Codice Civile art. 1117 ter - Modificazioni delle destinazioni d'uso (1).Modificazioni delle destinazioni d'uso (1). [I]. Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni. [II]. La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione. [III]. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. [IV]. La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi. [V]. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico (1) Articolo inserito dall'art. 2, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoIl novello art. 1117-ter costituisce una delle new entry che danno maggiormente filo da torcere agli interpreti ed agli operatori del settore, evidenziando fin d'ora, però, che tale norma, nel corso dei lavori parlamentari, ha perso gran parte della sua efficacia dirompente, atteso che, attualmente, non contempla più la possibilità, in capo all'assemblea che decide a maggioranza, sia pure qualificata, di «sostituire» le parti comuni dell'edificio qualora ne fosse cessata l'utilità – si pensi all'appartamento dell'ex portiere, una volta soppresso il relativo servizio – o fosse altrimenti realizzabile l'interesse in comune (norma, questa, che era stata letta come la fine del tabù secondo cui soltanto i condomini, all'unanimità, nessuno escluso, potessero disporre delle cose in comproprietà). La versione licenziata da Palazzo Madama nella seduta del 26 gennaio 2011, richiamava, poi, il quorum dell'art. 1136, comma 5, c.c. (ossia i due terzi del valore dell'edificio), mentre non è passata nemmeno la proposta di limitare le suddette modificazioni d'uso al fine soddisfare esigenze «funzionali» del condominio, contrapponendole forse a quelle meramente economiche. Comunque, è estremamente significativo che la Riforma della normativa condominiale del 2013 si sia occupata della «destinazione d'uso» delle parti comuni dell'edificio, e segnatamente contemplando, nell'art. 1117-ter c.c., la possibilità per l'assemblea, entro certi limiti, di modificarla; in quest'ottica, va valorizzata anche la nuova formulazione dell'art. 1117 c.c., ove si fa innovativo riferimento alla destinazione dei beni all'uso comune: si allude, in particolare, al n. 2), alle «aree destinate a parcheggio», e ai «sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune», e più in generale, al n. 3), dove si menzionano «le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune». È un cambiamento di prospettiva importante, perché prima la destinazione della cosa comune veniva scrutinata solo nell'àmbito applicativo dell'art. 1102 c.c., come uno dei limiti all'iniziativa del singolo, oppure la destinazione esaminata era solo quella degli appartamenti esclusivi, specie con riferimento ai divieti contemplati nei regolamenti di condominio (Amagliani, 1112). Esigenze di interesse condominialeL'incipit dell'art. 1117-ter c.c. finalizza la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio a «esigenze di interesse condominiale», ma trattasi di concetto di difficile perimetrazione. Comunque, secondo la dottrina (Bordolli, 220), siamo in presenza di un'espressione generica, più duttile, e sicuramente non più correlata ai tre obiettivi alternativi previsti per le innovazioni di cui all'art. 1120, comma 1, c.c., ossia il miglioramento o l'uso più comodo o il maggior rendimento delle cose comuni. Peraltro, l'assemblea che decide a maggioranza non potrebbe che soddisfare «esigenze di carattere condominiale», come si evince indirettamente dal carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute all'assemblea dall'art. 1135 c.c., sicché la medesima assemblea può approvare, quale organo destinato ad imprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, purché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extra condominiale. Invero, il nuovo art. 1135 c.c. ha sì individuato espressamente le attribuzioni specifiche dell'assemblea, nel senso che quest'ultima può decidere l'approvazione, in sede preventiva e di rendiconto, di tutte le spese inerenti la gestione dei beni comuni e, al contempo, nomina (e revoca) l'amministratore, cui restano affidati compiti meramente attuativi e conservativi e che è comunque tenuto a rendere alla prima il conto della sua gestione, ma i poteri dell'assemblea condominiale riguardano, in linea generale, la disciplina, anche attraverso modificazioni ed innovazioni, della cosa comune, sicché il citato art. 1135 va integrato con tutti quei riferimenti ai poteri dell'organo gestorio contenuti nelle diverse altre norme del codice civile e delle leggi speciali. In altri termini, pure se si individuano espressamente le attribuzioni specifiche dell'assemblea, dal sistema si ricava che quest'ultima rappresenta il massimo organismo deliberativo (oltre che di indirizzo e) del condominio, a meno che l'art. 1117-ter, comma 1, c.c. non abbia voluto precludere modificazioni della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio che possano avvantaggiare esclusivamente il singolo condomino e non la collettività. Comunque, sembra che l'art. 1117-ter, comma 1, c.c. abbia voluto precludere modificazioni della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio a vantaggio esclusivo del singolo condomino, anche se non è affatto scontata l'equazione tra destinazione all'uso comune e soddisfazione di esigenze condominiali, potendosi ammettere che l'uso individuale soddisfi (anche mediatamente) un interesse comune al gruppo dei condomini; d'altronde, il nuovo art. 1122 c.c. fa espresso riferimento a «parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva», sicché si potrebbe consentire un mutamento della destinazione dall'uso comune a quello individuale, ma pur sempre soddisfacendo esigenze di interesse condominiale (Amagliani, 1112). Differenza rispetto alle innovazioniPreliminarmente, vanno fatte due precisazioni. In primo luogo, si ha riguardo alle sole «parti comuni dell'edificio», e non ai servizi ed agli impianti condominiali, per cui la norma trova applicazione per quanto concerne, ad esempio, il cortile esterno o il lastrico solare, e non l'illuminazione o l'ascensore; inoltre, il concetto di «destinazione» non attiene a profili di carattere urbanistico (comportanti, ad esempio, possibili variazioni catastali). In secondo luogo, deve pur sempre trattarsi di parti comuni «non necessarie» all'esistenza dell'edificio, così come elencate nel n. 1) del novellato art. 1117 c.c., sicché la modificazione della destinazione d'uso contemplata dall'art. 1117-ter interessa soprattutto quelle parti comuni di cui ai nn. 2) e 3) del primo disposto (escludendo, pertanto, il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti, ecc. che hanno una sorta di «monodestinazione»). Resta, però, il problema di identificare correttamente il concetto di «modificazione della cosa comune», per il quale il nuovo art. 1117-ter c.c. richiede maggioranze assembleari molto elevate ed un iter approvativo più stringente, e differenziarlo dal concetto di innovazione, che impone, invece, quorum più ridotti e l'ordinaria procedura deliberativa. In effetti, in passato, la dottrina si era espressa nel senso di inquadrare, nella figura dell'innovazione, anche la mera modificazione della destinazione della cosa comune (Balzani, 7; Cirla, 69; Salis, 1183; Tagliolini 2010, 767; Vitiello, 440). Dello stesso parere risultava la giurisprudenza (Cass. II, n. 11936/1999): invero, la distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all'entità e qualità dell'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che, per innovazione in senso tecnico-giuridico, deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto (nella specie, si era escluso che costituisse innovazione vietata il restringimento di un viale di accesso pedonale, considerato che esso non integrava una sostanziale alterazione della destinazione e della funzionalità della cosa comune, non la rendeva inservibile o scarsamente utilizzabile per uno o più condomini, ma si limitava a ridurre in misura modesta la sua funzione di supporto al transito pedonale, restando immutata la destinazione originaria). In altri termini, la norma sembra richiamare il concetto di «innovazione» di cui agli artt. 1120 e 1121 c.c., soprattutto alla luce della giurisprudenza che considera tale non solo l'opera «nuova», ma anche il «mutamento della destinazione originaria del bene», a meno che la l. n. 220 del 2012 abbia contemplato la possibilità che la cosa comune possa essere trasformata al punto tale da permettere un uso completamente diverso riguardo alla sua originaria destinazione oggettiva (strutturale e funzionale), militando in tal senso il quorum indubbiamente rilevante che viene prescritto, ossia 800/1000 (oltre ad un'identica quantità di teste). Sulla base di tale elevata maggioranza, non è mancato chi (Monegat, 32) ha ritenuto che il legislatore abbia inteso riferirsi alla possibilità di destinare parti comuni dell'edificio a scopi privati, sottraendole all'uso comune: la modifica de qua avverrebbe, quindi, mediante la cessione a terzi, che ne acquistano la proprietà con contestuale perdita di ogni diritto dominicale in capo alla collettività che tali parti comuni ha dismesso, oppure attraverso l'attribuzione ad un condomino l'uso esclusivo delle medesime parti comuni, facendo venir così meno il dogma della necessaria unanimità dei consensi per l'esercizio di poteri dispositivi (richiesta, invece, per la comunione ex art. 1108 c.c. per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali). La norma in commento era stata anche letta come la fine del tabù secondo cui soltanto i condomini, all'unanimità, nessuno escluso, potessero disporre delle cose in comproprietà, tanto che si era paventata la possibilità di «accaparramenti» di aree comuni appetibili da parte delle grandi società immobiliari (ad esempio, un parco attrezzato con piscina), o, addirittura, un sintomo della soggettività in capo al condominio, quantomeno sul versante dell'autonomia patrimoniale. Resta il fatto, però, che l'odierna versione prevede soltanto la possibilità di «modificare» la destinazione d'uso delle parti comuni, soltanto per soddisfare esigenze di carattere condominiale, purché tale decisione ottenga il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino «i quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore dell'edificio». Vengono così in mente la realizzazione di una sala per le riunioni condominiali o un servizio di asilo nido per i bambini, ma la maggiore attenzione data dalla Riforma del 2013 sembra interessare piuttosto gli stravolgimenti dell'originaria destinazione, anche se la classica trasformazione del cortile in area di parcheggio potrebbe essere contemplata dall'art. 1120, comma 2, n. 2), c.c., il quale, «per le opere e gli interventi previsti ... per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio», ritiene sufficiente la maggioranza di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c., ossia i 500 millesimi (da escludersi, comunque, la locazione, a terzi o ad un condomino, delle parti comuni, in quanto atto rientrante nell'ordinaria amministrazione). Nel previgente regime, i giudici di Piazza Cavour (Cass. VI/II, n. 11177/2012) avevano chiarito che non costituisce innovazione vietata, ai sensi dell'art. 1120 c.c., la destinazione di parte del cortile condominiale a parcheggio di autovetture allorché l'intervento riguardi una parte minima dell'area comune, atteso che, ai fini della qualificazione dell'opera come innovazione, deve aversi riguardo anche all'effettiva rilevanza ed apprezzabilità della modificazione che essa produce (nella specie, il giudice aveva escluso che costituisse innovazione la riduzione di parte dell'area comune destinata a verde, in conseguenza dell'aggiunta di due posti auto ed un terzo di dimensioni ridotte rispetto ai cinque posti auto già esistenti, in ragione della sostanziale irrilevanza dell'intervento in relazione alla superficie interessata rispetto a quella condominiale). Sempre riguardo a fattispecie ante l. n. 220 del 2012, gli ermellini (Cass. II, n. 8014/2018) hanno chiarito che la deliberazione di un condoinio che disciplini il godimento di un'area esterna alle mura perimetrali dell'edificio, con assegnazione diretta dei posti macchina sulla stessa insistenti ai condomini, è nulla, qualora la detta area sia rimasta di proprietà del costruttore del fabbricato e gli acquirenti degli immobili, illegittimamente privati del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio, non abbiano agito per accertare giudizialmente la nullità dei negozi da loro stipulati, nella parte in cui era stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione ope legis. Comunque, con i quorum più elevati di cui sopra, si può modificare, altresì, l'uso di grandi aree condominiali, ad esempio a giardino, per essere destinate alla realizzazione di un centro commerciale, contro il volere di una minoranza di condomini che, eventualmente, avevano acquistato un'unità immobiliare in quel condominio proprio per il particolare pregio o valore correlato alla presenza di un parcheggio o di un giardino o, di converso, per l'assenza di un centro commerciale; al contempo, non richiedendosi l'unanimità – necessaria, invece, per provvedimenti ablativi della proprietà comune – si superano gli eventuali veti di quel condomino, che metta in atto un comportamento meramente ostruzionistico (quasi emulativo), non in linea con le moderne esigenze dei partecipanti al condominio. Pertanto, è sempre possibile – come in precedenza – modificare la destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio, ma, attualmente, rispetto alle classiche innovazioni, nei confronti delle quali tale modifica appare più incisiva dei diritti di godimento dei singoli partecipanti, la decisione deve osservare particolari modalità (quanto a convocazione, ordine del giorno e delibera) e deve ottenere maggiori consensi (il quorum di quattro quinti). L'elevatissimo quorum, comunque, sta a significare che il legislatore abbia voluto comportare sensibili effetti sulla situazione giuridica sottesa (diritti e doveri) dei singoli condomini, perché costituisce principio generale per cui tale innalzamento dell'asticella ha finalità di tutela della minoranza dissenziente, ma un elemento chiarificatore potrebbe venire dalla formulazione dell'ultimo comma dell'art. 1117-ter c.c., che si occupa – come vedremo – dei limiti che deve osservare, in ogni caso, tale delibera modificativa (Salciarini, 39). A questo punto, è agevole ipotizzare un contenzioso attinente alle impugnazioni delle deliberazioni assembleari autorizzanti interventi sulle cose comuni, discutendosi quale maggioranza sia applicabile alla fattispecie secondo l'inquadramento dell'intervento nell'una o nell'altra categoria, disciplinata, rispettivamente, negli artt. 1117-ter o 1120 c.c., ed è facile immaginare che i conflitti interpretativi riguarderanno soprattutto il concetto di «modificazione della destinazione d'uso». Una volta proposta l'impugnazione, il problema, poi, si sposta sul potere, in capo al giudice, di sindacare il soddisfacimento delle «esigenze di interesse condominiale», perché si corre il rischio che l'assemblea, pur con gli elevati quorum di cui sopra, ponga in essere decisioni foriere di pregiudizi per la collettività (sulla configurabilità dell'eccesso di potere come possibile vizio della delibera impugnata, inteso come sviamento dell'atto collettivo dalla funzione cui esso è preordinato, Cass. II, n. 25128/2008). Iter assembleareAttesa la delicatezza dell'argomento da decidere, il citato art. 1117-ter c.c. stabilisce particolari modalità per la conclusione dell'iter assembleare. Nello specifico, la convocazione deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi «nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati» – si pensi, ad esempio, all'androne dell'edificio, alla bacheca condominiale, alla vetrina della portineria – anche se il requisito della consecutività potrebbe comportare problemi di prova a carico del condominio qualora l'impugnante lamentasse proprio il mancato rispetto di tale reiterato incombente (a ben vedere, la norma non contiene alcun riferimento temporale di tale affissione, ma il buon senso impone di ritenere che tale incombente debba essere effettuato anticipatamente, e non «a cavallo» della riunione o, addirittura, dopo quest'ultima). Il relativo avviso deve, altresì, effettuarsi «mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici», in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data della riunione: rispetto alle ordinarie convocazioni assembleari, la norma si riferisce, quindi, alla sola lettera raccomandata (peraltro senza cartolina di ricevimento), laddove gli equipollenti mezzi telematici fanno pensare alla P.E.C. (piuttosto che alla semplice mail), mentre dubbi si nutrono per il fax. A sua volta, il termine «pervenire», al posto di comunicare contenuto nell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., rafforza comunque l'idea di un atto recettizio di cui all'art. 1335 c.c., che deve sufficientemente giungere nella sfera di conoscibilità del destinatario, e non necessariamente «nelle mani» del singolo condomino. Dunque, si prevedono determinati oneri aggiuntivi, ossia quello dell'affissione, al fine di far riflettere i condomini sull'importanza della decisione da adottare, e, sempre per ponderare meglio le conseguenze della relativa statuizione, si stabilisce un termine maggiore per l'avviso tempestivo rispetto agli ordinari cinque giorni di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., che peraltro contempla, oltre alla «posta raccomandata, posta elettronica certificata e fax», anche la «consegna a mano» che, in questa ipotesi, sembra esclusa. Per quanto concerne l'ordine del giorno che, secondo le regole generali, deve essere «specifico» ed indicare «il luogo e l'ora della riunione», il particolare oggetto della futura deliberazione impone che «la convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso», laddove il citato comma 3 dell'art. 66 disp. att. c.c. sanziona espressamente con la mera annullabilità, ai sensi dell'art. 1137 c.c., l'ipotesi della «(omessa, tardiva o) incompleta convocazione degli aventi diritto»; quindi, in via eccezionale riguardo ai tradizionali vizi che inficiano le decisioni assembleari, si correla specificamente l'ipotesi più grave della «nullità», da far valere senza limiti di tempo ed anche dal condomino che ha votato a favore, all'incompletezza dell'ordine del giorno (con immaginabile vulnus alle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, riguardo a stravolgimenti della realtà condominiale che potrebbero sempre essere messi in discussione). Comminando la nullità alla convocazione – rectius, alla deliberazione adottata a seguito di tale convocazione incompleta – che non indichi le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso, a contrario resta affetta da mera annullabilità la stessa deliberazione che, ancorché esaustiva, sia stata presa senza che la medesima convocazione abbia rispettato le altre modalità contemplate dall'art. 1117-ter, comma 2, c.c., ossia l'affissione pubblica, lo spatium temporis e la forma dell'avviso (il mancato rispetto delle specifiche e circostanziate esigenze di interesse condominiale, invece, dovrebbe attenere più al merito della decisione). Relativamente, poi, alla deliberazione che approva le suddette modificazioni delle destinazioni d'uso delle parti comuni, si prescrive, al comma 4, che la stessa «deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi», ossia, in particolare, affissione della convocazione, recapito dell'avviso nei termini ed indicazione del precipuo oggetto della decisione – la precedente versione, sia pure riguardo alla «sostituzione» delle medesime parti comuni, prevedeva addirittura la redazione «con atto pubblico a pena di nullità» – anche se rimane il dubbio sull'identificazione del soggetto deputato a certificare l'avvenuto espletamento dei summenzionati incombenti (come avviene di solito, la previsione sembra richiamare la figura dell'amministratore che comunica ciò al presidente dell'assemblea). Inoltre, si contempla il quorum di quattro quinti, oltre ad un'identica quantità di teste, non facendo, quindi, menzione degli intervenuti alla riunione condominiale, né sembrando distinguere tra assemblea di prima e seconda convocazione. Comunque, tutte le summenzionate prescrizioni trovano spiegazione nell'esigenza di tutela la posizione del singolo condomino, il quale parteciperà all'assemblea ed esprimerà il proprio voto nella piena consapevolezza delle conseguenze che potranno scaturire dalla rilevante decisione da adottare. Limiti alla realizzazioneL'ultimo comma dell'art. 1117-ter c.c. – forse pleonasticamente – stabilisce che, comunque, tali modificazioni delle destinazioni d'uso non possono recare «pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato» o «alterare il decoro architettonico», reiterando, in buona sostanza, il disposto dell'ultimo comma dell'art. 1120 c.c. (nuovo testo), il quale, riguardo alle innovazioni, per così dire, ordinarie mantiene sempre il triplice limite della stabilità, sicurezza e decoro, aggiungendo il divieto per quelle modifiche che «rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino». Il mancato richiamo di quest'ultima espressione, nel testo del novellato art. 1117-ter c.c., indurrebbe a ritenere che, in tali più rilevanti ipotesi, la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni possa legittimare il sacrificio della minoranza dissenziente, ossia i 200/1000 (Celeste, 529; Fortunato, 14; Marchesi, 113). In altri termini – a meno di non configurare nell'art. 1117-ter c.c. un'inutile duplicazione dell'art. 1120 c.c. – l'aver espunto il limite dell'inservibilità «all'uso o al godimento anche di un solo condomino» dovrebbe significare che una determinata modalità di utilizzazione della cosa comune sia eliminata del tutto a vantaggio di una diversa destinazione della parte comune (ad esempio, introducendo la possibilità di parcheggiare nel cortile comune si potrebbe eliminare altre modalità di godimento di tale area); ciò in linea con quella giurisprudenza che, in precedenza, richiedeva l'unanimità (ora non più necessaria) qualora la deliberazione «sopprimeva» una particolare modalità di godimento del bene comune. In queste ipotesi, anche se non richiamate espressamente nella previsione del comma 3 dell'art. 1117-ter c.c., sembra che le deliberazioni, che abbiano oltrepassato il suddetto limite invalicabile, siano «nulle» sotto il profilo del vizio correlato all'oggetto impossibile o illecito, fuoriuscendo dalle competenze dell'assemblea che decide a maggioranza (secondo l'insegnamento inaugurato da Cass. II, n. 31/2000, avallato da Cass. S.U., n. 4806/2005, ed al quale la giurisprudenza di legittimità successiva ha dato continuità giuridica). Peraltro, non si può nemmeno escludere che, dal mutamento dell'originaria destinazione delle suddette parti comuni – che ovviamente non possono «cristallizzarsi» ad una certa fisionomia statica dell'edificio – potrebbe derivare un pregiudizio per qualche condomino, nonostante trattasi di condotte astrattamente lecite. Invero, si potrebbero provocare considerevoli inconvenienti, anche se l'utilizzo del bene sia conforme alle facoltà inerenti al diritto di proprietà, allorché la convivenza di più unità immobiliari all'interno dello stabile condominiale sia intaccata dall'esercizio ad libitum delle facoltà dei comproprietari, libero da controlli e svincolato da sindacati. Ad esempio, in un fabbricato signorile, composto da appartamenti tutti adibiti a civile abitazione, qualche fastidio potrebbe provocare il destinare il locale comune a sede di partito politico, ufficio sindacale, palestra, ecc., oppure allorché si muti l'originaria destinazione, da abitazione dell'alloggio del portiere a (una volta) locanda o (oggi) bed & breakfast, alterando un equilibrio consolidato; si pensi anche alla trasformazione di un garage in autorimessa pubblica con il continuo passaggio di macchine, o all'apertura di un negozio con eccessivo afflusso di clienti, oppure all'iniziativa di un'impresa di pompe funebri con deprezzamento del valore dello stabile e dei singoli alloggi. Previsione del regolamentoRimane aperto il problema di delineare il quorum necessario affinché l'assemblea, alla luce del nuovo art. 1117-ter c.c., possa statuire la modificazione della destinazione di un'area comune, laddove sussista un'espressa disposizione del regolamento che contempli l'uso di tale bene comune o il divieto di un determinato uso (si pensi al cortile destinato, in base ad un'apposita clausola regolamentare di natura contrattuale, a giardino, che si intende invece modificare a parcheggio delle autovetture dei condomini). Il novello art. 1117-ter c.c. sembra adottare una soluzione tranchant, nel senso che la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni è sempre possibile, anche se in contrasto con un'espressa previsione del regolamento di condominio, che diventerebbe inefficace in parte qua, salvo condizionare tale innovazione soltanto a determinati presupposti formali e sostanziali sottesi alla relativa decisione assembleare. Tuttavia, tale disposto non viene richiamato – forse per mera «distrazione» da parte del legislatore della Riforma – tra le norme inderogabili dall'art. 1138, comma 4, c.c., e non essendo l'art. 1117-ter c.c. una norma imperativa – non integrando una disposizione di ordine pubblico o/e a tutela di interessi costituzionalmente garantiti – si potrebbe opinare che possa sussistere una clausola del regolamento del condominio (anche preesistente alla Riforma del 2013) con cui il singolo «contrattualmente» abbia deciso di comprimere il proprio diritto sulle cose comuni, limitandolo nel senso di statuirne l'immodificabilità della destinazione del bene e, quindi, indirettamente vietandone qualsiasi mutamento di destinazione. BibliografiaAmagliani, La riforma del condominio negli edifici ed il rilievo delle destinazioni d'uso, in Rass. dir. civ. 2015, 1112; Balzani, La modifica per «rinnovamento» della cosa comune, non costituisce innovazione, in Arch. loc. 1985, 7; Bordolli, La modifica della destinazione d'uso dell'immobile in condominio, in Immobili E proprietà 2014, 220; Celeste, Mutamento di destinazione della cosa comune ed impossibilità d'uso da parte del condomino, in Rass. loc. 2004, 529; Cirla, La modifica della destinazione d'uso dell'immobile in condominio, in Immobili & proprietà 2005, 69; Fortunato, Modifica della destinazione d'uso di un bene comune: i diritti dei singoli condomini, in Ventiquattrore avvocato 2013, suppl. al fasc. 4, 14; Marchesi, Innovazioni utili e mutamento di destinazione in pregiudizio dei diritti dei singoli condomini, in Arch. loc. 1986, 113; Monegat, La riforma del condominio, Milano, 2013; Salis, Modifiche «necessarie» per il miglior godimento e rispetto del decoro architettonico, in Riv. giur. edil. 1962, I, 1183; Salciarini, Lo strano caso delle modificazioni delle destinazioni d'uso: un'analisi del «nuovo» art. 1117-ter c.c., in Dossier condominio 2015, fasc. 148, 39; Vitiello, L'installazione dell'ascensore in immobile condominiale tra innovazioni e modificazioni della cosa comune, in Arch. loc. 2000, 440; Tagliolini, La modifica di destinazione d'uso dei locali condominiali, in Immobili & proprietà 2010, 767; Tagliolini, Non costituisce mutamento di destinazione d'uso l'installazione di un impianto di riscaldamento, in Immobili E proprietà 2007, 695. |