 1004 e 1005 alla regolamentazione dei rapporti interni tra gli stessi), non per questo muta, tuttavia, la conclusione circa la inderogabilità, in sede regolamentare come assembleare, di tale previsione, trattandosi dell'identificazione dei soggetti tenuti al pagamento degli oneri condominiali. La responsabilità solidale sussidiaria del condomino in regola coi pagamenti rispetto al condomino moroso Come anticipato supra, come non potrebbe incidere sull'individuazione dei soggetti astrattamente tenuti al pagamento degli oneri condominiali, allo stesso modo il regolamento non può impattare neppure sulla delimitazione delle responsabilità all'esterno, nei confronti dei creditori del condominio, incidendo sul meccanismo fissato dal combinato disposto dei commi 1, ultima parte e 2 dell'art. 63 disp. att. c.c. Come noto, l'art. 63, comma 1, cit. dispone che l'amministratore “è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi”, mentre il comma 2 stabilisce che i “creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini”. Relativamente al primo profilo, si è già dato conto, in precedenza, della natura della responsabilità dell'amministratore verso i terzi creditori, che colloca la prima in un perimetro del tutto estraneo al contratto di amministrazione condominiale (Cass. II, n. 1002/2025). In ordine alla seconda questione (chi è tenuto a pagare e chi può essere escusso), invece, Cass. II, n. 5043/2023 ha dato una lettura sistematica delle due disposizioni, definendone i contorni sostanziali e chiarendone la portata applicativa in ambito processuale. In particolare, la Corte osserva che dal combinato disposto delle richiamate norme emerge che l'obbligo di pagamento delle quote dovute dai morosi, posto in capo ai condomini in regola nella contribuzione alle spese, è subordinato alla preventiva escussione di questi ultimi, sicché l'obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso: l'art. 63, comma 2, disp. att., c.c., in altri termini, configura, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l'amministratore versato l'importo necessario a soddisfarne le pretese), un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis, avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. Rileva, in particolare, il Supremo Consesso che “non è stata, perciò, superata dal legislatore del 2012 la ricostruzione operata da Cass., S.U., , n. 9148/2008, nel senso che, in riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del condominio, nei confronti di terzi la responsabilità diretta dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote. A ciò si è unito, piuttosto, per le obbligazioni sorte dopo l'entrata in vigore della legge n. 220 del 2012, il debito sussidiario di garanzia del condomino solvente, subordinato alla preventiva escussione del moroso e pur sempre limitato alla rispettiva quota di quest'ultimo, e non invece riferibile all'intero debito verso il terzo creditore”. Sicché, in ultima analisi, deve trarsi la conclusione che per effetto dei primi due commi dell'art. 63, disp. att. c.c.: a) il creditore, che voglia convenire uno o più dei singoli condomini, deve preliminarmente agire nei confronti dei condomini morosi, dei cui dati abbia eventualmente ricevuto comunicazione dall'amministratore; b) la condizione di morosità del condomino convenuto dal creditore deve sussistere, peraltro, non soltanto al momento dell'introduzione del giudizio, incidendo, essa, piuttosto, sul diritto del terzo ad ottenere una sentenza di condanna, sicché è indispensabile che la stessa permanga nel momento in cui la lite viene decisa; c) la preventiva escussione richiede, di regola, l'esaurimento effettivo della procedura esecutiva individuale in danno del condomino moroso, prima di potere pretendere l'eventuale residuo insoddisfatto al condomino in regola. Sicché essa comporta non soltanto il dovere del terzo di iniziare le azioni contro il moroso, ma anche di continuarle con diligenza e buona fede: dunque, il creditore del condominio deve dapprima agire contro i partecipanti che siano in ritardo nei pagamenti delle spese per ottenere la condanna, ovvero un titolo esecutivo che permetta di dar corso all'espropriazione dei beni di quello; deve, inoltre, compiere ogni atto cautelare contro i beni stessi, per salvaguardarne l'indisponibilità durante il giudizio diretto alla condanna. Dal proprio canto, il condomino in regola, convenuto in giudizio dal terzo per il pagamento del restante credito condominiale, può paralizzare, in via di eccezione, l'azione del creditore, utilmente opponendo il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del condomino moroso, senza dover perciò necessariamente chiamare in causa quest'ultimo, senza il beneficio d'escussione sia limitato alla fase esecutiva. A questa prima lettura della norma hanno fatto seguito alcune altre pronunzie, che hanno ulteriormente perimetrato il campo di operatività dell'art. 63, commi 1 e 2, cit. AnzituttoCass. III, n. 22116/2023 chiarisce che “l'art. 63, secondo comma, disp. att. c.c., infatti, nella sua attuale formulazione è stato introdotto dalla l. 11 dicembre 2012 n. 220, che è entrata in vigore il 18 giugno 2013 (art. 32, comma 2, della stessa legge). L'atto di opposizione a precetto da cui ha preso origine il presente giudizio è stato invece notificato il 22 dicembre 2012. In difetto di una specifica diversa disciplina transitoria, poiché la legge non dispone che per l'avvenire, la fattispecie in esame non può essere regolata da una norma entrata in vigore successivamente”: in assenza di norme transitorie e per effetto della previsione contenuta all'art. 11 della Preleggi, dunque, l'art. 63 cit. non può che trovare applicazione in relazione alle procedure esecutive azionate successivamente al 18 giugno 2013, quale data di (differimento della) entrata in vigore della riforma, ex art. 32, comma 1, della l. n. 220 del 2012 . Quindi Cass. III, n.34220/2023 , che ritorna, anzitutto, sulla nozione di “ condomino moroso ”, per integrare Cass. n. 5043 del 2023, in una rinnovata prospettiva dei rapporti condominio-terzo-amministratore: “In base agli attuali indirizzi interpretativi in ordine alla natura parziaria della responsabilità dei singoli condòmini per le obbligazioni condominiali, le quali si dividono e gravano, pertanto, pro parte, sui singoli condòmini, deve necessariamente ammettersi - si legge in motivazione - che ciascuno di questi, così come è soggetto all'azione di cognizione del creditore, nonché all'azione esecutiva dello stesso, anche sulla base di un titolo esecutivo formatosi nei confronti del solo ente di gestione, per il recupero della quota dell'obbligazione condominiale che grava su di lui, è del pari legittimato ad estinguere tale sua obbligazione (parziaria) direttamente nei confronti del creditore, anche al fine di evitare di essere assoggettato a tali azioni (e ai relativi maggiori costi)…sia per coerenza logica che sulla base della piana applicazione dei principi di diritto che regolano le modalità di estinzione delle obbligazioni parziarie, dovrebbe escludersi che il singolo condòmino che abbia già estinto la propria obbligazione parziaria, pagando direttamente al creditore del condominio quanto dovuto, possa poi essere tenuto a versare nuovamente all'amministratore quello stesso importo: tale ultimo versamento è, infatti, da ritenersi comunque finalizzato alla formazione della provvista necessaria all'estinzione della complessiva obbligazione condominiale da parte dell'amministratore, quale rappresentate dei condòmini e nell'interesse di questi ultimi; onde, se quell'obbligazione è stata già estinta nella parte gravante sul singolo condòmino, e fermo restando l'obbligo di garanzia dovuto da quest'ultimo per le quote dei condòmini morosi insolventi, non avrebbe più fondamento la pretesa dell'amministratore del condominio al versamento dell'intera provvista da parte di tutti i condòmini, anche quelli da ritenersi in regola con i pagamenti per avere già estinto la propria obbligazione parziaria”. Sulla base di tali premesse deve dunque ritenersi, per un verso, che l'espressione “condòmini morosi” di cui all'art. 63 disp. att. c.p.c., si arricchisce di un ulteriore predicato, nel senso che essa ricomprende certamente i condòmini che non hanno versato all'amministratore del condominio la loro quota della provvista necessaria al pagamento del terzo creditore e che, d'altra parte neppure abbiano estinto autonomamente la propria quota dell'obbligazione condominiale, pagando direttamente a quest'ultimo , mentre, per altro verso, l'espressione “condòmini in regola con i pagamenti” , include quelli che abbiano estinto la propria quota dell'obbligazione condominiale, tanto mediante pagamento diretto del relativo importo al creditore quanto mediante pagamento, nelle mani dell'amministratore (che è poi tenuto al relativo trasferimento al terzo), della quota dovuta al creditore . Le previsioni in deroga all'art. 66 disp. att. c.c.L'art. 66 disp. att. c.c. è destinato a regolamentare le modalità di convocazione dell'assemblea dei condomini; a seguito della Riforma del 2012, il comma 3 è stato completamente riscritto ed integrato per ciò che concerne le forme di comunicazione dell'avviso di convocazione, mentre l'intero articolo si è arricchito di due ulteriori commi, destinati a disciplinare (il quarto) la fissazione dell'assemblea in seconda convocazione, nonché (il quinto) la convocazione, con unico avviso, di molteplici adunanze. Analogo intervento è stato operato, dal legislatore, sull'art. 1136, comma 3, c.c., norma praticamente riscritta. Anche in questo caso appare opportuna una disamina dei singoli commi di cui l'articolo si compone, giacché la previsione contenuta nell'art. 72 disp. att. nuovamente patisce delle eccezioni al regime della inderogabilità. In proposito, non è revocabile in dubbio l'intangibilità, da parte del regolamento, di quanto previsto dai commi 1 e 2, alla cui stregua l'assemblea, oltre che, annualmente, in via ordinaria per le deliberazioni indicate dall'articolo 1135 del codice, può esser convocata in via straordinaria dall'amministratore (o da un suo delegato, secondo il meccanismo della rappresentanza volontaria. Cass. II, n. 335/2017) quando questi lo ritiene necessario o quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio ovvero, ancora, da ciascun condomino ove manchi l'amministratore. Orbene, quanto alla convocazione dell'assemblea ordinaria con cadenza annuale, tale prescrizione rinviene la propria ratio nella necessità di consentire alla compagine condominiale il controllo sulla gestione dell'amministratore, oggi ancor più stringente che in passato a seguito della novella dell'art. 1129, comma 10, c.c. – per cui «l'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata» – e comma 12, n. 1), c.c. – alla cui stregua costituisce causa di revoca dell'amministratore «l'omessa convocazione dell'assemblea per l'approvazione del rendiconto condominiale, il ripetuto rifiuto di convocare l'assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore o negli altri casi previsti dalla legge». Quanto, invece, alla cd. autoconvocazione dell'assemblea straordinaria (effettuabile anche dai condomini ove l'amministratore non provveda entro 10 giorni dalla richiesta), la ratio della previsione va rinvenuta nella volontà del legislatore di evitare che l'assemblea venga riunita su richiesta di una minoranza semplice e non qualificata: sicché sarebbe affetta da nullità una clausola che consentisse la convocazione su richiesta di un solo condomino (per quanto rappresenti un sesto o più del valore dell'edificio) o di due o più condomini le cui carature millesimali che non raggiungano almeno un sesto del valore dell'edificio (Triola, 113). L'art. 66, comma 1, disp. att. c.c., inoltre, con specifico riferimento all'ipotesi di richiesta di convocazione proveniente da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio prevede anche che, allorché siano decorsi infruttuosamente dieci giorni dall'istanza, senza che l'amministratore vi abbia provveduto (art. 66, comma 1, secondo periodo), l'assemblea può essere convocata direttamente dai suddetti condomini. Rispetto alla richiesta di convocazione dell'assemblea da parte dei condomini, va - peraltro - segnalato quanto chiarito da Cass. II, n. 5319/2023, per cui l'istanza in commento non richiede alcuna forma solenne, ex art. 66 disp. att. c.c., essendo sufficiente essa che giunga (1) nel domicilio, residenza o dimora dello stesso ovvero (2) nel locale ove si trovano i registri di cui ai numeri 6) e 7) dell'articolo 1130 c.c., la cui ubicazione è comunicata contestualmente all'accettazione della nomina ovvero, ancora (3 presso il recapito indicato nella targa affissa nel luogo di accesso al fabbricato o di maggior uso comune. In dottrina (Titomanlio)si è osservato, al riguardo, che: a)ove l'incarico di amministratore sia svolto da una società, ex art. 71-bis, comma 3, disp. att. c.c., l'“indirizzo” cui inoltrare la richiesta possa coincidere, alternativamente, con la sede legale della stessa ovvero, con uno dei luoghi indicati supra, sub b-c) ovvero ancora, con il domicilio, la residenza o la dimora dei soci illimitatamente responsabili, degli amministratori e dei dipendenti “incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta servizi” (cfr. l'art. 71-bis, comma 3, cit., ultima parte); b) l'istanza possa essere consegnata a mani all'amministratore od un suo suo collaboratore, con contestuale accettazione “per ricevuta”, per raggiungimento dello scopo (l'art 1335 c.c., infatti, nel perimetrare il principio applicativo della presunzione di conoscenza delle dichiarazioni recettizie, non detta alcuna norma circa il mezzo di trasmissione della dichiarazione medesima. Cfr. anche Cass., sez. I, n. 1765/1975); 3) appare predicabile, ai fini dell'operatività dell'art. 66, comma 1, seconda parte, disp. att. c.c., anche una ricezione della richiesta da parte del portiere del condominio (arg. da Cass. II, n. 27352/2016). Derogatorie della descritta disciplina sono, tuttavia, alcune previsioni contenute tanto nel codice civile quanto nelle disposizioni di attuazione le quali, formalmente, non sono include tra quelle inderogabili ex art. 1138, comma 4, c.c. né ex art. 72 disp. att. c.c. Si pensi, ad esempio, all'art. 1117-quater c.c. che, in tema di tutela delle destinazioni d'uso delle parti comuni, prevede che la richiesta di convocazione dell'assemblea possa provenire da un solo condomino (analogamente a quanto prescrive l'art. 66, comma 2, disp. att. c.c. per il caso di mancanza di amministratore): rispetto ad essa, tuttavia, non possono che valere, per assoluta identità di ratio, le medesime considerazioni svolte supra circa l'inderogabilità, ad opera del regolamento di condominio, quand'anche di natura contrattuale, della disciplina dettata dal legislatore. Lo stesso dicasi per l'art. 71-bis, comma 4, disp. att. c.c. (previsione sulla cui complessiva inderogabilità, sebbene non espressamente prevista dall'art. 72 disp. att. c.c., si è già detto nel precedente paragrafo 2), che prevede che, ove l'amministratore perda, nel corso del rapporto, i requisiti di onorabilità di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 1 del medesimo art. 71-bis, ciò determina ipso iure la cessazione dall'incarico (con gli effetti di cui all'art. 1129, comma 8, c.c.), abilitando ciascun condomino alla convocazione, senza formalità, dell'assemblea per la nomina del nuovo amministratore. L'inderogabilità delle menzionate disposizioni si ricollega, tra l'altro, alla previsione contenuta all'art. 1129, comma 12, n. 1), c.c., che inserisce il rifiuto dell'amministratore a convocare l'assemblea «negli altri casi previsti dalla legge» tra le cause di revoca dello stesso: va da sé che una previsione regolamentare che, intaccando tali previsioni, riducesse i casi in cui è consentito al singolo condomino di richiedere la convocazione dell'assemblea, finirebbe per incidere, sia pure indirettamente sull'art. 1129 c.c. (norma, questa sì, dichiarata espressamente inderogabile dall'art. 1138, comma 4, c.c.) Ben più complessa, invece, la questione relativamente all'art. 66, comma 3, norma interessata – come detto – da un parziale restyling a seguito della Riforma e che può essere scomposta in tre parti: una, concernente la tempistica della convocazione; l'altra, afferente le modalità di convocazione; la terza, relativa alle conseguenze di una convocazione viziata (da collegare all'art. 1136 c.c. per cui l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati). Orbene, per quanto concerne la tempistica, l'avviso di convocazione va comunicato «almeno» cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione – in ciò discostandosi la disciplina del condominio da quanto previsto dall'art. 1105, comma 3, c.c., in materia di comunione, che non impone un tempo minimo di conoscenza dell'oggetto della deliberazione (Cass. II, n. 9291/1992; App. Milano 8 gennaio 2007): sennonché, tale previsione è stata ritenuta derogabile in melius e, cioè, nel senso di contemplare un termine più ampio, che consenta ai condomini di intervenire all'adunanza con preparazione ancora maggiore (Trib. Monza 12 marzo 2013; Trib. Napoli 13 maggio 1991; Trib. Roma 25 gennaio 1965). La recente Cass. VI-2, n. 18635/2021ha in proposito peraltro chiarito che nel calcolo del termine di "almeno cinque giorni prima", stabilito dall'art. 66, trattandosi di giorni "non liberi" (stante l'eccezionalità dei termini cd. "liberi" - che escludono dal computo i giorni iniziale e finale - limitati ai soli casi espressamente previsti dalla legge) e da calcolare a ritroso, non va conteggiato il dies ad quem (e, cioè, quello di svolgimento della riunione medesima), che assume il valore di capo o punto fermo iniziale, mentre va incluso il dies a quo (coincidente con la data di ricevimento dell'avviso), quale capo o punto fermo finale, secondo la regola generale fisata negli artt. 155, comma 1, c.p.c. e 2963 c.c. Trattandosi di un atto unilaterale recettizio, ai fini della prova (gravante sul condominio. Cfr. Cass. VI-2, n. 18635/2021, cit.) della decorrenza del termine dilatorio di cinque giorni antecedenti l'adunanza di prima convocazione, condizionante la validità delle deliberazioni, è sufficiente e necessario che il condominio dimostri la data in cui esso è pervenuto all'indirizzo del destinatario, ex art. 1335 c.c.: vige rispetto a tale termine, cioè, il principio della (tempestiva) ricezione da parte del destinatario dell'avviso medesimo, per cui l'avviso di convocazione va non solo, inviato, ma anche ricevuto nel termine di almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza, avendo riguardo – come detto supra - alla riunione dell'assemblea in prima convocazione (Cass. II, n. 24041/2020). Né tale previsione legale potrebbe essere validamente derogata da una diversa disposizione del regolamento, atta ad imporre, ad esempio, l'opposto principio della spedizione. È stato a tale proposito recentemente chiarito in giurisprudenza che, in applicazione della regola di cui all'art. 1335 c.c., ove l'avviso di convocazione sia stato inviato a mezzo lettera raccomandata e questa non sia consegnata per l'assenza del destinatario, la data di «consegna» al destinatario coincide con quella di rilascio dell'avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale, in quanto idoneo a consentirne il ritiro (Cass. II, n. 20535/2025; Cass. II, n. 23396/2017; Cass. II, n. 22311/2016). Inoltre è stata ritenuta valida una clausola regolamentare che, ai fini dell'inoltro dell'avviso di convocazione, consideri i condomini domiciliati presso lo stabile condominiale (Cass. II, n. 1869/1968). Sicché, ricapitolando quanto precede, il regolamento può derogare – ampliandolo – al termine dei cinque giorni anteriori allo svolgimento della prima adunanza ed eventualmente fissare un luogo convenzionale ove inoltrare l'avviso. L'art. 66 disp. att. c.c. va coordinato, rispetto a quanto precede, con le altre disposizioni che, nel codice civile come nelle relative disposizioni di attuazione, si occupano della materia della convocazione dell'assemblea, tra cui, ad esempio, l'art. 1117-ter c.c. il quale detta, ai commi 2 e 3, una normativa di dettaglio specifica, per la convocazione dell'assemblea volta all'assunzione di deliberazioni atte a modificare la destinazione d'uso di beni comuni, derogatoria essa stessa delle regole generali appena illustrate in tale evenienza, infatti, la convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione e la convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. La disposizione prevede, dunque, oltre ad un doppio quorum – costitutivo e deliberativo – particolarmente elevato (i 4/5 dei partecipanti al condominio, che rappresentino i 4/5 del valore dell'edificio – e, quindi, 800/1000 a fronte dei 666,6/1000 richiesti per le innovazioni c.d. ordinarie) fissato dal comma 1, prevede un particolare meccanismo di convocazione dell'assemblea, che si sviluppa attraverso una doppia convocazione, una eseguita con raccomandata comunicata almeno 20 giorni prima della seduta – e non già 5, come previsto dall'art. 66 disp. att. c.c. – e, l'altra, mediante affissione dell'avviso nei locali di maggior uso comune per non meno di 30 giorni. Va da sé che, vivendo della medesima natura dell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., neppure tali – per quanto peculiari – previsioni potrebbero essere intaccate dal regolamento di condominio, quand'anche di natura contrattuale, se non in melius, nei termini innanzi precisati (si pensi, ad esempio, ad un aumento del termine di 20 giorni, analogamente rispetto a quanto si ritiene ammissibile avuto riguardo al termine di cinque giorni per la convocazione «ordinaria»). In merito, poi, alle modalità con cui eseguire la convocazione, il novellato comma 3 dispone che l'avviso, che deve contenere specifica indicazione dell'ordine del giorno, vada comunicato «agli aventi diritto» (arg. dal secondo periodo del medesimo comma 3) a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mani, e deve contenere l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione. In proposito, va anzitutto osservato come, il mancato riferimento alla categoria dei «condomini» (presente nella precedente formulazione dell'art. 66) in favore della più generica, ma certamente più estesa, categoria degli «aventi diritto», quali destinatari dell'avviso di convocazione, trova la propria giustificazione nella circostanza che la partecipazione all'assemblea può concernere soggetti diversi, non necessariamente titolari del diritto di proprietà esclusiva (ovvero di comproprietà) sulle unità immobiliari site nel condominio: si pensi, ad esempio, al caso dell'usufruttuario o dell'habitator (cfr. infra, sub art. 67, comma 1, disp. att. c.c.) ovvero, ancora, del conduttore (nei casi previsti dall'art. 10, comma 1, della l. 27 luglio 1978, n. 392). In tal senso, la previsione è ora coordinata con l'art. 1136, comma 6, c.c., per cui «l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati». Sicché sarebbe certamente invalida una previsione regolamentare che limiti ovvero escluda la necessità di convocare alcune delle categorie di aventi diritto (alla partecipazione ed al voto) per tipologia di deliberazione, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti. Esula da questo conteso il caso, affrontato da Cass. II, n. 3192/2023, di assemblea convocata per approvare il promovimento o la prosecuzione di una controversia giudiziaria tra il condominio ed un condomino: ritiene la Corte, infatti, che in siffatta ipotesi, lungi dal ricorrere un caso di conflitto di interessi (che si manifesta soltanto in sede di assemblea al momento dell'esercizio del potere deliberativo e che verte sul contrasto tra l'interesse proprio del partecipante al voto collegiale e quello comune all'intera collettività e perciò anche a lui stesso), in realtà la compagine condominiale, di fronte al particolare oggetto della lite, si scinde in base ai contrapposti interessi, per dare vita a due gruppi di partecipanti al condominio in contrasto tra loro, nulla significando che nel giudizio il gruppo dei condomini, costituenti la maggioranza, sia rappresentato dall'amministratore (non dissimilmente, d'altronde, da quanto avviene nel caso di condominio parziale), con conseguente insussistenza del diritto del singolo a partecipare all'assemblea (e correlata assenza di sua legittimazione a domandare l'annullamento della delibera per omessa, tardiva o incompleta convocazione, allorché sia portatore unicamente di un interesse contrario a quello rimesso alla gestione collegiale). Ugualmente, non può ritenersi valida una clausola del regolamento che espunga dal contenuto dell'avviso di convocazione gli argomenti posti all'ordine del giorno (giacché l'obbligo di preventiva informazione dei condomini circa il contenuto della futura discussione non rappresenta un adempimento di ordine formale, ma risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l'oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentirgli di partecipare con cognizione di causa alla relativa deliberazione: Cass. II, n. 21449/2010; Cass. II, n. 21298/2007) o che imponga di celare data ed ora di svolgimento della convocanda riunione assembleare. Non si prospetta, invece, alcun obbligo dell'amministratore di condominio di allegare all'avviso di convocazione anche i documenti (o bilanci) da approvare, non essendo pregiudicato il diritto alla preventiva informazione sui temi in discussione, restando in ogni caso in capo a ciascun condomino la facoltà di richiedere copie dei documenti oggetto dell'eventuale approvazione in anticipo e senza interferire sull'attività del condominio (Cass. II, n. 21271/2020): con la conseguenza che ne discende per cui, ove tale richiesta non sia avanzata, il singolo non può, poi, invocare l'illegittimità della delibera di approvazione a causa dell'omessa allegazione dei documenti contabili all'avviso di convocazione dell'assemblea, potendo impugnarla per motivi relativi solo alle modalità di approvazione e al contenuto delle decisioni adottate. Non si ravvisano, al contrario, ragioni ostative a che una clausola del regolamento specificamente disponga, a carico dell'amministratore e ad ulteriore tutela del diritto dei condomini a partecipare informati, l'obbligo di allegare alla convocazione anche la documentazione sulla quale l'assemblea sarà chiamata a deliberare. È invece discusso se il regolamento possa contemplare l'adozione di forme diverse da quelle indicate nell'art. 66, comma 3 disp. att. c.c. per l'effettuazione di una valida convocazione. Tale precisa elencazione, infatti, ha ingenerato dubbi interpretativi circa la persistente validità dell'orientamento giurisprudenziale alla cui stregua la comunicazione può essere data in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo e per il quale la disposizione di legge in commento è da ritenersi osservata quando risulta che i condomini abbiano, in qualunque modo, avuto conoscenza della convocazione (Trib. Como 21 maggio 2012): ed infatti, in applicazione del principio generale, vigente nel nostro ordinamento, di libertà della forma – salvo i casi di forma scritta richiesta convenzionalmente ovvero ex lege – la giurisprudenza di legittimità traeva la conseguenza che, non avendo il legislatore nulla detto in proposito nell'art. 1136 c.c. né, tantomeno, nell'art. 66 disp. att. c.c., l'avviso dovesse considerarsi svincolato da qualsiasi forma, essendo sufficiente che il condomino venisse comunque a conoscenza della convocazione (Vidiri, 1071). Nel passato si era, pertanto, ritenuto che l'avviso di convocazione potesse essere dato attraverso una lettera affissa nell'atrio dello stabile (Cass. II, n. 140/1985), in forma orale (Cass. II, n. 10611/1990), mediante pubblici proclami – in caso di elevato numero di condomini (Cass. II, 1375/1968) – ovvero, ancora, a mezzo comunicazione telefonica (Trib. Milano 25 gennaio 1993). Addirittura, si era ritenuto (Cass. II, n. 8449/2008) che, qualora fosse stata accertata l'esistenza di una prassi in base alla quale l'avviso di convocazione di assemblea condominiale, destinato ad uno dei condomini non abitanti nell'edificio condominiale, era oggetto di consegna ad altro condomino, congiunto del destinatario effettivo, tale prassi non poteva ritenersi illegittima, con l'ulteriore conseguenza che ne era fatta discendere per cui, l'avvenuta consegna dell'avviso di convocazione al congiunto, doveva ritenersi regolare essendo l'atto – recapitato in tal guisa e pervenuto nella sfera di normale ed abituale conoscibilità del destinatario – idoneo a creare nello stesso una situazione giuridica di oggettiva conoscibilità con l'uso della normale diligenza, sua e del consegnatario designato, conforme alla clausola generale di buona fede, che regola i rapporti giuridici intersoggettivi ed impedisce, rendendolo illegittimo ed immeritevole di tutela, ogni abuso di diritto. In senso contrario rispetto all'applicazione di tale principio anche post Riforma si è però osservato (Trib. Genova 23 ottobre 2014) che, se prima della novella effettivamente vigeva il principio di libertà delle forme (per cui l'unico criterio concretamente applicabile era quello che garantisse il raggiungimento dello scopo), ai sensi del nuovo disposto dell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. l'amministratore del condominio deve necessariamente utilizzare le forme scritte imposte dalla norma (con la conseguenza, ad esempio, che, in caso di comunicazione effettuata dall'amministratore mediante posta elettronica certificata, la stessa può ritenersi validamente effettuata solamente se entrambi gli utenti – mittente e destinatario – siano titolari di PEC). Analogamente in dottrina (Costabile, 627; Scarpa 2013, 694) è stato osservato che, con la modifica apportata all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. dalla l. 11 dicembre 2012, n. 220, il legislatore ha inteso disattendere l'orientamento della giurisprudenza consolidatasi nel previgente regime, per cui l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale era, come detto, sottratto a formalità di qualsivoglia genere (salvo che queste non fossero previste dal regolamento di condominio), ritenendo al contrario possibile la convocazione in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo, purché risultasse – con onere della relativa prova a carico del condominio – che erano state fornite al condomino informazioni sufficienti a renderlo edotto dell'assemblea ed a metterlo in condizione di parteciparvi. La soluzione (forma scritta) prescelta (recte, imposta) dal legislatore riformatore avrebbe tra l'altro il pregio di consentire al condominio di provare più agevolmente l'avvenuto e tempestivo invio dell'avviso e, contestualmente, di informare adeguatamente i partecipanti delle materie poste all'ordine del giorno. Una soluzione mediana è, invece, quella proposta da App. Brescia, 3 gennaio 2019, alla cui stregua, se è corretto ritenere che, in materia di convocazione dell'assemblea, unico strumento equipollente alla raccomandata sia la comunicazione PEC - posto che solo con tale modalità perviene al notificante un messaggio di accettazione e consegna dell'avviso - cionondimeno, qualora sia lo stesso condomino ad aver richiesto la comunicazione della convocazione avverso un mezzo "informale", quale la e-mail, ne dovrebbe conseguire la conclusione per cui l'invio della mail "semplice", rispettando le forme indicate dal condomino medesimo, dovrebbe ritenersi valida modalità di convocazione dello stesso. La tesi della inapplicabilità, post Riforma del 2012, dei principi sviluppati anteriormente ad essa e fondati sul raggiungimento dello scopo ha trovato il recente conforto, anzitutto, di Cass. II, n. 10866/2018, la quale si è così espressa in motivazione: «appare opportuno osservare che ratione temporis la fattispecie in esame va riferita alla normativa precedente alla l. n. 220/2012, (riforma del condominio) e cioè all'art. 1136 c.c., nella sua versione precedente alla riforma del condominio, e, comunque, ai principi espressi da questa Corte in materia. Incidentalmente va detto che a norma dell'art. 66 disp. att. c.c., comma 3, così come modificato dalla l. n. 220/2012 (la così detta riforma del condominio) l'avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell'ordine del giorno, deve essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione». Affermazione ora sviscerata da Cass. II, n. 16399/2025che, a proposito dell'avviso di convocazione inoltrato a mezzo posta elettronica semplice, ha negato la validità di tale prassi, osservando che “l'art. 66, terzo comma, disp. att. c.c., dopo le modifiche operate dalla legge n. 220 del 2012, stabilisce per l'esecuzione della preventiva convocazione di tutti i condomini di un edificio alla adunanza assembleare (quale requisito essenziale per la validità di qualsiasi deliberazione in essa presa) forme determinate (posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano). L'assemblea non può, allora, validamente deliberare, né l'amministratore può comunque disporre, che gli avvisi di convocazione delle future riunioni siano inoltrati mediante messaggio di posta elettronica ordinaria”. La ragione di tale conclusione (ostativa all'applicazione dei principi della libertà delle forme e del raggiungimento dello scopo) va ravvisata – secondo quanto si legge in motivazione - nella considerazione che la comunicazione ai condomini dell'avviso di convocazione dell'assemblea è atto recettizio e solo la posta elettronica certificata (e non la e-mail), consentendo di ritenere la stessa giunta all'indirizzo del destinatario nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, determina una presunzione di conoscenza dell'atto analoga a quella prevista, per le dichiarazioni negoziali, dall'art. 1335 c.c., mentre il messaggio di posta elettronica semplice non consente di ritenere in alcun modo comprovata la consegna della mail all'indirizzo del destinatario, giacché “con l'invio a casella email ordinaria vengono a mancare tutti quei sistemi di corredo della certezza della comunicazione che consentono, pur se la mail non sia in concreto letta, di averne per verificati gli effetti legali per il solo fatto che essa sia pervenuta presso l'indirizzo di posta certificata del destinatario [sicché] la ricevuta di avvenuta consegna, propria solo della regolare notifica a mezzo Pec, non [è] sostituibile, con validi effetti legali, da eventuali forme meno rigorose di analoga documentazione della posta mail ordinaria” (Cass. n. 35922/2023 e Cass. n. 15345/2023). È tuttavia noto – cfr. supra – che l'inderogabilità delle previsioni indicate nell'art. 72 disp. att. c.c. deve intendersi come relativa mai in melius, allorché – cioè – la deroga assicuri una tutela uguale o maggiore a quella prevista dalla norma incisa dalla previsione regolamentare. È poiché (prosegue Cass. II, n. 16399/2025) l'art. 66, comma 3 in esame detta una disciplina inderogabile, stabilita a tutela delle regole della collegialità e, dunque, degli interessi fondamentali del condominio, che devono essere soddisfatti uniformemente per tutti i partecipanti, il regolamento condominiale può comunque stabilire forme di comunicazione alternative a quelle indicate nella richiamata disposizione, sempre che esse, tuttavia, prescelgano un valido sistema convenzionale di presunzione di conoscenza degli avvisi diretti agli aventi diritto, con esclusione, quindi, della validità di ogni diversa regolamentazione espressa dall'autonomia privata che contempli modalità alternative di trasmissione dell'avviso inidonee a documentarne la consegna all'indirizzo del destinatario. Quanto precede consente di risolvere, in senso negativo, la questione circa la possibilità, pure ammessa da taluna dottrina, di potere procedere alla convocazione assembleare mediante pubblicazione del relativo avviso sul sito internet del condominio, attivato dall'amministratore a seguito di deliberazione assunta con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., dall'assemblea dei condomini, secondo quanto previsto dall'art. 71-ter disp. att. c.c. Si ritiene, infatti, possibile una convocazione in simili modi, osservandosi come ciò consentirebbe, tra l'altro, un notevole risparmio in termini di tempo, di spese, oltre alla rapidità della diffusione della notizia (Cuffaro-Padovini, 593). Sennonché la stessa dottrina che tale soluzione avalla, a tale conclusione addiviene dando per scontata la persistente applicabilità del principio di libertà delle forme che dovrebbe presiedere alla convocazione dell'assemblea (a tal fine richiamando Cass. II, n. 875/1999 ed osservando che, in base al principio della libertà delle forme, la comunicazione potrebbe avvenire anche oralmente, salvo che il regolamento non prescriva particolari modalità di notifica dell'avviso). Sennonché il superamento – per quanto si è detto – di tale impostazione porta con sé la non predicabilità di tale soluzione, con conseguente nullità di una clausola regolamentare che pure la contemplasse. In ordine, infine, al terzo contenuto del comma in esame, ugualmente indisponibili, ad opera del regolamento, sono le previsioni concernenti il regime giuridico delle delibere assunte in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione, come la legittimazione alla relativa impugnazione (trattandosi di regimi legali di invalidità e legittimazione processuale). In merito al primo profilo, la novella non ha fatto altro che recepire il dictum di Cass. S.U., n. 4890/2005, che, aveva ritenuto la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale causa non già di nullità quanto, piuttosto, di annullabilità delle delibere dell'assemblea condominiale. Il percorso ermeneutico seguito, all'epoca, dalle Sezioni Unite fu estremamente chiaro: partendo dalla constatazione che il codice civile all'art. 1137, commi 2 e 3, c.c. discorreva (e discorre tuttora) esclusivamente di annullabilità e che l'individuazione della categoria della nullità ha rappresentato il frutto dell'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale (attraverso l'applicazione analogica, alla materia del condominio, delle categorie proprie del diritto societario), l'essenza di tale ultima forma di patologia va ricercata nella «mancanza o nella grave anomalia di qualche elemento intrinseco dell'atto, tale da non consentire la rispondenza [dello stesso] alla figura tipica individuata dall'ordinamento». La nullità, cioè, è lo strumento con cui la legge nega fondamento a quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali si realizza un contrasto con lo schema legale e con gli interessi generali dell'ordinamento: e poiché, come detto, non si rinviene negli artt. 1117 ss. c.c. una specifica previsione normativa che contempli espressamente i vizi che danno luogo alla patologia in esame, «sembra logico – proseguivano le Sezioni Unite – doversi ammettere la nullità soltanto nei casi più gravi». Quali siano, poi, questi casi, è stato stabilito dal Supremo consesso sulla base di una considerazione estremamente chiara e consequenziale rispetto alla premessa di cui si è dato conto:«nell'ambito del condominio negli edifici – si legge nella pronuncia in commento – acquista rilevanza la distinzione tra momento costitutivo e momento di gestione. Invero, l'espressione «condominio negli edifici» designa tanto il diritto individuale sulle cose, gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, quanto l'organizzazione degli stessi proprietari, cui è affidata la gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel momento costitutivo, che riflette l'insorgenza del diritto individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio, con conseguente rilevanza della volontà individuale di ogni singolo partecipante, onde il principio è quello dell'autonomia, che si avvale dello strumento negoziale, certamente sono più gravi di quelli verificabili nel momento di gestione, che riguarda l'organizzazione del condominio per quanto attiene le sole cose comuni, dove vige il metodo collegiale e il principio maggioritario, che comportano la subordinazione della volontà dei singoli al volere dei più». Sicché sono state ricondotte alla categoria della nullità le delibere prive degli elementi essenziali, quelle con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume) o con oggetto esorbitante dalle competenza dell'assemblea (quali quelle che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini), nonché le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto; devono, invece, qualificarsi annullabili (ed in tal senso il legislatore della novella ha confermato l'autorevole dicutm di cui si è appena dato conto) le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale ovvero affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle affette da irregolarità nel procedimento di convocazione e, ancora, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. Ha successivamente costantemente seguito tale impostazione la giurisprudenza, di legittimità (ex multis, la recente Cass. II, n. 28763/2017) come di merito (Trib. Palermo 25 gennaio 2017; Trib. Pisa 5 gennaio 2018): una recente conferma di tale conclusione (con estensione ulteriore delle ipotesi di annullabilità) proviene, infine, da Cass. S.U., n. 9839/2021 e da Cass. II, n. 40827/2021, la quale osserva che la preventiva convocazione degli aventi diritto a parteciparvi integra un'incombenza, di regola, gravante sull'amministratore, nonché un requisito di validità di ogni deliberazione, spettando poi all'assemblea e, per essa, al suo presidente, il compito di controllare, sulla base dell'elenco di detti aventi diritto eventualmente stilato dall'amministratore, la regolarità degli avvisi di convocazione, nonché darne conto nel verbale della riunione, trattandosi di una delle prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale, la cui inosservanza importa l'impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge. Deroga, tuttavia, alla «coerenza» del sistema così ricostruito la previsione contenuta all'art. 1117-ter, comma 3, c.c. laddove espressamente commina la sanzione (non già dell'annullabilità quanto, piuttosto) della nullità per la delibera avente ad oggetto il mutamento di destinazione delle parti comuni, ove preceduta da una convocazione che sia priva dell'indicazione delle parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. Quanto, poi, all'ulteriore questione (direttamente discendente dalla prima e, più precisamente, dalla qualificazione, in termini annullabilità, della patologia da cui è affetta la delibera adottata da un'assemblea alla quale non risultino convocati tutti gli aventi diritto), concernente la legittimazione del condomino, regolarmente convocato, ad impugnare la delibera assembleare per l'esistenza di vizi relativi alla convocazione afferente altri condomini – che pure in passato aveva creato un contrasto interpretativo (sulla sussistenza di tale legittimazione, Trib. Bari 17 novembre 2015, Trib. Firenze 24 marzo 2014. Contra, invece, Trib. Como 21 maggio 2012;Trib. Salerno 9 febbraio 2010; Trib. Roma 22 luglio 2009) - essa, alla luce della nuova formulazione dell'ultimo periodo del comma 3, deve ritenersi definitivamente risolta a favore dell'opzione che esclude tale possibilità, trattandosi di vizio che inerisce all'altrui sfera giuridica (Trib. Bari 5 luglio 2016). D'altronde, già nel passato era stata esclusa, per carenza di interesse, la legittimazione ad impugnare la delibera condominiale da parte del condomino assente, che avesse fatto valere, quale vizio di annullabilità, la mancanza dell'avviso di convocazione dell'assemblea relativamente ad altro condomino (Cass. II, n. 23903/2016; Cass. II, n. 9082/2014; Cass. II, n. 10338/2014): e, costituendo l'omessa convocazione di un condomino motivo di annullamento, e non di nullità, delle deliberazioni assunte dall'assemblea, il secondo periodo del comma 3 in esame rappresenta, tutto sommato, una coerente applicazione, in materia condominiale, dell'art. 1441 c.c., secondo il quale l'annullamento può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse esso è stabilito dalla legge (Cass. II, n. 8520/2017). Nel medesimo sensoCass. II, n. 6735/2020 (nonché, ancor più recentemente, Cass. II, n. 10071/2020) ha precisato che, poiché la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta l'annullabilità della delibera condominiale, ne consegue che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetta, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso, sul quale grava, peraltro, l'onere di dedurre e provare, in caso di contestazione, i fatti dai quali l'omessa comunicazione risulti. Il principio ha trovato recente applicazione anche in materia di supercondominio, con particolare riferimento al caso di assemblea dei rappresentanti dei condomìni: Cass. II, n. 8254/2025ha infatti osservato che la decisione assunta dall'assemblea dei rappresentanti dei condominii, ai sensi dell'art. 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c., può essere impugnata da ogni condomino, se il rappresentante sia stato assente, dissenziente o astenuto, poiché la sua nomina è obbligatoria con riferimento all'esercizio dei diritti amministrativi in materia di gestione ordinaria delle parti comuni e alla nomina dell'amministratore, mediante manifestazione di voto della volontà unitaria formatasi nel rispettivo condominio, e non anche all'esercizio della tutela processuale mentre, ove il rappresentante abbia contribuito, con il suo voto favorevole, all'approvazione della decisione assunta dall'assemblea, contravvenendo alla volontà della compagine rappresentata, la tutela dei rispettivi condomini, attenendo a un vizio della delega o a una carenza del potere di rappresentanza, trova attuazione secondo le regole generali sul mandato. Una impostazione diversa, rispetto alla legittimazione relativa all'impugnazione nel caso di mancata convocazione si rinviene, nella giurisprudenza di merito anteriore alla novella del 2012, in Trib. Torre Annunziata 30 gennaio 2009, nella cui motivazione si legge che «le delibere assembleari rientrano nella categoria degli atti c.d. collettivi, risultanti, cioè, da una pluralità di atti di volizione, di eguale contenuto e provenienti da più persone che si muovono parallelamente per formare una manifestazione unitaria verso l'esterno. In particolare – come insegna nota dottrina che il divieto posto dall'art. 118 disp. att. c.p.c. impedisce di citare – «nell'atto collettivo la fusione delle volontà avviene in modo completo solo verso l'esterno, mentre all'interno della parte esse si mantengono distinte e tutelano l'interesse particolare di chi le ha emesse; ciascuno condomino agisce singolarmente come portatore di un proprio interesse». In ciò, peraltro, l'atto collettivo diverge dall'atto c.d. complesso, posto che in tal caso più dichiarazioni di volontà distinte si dirigono verso la tutela di un solo interesse, fondendosi con reciproca compenetrazione. Orbene, tanto osservato e premesso, ritiene questo Giudicante che non appare seriamente dubitabile che il singolo condomino – il quale, come detto, pur portatore di un proprio interesse individuale ed eventualmente anche opposto ed in contrasto rispetto alla residua compagine condominiale, ciononostante all'esterno rimane vincolato dalle decisioni assunte dalla maggioranza (cfr. art. 1137, comma 1, c.c.) – possa fare autonomamente valere, in sede giudiziaria, vizi che, anche se relativi agli altri membri della compagine condominiale, possono tuttavia avere inciso sulla corretta formazione di una volontà che all'esterno appare comunque unitaria: in sostanza, a parere del Tribunale, la sovrapposizione di due piani – interno ed esterno – abilita il singolo condomino a fare valere (sempre che, ovviamente, ne ricorrano gli estremi) sia i vizi che concernono la propria specifica posizione, sia quelli che riguardano gli altri compartecipi, laddove tali vizi sono in grado di incidere sulla valida formazione della volontà dell'organo assembleare. Conclusione, quest'ultima, che appare vieppiù confermata esaminando il combinato disposto degli artt. 67, comma 1, disp. att. c.c. e 1393 c.c. È noto, infatti, che il singolo condomino possa partecipare alle assemblee sia personalmente, sia a mezzo di rappresentante (cfr. art. 67, comma 1, disp. att. c.c.); sennonché, in applicazione del principio generale posto dall'art. 1393 c.c., il terzo che venga in contatto con il rappresentante può sempre chiedere a quest'ultimo di giustificare i propri poteri, finanche chiedendo il rilascio di una copia dell'atto dal quale risulti la rappresentanza, ove il conferimento dei relativi poteri risulti da atto scritto. Orbene, aderendo alla tesi contraria rispetto a quella fatta propria da questo Giudicante, si dovrebbe finire per concludere che gli altri condomini (i quali rivestono certamente la qualità di terzi rispetto al rapporto tra «delegante» e «delegato» ex art. 67, comma 1, disp. att. c.c.) o non avrebbero diritto di richiedere la giustificazione dei poteri rappresentativi (così dando luogo ad una inaccettabile limitazione dell'applicazione della richiamata disposizione) oppure in ogni caso non vi avrebbero comunque interesse, essendo costretti a «subire» la presenza in assemblea del «rappresentante» e non potendo in alcun modo fare valere gli eventuali vizi sottesi al conferimento della rappresentanza, quand'anche macroscopici (es.: regolamento di condominio che imponga la forma scritta per il conferimento della delega e mancanza del documentum). Strada, questa, che appare decisamente non percorribile, se sol si considera la conseguenza paradossale cui la stessa porta: nel senso che un soggetto eventualmente non legittimato concorrerebbe alla formazione della volontà che all'esterno tutti vincola, senza che gli altri compartecipi possano eccepire alcunché. Che poi l'omessa convocazione di un condominio rappresenti valido motivo per denunziare la non corretta formazione della volontà assembleare è circostanza che appare perfino superfluo evidenziare: l'invito di cui si fa menzione all'interno dell'art. 1136, comma 6, c.c., infatti, è connesso ad all'esigenza di preventiva informazione dei condomini circa il contenuto degli argomenti posti in discussione; esso, dunque, non rappresenta un adempimento di ordine formale, ma risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l'oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentirgli di partecipare con cognizione di causa alla relativa deliberazione (cfr. Cass. II, n. 21298/2007; Cass. II, n. 63/2006; Cass. II, n. 1456/2004;Cass. II, n. 13763/2004; Cass. II, n. 3634/2000)». Tale legittimazione dovrebbe invece essere assoluta per il caso, già segnalato in precedenza, disciplinato dall'art. 1117- ter, comma 3, c.c., ricondotto expressis verbis dal legislatore ad un'ipotesi di nullità. Sennonché non può omettersi di osservare come, secondo taluni autori, quando si tratti di nullità che coinvolga soltanto taluni condomini – come avviene, ad esempio, nel caso di deliberazioni, come quella eventualmente assunta ex art. 1117-ter, ultimo comma c.c., che limitino le facoltà ed i diritti solo di taluni – si dovrebbe riconoscere una legittimazione relativa alla proposizione della relativa impugnazione esclusivamente a favore di costoro verificandosi, pur nel rispetto dell'imprescrittibilità dell'azione (cfr. infra), un'ipotesi di nullità relativa. Proprio a tale ultimo riguardo, le due ipotesi dovrebbero inoltre divergere tra loro anche in ordine al decorso termine di impugnazione della delibera viziata per motivi afferenti alla convocazione: ed infatti, mentre l'art. 1137, comma 3, c.c., fissa un termine di decadenza per la proposizione dell'impugnazione in ipotesi di delibera – quale quella assunta in violazione dell'art. 66 disp. att. c.c. – annullabile (stabilendo che la stessa debba essere avanzata entro 30 giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti, e dalla data di comunicazione del relativo processo verbale, per gli assenti), l'azione di nullità – quale quella esperibile in relazione alla violazione del'art. 1117-ter c.c. – è imprescrittibile, secondo quanto disposto dall'art. 1421 c.c. (peraltro, ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione delle delibere assembleari, in capo al condomino assente non può essere posto il dovere di attivarsi per conoscere le decisioni adottate dall'assemblea ove difetti la prova dell'avvenuto recapito, al suo indirizzo, del verbale che le contenga, giacché soltanto in forza di detto recapito sorge la presunzione, iuris tantum, di conoscenza posta dall'art. 1335 c.c. e non già dal mancato esercizio, da parte dello stesso destinatario del verbale assembleare, della diligenza nel seguire l'andamento della gestione comune e nel documentarsi su di essa (Cass., II, n. 29386/2011). Per mera completezza va infine evidenziato come sia nulla la clausola del regolamento di condominio che stabilisce un termine di decadenza di quindici giorni per chiedere all'autorità giudiziaria l'annullamento delle delibere dell'assemblea, atteso che l'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. vieta che con norme regolamentari siano modificate le disposizioni relative alle impugnazioni delle deliberazioni condominiali di cui all'art. 1137 c.c. (Cass. VI-2, n. 19714/2020; Cass. II, n. 1082/1964). Non sembrano, poi, derogabili dal regolamento neppure i nuovi commi 4 e 5 dell'art. 66, volti a regolare la tempistica di svolgimento dell'assemblea di seconda convocazione, nonché la convocazione, con unico avviso, di plurime riunioni. In proposito, la previsione va coordinata con l'art. 1136, comma 3, prima parte, c.c., per cui se l'assemblea non può deliberare in prima convocazione per mancanza di numero, l'assemblea di seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima. Il che implica, rientrando anche l'art. 1136 c.c. nel catalogo delle norme inderogabili dal regolamento, ex art. 1138 c.c., che dal combinato disposto degli artt. 72 e 66, commi 4 e 5, disp. att. c.c., nonché 1136, comma 3 e 1138 c.c., il regolamento non può contemplare modalità di fissazione delle adunanze di prima e seconda convocazione secondo tempistiche diverse da quelle imposte ex lege. Con riferimento alla possibilità di fissazione, con unico avviso, di plurime riunioni, si tratta del recepimento di un risalente orientamento giurisprudenziale che facultava l'amministratore, ove non diversamente previsto dal regolamento condominiale, alla fissazione di più riunioni consecutive, provvedendo alla convocazione delle relative assemblee con un unico avviso (Cass. II, n. 4846/1988). Non esistono, peraltro, limiti di orario alla convocazione di un'assemblea condominiale; ed infatti, la fissazione dell'assemblea in ora notturna non può ritenersi astrattamente completamente preclusiva della possibilità di parteciparvi (Cass. II, n. 697/2000). Rispetto, invece, al termine minimo intercorrente tra prima e seconda convocazione, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato la norma non già nel senso che tra l'una e l'altra debbano trascorrere ventiquattro ore, ma nel senso che la seconda assemblea deve essere tenuta, come minimo, nel giorno successivo (Cass. II, n. 22685/2014; Cass. II, n. 196/1970). Segue. La legittimazione a ricevere l'avviso di convocazione dell'assemblea in casi particolari Esistono casi peculiari di soggetti legittimati alla partecipazione all'assemblea e, dunque, da includere tra i destinatari del relativo avviso di convocazione. Anzitutto, in caso di unità immobiliare in comproprietà tra più soggetti, nel silenzio del legislatore deve concludersi nel senso che l'avviso debba esser comunicato, a pena di invalidità, a tutti i comproprietari pro indiviso, pur essendo la partecipazione all'assemblea limitata ad uno solo di essi – ovvero ad un rappresentante della comunione – designato ai sensi dell'art. 1106 c.c. (cfr. art. 67, comma 2, disp. att. c.c.). Anteriormente alla Riforma del 2012, in assenza di particolari formalità richieste per tale comunicazione, la conoscenza dell'avviso da parte di tutti i comproprietari poteva essere presunta (Cass. II, n. 1830/2000; Cass. II, n. 7630/1990). Così, ad esempio, trattandosi di coniugi comproprietari di un appartamento, conviventi in pieno accordo e senza contrasto di interessi tra loro, è stato ritenuto presumibile che l'invito notificato ad uno di essi per l'assemblea condominiale fosse stato portato a conoscenza anche dell'altro (Cass. II, n. 1206/1996; Cass. II, n. 3231/1984; Trib. Roma 4 luglio 1990). Nello stesso senso la giurisprudenza di merito (Trib. Milano 11 novembre 2005 ha considerato sufficiente la consegna dell'avviso ad uno dei comproprietari, dovendosi ritenere in via presuntiva che questi abbia reso edotti anche gli altri della convocazione) pur non mancando, tuttavia posizioni distoniche: così, ad esempio, Trib. Genova 7 gennaio 2008 ha sostenuto che, poiché l'avviso di convocazione va comunicato ai condomini e tali sono, nel caso di comunione di proprietà di una determinata porzione di piano fra più persone, tutte queste ultime, ne deriva la necessità di rivolgere che la convocazione a tutti i comproprietari. Non era neppure mancata una soluzione mediana, fondata sull'anteriorità della nomina del rappresentante della comunione rispetto all'invio dell'avviso di convocazione, ipotesi nella quale App. Roma, 25 febbraio 1969 aveva ritenuto sufficiente la ricezione dell'avviso da parte del rappresentante designato. La dottrina si era, invece, più marcatamente divisa tra chi riteneva che l'avviso dovesse essere necessariamente inoltrato a tutti i comproprietari (Peretti Griva, 459; Visco 1976, 958) e chi, al contrario, riteneva sufficiente il suo recapito ad uno solo di essi, ritenendo applicabile analogicamente l'art. 2347, comma 2, c.c. (Branca, 550). Una teoria mediana (Dogliotti-Figone, 331) osservava, poi, che, pur volendo ammettere la soluzione da ultimo prospettata, sarebbe comunque rimasto l'obbligo, a carico dell'amministratore, di inoltrare l'avviso di convocazione a tutti i comproprietari, ove uno o più di essi versassero in conflitto di interessi. Sennonché, l'orientamento «largheggiante» fondava (come chiaramente emergente dalle motivazioni di Cass. II, n. 138/1998; Cass. II, n. 2450/1994; Cass. II, n. 12119/1992; Cass. II, n. 10611/1990), sul principio di libertà delle forme che presiedeva alla comunicazione dell'avviso: ne consegue che, nell'attuale regime, come disegnato dal novellato comma 3 dell'art. 66, disp. att. c.c. tale soluzione non pare destinata a trovare ulteriore seguito, dovendo il requisito della forma scritta essere osservato nei confronti di ciascuno dei comproprietari, senza possibilità di deroga regolamentare alcuna. Sicché, in ultima analisi, in ipotesi di unità immobiliare in regime di comunione (ordinaria come legale tra coniugi. Cfr., a tale ultimo riguardo, Cass. II, n. 27772/2023; Cass. II, n. 19435/2021) non solo occorre che l'avviso di convocazione rivesta la forma scritta, ma anche che lo stesso venga inoltrato a tutti i comproprietari, non potendo il regolamento diversamente disciplinare la materia. L'applicazione del principio alla comunione legale tra coniugi ha portato infine la Corte (Cass. II, n. 27772/2023, cit.) a chiarire che, in presenza di unità immobiliari in regime di comunione legale tra coniugi, la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari spetta a ciascun coniuge separatamente, trovando applicazione l'art. 180, comma 1, c.c., secondo cui la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all'amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi, con la conseguenza che, in caso di partecipazione all'assemblea di uno solo dei coniugi, ove vengano deliberati argomenti non inseriti all'ordine del giorno, il coniuge non presente può impugnare la delibera ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. Diversa – ma connessa – questione è quella concernente la spettanza, in tal caso, del diritto di voto. L'aver l'art. 67, comma 2, disp. att. c.c. previsto che i comunisti abbiano diritto ad un solo rappresentante nell'assemblea implica, quale conseguenza inevitabile, che unico possa essere anche il voto esprimibile in assemblea dalla comunione: né potrebbe il regolamento di condominio disporre altrimenti – ad esempio riconoscendo ai comproprietari della singola unità immobiliare un diritto al voto frazionato – essendovi una perfetta sovrapposizione tra l'art. 67, comma 2, disp. att. c.c. e l'art. 1106 c.c. (non a caso richiamato nel comma in questione, laddove la precedente formulazione genericamente prevedeva che i comunisti avessero diritto ad un solo rappresentante nella assemblea, da designarsi ad opera dei comproprietari interessati ovvero, in mancanza, dal presidente mediante sorteggio). Dal principio contenuto nell'art. 67, comma 2, disp. att. c.c., si è pertanto tratta la conclusione che gli eventuali contrasti fra comproprietari in merito agli argomenti posti all'ordine del giorno dell'assemblea condominiale vanno risolti all'interno del gruppo, di modo che la volontà del rappresentante, valga quale espressione irretrattabile della volontà comune per tutti, e, cioè, sia per i proprietari dissenzienti della minoranza, sia per i rimanenti comunisti (Cass. II, n. 590/1980). Fattispecie diversa – per concludere sul punto – è, poi, quella in cui un unico bene di proprietà esclusiva sia stato frazionato in una pluralità di porzioni, poi oggetto di alienazione in favore di soggetti diversi: come osservato in giurisprudenza, infatti, in tal caso la qualità di condomino – e le conseguenti legittimazioni, inclusa quella a partecipare all'assemblea – appartiene a ciascuno dei singoli acquirenti (Trib. Salerno 23 aprile 2010) L'assemblea deve essere preceduta dall'avviso di convocazione anche in ipotesi di condominio minimo, formato, cioè, da due soli condomini. La Suprema Corte, pronunziatasi a tale riguardo anteriormente alle Sezioni Unite del 2006 (Cass. S.U., n. 2046/2006) – le quali hanno ricondotto l'istituto del condominio minimo all'ambito di operatività della disciplina condominiale – ha affermato il summenzionato principio in applicazione dell'art. 1105 c.c. (disposizione che, in tema di comunione ordinaria, contempla una disciplina analoga a quella dell'art. 66 disp. att. c.c.), osservando come tale norma garantisca il diritto di partecipazione di ogni singolo comunista alle vicende inerenti l'amministrazione del bene comune pro indiviso, per cui nessuno dei compartecipi ha per legge il potere di rappresentare gli altri nell'amministrazione della cosa comune, dove al contrario vige il principio del concorso di tutti i comunisti che si attua indiscutibilmente tramite la convocazione dell'assemblea che delibera a maggioranza (anche in presenza di due soli comproprietari). Nessuno, infatti, può essere escluso dagli atti che riguardano la sua cosa e se proprietario di questa sono soltanto due persone, ciascuna di esse deve necessariamente entrare a formare la volontà comune (magari pronunciandosi in modo diverso ovvero non pronunciandosi affatto) in tema di amministrazione del bene in comunione, tant'è che il comma 3 dell'art. 1105 c.c. richiede, per tali deliberazioni, che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati, mediante avviso di convocazione: sicché nell'ipotesi di condominio composto di due soli partecipanti (cd. «piccolo condominio»), le spese necessarie alla conservazione o riparazione della cosa comune devono essere oggetto di regolare delibera, adottata previa rituale convocazione dell'assemblea dei condomini, della quale non costituisce valido equipollente il mero avvertimento o la mera comunicazione all'altro condomino della necessità di procedere a determinati lavori (Cass. II, n. 2000/8876; Cass. II, n. 5298/1998; Cass. II, n. 7126/1991). Attualmente ricondotta la disciplina del condominio minimo al regime condominiale in senso proprio (e, dunque, alle previsioni dell'art. 66 disp. att. c.c.), è da ritenersi affetta da nullità una clausola dell'eventuale regolamento (sempre adottabile anche in caso di piccolo condominio: Cass. II, n. 20071/2017) che escludesse l'obbligatorietà dell'avviso di convocazione ad uno dei due ovvero ad entrambi i proprietari ovvero anche solo per determinate materie. Nonostante il diritto di voto riconosciutogli dall'art. 10 l. n. 392/1978 (riproduttivo dell'art. 6 della l. 22 dicembre 1973, n. 841 ed applicabile anche alla locazione di immobili urbani ad uso diverso da quello abitativo stante il richiamo contenuto nell'art. 41, comma 1, della medesima l. n. 392 cit.), si era ritenuto – salvo alcune voci distoniche – che non avesse diritto a ricevere la comunicazione dello svolgimento dell'assemblea il conduttore, quand'anche nella riunione si discorra del servizio di riscaldamento e di aria condizionata. Si è a lungo sostenuto, infatti, che il disposto dell'art. 66 disp. att. c.c. (nella sua originaria formulazione) non fosse stato innovato dall'art. 10 cit. – pure disciplinante un'ipotesi di sostituzione legale del conduttore al proprietario nelle assemblee convocate per deliberare sulle spese e modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria (Trib. Napoli 22 giugno 1976) – con conseguente estraneità, rispetto al condominio, della persona del conduttore, non solo in merito al pagamento degli oneri, ma anche relativamente alla convocazione assembleare nelle materie contemplate dalla norma speciale (Cass. II, n. 4802/1992), avviso da indirizzare, pertanto, ai soli condomini (App. Genova, 4 maggio 1996). Il rigore di tale principio era tuttavia temperato dalla considerazione della sussistenza, a carico del locatore, di un obbligo di informazione, il cui inadempimento, se da un lato era ritenuto legittimante il rifiuto da parte del conduttore di rimborsare i maggiori oneri conseguenti a delibere adottate in sua assenza per mancata informazione, dall'altro non era idoneo ad incidere sul sinallagma contrattuale, e non poteva quindi essere addotto dal conduttore quale motivo di risoluzione del contratto di locazione, né per sospendere l'adempimento delle proprie obbligazioni, ai sensi dell'art. 1460, comma 1, c.c. (Cass. II, n. 19308/2005). Il diverso orientamento, al contrario, affermava (Trib. Como 18 aprile 1975) la nullità (oggi, alla luce di Cass. S.U., n. 4890/2005 si dovrebbe discorrere, più correttamente, di annullabilità) della delibera condominiale che avesse statuito sulla gestione del servizio di riscaldamento senza la previa convocazione del conduttore, siccome titolare di un diritto soggettivo ad essere tempestivamente convocato all'assemblea in cui si discuta di tale argomento (Trib. Varese 4 luglio 1979): secondo tale impostazione, poi, l'obbligo di dare avviso al conduttore della convocazione della riunione assembleare avrebbe dovuto gravare sul proprietario-locatore (non occorrendo che, rispetto al conduttore sia osservato il termine dilatorio dei cinque giorni contemplato dall'art. 66 disp. att. c.c. – così App. Genova, 22 luglio 1985) salvo che questi, rendendolo edotto dell'esistenza del contratto di locazione e delle generalità del conduttore, non avesse determinato lo spostamento di tale incombenza in capo all'amministratore (Cass. II, n. 4420/1980). Sennonché, a seguito della riformulazione dell'art. 66, comma 3, facendosi ivi riferimento non più al «condomino», ma all'avente diritto quale destinatario dell'avviso, sembra doversi concludere nel senso del superamento del principio predetto, con conseguente necessità – ove si discorra di materie rientranti nell'art. 10 cit. – di convocazione del conduttore, a pena di annullabilità della delibera e di nullità di qualsivoglia contraria previsione regolamentare. La legittimazione del conduttore alla partecipazione all'assemblea (e, dunque, ad ottenere l'avviso di convocazione appare confermata anche dalla giurisprudenza sviluppatasi a proposito dell'art. 1137, comma 2, c.c. (disposizione che, benché espressamente conferisca il potere di adire l'autorità giudiziaria, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ad «ogni condomino assente, dissenziente o astenuto», cionondimeno va interpretata, proprio per effetto del coordinamento con il richiamato comma 3 dell'art. 66 disp. att. c.c., nel senso del riconoscimento di tale legittimazione agli «aventi diritti», con una chiara espansione di portata rispetto al suo tenore letterale). Osserva, ad esempio, Trib. Modena 13 luglio 2016, che il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, oltre che al titolare di diritti reali sulle singole unità immobiliari (pure se locate), anche al conduttore, ma solo nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, mentre ogni altra controversia deve trovare soluzione nel rapporto con il locatore, al di fuori del dibattito assembleare e delle relative impugnazioni; ancor più estremo il ragionamento condotto da Trib. Monza 8 febbraio 2001, che riconosce al conduttore una legittimazione generalizzata al'impugnazione sulla base del contatto sociale che lo legherebbe con il condominio; istituzionale, infine, la posizione assunta da Cass. II, n. 8755/1993 che evidenzia come l'art. 10 l. 27 luglio 1978, n. 392, il quale attribuisce al conduttore il diritto di votare in luogo del proprietario nelle assemblee condominiali aventi ad oggetto l'approvazione delle spese e delle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento di condizionamento d'aria e di intervenire senza diritto di voto sulle delibere relative alla modificazione di servizi comuni, riconosce implicitamente con il rinvio alle disposizioni del codice civile concernenti l'assemblea dei condomini, il diritto dell'inquilino di impugnare le deliberazioni viziate, sempreché abbiano ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria (precisa ulteriormente la Corte, però, che, al di fuori di tali situazioni, l'art. 10 cit. non attribuisce all'inquilino il potere generale di sostituirvi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali sicché deve escludersi la sua legittimazione ad impugnare la deliberazione dell'assemblea condominiale di nomina dell'amministratore e di approvazione del regolamento di condominio e del bilancio preventivo). In sostanza, l'obbligo di convocazione del conduttore sarebbe connaturato al diritto di voto riconosciutogli quantomeno nelle materie di cui all'art. 10 l. n. 392/1978; né, tantomeno, l'identificazione del conduttore sarebbe operazione inesigibile dal'amministratore, posto che grava sullo stesso l'obbligo di curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale – da aggiornare anche motu proprio – contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento e che il novellato art. 13, comma 1,l. n. 431/1998, in tema di locazioni ad uso abitativo (come sostituito dall'art. 1, comma 59, l. 28 dicembre 2015, n. 208 – c.d. Legge di Stabilità 2016) ha espressamente previsto che è fatto carico al locatore di provvedere alla registrazione del contratto nel termine perentorio di trenta giorni, dandone documentata comunicazione, nei successivi sessanta giorni, al conduttore ed all'amministratore del condominio, anche ai fini dell'ottemperanza agli obblighi di tenuta dell'anagrafe condominiale di cui all'art. 1130, n. 6), c.c. Altra ipotesi peculiare è quella in cui si verifichi la morte del condomino: finché gli eredi non manifestano tale qualità, l'amministratore, pure a conoscenza del decesso di un condomino, non è tenuto ad inviare alcun avviso, né al condomino, né agli eredi impersonalmente presso l'ultimo domicilio, non avendo utili elementi di riferimento e non essendo obbligato a fare alcuna particolare ricerca. È questa, invero, la posizione della più recente giurisprudenza di legittimità, maturata all'esito di un ampio dibattito che affonda le proprie radici negli anni '60 del secolo scorso. Secondo un originario orientamento, infatti, ove gli eredi non dovessero rendersi attivi, correttamente l'amministratore indirizza l'avviso di convocazione dell'assemblea «collettivamente ed impersonalmente» agli eredi all'ultimo domicilio del defunto, anche se sia passato l'anno dal decesso, in applicazione analogica dell'art. 303 c.p.c., il quale rivelerebbe l'atteggiamento del legislatore di fronte alla morte del protagonista di un rapporto (Cass. II, n. 1215/1969). In senso contrario si è tuttavia osservato come la regola stabilita dall'art. 303 c.p.c., che prevede come destinatari delle notifiche, dopo il decesso della parte, gli eredi (qualora ignoti) «collettivamente ed impersonalmente» non solo è coordinata al rilievo che i successori nel processo sono soltanto gli eredi (mentre nel condominio il successore può essere anche un legatario) ma, in quanto preordinata alla regolarità della prosecuzione del giudizio del quale era parte il defunto, la previsione in parola costituisce una norma speciale propria del diritto processuale, che non può essere ritenuta applicabile (tra l'altro a pena di nullità) al di fuori del processo. Secondo altro orientamento, dunque, muovendo dalla considerazione che l'amministratore, per effetto della mancata osservanza dell'onere di indicazione e dimostrazione della propria qualità da parte del nuovo condomino, non può indirizzare a lui la comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea e, tuttavia, per rendere valida la costituzione dell'assemblea, deve comunque inoltrare l'avviso a tutti i condomini, risolve l'antinomia ritenendo che l'amministratore adempie al proprio obbligo inviando l'avviso all'ultimo domicilio dove, in base al criterio dell'id quod plerumque accidit, possa verosimilmente essere rinvenuto qualcuno (successore oppure non) in grado di portare l'avviso a conoscenza degli interessati; sicché, sinceratosi della ricezione dell'avviso da parte di persona addetta a quel domicilio, poco importerebbe, poi, che la persona che riceve l'avviso lo faccia poi effettivamente pervenire all'abitazione degli eredi (Cass. II, n. 3798/1978). In senso contrario a tale impostazione è stato, però, osservato che, con l'invio dell'avviso ad un condomino di cui è già certo il decesso, il problema della regolarità della convocazione della assemblea finisce per essere risolto ricorrendo ad una finzione, per di più inutile – con conseguente mancata risoluzione del problema – quando all'ultimo indirizzo del condomino defunto non vi sia chi possa materialmente ricevere l'avviso. Sicché appare meglio adattarsi alla contingenza del caso la terza soluzione – esposta in apertura – che esonera l'amministratore dal convocare eredi del defunto, finché non siano questi a manifestargli la propria qualità (Cass. II, n. 6926/2007), ripresa anche dal recente Trib. La Spezia, 24 marzo 2021, per cui è "onere dell'erede comunicare all'amministratore il decesso del condomino e l'accettazione dell'eredità, con assunzione in capo a sé dei diritti ed obblighi condominiali. Conseguentemente "l'amministratore il quale sia a conoscenza del decesso di un condomino, fino a quando gli eredi non gli manifesteranno la loro qualità, non avendo utili elementi di riferimento e non essendo obbligato a fare alcuna particolare ricerca, non sarà tenuto ad inviare alcun avviso (così Cass. sez. II sent. n. 6926 del 22 marzo 2007). La Corte, con la citata sentenza ha anche precisato che l'obbligo di avvisare tutti i condomini ai fini di una valida costituzione dell'assemblea, alla stregua dell'art. 1136 comma 6 c.c., deve ritenersi adempiuto quando risultino convocati tutti i condomini noti all'amministratore". Né - si opina - potrebbe obiettarsi in senso contrario che, in base all'art. 1136, comma 6, c.c. l'assemblea non può deliberare se non risulta che tutti i condomini sia stati avvisati, in quanto tale norma presuppone, per la sua applicabilità, che i condomini siano noti all'amministratore; né potrebbe fondatamente osservarsi che, a differenza di quanto si verifica nell'ipotesi di alienazione dell'immobile non comunicata, in cui all'amministratore non potrebbe essere rimproverato nulla, per non essere a conoscenza del mutamento di proprietà, nel caso in esame l'amministratore è invece a conoscenza del decesso (perché, se non lo fosse, egli assolverebbe i suoi compiti inviando l'avviso al condomino che ritiene, incolpevolmente, ancora in vita) e, dunque, sarebbe tenuto a ricercare gli eredi: ed infatti, a seguito della notizia della morte di un condomino, l'amministratore viene soltanto a sapere che si è aperta una successione, ma non anche se la stessa è destinata ad essere regolata in base alle norme sulla successione legittima o testamentaria né, tantomeno, chi siano i chiamati nelle due ipotesi o chi abbia effettivamente accettato l'eredità, diventando in tal modo erede e, di conseguenza, legittimato a ricevere la convocazione ed a partecipare alle assemblee condominiali. Peraltro, nessun elemento utile potrebbe essere ricavato dalla denuncia di successione, consultabile presso gli uffici finanziari o ipotecari, essendo questa irrilevante ai fini della accettazione dell'eredità (arg. da Cass. VI-2, n. 11478/2021) né, ancora, sembra che l'amministratore possa richiedere la nomina di un curatore all'eredità giacente ai sensi dell'art. 528 c.c.: non solo perché tale disposizione presuppone l'esistenza di un chiamato che non abbia ancora accettato l'eredità – e, nella specie, tale accettazione potrebbe esservi stata, ma non essere a conoscenza dell'amministratore – ma non è neppure certo che l'amministratore, che vuole soltanto individuare un soggetto al quale comunicare l'avviso di convocazione dell'assemblea, possa farsi rientrare tra le «persone interessate» alla nomina di un curatore, chiamato poi a provvedere alla gestione dell'intera eredità. La soluzione da ultimo accolta in sede di legittimità è stata, tuttavia, aspramente criticata in dottrina (Bordolli), la quale propende per l'applicazione analogica dell'art. 303 c.p.c., quantomeno in relazione alle convocazioni da effettuare entro l'anno dalla morte del condomino (Terzago, 229): la certezza del decesso – si opina – non può infatti esonerare l'amministratore dall'invio di quella stessa comunicazione che avrebbe dovuto, in ogni caso, inviare al condomino in vita, con la semplice intestazione, collettivamente e impersonalmente, agli eredi del condomino e nello stesso domicilio, trattandosi di un onere che non comporta alcuna attività suppletiva di ricerca, ma consente di ritenere raggiunto lo scopo di portare a conoscenza dell'interessato (i.e., l'erede) la fissazione dell'assemblea; d'altra parte, solo con il compimento di questa minima attività è possibile considerare improntata a buona fede ed all'ordinaria diligenza la condotta dell'amministratore, esonerato così da ulteriori (e anche complesse e lunghe) ricerche per individuare l'effettivo recapito dei singoli eredi. In tale ottica, dunque, l'art. 303 c.p.c. esprimerebbe un principio generale, non limitato solo alla fase processuale, idoneo a garantire la reciproca tutela dei condomini, compatibilmente con i tempi di gestione condominiali. Né può omettersi di evidenziare come, in caso di decesso del condomino, l'amministratore svolga, ipso facto, un incarico assimilabile a quello del curatore all'eredità giacente, quantomeno in relazione alle parti comuni dell'edificio condominiale che non sono divisibili e separabili e che continuano ad essere, pertanto, soggette necessariamente ai suoi poteri, in specie per ciò che concerne gli atti conservativi i quali implicano delle spese che, in relazione alla proprietà del condominio deceduto potrebbe rivelarsi problematica atteso che un pagamento, senza riserve, da parte del chiamato all'eredità potrebbe finanche essere interpretato, ove non riconducibile alla categoria degli atti ex art. 460, comma 2, c.c., quale indicativo di una volontà di accettazione tacita dell'eredità (Izzo, 1603). Recependo tali obiezioni, Trib. Salerno 28 settembre 2010, ha pertanto ribadito che, in caso di decesso di un condomino, l'amministratore non può rimanere inerte ma deve, invece, agire con la necessaria diligenza facendo tutto il possibile per portare a conoscenza di tutti gli interessati la convocazione dell'assemblea, finalità perseguibile anche comunicando, impersonalmente e collettivamente agli eredi nel domicilio del defunto, l'avviso di comunicazione in analogica applicazione dell'art. 303 c.p.c. La tesi andrebbe, inoltre, probabilmente rimeditata anche alla luce di quanto previsto dall'art. 1130, n. 6), c.c., gravando attualmente sull'amministratore l'obbligo di curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale, contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza. La novella prevede, infatti, l'obbligo di comunicare ogni variazione dei dati, in forma scritta, entro sessanta giorni, prevedendo la facoltà per amministratore, in caso di inerzia, mancanza o incompletezza delle comunicazioni, di richiedere con lettera raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe decorsi trenta giorni dal ricevimento della quale, in caso di omessa o incompleta risposta, l'amministratore è abilitato a ricercare le informazioni necessarie, addebitandone il costo ai responsabili. Ciò tanto più considerando che: a) nell'esplicazione dell'incarico, l'amministratore è già tenuto alla consultazione dei pubblici registri per la individuazione del soggetto nei cui confronti rivolgersi in sede processuale, per la riscossione degli oneri condominiali – laddove, come noto, non è invocabile il principio dell'apparenza del diritto (Cass. S.U. , n. 5035/2001); b) ove, poi, il risultato di tali accertamenti non consenta di individuare con sicurezza alcun chiamato nel possesso dei beni ereditari, il buon fine dell'iniziativa processuale potrebbe passare proprio attraverso la richiesta di nomina di un curatore dell'eredità giacente del condomino deceduto. Tali considerazioni sono state recentemente sviluppate in dottrina (Chiesi, 2021), essendosi osservato "l'orientamento...esposto non appare, tuttavia, condivisibile, finendo esso per collidere con la inequivocabile formulazione dell'art. 1130, n. 6, c.c. che, introdotto dalla l. n. 220 del 2012, al contrario responsabilizza ancor di più l'amministratore nella verifica ed identificazione dei titolari effettivi delle singole unità immobiliari, dovendo egli curare, a pena di revoca dall'incarico, la tenuta del registro di anagrafe condominiale (contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari dei diritti reali e diritti personali di godimento), il cui aggiornamento, ove le variazioni non gli siano comunicate in forma entro sessanta giorni dall'avvenuta modifica, va eseguito motu proprio dall'amministratore medesimo, con addebito del costo di acquisizione delle informazioni ai responsabili rimasti inerti. D'altra parte, proprio con riferimento alla individuazione dei legittimati a (partecipare e) ricevere la convocazione assembleare - e sia pure avuto riguardo al diverso fenomeno dell'apparenza del diritto - la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. II, n. 4026/2021...) ha espressamente chiarito che la convocazione va rivolta al condomino effettivo e, cioè, al vero proprietario (e non a chi si comporta come tale senza esserlo), non potendo invocare il principio dell'apparenza l'amministratore che abbia trascurato di accertare la realtà sui pubblici registri (cfr. anche Cass. II, n. 8824/2015; Cass. II, n. 7849/2001). Il medesimo onere di attivazione e consultazione dei libri fondiari è, d'altronde, richiesto all'amministratore, allorché si tratti di riscuotere gli oneri condominiali (Cass. SU, 5035/2002). In presenza di una sì chiara littera legis e di un consolidato orientamento giurisprudenziale, univoco nel "colorare" nei termini suddetti la diligenza - verrebbe da dire minima, più che ordinaria - richiesta all'amministratore nella individuazione del condomino effettivo, appare invero arduo sostenere che, in caso di morte di uno dei comproprietari, l'amministratore debba continuare a svolgere un ruolo meramente passivo, in attesa che il relativo erede si manifesti" (Chiesi, 2021). Il compito dell'amministratore sarà ovviamente facilitato da una accettazione espressa, con le conseguenti trascrizioni, evincibili dai libri fondiari, a favore dell'erede ovvero da un'accettazione tacita, realizzata (Cass. VI-2, n. 5569/2021) mediante il compimento di un atto, noto all'amministratore, al quale non sia legittimato se non chi abbia la qualità di erede e che presupponga necessariamente la volontà di accettare (si pensi, ad esempio, alla voltura catastale dell'unità immobiliare in condominio. Arg. da Cass. VI-2, n. 11478/2021). Quanto, invece, all'ipotesi di delazione ereditaria (legittima o testamentaria) non (ancora) seguita dall'accettazione, essa sembra trovare una soluzione nella giurisprudenza di legittimità e, in specie, in Cass. II, n. 14065/2005, che valorizza il dettato dell'art. 460 c.c.: escluso, infatti che sull'amministratore gravi l'onere di provocare la nomina del curatore, ove a ciò non abbiano provveduto i diretti interessati chiamati all'eredità (fermo restando - ovviamente - l'obbligo dell' amministratore di convocare il curatore dell'eredità giacente ove questo sia stato nominato e di detta nomina ne sia stata data notizia), osserva la Corte come "ciascun chiamato all'eredità, anche prima dell'accettazione, [ha] legittimazione ad intervenire alle assemblee del condominio dell'immobile compreso nell'eredità; né ha pregio l'argomento contrario addotto dai ricorrenti, secondo cui la legittimazione dovrebbe escludersi sol perché l'intervenuto potrebbe non risultare assegnatario dell'immobile, atteso che in tale ipotesi l'operato dell'intervenuto si atteggerebbe alla stregua di una gestione di negozio in favore degli effettivi assegnatari che per ipotesi non fossero anch'essi intervenuti all'assemblea o non avessero delegato il coerede". Resta, infine, del tutto inesplorato il problema della sorte di una clausola regolamentare che, in mancanza di un chiaro dettato normativo ed in assenza di un'univoca soluzione giurisprudenziale, regoli il comportamento che l'amministratore eventualmente debba tenere, per la convocazione dell'assemblea, in caso di morte del condominio, laddove non si palesino eredi o legatari. Altri due casi particolari di “aventi diritto” alla convocazione sono stati esaminati da Cass. II, n. 29070/2023 e Cass. II, n. 23255/2021, a proposito di unità immobiliare sottoposta - rispettivamente – a pignoramento ed a sequestro preventivo penale. Quanto alla prima evenienza, la S.C. ha distinto a seconda che sia stato - o meno - nominato un custode giudiziario in sostituzione del debitore esecutato. Ed infatti, se il debitore esecutato, proprietario di un’unità immobiliare ricompresa in un edificio condominiale, conserva la legittimazione a partecipare all’assemblea e alle relative deliberazioni, per la quota millesimale di sua spettanza, fino a quando non sia stato emesso il decreto traslativo, essendo detta legittimazione collegata allo status di condòmino, e quindi alla titolarità del diritto dominicale sull’immobile medesimo, al contrario, allorché il custode sia nominato, la legittimazione del debitore esecutato resta ferma, salvo che il giudice dell'esecuzione abbia fornito, sul punto, specifiche istruzioni operative, contenute nel provvedimento di nomina del custode o in altro successivo, così traslando in capo a questi il diritto di partecipare alle assemblee. Nel caso, invece, di sequestro preventivo penale avente oggetto le unità immobiliari di proprietà esclusiva e le parti comuni di un edificio condominiale, per le quali sia nominato un custode giudiziario, in difetto di contraria indicazione contenuta nel provvedimento, ed attesa la funzione tipica di detta misura stabilita dall'art. 321 c.p.p., il vincolo di indisponibilità che ne deriva colpisce sia i diritti e le facoltà individuali inerenti al diritto di condominio, sia le attribuzioni dell'amministratore, sia i poteri conferiti all'assemblea in materia di gestione dei beni comuni, con conseguente nullità della deliberazione da questa approvata nel periodo di efficacia del sequestro. Le previsioni in deroga all'art. 67 disp. att. c.c.L'art. 67 disp. att. c.c. è una delle norme maggiormente interessate dalla Riforma del 2012: originariamente composta di quattro commi e destinata a disciplinare l'intervento in assemblea, attualmente si snoda in otto commi ed include, altresì, le regole di funzionamento dell'assemblea dei rappresentanti dei condominii facenti parte del supercondominio, oltre ad una previsione di chiusura concernente i rapporti tra nudo proprietario ed usufruttuario rispetto ai contributi dovuti all'amministratore. In linea generale, assumendo come impostazione di principio quella del parallelismo tra soggetto tenuto al pagamento degli oneri condominiali conseguenti alle delibere assembleari e soggetto legittimato a votare in queste ultime, la norma prevede che all'assemblea possano intervenire il condomino (comma 1), l'usufruttuario o il nudo proprietario, a seconda dell'oggetto della deliberazione (commi 6 e 7), nonché un solo rappresentante della comunione, ove l'unità immobiliare versi in stato di comproprietà tra più soggetti (comma 2); non si riflette, invece, sulla validità della costituzione dell'assemblea e delle decisioni in tali sede assunte, la partecipazione ad essa di un soggetto estraneo ovvero privo di legittimazione, qualora risulti che quella partecipazione non ha influito sulla maggioranza richiesta, sul quorum prescritto né, tantomeno, sullo svolgimento della discussione e sull'esito della votazione (Cass. II, n. 11943/2003). La norma è da leggere in combinato disposto con il precedente art. 66, comma 3, il quale prescrive che l'avviso di convocazione dell'assemblea debba essere recapitato «agli aventi diritto» (e non più ai condomini) e con l'art. 1136, comma 6, c.c., per cui l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati. Sennonché, già all'alba della riforma è stato immediatamente osservato che l'evidenziato parallelismo non sempre regga, alla prova dei fatti (Scarpa 2013, 7 ss.). Così, ad esempio, il successivo comma 8 del medesimo art. 67 impone al nudo proprietario ed all'usufruttuario il pagamento solidale dei contributi dovuti in relazione all'unità immobiliare gravata dal diritto reale parziario, nonostante il voto sia tra i due diversificato, spettando all'usufruttuario, relativamente agli affari che attengono all'ordinaria amministrazione ed al proprietario nelle restanti deliberazioni. Del pari è da dirsi con riferimento all'ipotesi di concessione in locazione di un'unità immobiliare sita in condominio: il conduttore ha diritto di (partecipazione – ma, sul punto, cfr. supra, sub 4.1 – e di) voto, ai sensi dell'art. 10 della l. n. 392 del 1978, unicamente nelle deliberazioni relative alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, non anche nelle assemblee concernenti le spese per il servizio di pulizia, il funzionamento e l'ordinaria manutenzione dell'ascensore, la fornitura dell'acqua e dell'energia elettrica, lo spurgo dei pozzi neri e delle latrine e la fornitura degli altri servizi comuni, che pure gravano a suo carico, ex art. 9 della legge n. 392 cit.. Caso «limite» è, poi, quello rappresentato dal novellato art. 63, ultimo comma, disp. att., cod. civ., per cui «chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto». In sostanza, l'alienante di unità immobiliare in proprietà esclusiva resta obbligato in solido con l'acquirente per tutti i contributi che maturano fino al momento in cui sia data notizia all'amministratore, con la prevista modalità formale, del trasferimento del diritto. Il che significa che il venditore, ove non abbia informato l'amministratore dell'avvenuta alienazione, è comunque tenuto a pagamenti nei confronti del condominio, pur non avendo più lo status di condomino e, dunque, non potendo partecipare alle assemblee condominiali in cui si provveda alla deliberazione di tali spese. Interessante, a tale proposito, è il caso del condominio parziale, fenomeno ormai pacificamente riconosciuto in giurisprudenza (Cass. II, n. 7885/1994; Cass. II, n. 1255/1995; Cass. II, n. 8136/2004; Cass. II, n. 23851/2010; Cass. II, n. 2363/2012; Cass. II, n. 17875/2013; Cass. II, n. 1680/2015; Cass. II, n. 4127/2016; Cass. II, n. 12641/2016) ma ancora privo di dignità normativa. Nell'ambito della più vasta contitolarità, infatti, si ammette la costituzione dei cosiddetti «condomini parziali» sul fondamento del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l'esistenza o per l'uso, ovvero della destinazione all'uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari. I presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono infatti, meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza o per l'uso, ovvero sono destinati all'uso o al servizio non di tutto l'edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. In tal caso, del diritto (soggettivo) di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti, effettivamente uniti alle unità abitative dal collegamento strumentale: vale a dire, le sole parti di uso comune, che siano necessarie per l'esistenza, ovvero siano destinate all'uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano. Ravvisato il fondamento dell'istituto negli artt. 1123, comma 3, c.c. (la cui interpretazione porta a concludere che la previsione per cui l'obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione posta a carico soltanto di alcuni dei partecipanti si riconduce al principio generale, che presiede alla suddivisione delle spese per la conservazione, secondo cui i condomini sono obbligati sempre in proporzione con le quote ed indipendentemente dalla misura dell'uso: sicché, l'obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione grava soltanto su taluni condomini come conseguenza della delimitazione della appartenenza) e 1117 c.c. (quale ipotesi di mancanza di nesso strutturale e/o funzionale tra i beni o servizi e l'intero edificio condominiale), da un lato, nonché nella presenza di una clausola del regolamento condominiale, di natura contrattuale che, in deroga al menzionato art. 1117 c.c., attribuisca la titolarità esclusiva di un bene ovvero un impianto solo ad un gruppo di condomini, resta da individuare la disciplina applicabile, in concreto, ove ricorra tale evenienza, difettando qualsivoglia previsione normativa: orbene, ai fini che in questa sede interessano è stato chiarito – sia pure avuto riguardo alle maggioranze assembleari – che il quorum, costitutivo come deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, vada calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate (Cass. II, n. 4127/2016; Cass. II, n. 1188/1970). Ne discende che i partecipanti al gruppo che non abbiano la proprietà di quel determinato bene o impianto oggetto di intervento non hanno il diritto di partecipare all'assemblea né, conseguentemente, possono dolersi della mancata convocazione alla relativa adunanza assembleare. Non trova – ugualmente – soluzione normativa espressa il caso dell'immobile in condominio gravato da diritto di abitazione. In dottrina (Branca, 551), invero, si sostiene da sempre la parificazione di tale ipotesi (unitamente al caso di immobile gravato da diritto di uso) a quella dell'unità immobiliare gravata da usufrutto (contra, però, Guidi, 269). È, dunque, prendendo le mosse da tale impostazione che si può esaminare la posizione «assembleare» del titolare del diritto di abitazione. Il riparto di competenze gestorie tra nudo proprietario ed usufruttuario (con il correlativo diritto ad essere convocato ed a partecipare alla riunione) è sempre stata ricostruita sulla base di chi, tra di essi, sia tenuto alla partecipazione agli oneri condominiali (Cass. II, n. 10611/1990), secondo una ripartizione scolpita dall'originario art. 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c. sulla base della distinzione tra atti di straordinaria (nudo proprietario) ed ordinaria (usufruttuario) amministrazione: operazione comunque non semplice, trattandosi di categorie fondamentalmente estranee alla materia condominiale e che richiedono, piuttosto, un'invasione di campo nella disciplina della comunione ordinaria (con particolare riferimento agli artt. 1105 e 1108 c.c.). Attualmente, i novellati commi 6 e 7 assegnano il diritto di voto all'usufruttuario, negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni ed al nudo proprietario in tutti gli altri casi: in applicazione dei medesimi principi elaborati anteriormente alla Riforma, dunque, l'avviso di convocazione spetta a all'uno ovvero all'altro a seconda del tipo di delibazione posta all'ordine del giorno. Il nuovo comma 7, tuttavia, contempla altresì la possibilità che l'usufruttuario intenda avvalersi del diritto di cui all'art. 1006 c.c. (anticipando, dunque, spese che graverebbero sul nudo proprietario il quale, tuttavia, si rifiuti di eseguirle ovvero ne ritardi l'esecuzione senza giusto motivo), ovvero si tratti di lavori od opere che si risolvano in miglioramenti o addizioni (ex artt. 985 e 986 c.c.): in tutti questi casi, l'avviso di convocazione deve essere comunicato sia all'usufruttuario sia al nudo proprietario. Peraltro, non potendo l'assemblea interferire sulla imputazione e sulla ripartizione, tra usufruttuario e nudo proprietario, dei contributi stabiliti dalla legge in ragione della loro natura, non rientrando nei poteri della stessa introdurre deroghe che verrebbero a incidere su diritti individuali (Cass. II, n. 23291/2006), men che meno potrebbe un regolamento contenere clausole che orientino l'inoltro dell'avviso di convocazione in deroga a quanto disposto dall'art. 67. L'opzione interpretativa che, in dottrina, sostiene la sovrapponibilità di tali conclusioni all'ipotesi di diritto di abitazione ha trovato conferma in un recente arresto di legittimità, laddove è stato chiarito – sia pure con riferimento specifico alla tematica del concorso nella contribuzione agli oneri condominiali – che, qualora un appartamento sito in condominio sia oggetto di diritto reale di abitazione, il titolare di quest'ultimo è tenuto al pagamento delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria applicandosi, in forza dell'art. 1026 c.c., le disposizioni dettate in tema di usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 c.c. – che si riflettono anche, come confermato dall'art. 67 disp. att. c.c., sul pagamento degli oneri condominiali, costituenti un'obbligazione propter rem (Cass. II, n. 9920/2017). Se, dunque, il rinvio codicistico è alle disposizioni in tema di usufrutto e se si considera, altresì, che la presenza di un diritto di abitazione su di un immobile in condominio deve essere segnalato all'amministratore, per l'aggiornamento del registro di anagrafe condominiale, ex art. 1130, n. 6, c.c. (contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali), non può che trarsene, sia pure per via interpretativa, la scontata conclusione dell'estensibilità dei commi 6-8 dell'art. 67 disp. att. c.c. all'habitator, con conseguente suo diritto – intangibile dal regolamento, al pari di quanto accade per l'usufruttuario – ad essere convocato all'assemblea quale «avente diritto» e ad esprimervi il voto nelle materie di spettanza. Le prescrizioni contenute all'art. 67 disp. att. c.c. sono certamente indisponibili dal regolamento (Triola, 116), non potendo questo regolare il funzionamento dell'assemblea (Cass. II, n. 15476/2001) né, tantomeno, individuare soggetti legittimati ad intervenirvi (cfr. supra, sub art. 66 disp. att. c.c.), diversi rispetto a quelli titolati ex lege: sennonché un problema di loro derogabilità si può certamente porre avuto riguardo al fenomeno della rappresentanza volontaria, istituzionalizzato nel condominio mediante l'istituto della «delega». A tale proposito, l'originaria formulazione dell'art. 67 disp. att. c.c. laconicamente riconosceva ad ogni condomino la facoltà di intervenire all'assemblea anche a mezzo di rappresentante, null'altro aggiungendo in relazione ad eventuali limitazioni, quantitative ovvero qualitative, alla possibilità di conferire deleghe ad intervenire all'adunanza assembleare né prescrivendo alcunché in merito alle modalità di conferimento del potere rappresentativo; il nuovo art. 67, invece, (a) prescrive la forma scritta, (b) vieta al delegato, ove i condomini siano più di venti, di rappresentare più di un quinto del condomini e del valore dell'edificio e, infine, (c) preclude il conferimento di deleghe all'amministratore. Alcuni dei profili suddetti sono stati interessati, nel passato, dall'intervento della giurisprudenza di legittimità. Quanto alla forma, è stato osservato che, limitandosi originaria formulazione dell'art. 67 disp. att. cc. a prevedere la possibilità di intervenire in assemblea anche a mezzo di rappresentante, il potere rappresentativo potesse essere conferito anche in forma orale, non essendovi peraltro traccia di alcuna disposizione di carattere imperativo che imponesse un vero e proprio obbligo di allegazione della delega al verbale di assemblea condominiali (Trib. Bari 15 giugno 2015). In dottrina, ove pure veniva riconosciuta l'inapplicabilità, per via analogica dell'art. 1372, comma 1, c.c. (norma che, in tema di delega alla partecipazione all'assemblea delle società per azioni, prescrive la forma scritta), onde giustificare il rispetto della necessaria formalità della scrittura, si faceva al più perno sulla forma scritta che deve presiedere alla redazione del verbale (donde l'analogo requisito formale per la delega) (Terzago, 254) e si riteneva comunque la possibilità di una delega orale limitata alle sole assemblee aventi ad oggetto affari rientranti nell'ordinaria amministrazione (Peretti Griva, 475). L'attuale formulazione dell'art. 67, comma 1, primo periodo, invece, nell'imporre la forma scritta, non può che condurre alla conclusione dell'avvenuto superamento dell'orientamento volto ad affermare l'ammissibilità di un'attribuzione verbale del potere rappresentativo per la partecipazione all'assemblea condominiale, con conseguente nullità, per violazione del'art. 72 disp. att. c.c., di una eventuale previsione di senso contrario contenuta nel regolamento. Risultano pertanto superate le difficoltà di prova quanto all'esistenza, all'oggetto ed ai limiti della delega mentre, sotto altro profilo, è facilitata la redazione dell'elenco nominativo degli intervenuti all'interno del verbale dell'assemblea, ai fini della verifica dei quorum prescritti dall'art. 1136 c.c. e dalle altre disposizioni speciali (Scarpa 2017, 691). Proprio in relazione al contenuto ed ai limiti della delega, poi, merita menzione Trib. Roma 6 dicembre 2017, che evidenzia come, ad ogni modo, solo il delegante potrebbe contestare le modalità di esercizio della delega eventualmente conferita e non il terzo (i.e. un altro condomino), essendo il rapporto intercorrente tra il rappresentante (il delegato) ed il rappresentato (il condomino), improntato alle norme del mandato. Passando al secondo profilo, relativo alla compatibilità, con il divieto di cui all'art 72 disp. at c.c., di clausole del regolamento incidenti con l'istituto della delega, l'unica certezza in materia poggiava sulla nullità delle previsioni regolamentari escludenti tale possibilità (Trib. Roma, 1 aprile 1952). Diversamente, la giurisprudenza ha ritenuto compatibile con l'art. 72 cit. la modifica, a maggioranza, del regolamento di condominio, nel senso di limitare il potere dei condomini stessi di farsi rappresentare nelle assemblee, riducendolo a non più di due deleghe, conferite ad altri partecipanti alla comunione per ogni assemblea, trattandosi di previsione non in grado di incidere – elidendola – sulla facoltà di ciascun condomino di intervenire alla riunione a mezzo di rappresentante (art. 67, comma 1, originaria formulazione, disp. att. c.c.), in quanto previsione atta semplicemente a regolare l'esercizio di quel diritto inderogabile, a presidio della superiore esigenza di garantire l'effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell'interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente (Cass. II, n. 5315/1998; Cass. II, n. 8015/2017). Del pari, si è escluso – nonostante le critiche ricevute in dottrina (Triola, 119) – il contrasto, con la normativa sul diritto inderogabile del condomino di farsi rappresentare in assemblea, della clausola del regolamento di condominio limitativa del potere di rappresentanza dei condomini in assemblea, nel senso che esso possa essere esercitato solo tramite determinate persone (nella specie: parenti o altro condomino), in quanto la stessa non è ostativa della regolamentazione di tale diritto, disciplinandone, piuttosto, le concrete modalità di esercizio (Cass. II, n. 4530/1982). Nel medesimo senso, ancora, è stata affermata la validità della clausola del regolamento di condominio che esclude che in assemblea ogni partecipante possa rappresentare più di un condomino o che vieti di delegare la partecipazione ad un estraneo (Trib. Milano 15 giugno 1989). In senso contrario, però, Trib. Fermo 4 marzo 1983 ha sostenuto che, stante il carattere inderogabile e considerata l'ampia portata letterale dell'art. 67, dovrebbe inferirsene la nullità della clausola introduttiva di gravi ed ingiustificate limitazioni all'esercizio del diritto di delega, siccome restrittive in modo eccessivo ed indiscriminato del novero delle persone cui il condomino può conferire il potere di rappresentanza in assemblea. Più in generale, si è rimarcato (Scarpa 2017, 691 ss.) che la delega conferita per l'adunanza in prima convocazione si deve ritenere valida, salva una diversa volontà del condomino rappresentato, anche per le convocazioni successive, nulla altresì ostando, in applicazione analogica dell'art. 2373 c.c., al rilascio, ad opera dell'avente diritto, di una procura per più assemblee di condominio, seppur non ancora convocate (anche sotto forma di procura generale ad negotia, comprensiva del potere di presenziare alle assemblee condominiali). Riportando tali principi alla normativa vigente, deve concludersi nel senso della persistente piena legittimità di clausole del regolamento atte a disciplinare (più che a determinare deroghe) il diritto di delega, senza però giungere fino al punto di sopprimerlo (Trib. Fermo 11 agosto 1982). La violazione dei limiti (normativi o regolamentari) al potere di delega è causa di annullabilità della delibera: chiaro in tal senso Trib. Bari 20 febbraio 2017, per cui la partecipazione all'assemblea condominiale di un condomino privo di delega oppure fornito di un numero di deleghe superiore a quello consentito dal regolamento di condominio, comportando un vizio nel procedimento di formazione della relativa delibera, non dà luogo a un'ipotesi di nullità assoluta della delibera stessa, rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 1421 c.c., bensì ad un'ipotesi di annullabilità ex art. 1137 c.c. (nel medesimo senso cfr. anche Cass. II, n. 7402/1986). Limite legislativo alla facoltà di delega, non derogabile da una contraria previsione regolamentare, è quello che riguarda l'amministratore, il quale non può più essere investito di potere rappresentativo in nome e per conto dei condomini, così estendendosi la «preclusione» che operava, nel passato, limitatamente alle assemblee (ovvero agli specifici punti all'ordine del giorno) in cui si discorreva di argomenti attinenti la gestione dell'amministratore (con particolare riferimento all'approvazione del rendiconto) e, più in generale, la sua responsabilità, ravvisandosi un conflitto di interessi tra amministratore e condomini, in applicazione analogica del principio espresso dagli artt. 2373, comma 2 (già comma 3) e 2486 c.c. Relativamente al regime previgente alla Riforma del 2012, l'amministratore condominiale poteva essere portatore di deleghe, salvo che ciò non fosse espressamente vietato dal regolamento di condominio, non trovando applicazione generalizzata – come già esposto in precedenza – l'art. 2372 c.c. (che vieta al socio di una S.p.A. di conferire la delega assembleare anche agli amministratori). Il conferimento di delega all'amministratore non è peraltro ammissibile in relazione a quelle assemblee ove si discuta e si voti su argomenti attinenti l'esercizio della sua gestione, la sua responsabilità e, in generale, quando si deve operare un giudizio sulla sua attività o si deve procedere all'approvazione del rendiconto. Afferma la giurisprudenza che deve qui ritenersi applicabile in via estensiva o analogica il divieto per il quale gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità, essendo portatori di un interesse proprio in conflitto ex lege con quello della società; tale divieto infatti, pur dettato dal legislatore con riferimento alle società di capitali (artt. 2373, comma 3, e 2486 c.c.) va considerato come principio di applicazione generale nel sistema delle deliberazioni di gruppi organizzati (v. per le associazioni, le disposizioni di cui all'art. 21 c.c.) (Dogliotti-Figone 2003, 341). A medesime conclusioni è giunta anche la Corte di cassazione, la quale, sia pure con riferimento al conflitto di interessi tra condomino e condominio (si rinvia a quanto illustrato in proposito sub art. 1135 c.c.), ha osservato (Cass. II, n. 1853/2018) che esso, manifestandosi al momento dell'esercizio del potere deliberativo e vertendo sul contrasto tra l'interesse proprio del partecipante al voto collegiale e quello comune della collettività, è sussumibile nella fattispecie disciplinata dall'art. 2373 c.c. e non in quella prevista dall'art. 1394 c.c., in cui, al contrario, il conflitto si palesa al momento di esercizio del potere rappresentativo e fonda sul contrasto tra l'interesse personale del rappresentato e quello, pure personale, del rappresentante. Si è allora acutamente osservato (Scarpa 2013, 697) che la non delegabilità in assoluto dell'amministratore per la partecipazione alle assemblee suppone che lo stesso versi sempre (e, cioè, con riferimento a qualsiasi deliberazione) in potenziale conflitto con l'interesse istituzionale del condominio, in virtù di una sorta di presunzione iuris et de iure. Si intende con l'espressione «conflitto di interessi» la situazione di contrasto in cui versa un soggetto, portatore di un interesse proprio e specifico, rispetto a quello, ipoteticamente contrapposto, del rappresentato ovvero del gruppo di cui lo stesso soggetto stesso fa parte, e che viene variamente disciplinato al fine di scongiurare il pericolo che il soggetto in questione possa agire o decidere favorendo l'interesse proprio a discapito di quello del rappresentato o del gruppo: il fenomeno trova, pertanto, una trasversale collocazione all'interno del codice civile, spaziando dai rapporti familiari (si pensi agli artt. 320 c.c. – in relazione alla responsabilità genitoriale – e 347 c.c. – avuto riguardo ai minori soggetti alla stessa tutela), alla rappresentanza volontaria (in particolare, il riferimento è all'art. 1394 c.c. – che disciplina il caso del contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato, il quale può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo – ed all'art. 1395 c.c. – a mente del quale è annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un'altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi), fino alla materia societaria (si pensi all'art. 2373 c.c. – relativo all'impugnazione della delibera approvata col voto del socio che si trova in conflitto di interesse con quello della società – ed al successivo art. 2391 c.c. – contemplante il caso dell'amministratore che ha un interesse in conflitto con quello della società). In ambito condominiale, per le possibili situazioni verificabili nella realtà quotidiana, rilevano le previsioni dettate dagli artt. 1394 e 1395 c.c. (che, dettando una disciplina generale del fenomeno della rappresentanza, esprimono, per ciò stesso, principi applicabili a tutti i casi) e, analogicamente, gli artt. 2373 e 2391 c.c. (in tema di società). Sennonché, a cagione dell'espressa presa di posizione da parte del legislatore, non pare residuare più alcuno spazio operativo per quella impostazione giurisprudenziale che sanzionava con la nullità la clausola del regolamento di condominio ostativa al diritto di conferire deleghe all'amministratore (Trib. Reggio Calabria 23 marzo 1984); né può sopravvivere quell'orientamento che, in ipotesi di delega cd. «vincolata» conferita per la singola assemblea all'amministratore (il quale, dunque, non agisce nell'esercizio di un potere discrezionale, ma si attiene alla puntuale osservanza della scelta specificamente effettuata a monte dal condomino delegante), per ciò stesso non ravvisava la ricorrenza di alcun conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato (Trib. Roma 15 marzo 2012); men che meno ha spazio operativo quell'opzione giurisprudenziale per cui la deliberazione dell'assemblea condominiale in materie inerenti all'operato dell'amministratore circa la gestione economica della cosa comune non comporta di per sé la non computabilità del voto espresso dall'amministratore per delega di taluno dei condomini, dovendo il condomino che abbia interessa all'impugnazione della delibera dedurre e provare che il condomino delegante non fosse a conoscenza o non fosse in grado di rendersi conto, con la normale diligenza, della situazione di conflitto di interessi (Cass. II, n. 10683/2002; Trib. Salerno 9 febbraio 2010). Residua, ad ogni modo, uno spazio non “normato” (né, oggettivamente, positivizzabile dal regolamento), coincidente con il fenomeno delle deleghe cd. “in bianco” all'amministratore, con mandato, implicito o esplicito, a quest'ultimo di inserirvi un nominativo, normalmente di fiducia dello stesso amministratore, estraneo alla compagine condominiale (ad esempio, un suo dipendente o collaboratore) ovvero condomino, reperito alla bisogna tra i presenti in assemblea. Il problema, in tal caso, è duplice, nel senso che, da un lato, si pone una questione di elusione del divieto normativo (con possibilità di configurare un caso di frode alla legge ex art. 1344 c.c., con nullità della delega per illiceità della causa) e, dall'altro, di possibili contestazioni circa il soggetto individuato in concreto quale delegato in assemblea. Tale ultimo profilo è stato esaminato di recente da Cass. VI-II, n. 16673/2018 la quale ha chiarito che, qualora l'inserimento del nominativo del delegato avvenga contra pacta e, cioè, in violazione delle indicazioni impartite dal delegante, grava su questi l'onere di fornire la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello risultante dal foglio sottoscritto, a nulla valendo il mero disconoscimento. “Per chi [...] intenda avanzare denunzia di abusivo riempimento da parte di un terzo di un foglio firmato in bianco, a nulla vale il mero disconoscimento, “giacché esso non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l'abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento “absque pactis”, sia che si tratti (come appunto qui dedotto dal ricorrente) di riempimento “contra pacta”, dovendo, nel secondo caso, in particolare, essere fornita la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto” [...]. In altri termini, il sottoscrittore che, riconoscendosi tale, si dolga del riempimento della scrittura in modo difforme da quanto pattuito, “ha l'onere di provare la sua eccezione di abusivo riempimento “contra pacta” e, quindi, di inadempimento del mandato “ad scribendum” in ragione della non corrispondenza tra il dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare, giacché attraverso il patto di riempimento il sottoscrittore medesimo fa preventivamente proprio il risultato espressivo prodotto dalla formula che sarà adottata dal riempitore” (Colombo, 2018). Segue. Art. 67 disp. att. c.c. e supercondominio Una delle maggiori novità introdotte dalla Riforma del 2012 è rappresentata, senza ombra di dubbio, dal riconoscimento, per via legislativa, del fenomeno del cd. «supercondominio», come confermato dalla previsione, di carattere generale, contenuta all'art. 1117-bis c.c. (per cui «le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'articolo 1117») e dalla disciplina di dettaglio contenuta, per l'appunto, nell'art. 67, commi 3 e 4, disp. att. c.c. Al pari del condominio «semplice», il supercondominio viene ad esistenza ipso iure et facto – se il titolo non dispone altrimenti – senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni né, tanto meno, di approvazioni assembleari, essendo all'uopo sufficiente che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, «pro quota», ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati (Cass. II, n. 1344/2018; Cass. II, 27094/2017; Cass. II, n. 19939/2012; Cass. II, n. 7826/1996). In sostanza, più edifici, relativamente autonomi, quanto alla struttura materiale, e costituiti in altrettanti condomini, di fatto (o per titolo) sono riuniti in un condominio più ampio, beneficiando in comune di alcune cose, impianti e servizi (solitamente il viale di ingresso, l'impianto centrale per il riscaldamento o per l'acqua calda, il parcheggio e, per l'appunto, il locale per la portineria o per l'alloggio per il portiere). Rinviando al commento all'art. 1117-bis c.c. per l'approfondimento delle tematiche relative alla disciplina applicabile al supercondominio, occorre qui soffermarsi, invece, sul complesso meccanismo disegnato dal legislatore della Riforma per la convocazione ed il funzionamento della relativa assemblea del supercondominio e, quindi, sulla astratta possibilità di interferenza, con esso, di previsioni regolamentari. Invero, anteriormente alla novella del 2012 si era chiarito (Cass. II, n. 7286/1996) che ciascun condomino, proprietario di alcuna delle unità immobiliari ubicate nei diversi edifici che lo compongono, era legittimato ad agire per la tutela delle parti comuni degli stessi ed a partecipare alla relativa assemblea: con la conseguenza che le disposizioni dell'art. 1136 c.c., in tema di formazione e calcolo delle maggioranze, erano state ritenute applicabili considerando gli elementi reale e personale del medesimo supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le porzioni comprese nel complesso e da tutti i rispettivi titolari (Cass. II, n. 4340/2013). Sennonché, se tale regime residua, ove il supercondominio sia composto da partecipanti in numero di sessanta o inferiore, per qualsivoglia tipologia di deliberazione, ovvero, se i partecipanti sono superiori a sessanta, nel caso di delibere involgenti la straordinaria amministrazione, al contrario, laddove il numero dei partecipanti sia superiore a sessanta e si verta al cospetto di deliberazioni concernenti la nomina dell'amministratore ovvero l'ordinaria amministrazione, l'art. 67 disegna una fattispecie del tutto nuova e con caratteristi peculiari, ricostruibile in termini di delega collettiva obbligatoria: in tal caso, infatti, ciascuno dei più condominii facenti parte del più ampio complesso immobiliare è tenuto a designare, con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 5, c.c., un proprio rappresentante all'assemblea; se l'assemblea non vi provvede, ciascun partecipante può chiedere che sia l'autorità giudiziaria a nominare il rappresentante del proprio condominio mentre, qualora alcuni dei condominii coinvolti vi abbiamo provveduto ed altri non abbiano nominato il proprio rappresentante, alla nomina provvede, previa diffida, il tribunale, su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati. In altri termini, alla costituzione dell'assemblea del supercondominio, nonché all'approvazione delle decisioni nelle materie contemplate dall'art. 67, comma 3, disp. att. c.c. concorrono tutti i condomini, a mezzo dei rispettivi delegati obbligatori e con i rispettivi valori millesimali. Quella specificamente normata dal legislatore è, dunque, un'ipotesi di rappresentanza necessaria ex lege e non già volontaria (l'unica rispetto alla quale, come detto, l'art. 67 disp. att. c.c. ammette previsioni «integrative» di quelle codicistiche), giacché è previsto l'obbligo – e non già la mera possibilità – di nominare, nelle materie ivi contemplate, un rappresentante all'assemblea del supercondominio (Trib. Milano 29 gennaio 2016). Tale conclusione esce vieppiù rafforzata se si considera che (1) è previsto che ciascun condominio «deve designare» (e non «può») il proprio rappresentante, (2) che, in mancanza, «ciascun partecipante può chiedere che l'autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio», in sede di volontaria giurisdizione e (3) che ogni limite o condizione al potere di rappresentanza si considera come non apposto. Quest'ultima previsione è, invero, solo apparentemente in contraddizione con quella, pure contenuta nel medesimo comma 3, per cui «il rappresentante risponde con le regole del mandato»: la contraddizione, infatti, evapora se si ricostruisce il sistema nel senso che, seppure i condomini abbiano fornito al rappresentante direttive in ordine alle deliberazioni da assumere e questi se ne sia discostato, ciò non rileva nei rapporti esterni – e, dunque, non è in grado di inficiare la validità dell'assemblea dei rappresentanti – ma solo in quelli interni. Sicché il condominio rappresentato resta comunque vincolato dal voto del proprio rappresentante, il quale, al più, potrà essere chiamato a rispondere degli eventuali danni che la sua condotta «infedele» abbia arrecato ai propri mandanti (Scarpa 2017, 691 ss.). In sostanza, la Riforma del 2012 ha previsto tre diverse procedure per convocare l'assemblea del supercondominio, diversificate tra loro a seconda del numero dei partecipanti e delle materie oggetto di discussione (De Giorgi-Marvasi, 115): a) se il numero dei partecipanti è uguale o inferiore a sessanta, trovano applicazione le regole «classiche» sviluppate dalla giurisprudenza consolidata, per cui occorre la convocazione di tutti i singoli proprietari, indipendentemente dalla materia da trattare in assemblea, sia che si tratti di ordinaria amministrazione, sia che si tratti di straordinaria amministrazione (con l'«eccezione» rappresentata dal caso di immobile in comunione ordinaria); b) se il numero dei partecipanti è superiore a sessanta e le materie all'ordine del giorno sono relative all'ordinaria amministrazione o alla nomina dell'amministratore, il singolo edificio deve nominare un rappresentante comune, che deve essere convocato e che deve partecipare all'assemblea; c) se, infine, il numero dei partecipanti è superiore a sessanta e le materie da trattare in assemblea afferiscono alla straordinaria amministrazione, tornano ad applicarsi le regole ordinarie, sicché l'avviso di convocazione dovrà essere inviato a tutti i singoli proprietari, posto che la partecipazione all'assemblea è riconosciuta a questi ultimi (eccetto il caso in cui una singola unità abitativa sia in comproprietà, in tal caso deve essere nominato un rappresentante comune solo per la partecipazione in assemblea). Il complessivo sistema così ricostruito è confermato da Cass. II, n. 2406/2024ove si chiarisce che all'assemblea del supercondominio partecipano tutti i condòmini, o i loro rappresentanti, nelle materie di cui all'art. 67, comma 3, disp. att. c.c., e le maggioranze per la costituzione del collegio e per la validità delle deliberazioni, che sono immediatamente obbligatorie per gli stessi condòmini, si calcolano in relazione al numero degli aventi diritto e al valore dell'intero complesso di unità immobiliari, edifici o condomìni aventi quella o quelle parti comuni in discussione, avendo riguardo sotto il profilo dell'elemento personale al numero dei contitolari(che devono essere convocati personalmente o tramite il rappresentante designato) e sotto il profilo reale al valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare (ove si tratti di assemblea dei proprietari) o al valore proporzionale di ciascun condominio (ove si tratti di assemblea dei rappresentanti, ex art. 67, comma 3, disp. att. c.c.). Ciò implica che, per semplificare i rapporti gestori ed agevolare lo svolgimento delle rispettive assemblee (mediante l'individuazione della composizione del collegio e delle maggioranze) nonché per ripartire le spese, nei casi, appunto, in cui più edifici o condomìni abbiano parti comuni, ai sensi degli artt. 1117 e 1117-bis c.c., “devono esistere due tabelle millesimali: a) la prima riguarda i millesimi supercondominiali, e stabilisce la spartizione della spesa non tra i singoli condomini, ma tra gli edifici che costituiscono il complesso. (…) La seconda tabella è quella normale interna ad ogni edificio” (così Cass. II, n. 19939/2012, poi seguita da Cass. II, n. 32237/2019). La “tabella millesimale del supercondominio” va approvata dall'assemblea dei condomini con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ove abbia funzione meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge; viceversa, se si intenda derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare la "diversa convenzione", di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., occorre il consenso contrattuale unanime dei condomini, mentre non è configurabile una formazione o revisione delle tabelle millesimali per facta concludentia (Cass. II, n. 5258/2023; Cass. II, n. 30305/2022). Trattandosi di regole volte a disciplinare il funzionamento dell'assemblea, non può che essere nulla, per violazione del'art. 72 disp. att. c.c., una clausola dell'eventuale regolamento del supercondominio che derogasse a tali previsioni, giacché solo un'espressa disposizione di legge può impedire all'avente diritto di essere convocato e di partecipare all'assemblea, ovvero limitare o sopprimere il diritto di essere convocato in assemblea o di parteciparvi. In questo senso – coerentemente, peraltro, con un quadro della materia rispettoso dei ruoli che competono a ciascuno dei soggetti che operano nel condominio – e sia pure con riferimento alla disciplina previgente l'intervento riformatore, si era d'altra parte già orientata la granitica giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 19558/2013; Cass. II, n. 7894/1994) la quale, chiarito come l'assemblea del supercondominio dovesse essere composta da tutti i partecipanti ai singoli condominii (Trib. Modena 30 dicembre 2010), ne aveva tratto la conseguenza della contrarietà a norma imperativa del regolamento contrattuale di condominio che avesse previsto un'assemblea del supercondominio composta dagli amministratori dei singoli condomini. Da osservare che Trib. Milano 30 agosto 2016, con un'interpretazione particolarmente restrittiva e letterale del comma 3, ha escluso che l'assemblea dei rappresentanti possa deliberare sulla revoca dell'amministratore del supercondominio, sostenendo che il riformato art. 67, così chiaro nel prevedere i precisi compiti attribuiti ai rappresentanti, non lascerebbe spazio, proprio perché disposizione «eccezionale», ad applicazioni analogiche ovvero a letture estensive: pertanto, trattandosi di deroghe che, comprimendo le facoltà ed i poteri inerenti alla partecipazione dei singoli all'organo collegiale, rappresentano un «vistoso vulnus al principio di democrazia partecipata in seno al condominio che vede, quali protagonisti, unicamente i condomini e non i soggetti delegati», le stesse non possono che essere considerate quali norme di diritto singolare, e perciò oggetto soltanto di stretta interpretazione. Da qui la conseguenza – che se ne dovrebbe trarre – per cui, laddove la Riforma chiama i rappresentanti ad intervenire sulla sola gestione ordinaria del supercondominio e li investe della nomina dell'amministratore, implicitamente colloca la revoca di tale nomina, in quanto non menzionata, tra gli atti di «straordinaria amministrazione». Ha confermato tale ricostruzione App. Milano 9 maggio 2018, interessata del gravame proposto proprio avverso la decisione appena illustrata del tribunale meneghino, chiarendo che la deliberazione con cui l'assemblea dei rappresentanti dei singoli condominii componenti un complesso supercondominiale decida la revoca dell'amministratore deve ritenersi nulla poiché intervenuta su materia estranea alle sue istituzionali attribuzioni che l'art. 67, comma 3, disp. att. c.c., di carattere eccezionale e di conseguente insuscettibile di applicazione analogica, espressamente limitata alla sola gestione ordinaria delle parti comuni e alla nomina dell'amministratore. Sennonché, tale soluzione è stata criticata in dottrina (Celeste 2017), la quale ha osservato che, se l'assemblea dei rappresentanti del supercondominio ha, ex lege, il potere di nominare l'amministratore di quest'ultimo, essa non può non avere anche il (simmetrico) potere di revocarlo, non solo in quanto contrarius actus, ma anche considerando che la nomina di un nuovo amministratore determinerebbe la revoca implica di quello precedente (Cass. II, n. 5608/1994): con il che, diversamente ragionando, si giungerebbe alla paradossale conclusione per cui la revoca rientrerebbe tra le competenze dell'assemblea dei rappresentanti, ove fosse implicitamente conseguente alla nomina di un nuovo amministratore, mentre essa spetterebbe all'assemblea dei partecipanti, ove fosse espressamente posta tra gli argomenti all'ordine del giorno. Inaccettabile risultando, da un punto di vista logico, prima che giuridico, una simile conclusione, si ritiene, pertanto, che l'assemblea del supercondominio, formata dai rappresentanti dei condominii singoli, possa essere convocata tanto per la revoca dell'amministratore in carica, quanto per la nomina del nuovo amministratore. Le critiche svolte dalla dottrina appaiono viepiù confortate dalle recenti argomentazioni sottese dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 9082/2014) all'ammissibilità di una revoca tacita del mandato conferito all'amministratore: principio espresso in materia condominiale, ma certamente estensibile anche al supercondominio, in virtù della previsione contenuta all'art. 1117-bis c.c. È stato infatti osservato che se le norme sul mandato trovano applicazione, rispetto al rapporto condomini-amministratore, nei limiti in cui siano compatibili con le specifiche disposizioni dettate in materia di condominio degli edifici (cfr. art. 1129, ultimo comma, c.c.), tenuto conto della natura di quest'ultimo quale ente di gestione delle parti e dei servizi comuni, cionondimeno, la peculiarità della disciplina del condominio non esclude l'applicazione della norma di cui all'art. 1724 c.c. dettata in tema di revoca tacita del mandato. Sicché, l'amministratore può essere revocato in ogni tempo dall'assemblea e, quindi, anche prima della scadenza annuale senza alcuna motivazione ovvero indipendentemente da una giusta causa: e l'assemblea – nell'esercizio delle sue prerogative – ben può procedere alla nomina del nuovo amministratore senza avere preventivamente revocato l'amministratore uscente. Per concludere sul punto, non può non rimarcarsi che, tra le previsioni dedicate all'intervento all'assemblea del supercondominio difetta una qualsivoglia disciplina dell'impugnativa delle relative delibere: il problema, che concerne l'individuazione del soggetto legittimato ad impugnare, non si pone, ovviamente, per le ipotesi innanzi esposte sub a) e c), – in cui, come detto, la partecipazione all'assemblea spetta ai singoli titolari di unità immobiliari all'interno del supercondominio e cui va di riflesso riconosciuto il diritto di impugnativa, ex artt. 1117-bis e 1137, comma 2, c.c. – quanto, evidentemente, per il caso di assemblea cui partecipino i rappresentanti dei singoli condominii. A tale riguardo, in dottrina (Scarpa 2017, 691 ss.) si è ritenuto che, stante l'inderogabilità delle disposizioni concernenti l'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea, la legittimazione non può che spettare ad ogni singolo condomino, il quale, ai fini del rispetto del termine di impugnazione di trenta giorni e delle condizioni di legittimazione ex art. 1137, comma 2, c.c., va considerato presente (sebbene astenuto o dissenziente) ovvero assente a seconda della posizione assunta, nell'assemblea del supercondominio, dal rappresentante del condominio in cui è ubicata l'unità immobiliare di sua proprietà esclusiva. Segue. La convocazione dell’assemblea in videoconferenza. A seguito della decretazione emergenziale conseguente all'adozione di misure volte a prevenire e contenere il contagio da COVID-19 si è, da ultimo, posto il problema della praticabilità dello svolgimento dell'assemblea di condominio in videoconferenza e, dunque, attraverso una modalità che implica necessariamente una deroga ai criteri di partecipazione fisica (personale ovvero a mezzo delegato) posti dall'art. 67, comma 1, disp. att. c.c.. Quando il regolamento di condominio non stabilisce la "sede" in cui debbono essere tenute le riunioni assembleari, l'amministratore ha il potere di scegliere quella che, in rapporto alle contingenti esigenze del momento, gli appare più opportuna, pur con il rispetto di un duplice limite: 1) anzitutto il limite territoriale, costituito dalla necessità di scegliere una sede entro i confini della città in cui sorge l'edificio in condominio; 2) quindi, un secondo limite, costituito dalla necessità che il luogo di riunione sia idoneo, per ragioni fisiche e morali, a consentire la presenza di tutti i condomini e l'ordinato svolgimento delle discussione (Cass. II, n. 14461/1999). “Nell'affrontare il tema del luogo di svolgimento dell'assemblea di condominio, dunque, la giurisprudenza focalizza l'attenzione su due elementi principali, riassumibili, in estrema sintesi, nel binomio "territorialità-presenza": la riunione va convocata nel comune dove si trova l'edificio condominiale ed il luogo prescelto deve garantire - usando le parole della Corte - "la presenza di tutti i condomini e l'ordinato svolgimento della discussione". (Per un ulteriore approfondimento dell'argomento si rinvia a Riccio, Chiesi, 2020, 107 ss.). Orbene, la necessità di garantire la " presenza " degli aventi diritto rappresenta un elemento indispensabile per il legittimo svolgimento della riunione , dovendo la scelta del luogo di convocazione rispondere alle obiettive esigenze ed agli interessi della maggioranza dei condomini ad una agevole partecipazione all'assemblea : il problema, consiste, allora, nel verificare se – e a quali condizioni – lo svolgimento dell'assemblea in conference call consenta di ritenere rispettato tale parametro . Ed infatti, è stato osservato (Chiesi, 2020) che “quando il legislatore ha abilitato allo svolgimento di riunioni mediante l'ausilio di tecnologia che consente la partecipazione a distanza, l'ha fatto espressamente: si pensi all'art. 2370, comma 4, cod. civ., dettato in tema di società di capitali (per cui "Lo statuto può consentire l'intervento all'assemblea mediante mezzi di telecomunicazione [...]") ed all'art. 143-bis della deliberazione CONSOB 14 maggio 1999, n. 11971 , cui rinvia l'art. 127 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. T.U.F.), come modificato dall'art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 27 del 2010. Non di minore impatto, inoltre, ai fini della valutazione complessiva della questione è la disciplina contenuta nella l. n. 11 del 1998 (e succ. modi. e int.), a proposito della partecipazione a distanza al processo penale e negli artt. 10 e ss del Reg. 1206 del 2001 (in combinato disposto con l'art. 204 c.p.c.), avuto riguardo all'uso di videoconferenza per la raccolta di prove nel processo civile”. Da ultimo la previsione espressa di simile modalità di svolgimento di riunioni è contenuta nel d.l. n. 18/2020 (cd. Cura Italia), agli artt. 73, comma 4 e 106, commi 2 e 3, nonché nel d.l. 19/2020, quale prescrizione di carattere generale. Orbene, posto che l'inderogabilità delle norme contenute nell'elencazione dell'art. 72 disp. att. c.c. non è da intendersi in senso assoluto, ma relativo (a condizione, cioè, che le deroghe amplino le tutele predisposte dalle singole previsioni interessate e le disposizioni non siano contrarie a norme di ordine pubblico e non ledano il diritto di proprietà dei singoli) la medesima dottrina aveva evidenziato come che la previsione di una modalità di partecipazione all'assemblea da remoto (certamente valida, siccome rispondente all'esigenza di agevolare la presenza alla riunione degli aventi diritto, senza ricorrere all'istituto della delega e comunque scongiurando, nei casi più estremi, il fenomeno dell'assenza), siccome diversa da quelle contemplate dall'art. 67 disp. att. c.c., avrebbe richiesto anzitutto la preliminare approvazione, con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 3, c.c. (e non con l'unanimità, giacché tale delibera implica decisioni con cui non si dispone dei diritti individuali dei condomini, mediante l'elisione del loro diritto di partecipazione all'assemblea ma, piuttosto, si regola l'esercizio proprio di quel diritto inderogabile, a presidio della superiore esigenza di garantire l'effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell'interesse comune dei partecipanti alla comunione, considerati nel loro complesso e singolarmente) di una apposita clausola regolamentare. Peraltro, - si era altresì osservato - non ogni collegamento audio/video appare idoneo a garantire una presenza assembleare che rispetti lo "statuto minimo" di garanzie per il condomino collegato da remoto, idoneo a salvaguardare, cioè, il rispetto non solo formale, ma sostanziale, del metodo collegiale e del principio di buona fede: una clausola siffatta richiede, cioè, per la propria corretta operatività, l'adozione di comportamenti (da parte, principalmente, del Presidente dell'assemblea, del segretario e degli altri condomini che intervengono) e modalità di collegamento tali che i diritti assembleari degli intervenuti da remoto non divergano da quelli che sarebbero loro riconosciuti se costoro fossero fisicamente presenti nel luogo della riunione (ad esempio, occorre garantire la corretta trasmissione e percezione di immagini e suoni, predisporre accorgimenti per superare eventuali black-out, fissare modalità di intervento che consentano a chi è collegato da remoto di cogliere con chiarezza gli interventi degli altri), così come ad esempio disposto dall'art. 143-bis della deliberazione CONSOB 14 maggio 1999, n. 11971 (cui rinvia l'art. 127 del d.lgs. n. 58/1998, come modificato dall'art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 27/2010). Sicché, da un lato, l'Amministratore avrebbe la necessità di dotarsi della strumentazione necessaria affinché non solo all'assemblea possano prendere parte, da remoto, tutti i partecipanti al condominio, dall'altro la clausola regolamentare dovrebbe comunque chiarire la procedura che il singolo avente diritto deve seguire per comunicare la propria intenzione di partecipare in videoconferenza, ai fini della sua identificazione da parte dell'Amministratore, prima, e del Presidente eletto, poi, e quindi, in ultima analisi, della regolare costituzione dell'organo” (Scarpa, Chiesi, 2020). Occorre, infine, che sia comunque rispettato il principio di "territorialità" del luogo di svolgimento dell'assemblea, nel senso che questa va comunque convocata nel comune dove si trova l'edificio condominiale: il luogo di svolgimento della riunione è sempre e comunque unico (l'art. 66 disp. att. c.c. ne parla al singolare, non dissimilmente dagli artt. 2363 e 2366 c.c.), coincide con quello dove è previsto lo svolgimento fisico dell'assemblea (e nel quale operano, pertanto, Presidente e Segretario), va specificato nell'avviso di convocazione e va individuato, a pena di nullità (Cass. II, n. 14461/1999, cit.), in un posto che si trovi entro i confini territoriali del Comune ove è ubicato lo stabile condominiale. Una diversa impostazione ritiene, al contrario, praticabile la strada dell'assemblea in videoconferenza, valorizzando sia alcune delle previsioni (e, in specie, gli artt. 73 e 106) contenute nel d.l. n. 18/2020, convertito, con modificazioni dalla l. n. 27/2020 (lette in combinato disposto con le disposizioni dettate per lo svolgimento delle assemblee societarie), sia, più in generale, i principi sottesi al "metodo collegiale" che presiede allo svolgimento delle riunioni. Muovendo dall'assunto che la disciplina emergenziale (quantomeno fino al d.l. n. 33/2020) prescrive l'adozione, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, di modalità di collegamento da remoto, si osserva (Scarpa, Chiesi, 35 ss.) che: a) la cd. “collegialità virtuale” delle assemblee di società, resa possibile dai moderni sistemi tecnologici in tema di video e teleconferenza ma assai controversa prima della Riforma del diritto societario, è stata espressamente consentita dall'art. 2370, comma 4, c.c., ancorché subordinata ad un'espressa previsione dello statuto che può, appunto, consentire l'intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione ovvero l'espressione del voto per corrispondenza o in via elettronica; aggiungendosi che “chi esprime il voto per corrispondenza o in via elettronica si considera intervenuto in assemblea”; b) l'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., dispone che l'avviso di convocazione all'assemblea, contenente specifica indicazione dell'ordine del giorno, può essere comunicato anche “a mezzo posta elettronica certificata”; c) l'art. 71-ter disp. att. c.c. contempla la possibilità dell'attivazione di un sito internet richiesto dall'assemblea, che consenta di consultare ed estrarre copia in formato digitale dei documenti. Sicché, l'assemblea per videoconferenza o mediante sistemi audiovisivi consentirebbe comunque ai condomini di comunicare contestualmente in tempo reale tra di loro, di scambiarsi opinioni e, dunque, di intervenire personalmente alla riunione e di manifestare il voto, seppur “a distanza”: i termini “intervento” ed “intervenuti” adoperati dall'art. 1136 c.c., infatti, non suppongono necessariamente la presenza in un medesimo spazio fisico ma, stando alla ratio della collegialità, sottintendono qualsiasi situazione nel-la quale vi sia la possibilità di discutere e di votare simultaneamente sulle materie all'ordine del giorno, ed anche, perciò, la condizione di coloro che si trovano in luoghi differenti e tuttavia possono interagire tra di loro . Alla medesima soluzione si perviene, invero, anche seguendo una diversa impostazione,fondata sull'assunto per cui deve ritenersi definitivamente “superato [...] il mito ottocentesco che guardava all'atto deliberativo dell'assemblea quale espressione della personalità giuridica dell'ente, e che rimetteva al metodo maggioritario la funzione inalienabile di elaborare una unitaria volontà collettiva, perciò riferibile anche ai dissenzienti. La deliberazione dell'assemblea si configura, piuttosto, come pluralità di dichiarazioni individuali, sicché la collegialità non rappresenta più un elemento strutturale dell'atto approvato. Da ciò è derivata una diversa ricostruzione del metodo collegiale, finalizzato unicamente ad un raffronto di opinioni necessario affinché i contenuti della deliberazione meglio rispondano agli interessi che fanno capo alla collettività. Anche per l'assemblea di condominio, deve dirsi che la valenza della collegialità dell'assemblea è correlata soltanto all'assetto organizzativo del gruppo dei condomini, in forza del quale tutti gli aventi diritto devono essere convocati in un medesimo contesto spazio-temporale, in maniera che essi possano discutere e votare sugli argomenti posti all'ordine del giorno [...] ove l'avviso di convocazione ammettesse l'intervento all'assemblea e l'espressione del voto da parte dei condomini mediante mezzi di telecomunicazione (senza, cioè, imporre a tutti i condomini di collegarsi da remoto, anziché intervenire fisicamente), o anche disponesse lo svolgimento esclusivo dell'assemblea in videoconferenza (cosiddetta ‘assemblea virtuale'), non si ravviserebbe alcuna distorsione sostanziale dai principi essenziali del metodo collegiale, permettendosi comunque a tutti gli aventi diritto di partecipare attivamente in condizioni paritarie alla discussione ed alla votazione simultanea sugli argomenti all'ordine del giorno. Ai fini del calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi di cui all'art. 1136 codice civile, si considererà intervenuto il condomino che risulti collegato a distanza, rispettivamente, al momento dell'apertura dell'assemblea ed al momento della votazione” (Scarpa, 2020). La l. n. 126/2020, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 104/2020, recante misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia, entrata in vigore il giorno (14 ottobre 2020) successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, sembra avere risolto la questione introducendo rilevanti novità in materia di condominio e, tra queste, la previsione in base alla quale, «anche ove non espressamente previsto dal regolamento condominiale», ma «previo consenso di tutti i condomini», la partecipazione all'assemblea può avvenire «in modalità di videoconferenza», dovendo, in tal caso, il verbale, redatto dal segretario e sottoscritto dal presidente, essere «trasmesso all'amministratore e a tutti i condomini con le medesime formalità previste per la convocazione», nonché l'ulteriore disposizione in virtù della quale l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c.., «se prevista in modalità di videoconferenza», deve contenere l'indicazione - in alternativa (come fa capire l'impiego della congiunzione disgiuntiva «o») a quella del luogo, «della piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione e dell'ora della stessa». Sennonché, le perplessità cui tale disciplina dà luogo sono di non minore consistenza rispetto a quanto già supra esposto. “La partecipazione «in modalità di videoconferenza», secondo la legge 126 del 2020, postula…il «previo consenso di tutti i condomini». Perché questo «previo consenso» unanime per consentire ad uno, o più, degli aventi diritto, di intervenire in assemblea mediante strumenti di telecomunicazione? Non c'è una deroga alle disposizioni riguardanti l'organizzazione del gruppo, né alla dinamica dell'amministrazione e della gestione del condominio, né, soprattutto, alle regole della collegialità. Il termine “consenso”, in senso proprio, è espressione dell'autonomia privata, suppone, cioè, un atto di disposizione, diretta (ad esempio, art. 5 c.c., o art. 50 c.p.) o indiretta (ad esempio, art. 1144 c.c..), volto a dirimere un possibile conflitto tra due sfere di interesse, in maniera da escludere in concreto l'illiceità di un comportamento astrattamente lesivo di interessi disponibili. Trattandosi, nella specie, di consenso preventivo di tutti i condomini alla partecipazione all'assemblea «in modalità di videoconferenza» di uno, alcuni o di tutti i condomini, deve pensarsi che il frastornato legislatore abbia inteso necessaria una autorizzazione legittimante la lesione di un interesse individuale al rispetto del procedimento collegiale. Non è, quindi, una mera acquiescenza quella imposta dal sesto comma aggiunto in sede di conversione all'art. 63 del d.l. n. 104/2020, ma, di più, un consenso preventivo negoziale di carattere autorizzativo, che, nei presumibili intenti della norma, dovrebbe funzionare anche come rinunzia alla reazione contro la lesione dell'interesse alla regola della collegialità, e, dunque, come rinunzia al potere di impugnare la delibera provocandone l'annullamento” (Scarpa, 2020). Inoltre, “Si è aggiunto che, ove l'assemblea avvenga «in modalità di videoconferenza», occorre che il verbale sia redatto dal segretario, sottoscritto dal presidente e «trasmesso all'amministratore e a tutti i condomini con le medesime formalità previste per la convocazione». E', questa, altra disposizione assai eccentrica. Nella disciplina del condominio, fino ad oggi, non esisteva alcuna prescrizione legale che imponesse la nomina del segretario o del presidente dell'assemblea. Tanto meno sussisteva, prima come dopo la Riforma del 2012, una norma che prescrivesse (a differenza di quanto il codice civile fa all'art. 2375 per le deliberazioni dell'assemblea delle società per azioni) che le delibere dell'assemblea dei condomini dovessero constare da verbale sottoscritto dal presidente o dal segretario… La previsione della trasmissione (nelle modalità alternative fissate dall'art. 66, comma 3, disp. att. c.c.) a tutti i condomini ed all'amministratore va poi ben oltre quanto finora stabilito dall'art. 1137, comma 2, c.c., il quale contempla la comunicazione della delibera ai soli condomini assenti… se l'assemblea sia «prevista in modalità di videoconferenza» l'avviso di convocazione debba contenere non l'indicazione del luogo della riunione, quanto, piuttosto, quella «della piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione e dell'ora della stessa». Non dovendosi specificare nella convocazione quale sia il “luogo fisico” della riunione quando l'assemblea si debba svolgere in «modalità di videoconferenza», verrebbe da concludere che tale determinato luogo fisico non ci debba neppure essere e che perciò la modalità di intervento da remoto diviene così esclusiva. Non è allora chiaro in quale luogo debbano trovarsi coloro che siano nominati segretario e presidente, essendo quest'ultimo per di più tenuto alla sottoscrizione del verbale” (Scarpa, 2020). A distanza di poco tempo dalla promulgazione della l. n. 126/2020 è, infine, intervenuto il d.l. n. 125/2020, conv. con mod. dalla l. n. 159/2020, che ha sostituito al previo consenso di tutti i condomini, quello della maggioranza degli stessi. La soluzione, parzialmente conforme ad una delle prime teoriche sviluppatesi sul punto (cfr. CHIESI, ult. op. cit.), si spiega, secondo un attento Autore, “con la necessità di incentivare le assemblee condominiali da remoto, stante la difficoltà di tenere le stesse in presenza a causa delle note difficoltà correlate al periodo pandemico da coronavirus, e con l'esigenza di sbloccare molti lavori edili, al tempo sospesi - il cui valore, peraltro, ammontava a diversi miliardi di euro - sfruttando, per il tramite di delibere agevolate, il beneficio fiscale del c.d. superbonus 110% (in disparte le attività di manutenzione non posticipabili). In effetti, era apparso un controsenso consentire l'inserimento, nel regolamento di condominio, di una norma, volta a permettere lo svolgimento dell'assemblea in videoconferenza, votata con la maggioranza rapportata a 500 millesimi, mentre, qualora tale disposizione mancasse, bisognava essere tutti d'accordo. Tuttavia, anche la nuova norma non è andata esente da critiche, in quanto accusata, mediante l'ingresso di nuove tecnologie a mera di maggioranza - ancorché non qualificata - di ledere i diritti dei condomini più “fragili” (come i soggetti anziani), o di comportare maggiori costi (ad esempio alle persone meno abbienti); il fatto, poi, di richiedere la sola maggioranza dei partecipanti, che non necessariamente rappresenta quella del valore dell'edificio, potrebbe comportare la conseguenza che un gruppo di condomini numeroso, ma rappresentativo di pochi millesimi, vincoli l'intera compagine condominiale” (CELESTE 2021).
È stata comunque recentemente esclusa la possibilità che, prima della novella apportata all'art. 66 cit., l'assemblea potesse svolgersi in videoconferenza, con conseguente invalidità (sub specie di annullabilità) della deliberazione assunta dal consesso in tal guisa convocato e svolto (Trib. Bergamo 13 gennaio 2022). Le previsioni in deroga all'art. 69 disp. att. c.c.L'art. 69 disp. att. c.c. disciplina le modalità di revisione delle tabelle millesimali, allorché esse siano affette da un errore ovvero quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino: Cass. II, n. 15109/2019 ha recentemente chiarito - sia pure con riferimento alla originaria formulazione della norma - che in ipotesi di divisione orizzontale in due parti di un appartamento in condominio non si determina alcuna automatica incidenza dell'opera sulle tabelle millesimali ai fini della revisione dei valori delle unità immobiliari, non sussistendo il presupposto della notevole alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano, mentre grava sull'assemblea l'onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti così create e i rispettivi titolari, determinandone i valori proporzionali espressi in millesimi sulla base dei criteri sanciti dalla legge. Parte della dottrina formatasi sotto la vigenza dell'originaria formulazione della norma riteneva, peraltro, che l'elencazione dei casi di revisione o modifica contenuta nel comma 1 fosse meramente esemplificativa (Salis, 436; Rizzi-Rizzi, 479). Di contrario avviso, invece, la giurisprudenza, la quale ha optato per la soluzione che ravvisa in quella in questione un'elencazione di carattere tassativo (Cass. II, n. 12115/1992; Cass. II, n. 5399/1999). Circa l'operatività dell'istituto, si è chiarito che al fine della revisione delle tabelle rilevano gli errori, di fatto o di diritto, che riguardano gli elementi su cui si fonda il calcolo del valore di ciascuna unità immobiliare in proprietà esclusiva – quali l'estensione, l'altezza, l'esposizione – ovvero sopravvengano modifiche incidenti in modo apprezzabile sull'originario assetto proporzionale tra le proprietà individuali, mentre sono estranei all'ambito di operatività della norma gli errori che non attengano a tali parametri di riferimento ovvero i mutamenti successivi dei criteri di stima della proprietà immobiliare sebbene implicanti alterazione dell'originario rapporto di proporzionalità: occorre salvaguardare, infatti, l'esigenza di certezza dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini, fissati nelle tabelle millesimali, con conseguente irrilevanza degli errori che non siano obbiettivamente riscontrabili ovvero che conseguano a meri apprezzamenti di stampo prettamente soggettivo quale, ad esempio, una mera modifica della destinazione d'uso (Cass. II, n. 19797/2016). Quanto alle condizioni di operatività, premesso che la prova della sussistenza delle condizioni che legittimano la modifica incombe su chi intende modificare le tabelle, quanto meno con riferimento agli errori oggettivamente verificabili (Cass. II, n. 25790/2016), la norma è stata interpretata nel senso che qualora i condomini, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente accettato che la caratura della loro partecipazione al condominio venga determinata in maniera difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c. (così integrando gli estremi della «diversa convenzione» prevista dall'art. 1123, comma 1, ultima parte, c.c. Cfr. anche Cass. II, n. 6735/2020), tale comportamento ha valore negoziale e, risolvendosi nell'impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ex art. 69 disp. att. c.c. Diversamente, se i condomini, mediante l'approvazione della tabella, anche di origine contrattuale (siccome predisposta, cioè, dall'originario proprietario ed accettata dagli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero approvata da tutti, all'unanimità), intendano non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, ma determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima), la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale e, pertanto, l'errore previsto dall'art. 69 disp. att. c.c. – consistente nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito – giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincidendo con l'errore-vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 e ss. c.c. (Cass. II, n. 1848/2018). La recente giurisprudenza di legittimità ha inteso, dunque, dar seguito a Cass. II, n. 11387/2013 che, all'indomani della Riforma, ebbe a chiarire come la novella legislativa della materia condominiale abbia normativizzato, e non già radicalmente innovato, il precedente assetto pretorio in tema di approvazione e revisione delle tabelle, come emergente da Cass. S.U., n. 18477/2010. In sostanza, anche il novellato regime prevede una sorta di doppio binario: maggioranza qualificata ex art. 1136, comma 2, c.c., allorquando l'assemblea di approvazione delle tabelle abbia carattere meramente dichiarativo, siccome limitata all'accertamento dei valori millesimali (arg. ex art. 68, comma 3, disp. att. c.c.): in tal caso, la revisione – intesa quale emenda di una discordanza tra realtà empirica e sua traduzione in valore numerico – è possibile, a condizione, però, che si versi in uno dei casi espressamente contemplati dal comma 2 dell'art. 69 disp. att. c.c. (che, poi, sostanzialmente riproducono la pregressa disciplina, salvo una maggiore e migliore qualificazione dei casi di «rettifica»); unanimità dei consensi, in tutte le altre ipotesi in cui, al contrario, la determinazione assembleare abbia a carattere dispositivo e sia indicativa della volontà dei condomini, nell'ambito della loro autonomia contrattuale, di distribuire le spese in maniera non proporzionale alla superficie condominiale effettivamente posseduta: In tal caso, dunque, la delibera assume l'aspetto di un vero e proprio contratto (rappresentato dall'accordo tra i condomini diretto a regolare il rapporto giuridico di contribuzione delle spese condominiali altrimenti differente), in presenza del quale non residua spazio operativo per l'art. 69 cit. (Chiesi in Chiesi-CrispinoCostabile-Landolfi-Sinisi-Troncone, 2013, 370; Presutti, 226). In virtù del combinato disposto degli artt. 72 e 69 disp. att. c.c., pertanto, il regolamento non può sancire l'immodificabilità delle tabelle (il diritto alla loro revisione è dunque imprescrittibile e rappresenta un'espressione del diritto di condominio. Concorde la dottrina, per cui esso spetta nonostante le contrarie previsioni contenute nei regolamenti anteriori all'entrata in vigore del codice civile. Così Salis, 436, Peretti Griva, 135), né, in senso contrario, consentire la loro modificazione in casi diversi da quelli previsti dal legislatore né, ancora, prevedere, per la loro modifica, maggioranze diverse da quelle necessarie a seconda della tipologia di delibera che originariamente ebbe ad approvarle (a ciò ostando il divieto di deroga all'art. 1136 c.c. stabilito dal successivo art. 1138, comma 4, c.c.). Nulla è invece detto, dagli artt. 68 e 69 disp. att. c.c. circa i criteri di redazione delle tabelle millesimali e, cioè, i parametri da utilizzare per la loro composizione, salvo una precisazione, contenuta all'art. 68 disp. att. c.c., secondo cui nell'accertamento dei valori non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione di ciascuna unità immobiliare. Se, dunque, per effetto della relatio all'art. 68 cit., contenuta nel comma 1, dell'art. 69 disp. att. c.c. può ritenersi che l'esclusione delle predetti voci non possa essere derogata dal regolamento (sicché sarebbe nulla una clausola del regolamento che prevedesse l'adozione di un coefficiente moltiplicativo dei millesimi per l'essere le unità immobiliari concesse in locazione ovvero destinate ad uso diverso anziché abitativo) nulla vieta che il regolamento possa indicare espressamente i parametri cui attenersi per la futura revisione delle tabelle, anche in considerazione della circostanza che, in virtù di una ormai consolidata prassi, ove difettino indicazioni (ovvero non siano allegate alle tabelle vigenti i criteri utilizzati per la loro compilazione ad opera dell'originario redattore, si fa ricorso alle norme per i collaudi dei fabbricati costruiti da cooperative edilizie fruenti di contributo statale e per la ripartizione delle spese fra i singoli soci, contenute nella circolare 6 marzo 1966, n. 12480 del Ministero dei Lavori Pubblici. In merito, poi, al comma 2, lo stesso è destinato a semplificare lo svolgimento del giudizio di revisione delle tabelle: in tali procedimenti, infatti, passivamente legittimato è l'amministratore del condominio, senza necessità di partecipazione di tutti i condomini (previa integrazione del contraddittorio nei loro confronti). Anche tale previsione non appare derogabile dal regolamento di condominio, ancora una volta trattandosi dell'identificazione del soggetto dotato di legittimazione processuale secondo una precisa del legislatore. Tale opzione normativa rappresenta, a ben vedere, la logica conseguenza della natura della delibera con cui si approvano le tabelle: se per Cass. S.U., n. 18477/2010 queste non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, dovendosi riconoscere al riguardo la competenza gestoria dell'assemblea ed essendo a tale scopo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., (cfr. anche, in termini, Cass. II, n. 6735/2020) alcuna limitazione poteva ritenersi fondatamente sussistente – già prima dell'adozione di una previsione espressa quale quella in commento – in relazione alla legittimazione dal lato passivo dell'amministratore, ex art. 1131, comma 2, c.c. per qualsiasi azione volta alla determinazione giudiziale di una tabella millesimale che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali, trattandosi di controversia rientrante tra le sue attribuzioni ex art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali, senza alcuna necessità del litisconsorzio di tutti i condomini (Cass. II, n. 2635/2021;Cass., 6735/2020, cit.; Cass. II, n. 19651/2017). Tale conclusione, peraltro, appare vieppiù confortata dalla considerazione per cui si versa in presenza di una controversia che non concerne il regime della proprietà ed i diritti relativi a parti comuni del fabbricato (relativamente alla quale ciascuno condomino ha una legittimazione alternativa concorrente con quella dell'amministratore) quanto, piuttosto, un interesse gestorio collettivo dei condomini (cfr. anche Cass. S.U., n. 10934/2019). L'amministratore, peraltro, è tenuto a dare notizia all'assemblea dei condomini, senza indugio, del giudizio intrapreso nei propri confronti, pena revocabilità dell'incarico: la norma, pur ricalcando quanto previsto dall'art. 1131, commi 3 e 4, c.c., tuttavia se ne differenzia sotto un profilo sostanziale, in quanto quest'ultima disposizione concerne le citazioni in giudizio notificate all'amministratore e relative a materie esorbitanti dalle sue attribuzioni, mentre l'art. 69, comma 2, c.c. afferisce ad attività rientrante ex lege tra sue le competenze. Risulta pertanto superata, per espressa previsione normativa, l'impostazione giurisprudenziale che ravvisava, relativamente ai giudizi afferenti la rettifica o la modifica delle tabelle millesimali (nonché, più in generale, la loro formazione, invalidità o inefficacia), un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra i condomini, siccome attinenti all'accertamento dei valori millesimali delle quote di proprietà singola e, perciò, incidenti su obblighi esclusivi dei singoli condomini (Cass. II, n. 11757/2012; Trib. Roma 4 marzo 1997). Quanto all'efficacia della sentenza di revisione delle tabelle nel passato era pacifico, stante (a) la natura negoziale dell'atto di approvazione o revisione delle tabelle e (b) la natura costitutiva della relativa sentenza, che essa fosse non retroattiva e dipendesse, piuttosto, dal passaggio in giudicato della decisione: tale efficacia ex nunc determina, altresì, che le tabelle pregresse, benché oggetto di revisione giudiziale, conservano la propria efficacia fino al suddetto momento e legittimamente sono poste alla base del calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi delle delibere assembleari medio tempore adottate, nonché della raccolta degli oneri condominiali. Sennonché, il mutato quadro giurisprudenziale sulla natura dell'atto di approvazione (o revisione) delle tabelle – che rappresentano una documentazione tecnico-ricognitiva di una realtà empirica (riassumendosi in un parametro dì quantificazione dei diritti ed oneri condominiali) e servono unicamente ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti – pone quantomeno dei dubbi circa la persistente validità di tale orientamento: se, dunque, l'approvazione delle tabelle millesimali non ha natura negoziale - perché viene meno la caratteristica, propria del negozio giuridico, della conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti - ci si chiede fino a che punto possa continuare a sostenersi la natura costitutiva della sentenza che tali valori - al pari di una delibera assembleare - semplicemente accerta, con conseguente sua efficacia quantomeno dal momento di proposizione della domanda giudiziale). Nel conformarsi al consolidato orientamento di legittimità (cfr., ex multis, Cass. III, n. 5690/2011; Cass. II, n. 7696/1994), la recente Cass II, n. 4844/2017 pur nel vigente e mutato quadro normativo e giurisprudenziale ha, tuttavia, ribadito che la sentenza che accoglie la domanda di revisione o modifica dei valori proporzionali di piano nei casi previsti dall'art. 69 disp. att. c.c., avendo natura costitutiva, non ha efficacia retroattiva e non consente, pertanto, di ricalcolare la ripartizione delle spese pregresse tra i condomini, ai quali, invece, va riconosciuta la possibilità di esperire l'azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. Ad essa si sono conformate, da ultimo, Cass. II, 6735/2020, osservando che "la portata non retroattiva della pronuncia di formazione giudiziale delle tabelle comporta, poi, che non possa affatto affermarsi l'invalidità di tutte le delibere approvate sulla base delle tabelle precedentemente in vigore, il che provocherebbe correlate pretese restitutorie relative alle ripartizioni delle spese medio tempore operate, in applicazione della cosiddetta "teoria del saldo" (arg. da Cass. II, n. 4844/2017, Cass. III, n. n. 5690/2011, giàCass. S.U. n. 16794/2007)" e, parzialmente, Cass. II, n. 23739/2024, la quale, pur muovendo dalla premessa che la sentenza, di cui all'art. 69 disp. att. c.c., che accoglie la domanda di revisione o modifica dei valori proporzionali delle singole unità immobiliari, espressi nella tabella millesimale, non ha natura dichiarativa ma costitutiva, ne ha, però, tratto la diversa conclusione per cui è l'amministratore, e non il singolo condomino, ad essere legittimato ad agire per l'indennizzo, ai sensi dell'art. 2041 c.c., nei confronti del singolo che abbia versato, prima della modifica, quote condominiali calcolate sulla base di valori millesimali inferiori e non rispondenti al reale valore dell'unità, perché in tal modo si è realizzato un arricchimento indebito cui corrisponde un depauperamento della cassa comune relativamente a somme altrimenti destinate a far fronte ad esigenze dell'intero condominio, e non dei singoli condomini. Diversa dall'impugnazione della tabella è, invece, l'impugnazione della delibera che modifica la tabella, allorché essa non tragga fondamento dall'errore iniziale o dalla sopravvenuta sproporzione dei valori del prospetto, ma dai vizi concernenti l'atto e la sua formazione: tale domanda va invece sempre proposta contro l'amministratore del condominio, perché questi è sempre legittimato a resistere contro l'impugnazione delle deliberazioni assunte dall'assemblea, senza necessità di integrare il contraddittorio (Cass. II, n. 3542/1994; Trib. Roma 2 luglio 2009). BibliografiaAmendolagine, Correttivo e mediazione in condominio, in Immobili e proprietà 2025, 113 ss.; Andreoli, I regolamenti di condominio, Torino, 1961, 102; Bordolli, Decesso del condomino e partecipazione degli eredi all'assemblea condominiale, in Immobili e proprietà 2011, 6 ss.; Branca, Condominio negli edifici, in Comm. 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